Dalle “balle spaziali” sul Codice di Diritto Canonico a Benedetto XVI indicato come un grande latinista che non può commettere errori

DALLE “BALLE SPAZIALI” SUL CODICE DI DIRITTO CANONICO A BENEDETTO XVI INDICATO COME UN GRANDE LATINISTA CHE NON PUÒ COMMETTERE ERRORI 

Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.

— Attualità ecclesiale —

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Benedetto XVI annuncia il sua atto di rinuncia. Video con traduzione in italiano (cliccare sull’immagine per aprire il video)

Mai userei questa rivista che alla fine del corrente anno 2022 sta per giungere a oltre venti milioni di visite totalizzate in 11 mesi ― e ancora manca il mese di dicembre ― per dare visibilità a soggetti che sbraitano «… questi nostri sono numeri che fanno tremare!», il tutto dinanzi a poche migliaia di persone che ascoltano un video delirante su YouTube per fare quattro risate con le insulsaggini enunciate da qualche squinternato. Se lo facessi, oltre a ledere la serietà del lavoro che portiamo avanti dal 2014 mancherei di rispetto ai miei confratelli teologi e redattori, che considero preziosi come le pupille dei miei occhi.

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Come risaputo per i social media impazzano soggetti che si sono costruiti il proprio “ghetto telematico” affermando a gruppi di svalvolati ― o peggio dimostrando inconfutabilmente, a loro dire ― che l’atto di rinuncia del Sommo Pontefice Benedetto XVI è invalido per difetto di forma e che quindi non avrebbe fatto formale e valido atto di rinuncia, non avendo rispettato il dettato del Codice di Diritto Canonico che recita:

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«Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti» [cfr. canone 332 §2].

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Gli esotici personaggi in questione evitano sempre di leggere l’intero testo di questo canone che si inserisce integralmente e inscindibilmente nei canoni 330-367 dedicati a «La Suprema Autorità della Chiesa». Non solo, fanno peggio: citano esclusivamente due parole: «debitamente manifestata». Poi, per colpire l’esercito di analfabeti funzionali e di analfabeti digitali che credono alle loro idiozie come i bifolchi del contado credevano alle mirabolanti reliquie esibite dal boccaccesco Frate Cipolla [cfr. QUI], pronunciano come un abracadabra le due stesse parole in latino per produrre effetto misterico: «rite manifestetur». Seguono tutte le loro teorie equiparabili al film comico-fantascientifico Balle spaziali in cui confondono con crassa ignoranza i concetti di munus e ministerium sul piano giuridico e teologico, tirando in ballo codici da decifrare con i quali Benedetto XVI parlerebbe in modo criptico attraverso … anfibologie (!?). Il nostro confratello fiorentino Simone Pifizzi tirerebbe in ballo la toscanissima saga Amici miei: «La supercazzola prematurata con scappellamento a destra». Supercazzola alla quale il nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci ha dedicato più articoli per spiegare che questo termine è stato assunto dal corrente linguaggio filosofico per definire una affermazione totalmente priva di razionalità e senso logico [cfr. QUI].

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La crassa ignoranza dei manipolatori delle leggi ecclesiastiche gioca da sempre sul concetto di munus e ministerium: «… e perché Benedetto XVI ha rinunciato al ministerium e non al munus?». Ergo, «… ciò rende invalido il suo atto di rinuncia». E così, un esercito di fragili analfabeti funzionali e digitali, calandosi nel ruolo dei pappagalli parlanti si mettono a sproloquiare sui social media: «Benedetto XVI non ha rinunciato al munus», salvo non sapere cosa siano, significhino e comportino munus e ministerium. Dopodiché si mutano a loro volta in seminatori di confusione e soprattutto di odio verso la «falsa chiesa anticristica dell’antipapa usurpatore Bergoglio emissario di Satana». Cerchiamo di spiegare il tutto in modo quanto più semplice possibile: il munus è un “dono ricevuto” derivante da Sacramento, il ministerium è invece l’esercizio di questo ministero legato al munus, ossia al Sacramento. Esempio: con il Sacramento dell’Ordine io ho ricevuto il  “munus“, o meglio i tria munera (tre “doni”) che consistono in: insegnare, santificare e guidare/governare il Popolo di Dio. Questi tria munera si concretizzano poi attraverso il ministerium, che è l’esercizio del sacro ministero sacerdotale. Adesso prestate attenzione: per varie ragioni e motivi legati a gravi problemi di salute o a problemi personali altrettanto gravi, potrei chiedere di rinunciare all’esercizio del ministerium. Potrei anche chiedere di essere dispensato da tutti i doveri e dagli obblighi che il ministero sacerdotale comporta e che la Chiesa mi potrebbe concedere sino alla dispensa canonica dagli obblighi del celibato consentendomi di contrarre matrimonio e di avere una famiglia. Però non potrei mai chiedere di rinunciare al munus, perché sarebbe come chiedere di annullare il Sacramento dell’Ordine, cosa impossibile, perché il Sacramento è indelebile e incancellabile. Non solo, il Sacramento mi ha conferito un nuovo carattere che mi ha ontologicamente trasformato, il quale seguirebbe a permanere anche se fossi dispensato da tutti i doveri e gli obblighi derivanti dal ministerium.

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Altra cosa invece il Papato, che non è né l’ottavo Sacramento né il massimo grado del Sacramento dell’Ordine diviso al suo interno in tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato. L’ufficio del Successore di Pietro non è conferito per via sacramentale ma per via puramente giuridica. Non a caso il Romano Pontefice non riceve una consacrazione sacramentale, viene “intronizzato”, o come si dice oggi “inizia il ministero petrino”. Se all’atto della sua elezione l’eletto non fosse rivestito del carattere episcopale, in tal caso si deve procedere a consacrarlo vescovo:

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«Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale» [cfr. Canone 332 – §1].

La trasmissione della successione petrina è pertanto unicamente giuridica e conferisce quindi sul piano giuridico, non sacramentale, il ministerium della pienezza della suprema giurisdizione sulla Chiesa universale. Il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Pertanto, se il Romano Pontefice fa atto di rinuncia, in tal caso rinuncerà al ministerium ricevuto per via giuridica, ma in lui seguiterà a permanere il munus episcopale ricevuto per via sacramentale. La rinuncia all’ufficio petrino, ossia al ministerium, comporta la perdita della giurisdizione pontificia che per via giuridica è stata conferita e alla quale per via giuridica si può rinunciare. Anche per questo sarebbe molto problematico definire un pontefice rinunciatario come “Vescovo emerito di Roma”, non potendo applicare alla sede petrina, proprio per la sua particolarità, i principi dell’emeritato dei vescovi diocesani, perché come già detto in precedenza: il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Ma questo sarebbe un ulteriore discorso che non può essere trattato adesso in questa sede.

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Chiariamo ulteriormente come certi soggetti facciano immane confusione affermando in modo assurdo e ottuso che Benedetto XVI avrebbe rinunciato all’ufficio di Romano Pontefice (ministerium) ma non a essere Romano Pontefice (munus). Tra i vari documenti citati a sproposito per supportare le loro assurde tesi c’è Lumen Gentium. Anche in questo caso è bene chiarire: all’interno di questo documento del Concilio Vaticano II [cfr. Capitolo III] è operata sì una distinzione tra munus ed esercizio della potestas, ma riferito all’esercizio del ministero episcopale basato sulla duplice trasmissione del potere, che è sacramentale per quanto riguarda l’ordine sacro e la consacrazione episcopale sorretta sul munus, di tipo giuridico per quanto riguarda invece la missione canonica conferita all’episcopo, ossia il ministerium inteso come potestas. È su questa distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis che è stata istituita dal Santo Pontefice Paolo VI la figura del vescovo emerito che giunto a 75 anni rinuncia al governo della diocesi a lui affidata, perdendo quindi la potestas iurisdictionis, ma conservando sempre il munus episcopale a lui trasmesso per via sacramentale mediante il conferimento della pienezza del sacerdozio apostolico. Il tutto a riprova di come certi personaggi manipolano i documenti della Chiesa e ne tirano fuori ciò che in essi non è scritto. La novità introdotta da Benedetto XVI consiste nel titolo e nello status di “papa emerito” da lui creato in modo felice o infelice, con risultati che solo la storia potrà valutare, assumendo questo titolo allo stesso modo in cui è assunto dai vescovi diocesani che rinunciano al ministerium acquisito per via giuridica ma mantenendo il munus acquisito per via sacramentale. Come già spiegato in precedenza, se Benedetto XVI avesse assunto il titolo di “Vescovo emerito di Roma” sarebbe stato non poco problematico sul piano giuridico e teologico.

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Chiarito il tutto, spero che almeno alcune persone, tra i vari analfabeti funzionali e digitali che in modo superficiale e totalmente a-critico si sono messi al seguito di certi ciarlatani, possano capire in che modo e a quali livelli questi pericolosi manipolatori e falsari li stanno trascinando nel mondo dell’irrazionale per scopi tutt’altro che puliti, perché siamo dinanzi a persone che mentono sapendo di mentire, non dinanzi a soggetti affetti da semplice ignoranza inevitabile o invincibile. Siamo dinanzi a pericolosi soggetti che si sono imprigionati in menzogne che devono sostenere e tenere in piedi in ogni modo, anche negando la più logica e palese realtà dei fatti.

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Prima di commentare con rigore scientifico certi canoni usati e abusati per ciò che al loro interno non contengono, è necessario chiarire che quelle ecclesiastiche sono leggi umane basate sì sulla Rivelazione, ovvio che sia così. Ma sono e restano leggi umane create dagli uomini per dare un ordinamento giuridico e amministrativo alla Chiesa intesa come societas. Il Diritto Canonico non è un dogma di fede e non sta a fondamento del deposito della fede cattolica. Insistere quindi che Benedetto XVI non ha fatto un atto valido perché la sua rinuncia non sarebbe stata «debitamente manifestata» (rite manifestetur), è una oggettiva e clamorosa idiozia. Basterebbe leggere bene il canone 332 che recita:

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«Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».

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A seguire andrebbe letto il Canone 333 §3 che è la prosecuzione logico-giuridica del precedente e che recita:

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«Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso».

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Questo canone chiarisce che il Romano Pontefice non è soggetto alla legge umana perché è al di sopra di qualsiasi legge umana, ciò per un semplice fatto: perché egli è il supremo legislatore [cfr. Canone 331]. Presupposto logico-giuridico, questo, che precede il Canone 332 manipolato e poi mutato in cavallo di battaglia da certi squinternati, al quale fa poi seguito, con altrettanto criterio logico-giuridico, il già citato canone 333. Un impianto giuridico segue nella sua totalità un ordine logico e coerente basato su principi di logica e di non-contraddizione, solo delle menti meschine possono estrapolare e manipolare un frammento per far dire alle leggi canoniche un qualche cosa che contraddice la loro stessa struttura portante. 

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Le menti confuse che portano avanti simili teorie seminando confusione e sconcerto nei semplici e nei fragili, stanno scambiando il Romano Pontefice per il Presidente di una repubblica democratica o per il Sovrano di una monarchia costituzionale, che oltre a essere custodi e garanti della Legge sono i primi ad esservi assoggettati. Non è però propriamente così per il Romano Pontefice, che con l’uso di un termine politico improprio potremmo definire il più grande monarca assoluto del mondo, perché la potestà e il potere che ha ricevuto attraverso il ministerium gli perviene da Dio e da Dio solo può essere giudicato, non esistendo al mondo autorità umana superiore a lui che possa farlo. Il Romano Pontefice non è giudicabile neppure dalle stesse leggi canoniche perché è al di sopra di esse, essendo lui il supremo legislatore, né il Codice di Diritto Canonico prevede e regolamenta l’esercizio di quell’istituto che nei sistemi giuridici retti dalla Common law è definito come impeachment, mentre il nostro ordinamento giuridico italiano prevede all’art. 90 della Costituzione della Repubblica Italiana la messa in stato d’accusa del Capo di Stato per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Un Capo di Stato, che delle leggi è garante e custode, ed alle quali è sottoposto per primo avanti a tutti, non può abrogarle o modificarle di propria iniziativa, perché è al Parlamento che spetta farlo, il Romano Pontefice nell’esercizio delle sue potestà può invece farlo:

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«[…] egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio» [cfr. Canone 333 §2].

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Se il Romano Pontefice volesse domani mattina potrebbe alzarsi e sostituire di motu proprio tutti i canoni che vuole con altri, senza dover rendere conto a nessuno né essere ad alcun titolo tenuto a fornire spiegazioni, meno che mai giustificazioni. Nessun Capo di Stato potrebbe mai dire a un tribunale di sospendere il giudizio su un accusato e disporre la chiusura immediata del processo, il Romano Pontefice sì, potrebbe farlo con qualsiasi tribunale ecclesiastico, senza dover neppure dare spiegazioni a nessuno. Che poi questo non lo faccia, è un altro discorso, però potrebbe farlo in modo del tutto legittimo e soprattutto indiscutibile e insindacabile. Basterebbe solo aggiungere che egli potrebbe respingere persino una proposta avanzata da un concilio ecumenico unanime, perché lo stesso concilio, espressione massima dell’autorità e della collegialità dei Vescovi della Chiesa, non ha una autorità superiore a quella del Romano Pontefice. Ciò malgrado dobbiamo assistere alla semina di confusione da parte di soggetti tragici e ridicoli che insistono a confondere i semplici ponendo in discussione il suo valido atto di rinuncia, perché a loro dire Benedetto XVI non avrebbe recitato una formuletta perfetta, o perché ha fatto qualche errore di grammatica latina nella sua declaratio. Ebbene si sappia che di per sé basterebbe che la rinuncia fosse fatta almeno davanti a due testimoni, per iscritto o oralmente, secondo quanto previsto dal Canone 189, § 1. Per quanto riguarda quella di Benedetto XVI la rinuncia è stata fatta pubblicamente nel Concistoro dei Cardinali da lui convocato l’11 febbraio 2013. Vogliamo continuare veramente a giocare e a tentare di spacciare per credibili le stratosferiche idiozie sulla formuletta, o peggio sul fatto che «avesse anche fatto libero atto di rinuncia non sarebbe in ogni caso valido»? È davvero umiliante e degradante dover spiegare delle cose così ovvie a chi non vuole capire a priori, ma per la salvezza delle anime ben venga l’umiliazione intellettuale che di per sé comporta replicare alle idiozie di emeriti idioti che come tali non meriterebbero replica da parte di qualsiasi persona colta e dotata di cultura giuridica e teologica. 

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Sui social media impazzano però questi soggetti che attaccandosi alla parolina della «libera rinuncia» scissa dal loro pluri-citato Canone 332, affermano con inquietante leggerezza che «Benedetto XVI non era libero» ma che «è stato costretto con la coercizione a rinunciare» (!?) Chiariamo: per poter dichiarare e dimostrare una cosa del genere bisognerebbe che gli estensori di cotanto asserto demenziale avessero il potere di leggere la più intima e profonda coscienza del Pontefice rinunciatario. E qui passiamo dal diritto canonico alla teologia dogmatica. Solo Dio può scrutare e leggere le più intime sfere profonde della coscienza umana:

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«La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» [cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 16: AAS 58 (1966) 1037].

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Anche in questo caso la risposta è presto data, perché uno di questi soggetti non esita ad affermare che a svelargli quanto racchiuso nella coscienza di Benedetto XVI è stata la Madonna che gli avrebbe affidata la missione di lottare contro «la falsa chiesa e il falso papa usurpatore» (!?).

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È noto però quanto l’idiozia si compiaccia di sé stessa: «… siccome Benedetto XVI non può dichiarare di essere stato costretto a rinunciare, allora trasmette messaggi in codice criptico dopo essersi auto-esiliato in sede impedita».

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Come già detto in precedenza: non immaginate neppure quanto sia umiliante per un presbitero e un teologo dover scrivere su certi temi per rispondere a simili idiozie. Ma ripeto: dinanzi alle anime a noi affidate spinte da altri in grave errore, il buon pastore in cura d’anime accetta anche l’umiliazione intellettuale, che tra tutte potrebbe essere anche una delle peggiori. Se quindi andiamo a leggere i canoni 412-415 in cui si enunciano casi e situazioni che determinano la sede impedita episcopale, chiunque dovrebbe capire all’istante che non possono ricorrere nel caso di Benedetto XVI, salvo totale stravolgimento e grottesche manipolazioni di quanto racchiuso all’interno di questi canoni. Ricordo infatti che la legge si interpreta, non si manipola. La manipolazione e lo stravolgimento dei testi non ha niente a che fare con l’interpretazione, anche con quella cosiddetta estensiva. Ricordiamo per inciso che la Legge può essere interpretata o applicata in modo restrittivo o estensivo.

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Altro punto in cui si insiste è che «nella declaratio di rinuncia ci sono errori formali che la rendono in ogni caso invalida a prescindere che Benedetto XVI abbia anche fatto un atto libero di rinuncia». E con questa asserzione si dichiara e si ripete pubblicamente ― come fa da tempo un oscuro personaggio ― che la forma è superiore all’intenzione sostanziale. In questo modo la mera forma viene elevata al di sopra della volontà e del deliberato consenso. Una idiozia clamorosa! Qualsiasi persona che avesse un solo barlume di ragione dovrebbe comprendere all’istante che siamo dinanzi a espressioni che spaziano tra follia e magia, dove ciò che solo conta non è la volontà sostanziale, ma la corretta pronuncia formale di una “formula magica”. Perché a questo certi soggetti giungono: alla magia delle formule.

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Passiamo all’ultimo punto: gli errori latini. Questi soggetti affermano che a rendere invalida la rinuncia in modo inconfutabile sarebbe «la presenza di numerosi errori di sintassi latina, perché la declaratio deve essere “debitamente manifestata”» (rite manifestetur) ai sensi del pluri-citato Canone 332. Dopo avere affermato questo proseguono dicendo che «Benedetto XVI è sempre stato un fine e grande latinista e che come tale e in quanto tale non poteva fare questi errori, alcuni persino grossolani. Se però li ha fatti è stato per rendere volutamente invalida la rinuncia e ritirarsi in sede impedita». Riflettiamo: se Benedetto XVI avesse fatto una cosa del genere saremmo di fronte al Sommo Pontefice più vigliacco e bugiardo dell’intera storia del Papato.

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Il latino è una lingua insidiosa, sotto vari aspetti più del greco antico. Anzitutto è una lingua morta non più parlata da secoli. Poi bisognerebbe tener presente che esistono vari latini: il latino di Marco Tullio Cicerone o di Tito Lucrezio Caro, quello di Seneca o di Catullo non è quello in cui scriveva e si esprimeva tra il IV e il V secolo Sant’Agostino vescovo di Ippona, né quello in cui scriveva e si esprimeva tra l’XI e il XII secolo Sant’Anselmo d’Aosta. Altro ancora quello in cui si esprimeva e scriveva San Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, a sua volta del tutto diverso da quello del XVI secolo, un latino ormai relegato a precisi ambiti di persone colte, essendosi sviluppata e diffusa a cavallo tra XIII e XIV secolo, tra la Scuola di Federico II di Svevia a Palermo e di Dante Alighieri a Firenze la cosiddetta lingua volgare, che aveva non poco imbastardito lo stesso latino per i secoli a seguire, facendo confluire al suo interno neologismi che nulla avevano da spartire con l’antico latino classico. Il latino di fine Settecento inizi Ottocento era un latino ormai molto “imbastardito”. Infine quello usato in ambito scientifico, giuridico ed ecclesiastico tra fine Ottocento inizi Novecento, più che un latino era un latinetto. Non a caso esiste il preciso termine di “latino ecclesiastico”.

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Taluni ricordano che la lingua usata per tenere le lezioni nelle università ecclesiastiche sino a inizi anni Settanta era il latino. Permettetemi di sorridere e narrare che ex studenti, divenuti poi a seguire teologi di fama della Scuola Romana e professori ordinari in quelle stesse università ecclesiastiche, ultimi in ordine di serie Brunero Gherardini e Antonio Livi, mi hanno narrato in modo divertito molti gustosi aneddoti, spiegando che si trattava, più che di latino, di un latino maccheronico. O come mi disse Antonio Livi, che del latino era un cultore: «Tanto valeva usare l’italiano, o altre eventuali lingue nazionali moderne, smettendola con la pagliacciata di quello pseudo-latino che faceva fuoriuscire asinate grammaticali dalle bocche dei docenti e inducendo gli studenti a capire meno ancora di ciò che avrebbero potuto capire». Ricordo che Antonio Livi fu decano di filosofia alla Pontificia Università Lateranense, dopo avere concorso in precedenza alla istituzione della Pontificia Università della Santa Croce.

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Un conto è leggere, capire e tradurre questa lingua morta, un conto scriverla o peggio parlarla. Affermare che il giovane Joseph Ratzinger perito al concilio «parlava in latino, lui come gli altri partecipanti» è una colossale bufala, una pura leggenda metropolitana messa in circolazione da chi, non conoscendo la storia della Chiesa, non trova di meglio da fare che inventare a posteriori storie e fatti che nel passato recente, antico e remoto non sono mai esistite. Sono stato allievo di due maestri che furono entrambi periti al concilio, uno dei quali morto alle soglie dei 100 anni poche settimane fa. Durante le varie fasi del concilio, uno dei suoi compiti fu anche quello di riassumere in lingua inglese, spagnola e francese ― le tre lingue che meglio conosceva oltre alla sua madrelingua tedesca ― le varie relazioni redatte nella lingua ufficiale della Chiesa: il latino. Perché a inizi anni Sessanta molti vescovi non erano in grado di comprendere e tradurre il latino, specie quelli provenienti dai cosiddetti Paesi del Terzo Mondo e dalle varie terre di missione del continente latino americano.

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Benedetto XVI non è mai stato e non è un «raffinato latinista» ma solo un buon conoscitore del latino come lo sono molti di noi, ed è per questo più che comprensibile che abbia fatto errori nel redigere la sua declaratio di rinuncia. Qualsiasi buon conoscitore del latino li avrebbe fatti. Cercherò di chiarire meglio con un esempio personale: una volta tradussi dall’italiano al latino una mia lettera di una pagina. Dopodiché la inviai non a uno e neppure a due, ma a cinque esperti latinisti, due dei quali addetti alla traduzione dei testi ufficiali latini presso la Santa Sede. Tutti e cinque mi dissero che il testo andava quasi bene, facendomi varie correzioni grammaticali. Ebbene, ciascuno mi apportò correzioni diverse, tutte rigorosamente giuste, ma una dissimile dall’altra. Perché questo è il latino: una lingua morta dove oltre alla grammatica giocano molto sia l’interpretazione che la costruzione della struttura del testo, che può essere corretta per un latinista ma non corretta per un altro, pur avendo entrambi ragione.

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La declaratio di rinuncia di Benedetto XVI è un testo molto intimo e personale che il diretto interessato ha redatto da sé stesso dopo lunga riflessione e preghiera, facendo i conti con la propria coscienza, con la propria anima e anche con la futura storia della Chiesa alla quale l’avrebbe consegnata per i secoli avvenire come evento del tutto straordinario. Non ha sottoposto il testo della sua declaratio a quei bravi ed esperti latinisti di cui la Santa Sede dispone proprio per la delicata e intima natura di quell’atto personalissimo che è tale e che tale rimane e deve rimanere. Atto nel quale Benedetto XVI ha fatto diversi errori grammaticali, sbagliando nella forma lessicale come avrebbe fatto qualsiasi buon conoscitore che il latino è in grado di leggerlo, tradurlo e usarlo in forma privata, ma comporre in lingua latina è cosa che solo i latinisti più esperti possono fare, talvolta commettendo qualche errore anche loro. Benedetto XVI non è affatto «un fine e grande latinista», come possono esserlo quegli studiosi che allo studio di questa non facile lingua morta hanno dedicato la propria intera vita. E sono proprio i più bravi latinisti ad affermare che fare errori in una redazione latina è cosa facile per tutti coloro che il latino lo conoscono bene, senza nulla togliere alla loro conoscenza del latino. Pertanto, con buona pace delle follie e delle leggende metropolitane messe in giro da certi complottardi, ribadisco che scrivere e comporre in latino è difficile persino per gli esperti latinisti, mentre parlarlo correttamente rasenta quasi l’impossibile. A meno che non si voglia confondere il latino con il latinetto dei chierici d’inizi Novecento o con i brocardi giuridici latini, che ricordiamo sono delle brevi massime ricavate dalle leggi e per questo indicati anche come principia generalia

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Lascio valutare a tutte le persone ragionevoli se degli errori di grammatica latina possano invalidare — in nome del «rite manifestetur» estrapolato da un canone 332 e citato in modo ossessivo-compulsivo — un libero e personalissimo atto di rinuncia come quello espresso da Benedetto XVI dinanzi al Collegio dei Cardinali, che a seguire ha ribadito in tutti i discorsi pronunciati pubblicamente prima della convocazione del nuovo conclave quanto quella sua decisione sia stata ponderata e libera.

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Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremmo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.

 

Dall’Isola di Patmos, 30 novembre 2022

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Signora Capalbio, negro non è sinonimo di buono e di vittima senza macchia e peccato, ma semplicemente sinonimo di essere umano

SIGNORA CAPALBIO, NEGRO NON È SINONIMO DI BUONO E DI VITTIMA SENZA MACCHIA E PECCATO, MA SEMPLICEMENTE SINONIMO DI ESSERE UMANO 

La vicenda dell’Onorevole Aboubakar Soumahoro, che oggi si trova coinvolto in vicende legate a cooperative in cui sono implicate sua moglie e sua suocera, non è legata al negro, ma a qualche cosa strettamente connessa a l’homo, a prescindere dal niger o dall’albus.

— Attualità ecclesiale —

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L’Onorevole Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nelle liste del Partito Democratico

In estate o primavera, quando soggiorno nella Ortigia di Siracusa, dove prima di diventare prete comprai una casa nel cuore dell’antica Città Greca, vado a fare la spesa al mercato e con l’occasione dispenso i miei show, ovviamente gratis, intrisi di invereconde prese di giro sulle quali le persone del luogo ridono divertite, perché sfottere i siciliani è un dovere civico. Poi ci sono le mie “teorie scientifiche” sulle possessive e protettive mamme dei maschi, a cui riguardo sostengo che se una madre siciliana partorisce una femmina, non c’è problema. Però, se partorisce un maschio, in quel caso va soppressa appena terminato l’allattamento, evitando in tal modo che rovini il figlio per tutta la vita seguitando a trattarlo da tenera creatura anche da cinquantenne. E quando dopo qualche mese o settimana ritorno in loco mi dicono persino che gli sono mancati i miei sfottò.

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Una volta un tale aveva sulla bancarella una cesta piena di lumache che cominciai a guardare con ostentata attenzione, finché giunse la domanda che attendevo: «Padre, le piacciono?». Risposi: «Mai mangiate in vita mia. Però sono certo che queste lumache saranno di grande consolazione per i siciliani, perché finalmente avete trovato qualcuno che sulla testa ha più corna di voi». Mi fu poi raccontato che aveva fatto il giro di tutto il mercato a ridere e raccontare la sparata del prete a tutti i venditori delle altre bancarelle. Un’altra volta stavo camminando in mezzo al mercato col sole di mezzogiorno sparato sul viso, a poco servono in quel caso anche gli occhiali scuri. Non vidi una cassetta della frutta e ci inciampai cadendo a terra, tra l’altro avevo la talare bianca addosso, che grazie a Dio non danneggiai. A due metri da me un pescivendolo saltò in avanti facendo il gentile gesto di aiutarmi a rialzarmi dicendo: «Padre, si tiri su che distesi a terra si sta male». Ribatto: «Ha ragione, distesi su sua moglie si starebbe molto meglio». E appena rientrò a casa la prima persona alla quale narrò il fatto fu sua moglie.

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Infine il mio negro di fiducia dove compro le verdure: «Padre, è tornato da Roma?». Lo saluto: «Sono tanto contento di rivedere il mio negro splendido». E splendido lo è per davvero, ha una risata così acuta e divertente che se fossi uno psichiatra lo prescriverei come terapia al posto degli anti-depressivi. Disgrazia vuole che si trovava alla bancarella la classica fighetta ― come ormai si dice nel nostro gergo italico parlato ― stile Signora Capalbio targata sinistra radical chic, col capello bianco corto in gran voga negli attici dei Parioli e nelle ville dell’Olgiata. Fa una smorfia e sbotta: «Mi stupisco di lei che dovrebbe essere una persona colta, si dice … uomo di colore». La ignoro totalmente e mi rivolgo al mio negretto: «Senti un po’, Ousman, spiegami una cosa: tu sei negro o di colore? Perché a me nei paesi africani i tuoi connazionali mi chiamavano “bianco”, non “uomo senza colore”». E lui, con una risata assordante con i suoi acuti risponde: «Io sono negrissimo!».

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Passando per il politicamente corretto siamo giunti così al negro, tale in quanto negro e non certo perché “uomo di colore”. Almeno per me che sono un cultore della mia madre lingua di derivazione latina: homo niger vuol dire uomo nero. Mentre homo albus vuol dire uomo bianco, ossia il sottoscritto. Il termine “negro” deriva dal latino nigrum, che vuol dire nero. Noi preti, a eccezione del bianco usato alle alte temperature, ordinariamente vestiamo in nigris, di nero, non vestiamo … “di colore”. Da sempre ai confratelli africani coi quali ho vissuto a Roma sin dalla formazione al sacerdozio, poi da presbitero, li ho sempre indicati e chiamati negri. Esempio: «Siamo in ritardo, date una voce ai nostri confratelli negri che si sbrighino, altrimenti arriviamo tardi a San Paolo Fuori le Mura». Mi sarei sentito quantomeno ridicolo a esordire: « … i nostri confratelli di colore». Loro ci chiamano bianchi, non ci chiamano “uomini scoloriti” o “senza colore”. E tutt’oggi in molti Paesi di quel Continente ricordano con gratitudine la meritoria opera di evangelizzazione portata avanti dai cosiddetti Padri Bianchi, non certo dai Padri senza colore.

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Il politicamente corretto non è solo linguistico, ma è sociale e ormai ideologico. Tanto che molti nutrono verso il negro non solo sensi di colpa, ma peggio: si sono formati la convinzione che negro equivale a buono, a candida vittima, a perseguitato. Perlomeno finché non si ritrovano ad avere a che fare con qualche banda di nigeriani, la violenza dei quali farebbe impallidire gli esecutori al soldo della ‘ndrangheta, che tra le mafie presenti nel nostro Paese è la più violenta. Nonostante ciò, dinanzi alla crudeltà di un nigeriano, i killers della ‘ndrangheta farebbero la figura della pietosa dama di carità della San Vincenzo de’ Paoli. Altrettanto i camerunensi, Paese dove la criminalità è diffusa a livelli incontrollabili e dove per uno straniero essere sequestrato da una delle loro bande non è come essere rapiti da quelli che furono i rapitori dell’Anonima Sarda Sequestri, perché questi secondi, se proprio non sono dei cherubini, a loro confronto possono figurare come dei cuori teneri.  

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Partiamo quindi da un principio basilare che sfugge alle “candide anime belle”: si tratti di un homo niger o di un homo albus, ciò che connota l’uno e l’altro, a prescindere dalla colorazione, è l’essere homo. E questo homo non è buono o cattivo, vittima o carnefice sulla base della sua particolarità di niger o albus, ma in quanto uomo.

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Il caso dell’Onorevole Aboubakar Soumahoro, che oggi si trova coinvolto in vicende legate a cooperative in cui sono implicate sua moglie e sua suocera, non è legata al negro, ma a qualche cosa strettamente connessa a l’homo, a prescindere dal niger o dall’albus. Vicenda nel merito della quale non entro. Ciò non solo perché non voglio, ma proprio perché non posso. La competenza è della magistratura italiana alla quale spetta indagare, giudicare e se necessario infine condannare, mentre alla politica compete valutare e decidere nel merito della questione, trattandosi di un parlamentare della Repubblica Italiana.

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Alle “candide anime belle” vorrei ribadire che negro è lungi dall’essere sinonimo di buono in quanto negro e solo perché negro, tutt’altra è la realtà: la corruzione che vige nei vari Paesi del Continente Africano è tanta e tale, ma soprattutto a livelli talmente gravi e incancreniti, che a confronto quei Paesi europei solitamente indicati come particolarmente corrotti sono abitati da una schiera di San Luigi Gonzaga e di Santa Maria Goretti. Tra i Paesi indicati come particolarmente corrotti c’è l’Italia, ossia noi italiani, detti anche “maestri della truffa”. Cosa che può essere espressa e sostenuta senza problemi di sorta, in particolare dalle caste e candide bocche di francesi e tedeschi, capaci però ad auto-censurare il loro senso critico e a calarsi le brache col buco del culo al vento solo quando si trovano dinanzi al negro, i francesi in modo del tutto particolare, visti i servizi che hanno fatto nel corso degli ultimi due secoli a vari Paesi del Continente Nero. Gli italiani sono invece bianchi, quindi possono essere accusati come tali di essere dei corrotti e dei notori truffatori sulle prime pagine dei loro giornali.

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A Roma, sul finire della formazione sacerdotale e a seguire per un po’ come presbitero, ho abitato in una casa internazionale per sacerdoti che si trova all’Aventino. A poca distanza sul Viale Aventino, all’angolo con il Viale delle Terme di Caracalla c’è la grande sede della FAO, che ricordiamo è la Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Per mesi, transitando in quelle zone, mi è capitato di vedere negri e negre provenienti dai vari Paesi del Continente Africano, semmai dai più poveri e disastrati in assoluto, salire su Mercedes che fanno servizio di noleggio con conducente per essere portati a fare shopping in Via Condotti e in Via Vittorio Veneto. È cosa altresì nota e risaputa, nonché confermabile dai titolari dei negozi extra lusso, che a spendere di più, senza misura e ritegno, erano i negri e le negre, noti per la ricerca dei beni superflui più costosi in assoluto e per il loro bivaccare negli hotel più lussuosi della Capitale. I funzionari africani della FAO.

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Lascio quindi la Signora Capalbio inorridire dinanzi alla parola “negro” e con lei tutte le altre “candide anime belle” che si gongolano in surreali fantasie sul povero negro buono e vittima del bianco variamente sporco e spregiudicato colonizzatore. Per me esiste invece l’uomo nato con la corruzione del peccato originale, che non ha risparmiato né i bianchi né i negri. E contrariamente alle anime belle so, come lo sanno politici, storici, sociologi e anche ecclesiastici che, uno dei peggiori mali endemici dell’Africa è una corruzione senza eguali al mondo, per non parlare della delinquenza senza scrupoli e limiti che imperversa in certe loro città. Anche per questo la nostra Congregazione de Propaganda Fide si guarda bene dal mandare soldi a occhi chiusi, persino alle nostre stesse istituzioni ecclesiastiche locali gestite dai negri. Preferiscono gestire con attenzione certi flussi di danaro affinché finiscano realmente in opere religiose, caritative e sanitarie. Evitando in tal modo, come più volte accaduto in passato, che dei soldi partiti per la costruzione di un ospedale finissero incamerati da politici corrotti e investiti nel mercato delle armi per le peggiori guerre tribali, dove le persone sono capaci a scannare senza pietà donne e bambini a colpi di machete fabbricati in Cina.

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Però, per la Signora Capalbio, negro equivale a buono e vittima. Soprattutto non si deve dire negro, ma uomo di colore. Ebbene sappia la Signora Capalbio che il mio illuminato venditore di verdura, negro ghanese scuro come un tizzone di carbone, non la pensa come lei, sa perfettamente di essere negro, ne è contento e all’occorrenza se ne vanta, togliendo persino la depressione con una risata a tutte le depresse Signore Capalbio della sinistra radical chic, oggi più che mai depresse dopo avere favorito in ogni modo, con tutti i loro snobismi alto borghesi, un Primo Ministro donna della destra, che è figlia del popolo e che proviene dai quartieri ultra popolari di Roma. Quelli dove una volta, il vecchio e anche glorioso Partito Comunista Italiano, raggiungeva maggioranze elettorali da fare invidia alle elezioni della Bulgaria. Forse per questo, ritrovandosi nei ristoranti gourmet di Capalbio, il gotha della sinistra radical chic cerca di annegare la depressione politica dentro costosi calici di Sassicaia e di Brunello di Montalcino d’annata.

 

Dall’Isola di Patmos, 27 novembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Il caso di “Suor Cristina”. Ricordati cara Cristina, quando canterai, metti Cristo nelle note altrimenti la tua rinuncia non ti avrà insegnato nulla

IL CASO DI “SUOR CRISTINA”. RICORDATI CARA CRISTINA, QUANDO CANTERAI, METTI CRISTO NELLE NOTE ALTRIMENTI LA TUA RINUNCIA NON TI AVRÀ INSEGNATO NULLA

Adesso le sue ex consorelle, le care Orsoline della Sacra Famiglia, hanno ancora una possibilità di aiutare Cristina, le mostrino vicinanza e provvedano anche a un suo doveroso aiuto materiale. Senza lesinare qualche salutare scappellotto, le siano accanto, così come Cristo ha fatto con quel giovane ricco che non ha voluto seguirlo. 

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

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La audio lettura sarà disponibile la mattina del 26 novembre

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Intervista di Suor Cristina

Suor Cristina Scuccia, la suora cantante della Congregazione delle Orsoline della Sacra Famiglia, ha lasciato la vita consacrata per seguire forse la sua (vera?) vocazione nel mondo canoro [vedere: qui, qui, qui e qui]. È una notizia di pochi giorni fa.

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A questa recente notizia, Padre Ariel ha già dedicato un breve articolo che condivido in pieno quanto al realismo e all’equilibrio [vedere: qui]. Tuttavia, da presbitero religioso dell’Ordine Cappuccino desidero fare anch’io delle considerazioni in merito, che per certi versi risuoneranno come delle vere e proprie provocazioni scontentando forse qualcuno, ma che avranno il merito di evidenziare alcune delle più comuni ipocrisie della vita consacrata mascherate da sentimenti di pietà.

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Anzitutto c’è da mettere al corrente le tante anime belle ― quelle che in queste ore in real life o sui social stanno giocando al tiro al piccione con la povera ex Orsolina ― che ogni anno dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica sono gestite moltissime richieste di religiosi che chiedono di lasciare il proprio ordine, il proprio istituto o la propria congregazione di appartenenza. Di chi è la colpa? Perché avviene questo? Io non sempre riesco a darmi una risposta convincente, secondo il parere illuminato di alcune anime belle la colpa è senza dubbio del Papa gesuita o forse di quei religiosi che hanno fatto piangere Lama Donna con i peccati contro il sesto comandamento o forse di coloro che non si rassegnano a vivere secondo uno stile religioso grottesco tipico dei monaci del film Il Nome della Rosa di Jean-Jacques Annaud o delle improbabili suore del film Sister Act. Perché per certe anime belle ed esperti catto-blogghettari, tutta tradizione e latinorum, il religioso è una maschera grottesca tra lo psichiatrico e il farsesco, un misto di mortificazione e di cilicio, disturbi d’umore e pruriginosi desideri da romanzo alla Uccelli di Rovo, insomma un autentico pazzo.

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Perciò, quando si verifica che qualche consacrato appenda l’abito al chiodo, subito si parte alla ricerca delle motivazioni – vere o presunte – e si procede con la delicatezza e il tatto di uno schiacciasassi dentro un negozio di cristalli Swarovski. Ma noi qui, dall’amena Isola di Patmos non vogliamo essere degli schiacciasassi, sappiamo bene infatti che alcuni abbandoni sono senz’altro giusti perché privi di quella minima consapevolezza e libertà necessaria per vivere da consacrati e costituirsi nel mondo come fiaccole di luce, segni profetici per la Chiesa. Altri abbandoni, invece, costituiscono delle vere e proprie ingiustizie lasciate correre con troppa leggerezza e scaturite il più delle volte dalla disperazione, dalla solitudine, dalla miseria umana e dalla insulsa paraculaggine di alcuni superiori che scambiano il munus del governo con il privilegio dell’impeccabilità propria in cui l’errore personale non esiste mai e se c’è è di norma sempre e solo del “religioso problematico” che decide di lasciare.

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Onestamente, dopo più di vent’anni di vita religiosa ― sono entrato tra i Frati Minori Cappuccini a 21 anni di età durante gli studi universitari in farmacia ― non sono nella condizione di scandalizzarmi più per queste defezioni, come si chiamano in freddo linguaggio tecnico le uscite o abbandoni. Anzi, dico la verità, davanti a un confratello che lascia non solo sospendo ogni giudizio ma scelgo volutamente di spendere poche parole, sapendo che è urgente dimostrare quell’amore di una nonna che davanti al nipote più scapestrato e ribelle ha comunque la premura di domandare: «Come stai? Hai mangiato?». E Dio solo sa quanto sanno essere espressivi gli occhi e lo sguardo di un religioso che ha preso la sofferta decisione di lasciare. Chiedere come stai, significa condividere molto di più che un’onda sentimentale. A mio modesto avviso significa riversare come balsamo l’ultimo atto di misericordia verso un uomo in crisi. E non è forse questo il modo di interpretare la vecchia parabola lucana del Padre Misericordioso che tutti vantano di apprezzare ma che in pochissimi praticano soprattutto se religiosi, sacerdoti o cattoliconi doc?

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Forse la piccola (suor) Cristina, catapultata all’interno di quello sciagurato mondo dello spettacolo, divorante e divoratore, avrebbe solo avuto il bisogno di sentirsi rivolgere più spesso la domanda della nonna: «Come stai? Hai mangiato?», che poi si traduce in «Sei felice? Gesù e la Chiesa stanno riempiendo veramente la tua vita? Ti stai dissipando, sei turbata? Stai pregando? Il tuo cuore, la tua anima, il tuo desiderio sono forse cagionevoli in qualche cosa?». Perché sono queste le domande utili a prevenire le crisi personali, le malattie spirituali, le sentine di vizi che il demonio scatena per sviare il religioso dalla sua strada di perfezione come ebbe a dire il Vescovo San Macario.

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Nella mia vita religiosa ho conosciuto più volte superiori e direttori di studentato che erano più preoccupati della presenza in coro dei loro frati che della loro reale felicità. Scrupolosi nel vigilare se i frati recitassero integralmente il breviario ma non altrettanto solerti nel notare se i loro frati si aprissero al sorriso e alla gioia all’interno del convento. Preoccupati della regolare osservanza, dell’uso del denaro ma per nulla interessati se il frate fosse riuscito a dormire bene o meno, forse angosciato da qualche fantasma dell’anima. Ho conosciuto altrettanti superiori e direttori di studentato che hanno fatto diventare la vita religiosa una riproposizione di Instagram e Tick Tock. Un reality dove il religioso canta, balla, fa lo show man, fa tutto e il suo contrario, e dove la sola via di perfezione consiste nell’osservanza del motto sessantottino “vietato vietare” perché Gesù è l’asso pigliatutto che sta bene sopra ogni cosa, dal Palco di Sanremo alla Grande Chartreuse.

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Ma ormai a 45 anni di età comincio a diventare vintage, ricordando che un tempo per lasciare il convento, bisognava bussare alla porta del padre guardiano (il superiore locale) e chiedere il permesso: «Benedìcite padre, posso andare a…» e dopo aver fatto le commissioni fuori dal convento, ritornare dal guardiano e nuovamente dire: «Benedìcite padre sono rientrato». Queste cose oggi non si usano più, spesso i giovani novizi e studenti hanno molte libertà fin dal noviziato (io ho avuto il primo cellulare da diacono all’età di 33 anni) e quelle che vent’anni fa potevano essere considerate come formalità oggi capisco che erano modi per vivere la figliolanza e la paternità spirituale, insieme a quella fraternità evangelica che unisce e protegge tutti i religiosi.

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Il caso di (suor) Cristina è emblematico di quella verità che ci dice che anche i religiosi escono di scena. Assieme alle coppie che scoppiano (vedi Albano e Romina, Totti e Ilary), i preti che si spretano, i frati che si sfratano e le suore che si… beh avete capito. Questa è la nuda verità della nostra «Chiesa in uscita», una verità non certamente recente, queste cose sono sempre capitate e capiteranno ancora, basta ricordare alcuni precedenti illustri come Suor Sorriso o Fra Giuseppe Cionfoli. Verità forse scomode a cui è necessario trovare una risposta ma soprattutto un modo per prevenirle. Perché sono sicuro che sia suor Sorriso, così come fra Giuseppe Cionfoli e ora suor Cristina erano stati sicuramenti scelti e amati da Dio nella loro scelta di vita religiosa, ma non hanno avuto la grazia di incontrare maestri capaci di accettarli così come erano, accompagnando le loro doti verso una purificazione matura che limita le tentazioni e le nostalgie. Tali defezioni nella vita religiosa non sono mai facili e occorre avere uno sguardo molto più compassionevole e complesso di tutte le varie dietrologie che le persone normalmente seguono in questi casi.

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La dimensione di fragilità della Chiesa implica anche l’eventualità di un abbandono dello stato di vita consacrata, ma sono pochi coloro che vogliono riconoscerlo e in pochissimi coloro che desiderano amare e sostenere questi fratelli nel bisogno in modo gratuito e disinteressato. Perché l’essenza della vita battesimale, di cui la vita religiosa è la piena maturazione, non è nient’altro se non l’amore fino alla fine. È lì, nell’amore come martirio-testimonianza che risiede la credibilità e la santità della Chiesa e di noi cristiani: «Da come vi amerete riconosceranno che siete miei discepoli» [cfr. Gv 13,35]. E invece non si leggono che commenti di vergini vilipese che si sgomentano che Cristina Scuccia non è più suora, gridando al tradimento di Giuda e alla codardia. Davanti a queste esternazioni mi taccio perché altrimenti finirei per dire cose poco caritatevoli.

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Cerchiamo di capire una buona volta che l’amore cristiano è quello che è disdegnato dai più, un amore che ama quello che è disgregato, che crea scandalo, un amore che cammina su strade storte e affossate di una umanità decadente. Del resto, non è questo che ha fatto il Signore Gesù con ciascuno di noi? «Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» [cfr. Rm 5,6]. Questo risulta vero ancora oggi, Cristo continua a morire ogni giorno per noi, gente raccogliticcia, che lega a sé con il vincolo di una speciale consacrazione, battesimale, religiosa o sacerdotale, e che necessariamente chiede una conversione che ci faccia passare dall’abbandono delle tenebre allo splendore della luce.

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Cristo ama noi, battezzati, religiosi e sacerdoti, non perché siamo perfetti ma proprio perché imperfetti, anzi empi, non ancora entrati in quella pietas del giorno di Pasqua che non è certamente ottenibile con uno sforzo di volontà ma come gratia gratis data da chiedere ogni giorno allo Spirito Santo con lacrime. La vita religiosa è una strada di perfezione che si realizza solo quando l’immagine di Cristo, uomo nuovo, nasce in noi. E questo parto ha bisogno certamente di tempo, di paternità e di maternità spirituale, di accompagnamento affettuoso e sofferto, merce molto rara tra i superiori religiosi di una «Chiesa in uscita», sempre più manager così come è per molti vescovi.

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Considero il caso di (suor) Cristina Scuccia non un’eccezionalità ma l’espressione di una tendenza ben conosciuta da chi vive e lavora nel mondo reale della vita consacrata. Se andiamo a esaminare poi i casi di abbandono, constatiamo che a lasciare non sono i religiosi o le religiose con dei limiti umani e spirituali ma esattamente il contrario. Spesso ci troviamo davanti a personalità veramente talentuose, dotate di carisma, viva intelligenza e che hanno un bagaglio culturale di tutto rispetto, tanto da fargli conseguire titoli accademici importanti. Essi sono come delle auto di grossa cilindrata che sono state affidate a gente senza esperienza di guida. E (suor) Cristina ha delle qualità che indubbiamente sono state canalizzate male. Qualità che potevano sostenerla e aiutarla nella vocazione e che invece sono state usate per sovrapporsi alla vocazione religiosa creando un’alternativa che sarebbe venuta incontro alle necessità temporali di una congregazione religiosa giovane, che dall’opera canora della consorella avrebbe forse usufruito anche di belle somme di denaro? Questo non deve scandalizzare perché anche le suore devono mangiare e mantenere le loro strutture, ma forse c’è bisogno di un’attenta riflessione che tenga conto di qualche priorità da riconsiderare.

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I casi di abbandono nella stragrande maggioranza delle volte non riguardano neanche il celibato – così come si aspetterebbero le tante anime belle tutte Cuore di Gesù e di Maria – e questo significa che non si esce perché ci si vuole sposare o perché non si riesce più a rispettare il voto di castità. La motivazione del fallimento risiede in tutt’altro: di molto più profondo, di molto più articolato, di molto più concreto. Per questo, ogni abbandono resta misterioso, conosciuto solo per alcuni risvolti ma sempre ingiudicabili dagli uomini così pronti a giudicare e a incasellare tutto dentro a rassicuranti categorie. Solo Dio che è Padre può conoscere in profondità il cuore dell’uomo, anche di quello che decide nella sua libertà di abbandonare la vocazione che gli è stata offerta ma che non potrà sottrarsi alla vocazione comune di ogni battezzato che è quella alla comune chiamata alla santità che travalica lo stato di vita (poco importa se consacrato, sposato o single).

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Per questo motivo, smettiamola di fare il tiro al piccione con la ex (suor) Cristina, con lei così come con gli altri ex religiosi. Questo non è un caso mediatico da sbandierare su rotocalchi scandalistici o blog cattolici. In questo momento di fragilità, benché l’apparenza e il maquillage dicano il contrario, questa ragazza ha bisogno di sincero aiuto per ricostituirsi una vita ma soprattutto ha bisogno di imparare a non assecondare i miraggi dello spietato mondo dello spettacolo che vedono il religioso o l’ex religioso come un animale da esibire per fare audience. Ricordate il caso di don Alberto Ravagnani prima utilizzato da Fedez e poi bullizzato e preso a parolacce? Bene, queste sono le reali prospettive.

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Prima c’era suor Cristina, adesso c’è Cristina Scuccia cameriera in terra di Spagna, domani forse sarà un’anonima donna con un matrimonio fallito alle spalle e figli a carico che canta nei locali spagnoli per riuscire a sbarcare il lunario. Sic transit gloria mundi, la gloria degli uomini, così come la gloria del palcoscenico.

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Adesso le sue ex consorelle, le care Orsoline della Sacra Famiglia, hanno ancora una possibilità di aiutare Cristina, le mostrino vicinanza e provvedano anche a un suo doveroso aiuto materiale. Senza lesinare qualche salutare scappellotto, le siano accanto, così come Cristo ha fatto con quel giovane ricco che non ha voluto seguirlo. Siamone certi, la proposta passa, l’amore di Cristo resta, benché velato di quella triste nostalgia che solo gli occhi sanno esprimere, come quel giovane ricco che se ne andò perché aveva molti beni, ma tra i tanti beni che aveva abbisognava dell’unico necessario che avrebbe dato valore al tutto il resto.

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Cristina, ricordati quando canterai, metti Cristo nelle note altrimenti la tua rinuncia non ti avrà insegnato nulla.

Laconi, 25 novembre 2022

 

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Il fallimento di una male intesa collegialità apostolica. Quei vescovi ridotti a funzionari spogliati di ogni potestà che devono ratificare i capricci altrui attraverso i seminari interdiocesani

IL FALLIMENTO DI UNA MALE INTESA COLLEGIALITÀ APOSTOLICA. QUEI VESCOVI RIDOTTI A FUNZIONARI SPOGLIATI DI OGNI POTESTÀ CHE DEVONO RATIFICARE I CAPRICCI ALTRUI ATTRAVERSO I SEMINARI INTERDIOCESANI

Più che «Chiesa in uscita» la nostra è una Chiesa che conclusa la fase dell’amministrazione controllata pre-fallimentare si ritrova con gli ufficiali giudiziari alle porte per il sequestro degli stabili, dopo la bancarotta fraudolenta prodotta dal fantasioso concilio egomenico degli interpreti dello “spirito del concilio” in quella infausta stagione del post-concilio che fece dire al Santo Pontefice Paolo VI: «Col Concilio Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno».

— Attualità ecclesiale —

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«Col Concilio Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno» [cfr. Jean Guitton, Paolo VI segreto].

Capita sempre più spesso che vari vescovi italiani di cui sono amico e confidente si rivolgano a me. Se alcune volte riporto l’esperienza o le amarezze di alcuni di loro è solo perché i diretti interessati mi hanno chiesto di trattare quel tema, affinché si sappia quali disagi e situazioni si trovano ad affrontare i pochi buoni vescovi che ancora ci restano.

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Dinanzi a questioni molto delicate, non vige solo il detto «si dice il peccato ma non il peccatore», perché non va detto neppure il peccato. Essendo confessore di molti preti e non solo, mai direi che sono confessore di quello o quell’altro prete. Di necessità la segretezza va estesa oltre il contenuto della confessione stessa. Altrimenti si rischia di generare problemi come quel parroco svampito che durante una predica disse: «Oggi sono dieci anni che mi trovo tra di voi. Ricordo sempre il mio arrivo, la mia prima Santa Messa in parrocchia e anche la mia prima confessione, dove incominciai il ministero di confessore con un penitente che confessò il suo adulterio». Disse il peccato ma non il peccatore, cosa di cui il sindaco non fu felice, perché all’insaputa del parroco aveva sempre narrato ai paesani di essere stato il primo a confessarsi con lui. 

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Il vescovo in questione è stato uomo di grande esperienza pastorale, già da prima che fosse lanciato lo spot dei «pastori con l’odore delle pecore», il risultato del quale è stato che nel giro di poco tempo abbiamo visto preti radical chic con i vestiti da sartoria e i maglioncini di cashmere improvvisarsi dalla sera alla mattina «poveri per i poveri», giungendo in camaleontica gloria all’episcopato tra bastoni pastorali realizzati dai falegnami e croci pettorali ricavate dal pezzetto di legno di una barca affondata al largo di Lampedusa. E nei saluti finali delle loro lettere, anziché la frase «In Cristo Signore tuo …», abbiamo incominciato a leggere delle chiuse di questo genere: «In Cristo migrante … In Cristo povero tra i poveri …». Come dire: l’episcopato non mi basta, voglio pure il cardinalato. E a qualcuno è stato dato il cardinalato, tra croci pettorali di legno e cristi migranti.

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Come più volte ho detto, con tanto di richiamo alle puttane ― che al contrario di questi soggetti sono oneste e soprattutto coerenti ―, se domani avvenisse un cambio di rotta, preparatevi a vederli entrare nelle loro chiese cattedrali con sette metri di cappa magna e preziose mitrie settecentesche in damasco e gemme sulla testa. Come se nulla fosse stato, perché questo è lo stile delle persone senza ritegno e umana dignità, di cui persino le puttane sono invece dotate, al punto da precederci nel Regno dei Cieli, come ci ammonisce Gesù Cristo [cfr. Mt 21, 28-32].

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Il colloquio verteva sul problema del seminario cosiddetto inter-diocesano o regionale. Istituzioni delle quali ― ve lo preciso subito ― sono da sempre nemico dichiarato, perché ritengo che ogni vescovo debba avere la potestà e il diritto di formare i i suoi futuri presbiteri nella sua diocesi, fossero anche e solo due o tre seminaristi. Il vescovo in questione, oggi emerito, appena ordinato presbitero fu nominato vice-parroco di un anziano e santo confratello, di cui poi conservò sempre la foto-ricordo nel suo studio, prima come parroco, poi quando fu nominato vescovo ausiliare di una vicina diocesi, poi ancora quando divenne arcivescovo metropolita. A suo tempo aveva fatto gli studi necessari richiesti per la sacra ordinazione, senza mai conseguire nessuna specialistica e men che mai dottorati teologici. Avendolo conosciuto personalmente e a fondo, posso testimoniare che mai ho conosciuto in Italia, almeno per quanto mi riguarda, un pastoralista più competente, sapiente e illuminato di lui, soprattutto dietro le cattedre delle varie università ecclesiastiche.

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Da vescovo ausiliare viveva di fatto nel seminario diocesano, conosceva i seminaristi a uno a uno, li accudiva e li seguiva. Questi ex seminaristi, oggi tutti preti ultra cinquantenni, di lui parlano sempre con venerazione. Alcuni sono miei penitenti o diretti spirituali, perché fu lui che dinanzi alla richiesta a quale confessore o direttore spirituale rivolgersi, visti i tempi di vacche magre che stiamo vivendo li indirizzò a me. Quando mancano i giganti bisogna di necessità virtù accontentarsi dei nani che offre la piazza. 

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Infine la sede arcivescovile metropolitana, da lui mai desiderata ma quasi imposta. All’epoca si erano messi in lizza come auto-candidati due vescovi della regione, che non trovarono di meglio da fare che farsi guerra l’un l’altro per acquistare il favore della nomina. L’allora nunzio apostolico escluse a priori i due contendenti litigiosi portati avanti da due fazioni dei vescovi di quella regione e ne propose un terzo, quello che aveva mostrato come vescovo ausiliare prima, come vescovo diocesano dopo, le maggiori doti pastorali, che stava bene nella sua diocesi e che non aveva alcun desiderio di essere nominato a quella sede arcivescovile metropolitana.

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Promosso a quella sede metropolitana per prima cosa, come suo stile, mostrò tutta la sua disponibilità al clero e la sua particolare cura verso il seminario regionale. Finché un giorno, il giovane rettore, in modo quasi sibillino gli fece questo strano discorso: «Vede Eccellenza, questo nostro è un seminario regionale che accoglie i seminaristi dei vescovi di diverse diocesi. Lei è molto premuroso e presente, ma temo che questa assidua presenza potrebbe creare qualche malumore negli altri vescovi, che come lei non possono essere presenti in seminario». Presto detto: la nomina del rettore, del vice-rettore, dei padri spirituali, per seguire con gli insegnanti incaricati, erano decise dai vescovi della regione, ciascuno dei quali aveva qualche suo pupillo da piazzare. Insomma: una formazione al sacerdozio strappata ai vescovi e totalmente delegata come un assegno firmato in bianco a persone scelte da loro, in modo per così dire … collegiale. E qui sorge la prima domanda: da quando, in nome di una collegialità a dir poco male intesa, si impedisce a un vescovo di formare i propri futuri preti? A domanda segue domanda: i futuri preti, sono presbiteri del vescovo o sono “presbiteri regionali” di una non meglio precisata e intesa … collegialità?

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Prima di proseguire nel triste racconto desidero chiarire che gli scambi e i colloqui avvenuti tra questo vescovo e me risalgono a quasi dieci anni fa, all’epoca in cui lui decise di interpellarmi e scegliermi come confidente. Precisazione necessaria per chiarire che sia l’arcivescovo, sia la diocesi e la regione italiana legata a questi fatti non può essere individuata. Perché se così fosse non ne parlerei.

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In quegli anni questo vescovo mi lamentò che non solo doveva visitare con cautela il seminario della sua diocesi divenuto seminario regionale, perché c’era di più e di peggio: diversi vescovi della regione, considerandolo un cosiddetto “conservatore”, avevano nominato, in spirito di squisita collegialità, rettore e vice-rettore del seminario i presbiteri di altre due diocesi. Di un’altra diocesi era anche il preside della facoltà teologica e oltre la metà degli insegnanti, compresi docenti, sia preti che laici e laiche, ai quali mai questo vescovo avrebbe affidata la formazione dei propri futuri preti per i corsi del baccalaureato teologico. Mentre all’epoca i suoi seminaristi erano circa 15, quelli dei vescovi delle altre diocesi della regione variavano da uno a tre o quattro. E d’improvviso l’arcivescovo metropolita si ritrovò isolato ed estraneo in casa propria. Il tutto nel supremo nome di una non meglio precisata collegialità episcopale, beninteso.

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Dinanzi a questa situazione, perché non sollevò le dovute obbiezioni? Lo fece, ma eravamo già agli inizi del 2014, nella piena luna di miele dell’attuale pontificato improntato su «Chiesa povera per i poveri», «pastori con addosso l’odore delle pecore», «Chiesa ospedale da campo», «Chiesa in uscita» e via a seguire. Per tacitare qualsiasi vescovo o qualsiasi parroco bastava dire: «Non è in linea con le direttive pastorali di Papa Francesco», per finire condannati più o meno alla morte civile. Frase che ne ricordava tanto un’altra, una che in molti ci siamo sentiti dire in modo beffardo da degli emeriti e clamorosi ignoranti: «Ah, ma non sai che nella Chiesa c’è stato un Concilio?». Quante volte, ho risposto a coloro che confondevano il Concilio con il post-concilio degli stravaganti «interpreti dello spirito del concilio» che quanto cercavano di far passare non si trovava scritto e sancito in nessuno dei documenti del Vaticano II. Quante altre, ho castigato pretini trendy e laici clericalizzati, facendogli fare la figura degli ignoranti che erano, citandogli documenti e passaggi fondamentali del Vaticano II di cui ignoravano l’esistenza in nome del loro becero sfottò: «Ah, non sai che c’è stato un Concilio?».

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Lo so benissimo che c’è stato un Concilio, sul quale chiunque potrebbe interrogarmi trovandomi tutt’altro che impreparato sui suoi documenti, perché penso di sapere e poter dimostrare anche un’altra cosa, sfidando chiunque a smentirla: con il Concilio di Trento furono aperti i seminari e data una adeguata formazione al clero la cui massa versava in stato rasente finanche l’analfabetismo. In quella stagione si ebbe un fiorire di nuove congregazioni religiose, di grandi Santi educatori e pedagoghi, di grandi Santi della carità. Prese inoltre vita una grande attività missionaria e di evangelizzazione che portò la Chiesa a essere, dal fenomeno quasi esclusivamente europeo che era, veramente universale e sparsa per tutto il mondo. Questi sono stati i frutti storici del Concilio di Trento che nessuno può smentire, salvo negare dei dati storici incontrovertibili. Pur malgrado oggi, il Concilio di Trento e il termine “tridentino” è usato come sinonimo di spirito ottuso e retrivo, persino all’interno delle università ecclesiastiche, a riprova di quanto l’ignoranza sia andata al potere nella Chiesa attraverso le peggiori mistificazioni ideologiche e le più pericolose alterazioni dei fatti storici. 

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Veniamo adesso al Concilio Vaticano II, considerato da alcuni il concilio dei concili, roba dinanzi alla quale il primo concilio niceno e il primo costantinopolitano che fissarono dogmaticamente i fondamenti del depositum fidei a suo confronto ― che pure di nuovi dogmi non ne definì neppure mezzo ― sono stati quasi roba da dilettanti litigiosi, che non a caso si pigliavano pure a legnate nella Sala del Trullo quando discutevano sulla natura di Cristo che fu infine definito «generato non creato della stessa sostanza del Padre», non invece creatura creata come lo intendevano i vescovi ariani.

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I risultati storici oggettivi del Vaticano II sono stati questi: anzitutto la laicizzazione del clero e la clericalizzazione del laicato cattolico formato oggi da un esercito di ingombranti e moleste pie donne e di preti mancati a mezzo servizio scopo dei quali è fare solo confusione nelle strutture pastorali e rendere la vita dei parroci a volte quasi invivibile. Poi il progressivo spopolamento dei seminari diocesani e dei noviziati religiosi, gli stabili di molti dei quali sono stati venduti a società private, oppure convertiti in case di accoglienza o strutture alberghiere al giusto scopo di rendere in qualche modo redditizi degli stabili i cui costi di mantenimento sarebbero di per sé esorbitanti sia in manutenzione che in tasse [cfr. mio precedente articolo QUI]. Da molte piccole e medie diocesi le suore sono ormai scomparse e gli stabili dei loro ex istituti religiosi chiusi e convertiti ad altri usi. La maggioranza dei vescovi italiani non possono permettersi di avere un seminario diocesano perché è tutta grazia di Dio se riescono ad avere due o tre seminaristi al massimo. In quelle stesse diocesi, nella “cupa” epoca tridentina, di seminaristi ne avevano almeno venti o trenta, ma forse non erano autentiche vocazioni illuminate da quella “primavera dello Spirito” che per ammissione dello stesso Santo Pontefice Paolo VI fece calare sulla Chiesa l’inverno: «Col Concilio Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno» [cfr. Jean Guitton, Paolo VI segreto].

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Sia chiaro: qui non si intende affatto discutere né sulla validità del Vaticano II, che era neppure necessario bensì indispensabile, né tanto meno sulla validità dei suoi documenti pastorali. Ciò sul quale bisognerebbe seriamente discutere con una lunga litania di mea culpa è ciò che del Concilio è stato fatto nella infausta stagione del post-concilio, quando in nome di un male inteso “spirito del Concilio” ciascuno ha finito per crearsi un concilio personale proprio, in testa a tutti quelli che i corposi e lunghi documenti del Vaticano II non li conoscono e non li hanno mai studiati. Fu per questo che in un mio libro del 2011 coniai il termine di concilio egomenico degli interpreti dello spirito del concilio nella stagione del post-concilio [cfr. E Satana si fece trino].

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Domanda semplice, di quelle destinate purtroppo a rimanere senza risposta, come capita quando si va a toccare il totem intangibile della cieca ideologia: è vero o no che dopo il Concilio di Trento i seminari sono stati aperti e sono fioriti nel corso dei tre secoli successivi, elevando il livello sia pastorale che culturale di quel clero che nella precedente stagione versava in stato pietoso, fatte salve poche eccezioni? È vero o no che dopo il Concilio Vaticano II, nei successivi cinquant’anni, i seminari si sono svuotati e progressivamente sono stati chiusi? È una domanda storica alla quale bisognerebbe rispondere con obbiettivo rigore storico, non con cieca ideologia. Basterebbe prendere i dati statistici del clero italiano del 1950 e confrontarli con quelli del 2022, scoprendo all’istante che più che dei dati sono dei bollettini di guerra. Esempio: diocesi che nel 1950 avevano un presbiterio composto da 1.000 presbiteri tra clero secolare e clero regolare per un numero di 350.000 battezzati, oggi, con un numero di battezzati pari a 700.000 hanno un presbiterio composto da 350 presbiteri. Poi, se andiamo a guardare le statistiche sull’età dei presbiteri, lì c’è da piangere sul serio. Prendo una diocesi italiana a caso. Anno 2021: età media dei presbiteri 70 anni, nuovi presbiteri ordinati 2, presbiteri defunti 18. Domanda: di questa e di altre diocesi italiane, che ne sarà nel giro di 10 o 15 anni? O qualcuno pensa davvero di risolvere il problema ormai irreversibile che batte inesorabile alle porte con la istituzione delle “accolitesse” che finiranno presto usate come preti-surrogato? [cfr. QUI]. Perché qualche vescovo particolarmente illuminato non ha trovato di meglio da fare che affidare a qualcuna di queste “accolitesse” delle parrocchie di provincia ormai da anni senza parroco. Perché è così che i nostri vescovi illuminati risolvono le cose.

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Dinanzi a queste domande che vertono in parte sulle conseguenze dello “spirito del Concilio” generato dai grandi “interpreti del Concilio”, in parte su dei dati che, ripeto, più che tali sono dei bollettini di guerra, la risposta dei vescovi e di certi preti, che come noto non hanno colpe, tanto sono impegnati nella ricerca delle colpe altrui, è presto data: «Tutta colpa della scristianizzazione delle società!». Bene, ma a questo punto alla domanda si aggiunge domanda: e la scristianizzazione di chi è colpa? Forse della Lega degli Anarchici Libertari Anticlericali? Perché da sempre si è cercato di scristianizzare, sin dagli albori dello stesso Cristianesimo, ma il sensus fidei ha prevalso su Decio, Diocleziano, Nerone … a seguire su Attila, poi sui maomettani che se nel 1571 avessero vinto a Lepanto la successiva settimana avrebbero issato il vessillo della mezzaluna sulla cattedra del Vescovo di Roma a San Giovanni in Laterano. E ancora a seguire: sui lanzichenecchi che misero a ferro e fuoco Roma nel XVI secolo, sui giacobini della Rivoluzione Francese, su Napoleone che prese Pio VII come un pacco e lo trasportò prigioniero in Francia, su Hitler, su Stalin … nessuno ce l’ha fatta. E se il sensus fidei è riuscito a prevalere e sopravvivere dinanzi a certi personaggi e stagione storiche, qualcuno mi spiega come mai è invece collassato proprio nella stagione di un post-concilio mentre soffiava a poppa e a prua il grande spirito del concilio dei concili?

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Torniamo adesso al buon vescovo che un giorno di quasi dieci anni fa ebbe con me quel colloquio doloroso, che proseguì con il problema delle sacre ordinazioni dei diaconi e dei presbiteri. Cominciò col dirmi che la situazione del seminario inter-diocesano voluto a quel modo dai vescovi della regione, con quell’impronta, quei formatori e quel genere di insegnamento, aveva creato la estraneità tra vescovo e seminaristi, tra i quali intercorreva solo una superficiale e cortese conoscenza. A breve avrebbe dovuto ordinare due diaconi, consapevole di come fossero stati allevati nel corso di tutto il ciclo formativo, non solo in antitesi all’impronta pastorale del loro vescovo giudicata troppo conservatrice, perché quei candidati avevano espresso più volte che a rincuorarli era il fatto che il loro vescovo aveva già compiuto settant’anni e che «cinque anni passano in fretta, grazie a Dio!». E fu lì che il vescovo mi chiese un parere, che non esitai a dargli dinanzi alla sua domanda molto esplicita: «Tu che cosa faresti al mio posto?». Risposi che avrei fatto la cosa doverosamente peggiore, senza manifestare disagio, ma improntando il tutto su principi sia di sacramentaria sia di coerenza. Mi feci un attimo vescovo al posto suo ― ossia mi calai nel suo ruolo ― e dissi che avrei preso i due spiegando che sia con loro che con qualsiasi altro candidato ai sacri ordini non era mia abitudine dichiarare la autenticità della vocazione, perché non l’ho mai fatto e mai lo farò. Anzi, ho sempre sorriso ogni volta che ho sentito attestare in toni trionfalistici: «Autentica e solida vocazione!». La vocazione rimane per gran parte un mistero e nessun vescovo o formatore può fare attestati di assoluta autenticità. Anche perché non si spiegherebbe come mai si sono verificati casi di presbiteri che hanno lasciato il sacerdozio anche dopo vent’anni, dichiarando e spiegando di avere «vissuto due decenni di illusioni» o di «avere compiuto una scelta sbagliata» perché «il sacerdozio non era la mia strada». Di sicuro non avevano una vocazione, perché una vocazione autentica e solida non si perde e non muore mai, può essere a un certo punto rifiutata o persino distrutta dalla libera volontà del presbitero, ma neppure difficoltà e sofferenze che possono persino valicare le capacità di umana sopportazione la possono annullare. Un presbitero veramente vocato al sacerdozio può anche compromettersi irreparabilmente la salute e andare incontro a morte prematura per i dolori inferti e sofferti, ma non lascerà mai il sacerdozio, perché il carattere che ha ricevuto lo ha trasformato ontologicamente, è indelebile ed eterno e gli ha conferita una dignità superiore a quella degli stessi Angeli di Dio.

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Ciò che un vescovo e dei formatori possono attestare è l’idoneità ai sacri ordini del candidato. Poi, se qualche vescovo o formatore riesce a leggere le più impenetrabili sfere delle coscienze, per di più nel complesso rapporto intimo e profondo tra Dio e l’uomo, benedetti siano loro per un simile dono così raro e speciale.

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Interpretando il ruolo del vescovo che parla con i candidati agli ordini sacri proseguo col dire che al posto suo avrei detto: … voi siete idonei a ricevere i sacri ordini perché nulla osta a che vi siano concessi. Però non posso essere io a ordinarvi diaconi e poi presbiteri per la Chiesa che attualmente governo. Non ritengo giusto e coerente che voi riceviate i sacri ordini da un vescovo che non stimate e di cui non condividete le linee pastorali. Chiariamo: al vescovo voi dovrete promettere filiale rispetto e devota obbedienza, non dovete promettergli né stima né apprezzamento per la sua opera pastorale, questo non è richiesto e previsto, né mai potrebbe esserlo, perché se ciò fosse sarebbe veramente aberrante. Resta però un fatto: per il presbitero la figura del vescovo consacrante è destinata a rimanere indelebile per tutta la vita. Durante il sacro rito si domanda «Prometti filiale rispetto e devota obbedienza a me e a tutti i miei successori?». Con la menzione dei «successori» si precisa implicitamente che domani il vescovo può essere un altro e poi un altro ancora. Ci sono presbiteri anziani che dopo il loro vescovo consacrante ne hanno avuti altri quattro o cinque. Pur malgrado il ricordo di colui che ti ha generato nel sacro ordine sacerdotale rimane per tutta la vita e incamminandosi verso la vecchiaia, più il tempo si allontana da quel lieto evento più diventa vivo e caro. Per poco possa valere la mia esperienza: il vescovo che mi accolse, che provvide alla mia formazione e infine mi consacrò presbitero, io l’ho venerato, rispettato e ubbidito. Aveva un carattere e un temperamento non facile e negli anni a seguire sono stato con lui anche duro nel rivolgergli meritate critiche e giudizi severi, ponendo in luce certi suoi gravi difetti, ma non sono mai venuto meno per un solo istante al mio affetto e alla mia gratitudine nei suoi riguardi. E tra i diversi presbiteri che ha ordinato, forse sono l’unico che celebra sempre Sante Messe di suffragio per la sua anima. Si chiamava Luigi Negri [1941-2021].

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Può capitare, ed è capitato, che un presbitero si ritrovi con un vescovo sgradevole, incapace e persino dannoso, al quale tributare in ogni caso filiale rispetto e devota obbedienza, pur non apprezzandolo né nutrendo alcuna fiducia e stima per lui, oppure avendola perduta in seguito. Diverso è però il discorso del vescovo consacrante, perché in quel caso, tra lui e l’ordinando deve essersi instaurato un rapporto di reciproca stima e fiducia. O come mi ha detto di recente il confratello  Simone Pifizzi, uno dei nuovi Padri della nostra Isola di Patmos: «Prima di ordinarmi diacono il Cardinale Silvano Piovanelli, Arcivescovo di Firenze,  mi disse: “quando durante il sacro rito ti chiederò di promettere filiale rispetto e devota obbedienza, dovremo guardarci molto bene negli occhi, perché quella promessa e quel legame sarà indelebile con me e con tutti i miei successori”». Grandi uomini e pastori come Silvano Piovanelli oggi ci mancano terribilmente, ci appaiono figure di una stagione che diventa sempre più lontana allo spuntare dei primi capelli bianchi sulle nostre teste, ma il loro solo ricordo ci è di conforto e speranza per vivere al meglio il nostro sacerdozio ministeriale.

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Apprezzare e stimare un vescovo non è né obbligatorio né tanto meno dovuto, però, se si è coerenti, da un vescovo che non si apprezza e non si stima sarebbe bene non farsi ordinare, perché in tal caso l’ordinando trasformerebbe il vescovo in una sorta di pubblico ufficiale che ratifica un atto burocratico, mentre dal canto suo il vescovo trasformerebbe la sacra ordinazione in un semplice atto burocratico da ratificare. E conclusi dicendo al vescovo: potresti dir loro che col tuo benestare e la garanzia di idoneità dei formatori possono rivolgersi a qualsiasi vescovo della regione che sarà ben disposto ad accoglierli. Credo infatti che sugli imbarazzi e i disagi, che poi divengono reciproci, non si debba passare sopra con diplomatica pelosità clericale, si affrontano e si trovano soluzioni.

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Mi prestò ascolto e con pastorale sapienza agì in tal senso. Poco dopo avvenne una lite scatenata dal rettore del seminario che osò rivolgersi al vescovo in questi toni perentori: «Lei li deve ordinare per la sua diocesi, punto e basta, altrimenti vanifica tutta la nostra opera formativa». Ribatté il vescovo: «Pensavo che i diaconi, poi a seguire i presbiteri, fossero diaconi e presbiteri del vescovo, non della equipe inter-diocesana del seminario». Furono presi, ordinati e incardinati da un altro vescovo nella sua diocesi, rivelandosi poi dei preti ingestibili sin dal primo anno di ministero sacerdotale, mentre a Roma si moltiplicavano le lamentele contro questo vescovo da parte di alcuni vescovi della regione e della cosiddetta equipe formativa del seminario regionale. Per inciso: un paio di anni dopo il rettore del seminario non poteva che essere nominato vescovo, dopo avere improntato la nuova formazione dei futuri preti a suon di visite nei campi profughi e nei campi rom. Non importa che questi futuri preti non conoscessero non dico le opere, ma nemmeno il nome dei più grandi Santi Padri e dottori della Chiesa, perché una puntata a un campo rom supplisce tutto e conferisce speciali doni di grazia dello Spirito Santo.

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Se di fatto viene tolta a un vescovo la facoltà di poter formare i propri diaconi e presbiteri come egli reputa giusto e opportuno per la sua diocesi, in nome di una collegialità episcopale molto male intesa, forse sarebbe opportuno chiudere definitivamente i pochi seminari che ci restano, la maggioranza dei quali disastrati e disastrosi. Evitando a questo modo di trasformare le diocesi in una via di mezzo tra liberi collettivi e cooperative sociali, con i vescovi ridotti e obbligati a ratificare capricci ed errori di presbiteri e laici. Più che una «Chiesa in uscita» la nostra è una Chiesa che conclusa la fase dell’amministrazione controllata pre-fallimentare si ritrova adesso con gli ufficiali giudiziari alle porte per il sequestro degli stabili, dopo la bancarotta fraudolenta prodotta dal fantasioso concilio egomenico degli interpreti dello “spirito del concilio” in quella infausta stagione del post-concilio che fece dire al Santo Pontefice Paolo VI: «Col Concilio Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno». 

dall’Isola di Patmos, 22 novembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Fede e scienza, un rapporto da sempre fecondo ma non facile, specie nel mondo dell’era digitale, nella diretta del 24 novembre alle ore 21

FEDE E SCIENZA, UN RAPPORTO DA SEMPRE FECONDO MA NON FACILE, SPECIE NEL MONDO DELL’ERA DIGITALE, NELLA DIRETTA DEL 24 NOVEMBRE ALLE ORE 21

Nel mondo smart, nella età digitale dove tutto è a portata di dito e di un click, fede e scienza hanno ancora un rapporto fecondo fra loro? C’è tra di loro un’armonia da riscoprire?

— Le video-dirette de L’Isola di Patmos —

Autore: Jorge Facio Lince Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, padre redattore de L’Isola di Patmos

In uno dei suoi interventi televisivi Padre Ariel S. Levi di Gualdo spiazzò gli ospiti presenti, intrisi di surreali “leggende nere medievali” e di conflitti tra “Chiesa e scienza”, dicendo: «La Chiesa è stata e tutt’oggi è madre della scienza». E con una breve battuta – come di necessità si deve fare negli spazi di un talk show – disse tutto l’essenziale.

La Chiesa “nemica” della ragione? Siamo seri e non scherziamo: le più grandi speculazioni logiche e razionali nascono e si sviluppano nell’ambito cattolico sino a giungere al loro culmine con la enciclica Fides et ratio (Fede e ragione) del Santo Pontefice Giovanni Paolo II.

Nel mondo smart, nella età digitale dove tutto è a portata di dito e di un click, fede e scienza hanno ancora un rapporto fecondo fra loro? C’è tra di loro un’armonia da riscoprire? Di questo tema se ne discuterà con Andrea Mameli, fisico e divulgatore scientifico, nella diretta di mercoledì 24 novembre alle ore 21:00.

Iscrivetevi al nostro canale e partecipate numerosi. Le dirette trasmesse potete poi trovarle nell’archivio del Canale Jordanus del Club Theologicum.

Tutti gli aggiornamenti e gli avvisi sulle successive dirette potrete trovarli nella colonna di destra della home-page de L’Isola di Patmos sotto la voce «Le dirette di Padre Gabriele».

Vi aspettiamo.

Dall’Isola di Patmos, 23 settembre 2022

 

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Suor Cristina e quelle povere Orsoline che non conoscono Socrate: «Meglio morire con il corpo sano per evitare la decadenza»

SUOR CRISTINA E QUELLE POVERE ORSOLINE CHE NON CONOSCONO SOCRATE: «MEGLIO MORIRE CON IL CORPO SANO PER EVITARE LA DECADENZA»

Le improvvide suore e la loro improvvida Superiora Generale non possono pensare di catapultare una giovane suora nel mondo dello spettacolo e poterlo poi gestire. Sarà questo mondo a gestire loro e divorarle senza neppure sputare l’osso.

— Attualità ecclesiale —

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PDF  articolo formato stampa

 

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Cristina Scuccia, ex Suor Cristina della Congregazione delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia (per aprire il video cliccare sull’immagine)

Vi narro io la storia di Suor Cristina con tutta la severità che solo un prete riesce ad avere verso le congregazioni di certe suore. Cristina Scuccia è una siciliana graziosa e solare, oggi trentatré anni, dotata di una straordinaria voce. Diviene suora nelle Orsoline della Sacra Famiglia, congregazione di recente nascita fondata nel 1908 a Monterosso Almo da Arcangela Salerno per l’educazione della gioventù. Da Monterosso trasferirono la casa a Siracusa dove ebbero il riconoscimento dall’Arcivescovo metropolita Luigi Bignami nel 1915. Nell’immediato dopoguerra, nel 1946 furono riconosciute dalla Santa Sede come Congregazione di diritto pontificio.

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Come spesso capita alle numerose congregazioni femminili che non hanno un carisma come quello dei grandi ordini storici maschili e femminili ― perché null’altro sono che il duplicato di quello dei grandi fondatori riadattato alle personalità spesso egocentriche e narcisistiche di certi nuovi ideatori di nuove realtà religiose ― la loro sopravvivenza non supera mai i 100 anni di vita. Di queste congregazioni quelle messe meno peggio giungono a festeggiare il loro secolo di vita in stato di semi-agonia, ridotte ad alcune decine di vecchie suore più o meno incarognite alle quali delle religiose di mezza età ― dette giovani ― che spesso non sanno neppure cosa sia la vita religiosa, hanno messo i piedi sulla testa, facendole pentire dei loro peccati con quel genere di crudeltà femminile che solo le suore riescono ad avere ed esercitare. O come dissi una volta a una di queste suore-tipo mettendola in riga: «Sorella, lei è talmente cattiva e acida che se mettesse la punta di un dito dentro un bicchiere di latte lo farebbe diventare yogurt all’istante».

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Nel lontano ottobre 2014, all’esplodere del caso Suor Cristina scrissi un articolo al quale vi rimando e dove “profetai” l’ovvio: che avrebbe lasciato inevitabilmente la vita religiosa.

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Quando un presbitero lascia il sacerdozio, un religioso il suo ordine, una religiosa di voti solenni la sua congregazione, il quesito da porsi non dovrebbe essere dove abbiano sbagliato coloro che lasciano, ma dove hanno sbagliato certi vescovi e superiori maggiori religiosi. Ma com’è noto nella Chiesa, specie dinanzi a certi fallimenti, coloro che hanno partorito certi mostri si domandano sempre e di rigore dove hanno sbagliato gli altri, spiegando come e perché è tutta colpa degli altri.

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… e che nessuna, all’interno della Congregazione delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia, si azzardi a dire che è colpa di Suor Cristina …

Le improvvide suore e la loro improvvida Superiora Generale non possono pensare di catapultare una giovane suora nel mondo dello spettacolo e poterlo poi gestire. Sarà questo mondo a gestire loro e divorarle senza neppure sputare l’osso.

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Cristina Scuccia è una gran brava ragazza che presa da impulso emotivo è entrata nella vita religiosa senza rendersi conto nell’arco di 15 anni cosa realmente fosse la vita religiosa. Ne sono prova 26 minuti di intervista rilasciati al programma Verissimo su Canale5.

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Conoscendo la malizia di certe suore è evidente che le povere svaporate abbiamo pensato di lanciare nel mondo dello spettacolo una loro consorella dotata di straordinarie doti canore per promuovere la loro agonizzante Congregazione ridotta a poco più di 50 religiose perlopiù in età avanzata e tornare così ad avere, sulla scia pubblicitaria di Suor Cristina, qualche nuova postulante nel loro noviziato ormai vuoto da anni e anni. O detta in termini più coloriti ma efficaci: certe suore pensano davvero di fottere il prossimo, salvo finire fottute da un prossimo molto più smaliziato e soprattutto molto più diabolico di loro.

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Un prete e una religiosa possono essere presenze gradite e anche preziose ai vari programmi di approfondimento giornalistico, io stesso ho partecipato a numerosi programmi Mediaset, come la mia cara e stimata Suor Anna Monia Alfieri. Ma si tratta di programmi in cui si discutono e approfondiscono temi di attualità o problemi sociali, storici e politici, dove Suor Anna Monia e io abbiamo rappresentato, lei come religiosa io come presbitero la Chiesa Cattolica e il suo pensiero, la sua dottrina e la sua morale, in modo preciso e dignitoso, non ci siamo messi a fare spettacolo. Un prete e una suora non si lanciano nel mondo dello spettacolo, perché non è consono a noi consacrati che possiamo esserne distrutti nel peggiore dei modi, come nel caso doloroso e drammatico di Suor Sorriso, che partì da una canzone di successo negli anni Sessanta e finì in tragedia divenendo prima alcolizzata e morendo infine suicida assieme alla propria amica.

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Negli ultimi anni le meravigliose opere realizzate da questa Congregazione di Suore Orsoline della Sacra Famiglia sono state principalmente due: hanno mutato gli stabili di due loro istituti che si trovano nell’Ortigia di Siracusa in centri benessere a cinque stelle. Strutture alberghiere gestite dalle suore e dalle quali in estate potete veder uscire tranquillamente una coppia di due uomini nord-europei che ostentano il loro bimbo giocattolo comprato da un utero in affitto, oppure due escort di lusso in trasferta, oppure un settantenne in vacanza con la sua nipotina di 25 anni. D’altronde, dire che tutto questo è male e peccato grave è compito di noi preti, mica delle suore che a certi peccatori mettono a disposizione una beauty farm? A proposito, mi domandavo se a Siracusa, antica e nobile Chiesa di fondazione apostolica c’è sempre un Arcivescovo che controlla l’attività e la vita degli istituti delle religiose che si trovano sul suo territorio canonico, o vige forse l’antico motto pecunia non olet?

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… e che nessuna, all’interno della Congregazione delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia, si azzardi a dire che è colpa di Suor Cristina …

Dopo gli hotel le Orsoline segnano il successo di Suor Cristina che non è colpevole di avere affrontato la vita religiosa in modo leggero, dovevano accorgersene le sue formatrici, se non fossero state prese a gestire i centri benessere a cinque stelle.

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Ribadisco che la colpa non è di Suor Cristina ma delle suore, perché se scorrete il filmato che segue potrete vedere con i vostri occhi le suore presenti allo spettacolo The Voice Italia che saltano e strillano come delle assatanate. Queste immagini sono la prova plastica di chi è veramente la colpa. Delle sue improvvide consorelle che fanno il tifo in diretta dimenandosi pubblicamente in modo a dir poco indegno per delle vergini consacrate.  

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Siamo dinanzi all’ordinaria storia di una Congregazione collassata che attende la morte in un reparto di terapia intensiva, grazie a delle religiose che non hanno mai fatto tesoro della sapienza di Socrate: «Meglio morire con il corpo sano per evitare la decadenza». In caso contrario si trasformano i propri istituti in beauty farm e si tenta di raccattare qualche vocazione lanciando una giovane suora nel mondo dello spettacolo in modo scellerato. Perché com’è noto, dopo la tragedia giunge sempre il ridicolo della farsa grottesca. 

dall’Isola di Patmos, 22 novembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

La cristologica grande monarchia del Re dell’Universo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA CRISTOLOGICA GRANDE MONARCHIA DEL RE DELL’UNIVERSO 

I sudditi di questo Re sono tutti i credenti della sua fede, che attendono nella sua speranza. E specialmente sono coloro che vivono il regno come comunità dei credenti che ama e opera questo amore a partire da questa fede e questa speranza. 

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

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quella della regalità e signoria di Cristo sul mondo è una solennità liturgica che forse sfugge a noi uomini del 2022. Siamo uomini del nostro tempo, nati e cresciuti all’ombra del secolo breve, o ancor meglio dell’età dei totalitarismi, secolo che si è concluso ventitré anni fa. Per noi la democrazia e la sua espressione mediata in sistemi socio-politici in cui siamo rappresentati è un sistema che culturalmente accettiamo. Ora mi trovo nella splendida Firenze e, come noto a tutti, i Signori di Firenze per tanti anni sono stati i Medici. Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, ha lasciato i segni dell’opera della sua magnificenza ancora visibili nella Città di Firenze.

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Palazzo Vecchio in piazza della Signoria evoca in me proprio i fasti e le regalie dei Medici. Ma c’è un’altra Signoria che oggi è necessario ricordare. Gesù ricorda alla Chiesa e al mondo intero la sua Signoria e Monarchia sul mondo. Gesù ci ricorda che al di là di tutte le istituzioni politiche che sono dono per il cittadino e per tutti, il Signore e re della Nostra vita è lui.

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È bene per noi festeggiare e meditare sul Re: perché ci sia il Ritorno del Re, Gesù Cristo, nelle nostre vite troppo spesso distratte e perse nei meandri delle mode e dei pensieri mondani. Questo non è però un tentativo di distruggere il nostro stare nel mondo. La riflessione di oggi è proprio fondare la nostra presenza nelle nostre smart city, sapendo che siamo inviati dal Re Eterno, il cui trono è la croce. È lì che esprime il suo splendore e la sua regalità.

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La croce esprime il senso profondo e la diversità assoluta di Gesù rispetto a tutti gli altri re terreni. Perché è innalzato come tutti gli altri re, ma in un modo diverso. Esprime infatti il regno in modo completamente contrario rispetto al resto del mondo. Il Suo Regno è la carità. Gesù è il re che esercita il suo dominio nel servizio e nella donazione totale a noi: l’unico potere, l’unico scettro del Signore è l’amore di chi si dona fino alla fine. Perciò da quella croce si irradia il Regno annunciato da Cristo stesso sin dagli inizi della sua predicazione [cfr. Lc 6,28 – 30].

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I sudditi di questo Re ― e sudditi è la parola giusta da usare ― sono tutti i credenti della fede in lui che attendono nella sua speranza. E specialmente sono coloro che vivono il regno come comunità dei credenti che ama e opera questo amore a partire da questa fede e questa speranza. Noi fedeli siamo continuamente connessi e legati al Nostro Re, che accompagna e guida la nostra libertà e responsabilità verso la Santità personale. In tal modo ci fa diventare re tutti quanti.

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Gesù riconosce con grande gioia il pentimento del ladrone pentito che domanda se potrà essere ammesso nel suo regno e al quale risponde: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Il grande riconoscimento della propria colpa da parte del ladrone di cui non sappiamo il nome, è il suo ingresso nella fede, speranza e carità di Gesù. Che sono le condizioni di chi si fa servitore del Re. Gesù accoglie tutto questo e lo rende re a sua volta, prima in quel momento, poi definitivamente in Paradiso.

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Ecco perché questa solennità coinvolge tutti noi. Perché dal battesimo siamo tutti re, profeti e sacerdoti. Siamo re perché cerchiamo di imitare Gesù nell’attuazione del Regno D’Amore del Padre e dello Spirito Santo.

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Chiediamo al Signore di entrare nel Suo Regno di Servizio esercitando l’umiltà di chi si riconosce peccatore e viene così esaltato nella gloria del perdono.

Buon cammino di regalità a tutti.

Santa Maria Novella in Firenze, 19 novembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Quella liturgia alla quale spesso si partecipa senza però conoscere il senso e il significato di ciò che si recita e si celebra. Cominciamo con un breve viaggio nei Prefazi del tempo di Avvento …

QUELLA LITURGIA ALLA QUALE SPESSO SI PARTECIPA SENZA PERÒ CONOSCERE IL SENSO E IL SIGNIFICATO DI CIÒ CHE SI RECITA E SI CELEBRA. COMINCIAMO CON UN BREVE VIAGGIO NEI PREFAZI DEL TEMPO DI AVVENTO …

L’Avvento, cercate di viverlo e celebrarlo nelle chiese, non sui social media. E se avete dubbi, o cose da chiarire, rivolgetevi a noi Sacerdoti, che per quanto inadeguati, peccatori, inetti e deludenti ― come in molti scrivono nei loro sfogatoi su Internet ― qualche cosa in più rispetto ai teologi improvvisati su Facebook e Twitter, state pur certi che la sappiamo e siamo in grado di offrirvela, sempre gratis et amor Dei.

— Pastorale Liturgica —

Autore
Simone Pifizzi

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Nota di Redazione: ai Padri de L’Isola di Patmos si è unito un nuovo redattore, il presbitero fiorentino Simone Pifizzi, pastoralista e liturgista [vedere QUI]

Molti sono i cattolici, anche quelli devoti e animati da sincera fede, ignari del significato delle parole pronunciate e dei gesti compiuti dal Sacerdote durante la Santa Messa. Il sacro rito che attraverso la Santa Messa rinnova il sacrificio incruento di Cristo è ricco di segni e simboli, ciascuno dei quali carico di un profondo significato teologico e mistagogico. Siccome è doveroso spiegare sempre ogni parola, ricordo che “mistagogia”, termine di derivazione greca, il cui significato è “iniziazione ai misteri”, nel lessico cristiano indica la scoperta della nuova vita di grazia che abbiamo ricevuto attraverso i Sacramenti. Il Catechismo insegna:

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«La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. La catechesi è intrinsecamente collegata con tutta l’azione liturgica e sacramentale, perché è nei Sacramenti, e soprattutto nell’Eucaristia, che Gesù Cristo agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini» [cfr. n. 1074]. La catechesi liturgica mira a introdurre nel mistero di Cristo (essa è infatti “Mistagogia”) in quanto procede dal visibile all’invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai “sacramenti” ai “misteri” [cfr. n. 1075].

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Dicevo che la sacra liturgia è ricca di segni e simboli, ciascuno dei quali ha un profondo significato. Persino i silenzi o i cenni di reverenza del Sacerdote hanno un loro significato teologico e mistagogico. Per comprenderlo basterebbe ascoltare i maestri, anziché inseguire improbabili teologi e liturgisti che sproloquiano sui social media. Proviamo a chiarire il tutto con un esempio tratto dalla Prima Preghiera Eucaristica, anche detta Canone Romano. Nella prece in cui è fatto riferimento alla Comunione dei Santi il Sacerdote recita:

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«[…] In comunione con tutta la Chiesa ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo».

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Menzionando la Beata Vergine Maria il Sacerdote accenna un leggero inchino con il capo, quando poco dopo nomina Gesù Cristo, accenna un inchino più profondo. Perché? La ragione è racchiusa nelle parole stesse: la «Vergine Maria Madre» è creatura, ossia una creatura creata, che come tale si venera (da qui il leggero inchino), mentre Cristo è «nostro Dio e Signore», che non è creatura, ma «generato non creato della stessa sostanza del Padre», ossia è Dio, quindi lo si adora. Sono passaggi molto importanti, anche se non sempre noti agli apprendisti stregoni che da un giorno all’altro si sono messi a “giocare” con l’antico Messale di San Pio V e che non perdono occasione, nelle loro esasperazioni rasenti spesso la mariolatria, per dimostrare l’incapacità a distinguere il Dio incarnato, Seconda Persona della Santissima Trinità, dalla più pura delle creature,  che per quanto immacolata rimane comunque una creatura creata, con serena pace di chi la rivendica corredentrice, malgrado il netto rifiuto dei Sommi Pontefici, ultimi in ordine di serie Benedetto XVI e Francesco. Questa sostanziale distinzione tra “creatura” e “Dio”, nella sacra liturgia non è espressa con delle parole e men che mai con lezioni di teologia dogmatica, di cristologia o di mariologia, ma con due semplici inchini: uno leggero a Maria creatura creata, uno profondo, a Cristo Dio generato non creato, che non necessita di corredentori e corredentrici, come espresso in modo delicato da Benedetto XVI, in modo un po’ più “ruspante”, ma altrettanto incisivo e chiaro, da Papa Francesco [cfr. Catechesi sulla preghiera – Pregare in comunione con Maria].

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Detta in modo amabile: i Padri de L’Isola di Patmos, quando celebrano ed esercitano in tal modo il munus sanctificandi, sanno bene quel che fanno. Quando insegnano ed esercitano in tal modo il munus docendi, sanno bene ciò che insegnano. Senza bisogno di rendersi ridicoli dinanzi agli ascoltatori come quei fenomeni circensi che colmano le proprie gravi lacune teologiche facendo la lista dei dottorati teologici conseguiti. Beninteso, ogni riferimento è del tutto involontario, per non dire casuale …

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Nella liturgia è chiamato Prefazio la solenne lode che introduce la Preghiera Eucaristica e che ne costituisce introduttivamente la prima parte. Una preghiera che sia nel vecchio messale di San Pio V sia nel messale di San Paolo VI comincia in entrambi con un dialogo tra celebrante e fedeli:

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Il Celebrante: «Il Signore sia con voi». Il Popolo risponde: «E con il tuo spirito». Il Celebrante riprende: «In alto i nostri cuori». Il Popolo: «Sono rivolti al Signore». Il Celebrante (accennando un inchino con il capo) «Rendiamo grazie al Signore nostro Dio». E il Popolo conclude: «È cosa buona e giusta».

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Segue la parte recitata dal solo Celebrante, la cui sezione centrale varia assecondo la celebrazione, perché i prefazi sono numerosi e per questo variano dal Tempo Ordinario a quello di Quaresima, dall’Avvento al Natale, da Pasqua a Pentecoste, per seguire con altri “prefazi propri” usati nelle celebrazioni in memoria della Beata Vergine, dei Santi, dei Martiri, dei Defunti. Per questo la seconda parte è sempre variabile, perché il suo scopo è di spiegare, come una breve catechesi, il motivo per il quale si deve a Dio gloria e ringraziamento da parte di tutta la Chiesa universale. Prendiamo come esempio il III Prefazio della Beata Vergine Maria per comprendere questo elemento catechetico racchiuso nella sacra liturgia. Recita il testo:

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All’annunzio dell’Angelo, accolse nel cuore immacolato il tuo Verbo e meritò di concepirlo nel grembo verginale; divenendo madre del suo Creatore, segnò gli inizi della Chiesa.

Ai piedi della croce, per il testamento d’amore del tuo Figlio, estese la sua maternità a tutti gli uomini, generati dalla morte di Cristo per una vita che non avrà mai fine.

Immagine e modello della Chiesa orante, si unì alla preghiera degli Apostoli nell’attesa dello Spirito Santo.

Assunta alla gloria del cielo, accompagna con materno amore la Chiesa e la protegge nel cammino verso la patria, fino al giorno glorioso del Signore.

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Infine la parte finale, strutturalmente sempre uguale, salvo la differenza di poche parole da un Prefazio all’altro, il cui scopo è di introdurre il canto e l’acclamazione del Sanctus di tutto il Popolo di Dio riunito in assemblea:

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E noi, insieme agli Angeli e ai Santi,

cantiamo senza fine

l’inno della tua lode: Santo …

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Il tempo di Avvento nel quale stiamo per entrare ha una doppia caratteristica, come spiegano le normative liturgiche:

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«[…] è Tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si commemora la prima venuta del Figlio di Dio tra gli uomini e, contemporaneamente, è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi» [cfr. Norme generali per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del calendario, n. 39].

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Lungo il corso dei secoli, il breve ma intenso Tempo liturgico “forte” dell’Avvento ha sempre conservato questi due grandi aspetti di preparazione alla celebrazione memoriale della nascita di Gesù Cristo nel tempo e di attesa del suo glorioso ritorno finale. Queste due dimensioni sono richiamate sia dai testi biblici che patristici utilizzati sia nella celebrazione eucaristica che nella Liturgia delle Ore. A questo periodo che segna il mistero della incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo, dal quale prenderà vita la nuova rivelazione e il mistero di salvezza, proprio per la sua fondamentale importanza hanno dedicato scritti e predicazioni grandi Santi Padri e dottori della Chiesa. Potremmo citarne solo alcuni, da Sant’Ireneo di Lione [cfr. Inni, 1,88-95.99] a San Gregorio Magno [cfr. Omelie 1, 8], da San Bernardo di Chiaravalle [cfr. Discorso IV sull’Avvento 1. 3-4], per seguire in tempi più recenti con San Carlo Borromeo che spiega come il tempo di Avvento richieda di essere piamente santificato dagli uomini [cfr. Lettere Pastorali].

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Tra i tanti testi che arricchiscono la liturgia di questo Tempo liturgico, meritano attenzione particolare i Prefazi propri dell’Avvento, che costituiscono in sé stessi un vero e proprio itinerario liturgico–spirituale adatto ad arricchire la vita cristiana.

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Per il Tempo di Avvento, il Messale Romano italiano prevede quattro testi: i primi due (I e I/A) sono utilizzati dalla Prima Domenica di Avvento fino al 16 dicembre, i secondi (II e II/A) per i giorni rimanenti. I Prefazi I e I/A sottolineano in modo particolare la venuta finale di Cristo alla fine dei tempi, in quella che viene chiamata parusia. Gli altri due (II e II/A) sono un invito a preparare cuore e mente alla celebrazione della sua prima venuta, pur non perdendo di vista la sottolineatura fatta nei primi due.

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Veniamo ora ai testi, ovviamente prendendo in esame soltanto la “parte mobile” ovvero la seconda parte del Prefazio, quella che prima abbiamo indicata e definita come catechetica.

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Nel I Prefazio d’Avvento è annunciata la duplice venuta di Cristo con queste parole:

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«Al suo primo avvento nell’umiltà della condizione umana egli portò a compimento la promessa antica e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Quando verrà di nuovo nello splendore della gloria, ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa».

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Il titolo già esprime tutto il significato di questo Tempo Liturgico: memoria della prima venuta di Cristo nella carne e attesa del suo ritorno glorioso. Nella prima parte risaltano tre passaggi importanti: la sottolineatura dell’abbassamento del Figlio di Dio, che richiama subito alla memoria il celebre inno cristologico:

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«Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» [Fil 2,5-8].

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Segue il “compimento della promessa antica”. Gesù, con la sua Incarnazione, dà compimento ultimo e definitivo a tutte le profezie e le promesse fatte ai Padri in tutto il Primo Testamento. O per dirla con il solenne esordio della lettera agli Ebrei:

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«Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai Padri per mezzo dei Profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» [Eb 1, 1-2].

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Infine, nella conclusione, l’apertura definitiva ― operata da Colui che si presenterà come Via, Verità e Vita [cfr. Gv 14, 6] ― della eterna salvezza e della vita senza fine. La seconda parte ci sposta alla fine dei tempi, dove l’umiltà sarà sostituita dalla gloria. In questa gloria, eterna e definitiva il Verbo introdurrà tutti coloro che credono in lui e che con speranza, già in questa vita, guardano a questo momento.

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Vorrei sottolineare la presenza di questi due verbi che ci riguardano: uno al futuro ― «ci chiamerà a possedere» e uno al presente ― «osiamo» che dicono il “già e non ancora” in cui ogni credente è inserito con il Battesimo e che si rinnova in ogni celebrazione eucaristica e in ogni segno sacramentale.

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Nel Prefazio I/A si celebra Cristo, Signore e giudice della storia, attraverso queste parole di lode:

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«Tu ci hai nascosto il giorno e l’ora in cui il Cristo tuo Figlio, Signore e giudice della storia, apparirà sulle nubi del cielo rivestito di potenza e splendore. In quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e sorgeranno cieli nuovi e terra nuova. Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno».

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In questo testo tutto è proiettato sulla venuta finale del Cristo glorioso. Il linguaggio è solenne ed enfatico: «Signore e giudice», «rivestito di potenza e splendore», «in quel giorno tremendo e glorioso». Questo «non ancora» è tuttavia messo a confronto con il presente, in cui ogni credente è chiamato a riconoscere la venuta di Cristo nel volto del fratello che incontra nella vita di ogni giorno nell’esperienza delle tre Virtù Teologali qui esplicitamente richiamata: Fede, Speranza e Carità. La Speranza, tipica Virtù dell’Avvento, si accoglie con Fede e si testimonia con una Carità autentica.

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Nel Prefazio II abbiamo le due attese di Cristo raffigurate e spiegate con queste parole:

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«Egli fu annunciato da tutti i profeti, la Vergine Madre l’attese e lo portò in grembo con ineffabile amore, Giovanni proclamò la sua venuta e lo indicò presente nel mondo. Lo stesso Signore, che ci invita a preparare con gioia il suo Natale, ci trovi vigilanti nella preghiera, esultanti nella lode».

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Testo didattico straordinario che sintetizza tutta la storia della salvezza in preparazione alla venuta del Figlio di Dio nella carne: l’annuncio profetico, la Santa gestazione della Vergine, la predicazione e la testimonianza del Battista e che non solo annuncia la venuta del Signore ma che ha anche la grazia di vederne la realizzazione. Il credente è invitato a rallegrarsi perché Gesù è già presente e questa presenza possiamo sperimentarla sia nella preghiera personale, come «viglianti nella preghiera» sia in quella liturgica, ovvero: «esultanti nella lode».

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Il Prefazio II/A si incentra su Maria nuova Eva, chiarendo quello che è il ruolo a ella affidato da Dio nel mistero della salvezza, o come suol dirsi nella economia [dal greco οἰκονομία] della salvezza:

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«Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo per il mistero della Vergine Madre. Dall’antico avversario venne la rovina, dal grembo verginale della figlia di Sion è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli e sono scaturite per tutto il genere umano la salvezza e la pace. La grazia che Eva ci tolse ci è ridonata in Maria. In lei, Madre di tutti gli uomini, la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, si apre al dono della vita nuova. Dove abbondò la colpa, sovrabbonda la tua misericordia in Cristo nostro salvatore».

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Il testo di questo Prefazio d’impronta mariana ci porta direttamente alla contemplazione della Vergine Madre di Dio: Maria Santissima, protagonista per eccellenza degli ultimi giorni del Tempo di Avvento. Maria viene messa in parallelo con Eva, usando la categoria della “maternità”. Dal grembo di Eva ― tentata dell’Antico Avversario, il serpente ― è scaturita un’umanità segnata dall’esperienza del peccato, una vera e propria “rovina”. Maria è la nuova Eva, la Madre di un’umanità nuova, non tanto e non più in senso biologico ma spirituale. Se da una parte è pur vero che tutti siamo uomini nati in una carne segnata dall’esperienza del peccato, l’Incarnazione del Verbo Divino ― qui indicato squisitamente con due immagini dal forte sapore biblico: «pane degli angeli» e «germoglio» ― spalanca davanti a noi il dono della Redenzione e di una vita nuova, divina e spirituale. Nell’ultimo periodo risuonano quasi alla lettera le parole dell’Apostolo Paolo:

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«La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore». [Rm 5, 20-21].

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Questo è ciò che dovremmo sempre ricordare anche noi, in ogni momento della nostra vita, soprattutto quando sentiamo il peso delle nostre mancanze, delle nostre colpe, quando la vita sembra una litania di fallimenti e anche quando la fede stessa rischia di vacillare per cause interne ed esterne a noi stessi. Perché su tutto, anche sul peccato, sovrabbonda la sua infinita misericordia, il suo amore.

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Meditiamo con attenzione questi testi che la Chiesa Madre ci dona per prepararci al Natale del Signore e molto più al nostro incontro personale con Lui, quando lo vedremo non più come in uno specchio, ma faccia a faccia, e lo conosceremo così come ora siamo da Lui riconosciuti [cfr. 1 Cor 13, 12].

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Chiudo con una raccomandazione: l’Avvento, cercate di viverlo e celebrarlo nelle chiese, non sui social media. E se avete dubbi, o cose da chiarire, rivolgetevi a noi Sacerdoti, che per quanto inadeguati, peccatori, inetti e deludenti ― come in molti scrivono nei loro sfogatoi su Internet ― qualche cosa in più, rispetto ai teologi improvvisati su Facebook e Twitter, state pur certi che la sappiamo e siamo in grado di offrirvela, sempre gratis et amor Dei.

Firenze, 17 novembre 2022

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Seguite le dirette de L’Isola di Patmos sul canale “Jordanus” del Club Theologicum” condotte dal nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci

SEGUITE LE DIRETTE DE L’ISOLA DI PATMOS SUL CANALE JORDANUS DEL CLUB THEOLOGICUM CONDOTTE DAL NOSTRO REDATTORE DOMENICANO GABRIELE GIORDANO M. SCARDOCCI

I Padri de L’Isola di Patmos sono lieti di mettervi a disposizione delle dirette su importanti e interessanti temi di dottrina e di fede. Iscrivetevi numerosi e soprattutto partecipate, se veramente cercate ciò che a parole sui social media dite di cercare. 

— Le video-dirette de L’Isola di Patmos —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, padre redattore de L’Isola di Patmos

La principale lamentela: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …». Questo è ciò che leggiamo sui Social Media in un susseguirsi di lamentazioni senza fine.

A certi lamentatori possiamo dare anche parzialmente ragione, ma bisogna precisare: e quando i preti si danno da fare per offrirvi sostegno spirituale, catechesi e omelie, la reazione dei “lamentosi” quale è? Purtroppo i fatti dimostrano che invece di cogliere al volo certe opportunità, rimangono sui social media a lamentare: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …».

Padre Gabriele Giordano Maria Scardocci nostro redattore e teologo domenicano offre un prezioso servizio a tutti quelli che — perlomeno a parole — si dichiarano “orfani” delle buone catechesi, della parola di Dio e della sana e profonda predicazione. Intendete iscrivervi, collegarvi e seguire, oppure preferite rimanere sui social media a lamentare: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …».

Dai numeri, a volte soddisfacenti a volte impietosi, ma soprattutto reali, potremo capire quanto e in che misura certi “orfani” sono alla vera ricerca oppure se ciò che ricercano è solo pane, circo e tanto pettegolezzo sensazionalista, complottista e scandalista. Posto che la Parola di Dio non è né sensazionalista, né complottista, né scandalista. Ma soprattutto offre la verità del Mistero della Croce, non offre: Pane&Circo.

Per seguire la diretta potete cliccare sull’immagine sotto domani sera alle ore 21, dove i Padri de L’Isola di Patmos vi aspettano per parlarvi sul tema: «Il ritorno del Re»:

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Tutti gli aggiornamenti e gli avvisi sulle successive dirette potete trovarli sulla destra della home-page de L’Isola di Patmos sotto la voce «Le dirette di Padre Gabriele».

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Vi aspettiamo.

Dall’Isola di Patmos, 15 settembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Gesù Cristo era povero? Il problema di una male intesa «Chiesa povera per i poveri» e il grande problema del patrimonio immobiliare ecclesiastico

GESÙ CRISTO ERA POVERO? IL PROBLEMA DI UNA MALE INTESA «CHIESA POVERA PER I POVERI» E IL GRANDE PROBLEMA DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE ECCLESIASTICO

Chi per crassa ignoranza, chi per anticlericalismo becero, chi per ideologia o piacioneria clericale parla di un Gesù povero ridotto a un figlio dei fiori squattrinato, annuncia un falso Cristo mai esistito che non corrisponde alle cronache storiche narrate e trasmesse dagli Evangelisti.

— Attualità ecclesiale —

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I presbiteri partenopei Vincenzo Doriano De Luca (destra) direttore della rivista diocesana Januarius e Franco Cirino (sinistra) economo dell’Arcidiocesi di Napoli – cliccare sull’immagine per aprire il video

Alcuni Lettori hanno fatto notare che scrivo articoli «interessanti e chiari, ma troppo lunghi». Qualcuno ha precisato: «Nell’era dei social media gran parte delle persone non leggono oltre la decima riga». Ebbene vi dico che L’Isola di Patmos è un po’ un miracolo. Dall’ottobre del 2014 a oggi i visitatori sono sempre aumentati senza mai calare. Nel 2016 abbiamo dovuto acquistare un server-dedicato in grado di reggere oltre venti milioni di visite all’anno. Come spiega la nostra webmaster il successo non è dovuto ai numeri di visite ma al tempo medio di permanenza all’interno del sito, che è molto elevato. Pertanto, coloro che non vanno oltre le dieci righe, non costituisco il pubblico al quale i Padri de L’Isola di Patmos intendono rivolgersi.

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Adesso offrirò un lungo articolo a coloro che non intendono spiegare e risolvere temi complessi e articolati sul piano storico, ecclesiale, pastorale, economico e finanziario con tre righe “sparate” su Twitter mentre camminavano per strada o erano in fila alla cassa del supermarket nell’attesa di pagare.

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Nella puntata di Report del 7 novembre in onda su Rai2 è stata realizzata un’intervista a due presbiteri partenopei: Franco Cirino, economo dell’Arcidiocesi di Napoli e Vincenzo Doriano De Luca direttore della rivista diocesana Januarius. L’economo ha dimostrata una preparazione straordinaria sul piano ecclesiale-pastorale ed economico-finanziario. Vi invitiamo ad ascoltare questa intervista, è molto interessante e chiarificatrice per comprendere come funzioni realmente la non facile gestione del patrimonio ecclesiastico. 

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Tratterò questo tema su due diversi versanti illustrando prima, le attuali difficoltà di gestione del patrimonio ecclesiastico, poi il senso vero e autentico di «povertà» e di «Chiesa povera» secondo i Santi Vangeli. Quello della povertà della Chiesa è un concetto caro ai fricchettoni della Sinistra radical chic con i super-attici ai Parioli e le ville a Capalbio, amena località di extra lusso nella bassa Maremma toscana dove, quando si paventò di ospitare un po’ di migranti da distribuire per i vari Comuni d’Italia, i primi a sollevarsi furono proprio i piddini coi conti a sei zeri che in quella amena località esclusiva bivaccano, salvo rivendicare lo ius soli e i porti aperti allo sbarco di chiunque giunga sulle nostre coste, purché non giunga però davanti alle porte delle loro ville [cfr. QUI, QUI, QUI …].

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Per comprendere veramente bisogna fare un passo indietro, sempre rivolgendosi a coloro che desiderano sapere, quindi leggere, non a quelli che al decimo rigo saltano oltre. Partiamo dal 1850, anno in cui furono varate le Leggi Siccardi che sancivano la separazione tra Stato e Chiesa nel Regno di Sardegna, la numero 1013 del 9 aprile e la numero 1037 del 5 giugno, che soppressero i privilegi concessi in precedenza alla Chiesa, come già avvenuto in altri Paesi europei nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Francese. Leggi poi estese agli altri territori italiani conquistati dai piemontesi tra il 1848 e il 1861. Seguirono la Legge Rattazzi n. 878 del 29 maggio 1855 e le Leggi eversive n. 3036 del 7 luglio 1866 e n. 3848 del 15 agosto 1867. Dopo il 20 settembre 1870 che segnò la presa di Roma e la definitiva unità del Regno d’Italia, furono infine estese a tutto il territorio nazionale.

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Inutile a dirsi: il soggetto che passeggiando per strada o in fila alla cassa nell’attesa di pagare, invia twett per pontificare in tre righe sulle più complesse questioni storiche o storico-ecclesiali, del tipo «la Chiesa è ricca e possiede la metà degli immobili italiani» (!?), oppure «il Vaticano possiede i più grandi giacimenti d’oro del mondo» (!?), non può certo seguire questo nostro discorso, perché nel tempo che perderebbe a leggere una sola pagina, avrà già twittato perlomeno dieci sapienti messaggi all’incirca simili per spargere le sue perle di saggezza. E all’uscita dal supermarket, sempre impegnato tra un tweet e l’altro, camminando per strada non si renderà conto né si chiederà come mai certi stabili storici che una volta erano abbazie, certose, monasteri e istituti religiosi, oggi sono caserme, scuole, uffici pubblici. Semplice a spiegare: quelle strutture, tra il 1848 e il 1870 furono confiscate alla Chiesa, sbattuti fuori monaci, monache e preti, poi trasformate in caserme, ospedali, uffici pubblici. Molte piccole chiese di proprietà di istituti religiosi o confraternite, una volta requisite divennero magazzini, garage, officine, pezzi di abitazioni private. E qui è d’obbligo un inciso, uno dei tanti tra quelli che mai troverete sui libri di storia, perché il Risorgimento Italiano è tutt’oggi un mito costruito a tavolino dalla propaganda ideologica. L’opera di confisca per la destinazione di quegli stabili ad altro uso, costituì nel corso di tutto l’Ottocento italiano il più grande e immane scempio del patrimonio artistico nazionale. Presto detto: trasformare una certosa o un monastero del XII o XIII secolo, arricchita nel corso del tempo di opere d’arte, sculture, affreschi, marmi pregiati lavorati, per adibirla a caserma, comporta di necessità la irreparabile distruzione di un patrimonio d’arte. Lo avete trovato mai scritto sui libri di storia a uso scolare in cui si spiegano solo le indiscusse glorie del Risorgimento Italiano? In ogni caso, anche se sui libri non è scritto, l’opera di questi immani scempi è tutt’oggi visibile sotto i nostri occhi, a partire da Roma per seguire con tutte le altre grandi e piccole città italiane, basterebbe distogliere gli occhi dai social media e guardarsi attorno quando si cammina per le strade delle città italiane. Soprattutto, come cittadini, bisognerebbe essere al corrente, non altro per puro senso civico, che la gran parte delle chiese storiche e degli istituti religiosi che oggi vediamo, non sono di proprietà delle diocesi italiane, ma dello Stato. Per la loro gestione esiste anche un apposito ufficio gestito dal Ministero dell’Interno che si chiama FEC (Fondo Edifici di Culto). E qui andrebbe aperta una parentesi su un altro argomento che però non possiamo trattare in questa sede, per spiegare a certi laicisti che tuonano contro L’Otto per Mille alla Chiesa Cattolica che con questa contribuzione, chi veramente ci guadagna, non è la Chiesa ma lo Stato. Si provi a pensare che lo Stato debba gestire, conservare e tutelare certe grandi chiese e basiliche storiche di sua proprietà, restituite dopo la confisca alla Chiesa in comodato d’uso affinché qualcuno provvedesse alla loro tutela e conservazione. Stabili oggi custoditi da Congregazioni Religiose o dal Clero Secolare delle varie diocesi, che si avvalgono dell’aiuto di devoti fedeli cattolici che prestano servizio gratuito come volontari. Domanda: quanto costerebbe allo Stato dover conservare e custodire certi grandi, preziosi e importanti stabili storici di alto valore artistico? Di quanto personale stipendiato avrebbe bisogno, quanti addetti alle pulizie, quanti guardiani? Dunque, alla resa dei conti, sul tanto recriminato Otto per Mille, chi è che veramente ci guadagna? 

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Appena un ventennio dopo, a partire dal 1890, i governi del Regno d’Italia, per quanto ferocemente anticlericali, spedirono i loro funzionari con in mano le chiavi di molti istituti e chiese storiche a supplicare i vescovi diocesani, i monaci e le monache, i religiosi e le religiose alle quali erano stati confiscati pochi decenni prima, affinché se li riprendessero in … comodato d’uso gratuito (!?). Infatti, il buon Stato liberal-risorgimental-anticlericale, presto si trovò a fare i conti con un enorme patrimonio di immobili storico-artistici che non potevano essere trasformati tutti quanti in caserme, scuole, ospedali, uffici pubblici, sedi universitarie … Molte di queste chiese storiche ed ex istituti religiosi si trovavano in zone periferiche, alcune abbazie, certose, monasteri e conventi erano in zone isolate e difficilmente controllabili. Una volta requisiti e chiusi, prima questi furono saccheggiati, poi presero a versare in stato di abbandono. Ovunque, in particolare nel Meridione d’Italia, erano avvenute grandi razzie di opere d’arte. Fittissimo il commercio di ladri e mercanti d’arte con gli Stati Uniti d’America, che in quegli anni acquisirono la gran parte delle opere conservate tutt’oggi nei loro musei. Il tutto sempre a riprova delle grandi glorie storiche taciute del Risorgimento Italiano che deve rimanere mito, leggenda e ideologia.

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L’Ottocento italiano è stato anche il secolo dei grandi Santi della carità, educatori e pedagoghi, di cui sono emblema San Giovanni Bosco con la Congregazione dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Sempre nel Piemonte Maria Enrichetta Dominici dette vita col patrocinio del Marchese di Barolo alle Suore della Provvidenza, che prenderanno poi nome di Suore di Sant’Anna, impegnate nell’assistenza e nell’educazione delle orfanelle. Il romano San Vincenzo Pallotti fondò l’Apostolato Cattolico, dinanzi al quale tutti i nobili romani aprivano i portafogli, non altro per toglierselo di torno, tanto era insistente quando cercava fondi per le opere di carità a beneficio di orfani e anziani. San Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera della Divina Misericordia, si prese cura di bambini e anziani affetti da gravi disabilità fisiche. La fondazione di questi istituti e opere proseguì anche nel corso del Novecento con San Giovanni Calabria che fondò i Poveri Servi e Serve della Divina Provvidenza, al quale si deve la fondazione dell’Ospedale Sacro Cuore di Verona, oggi centro di eccellenza a livello europeo. E molti altri Santi fondatori e fondatrici.

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Tutte queste strutture dedite all’assistenza di orfani, bambini di famiglie povere, anziani ammalati privi di sostentamento e disabili, per seguire con tutta la rete di asili per l’infanzia e di scuole gestite da numerose congregazioni religiose, costituivano anzitutto un servizio non indifferente allo Stato, che requisì perlopiù solo gli istituti di vita contemplativa dopo averli dichiarati «parassitari». Ovviamente nessuno poteva spiegare al legislatore di allora ― forse a quello di oggi ancora di più ― che certe opere apostoliche di vita attiva erano sostenute dalla vita contemplativa dei monaci e delle monache che consumavano le loro esistenze in preghiera e penitenza nelle clausure e che costituivano il carburante per far funzionare i motori dei grandi Santi e delle grandi Sante della carità.

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Tra l’Ottocento e il Novecento, in un’Italia nella quale il tasso di natalità era ben altro e ben più alto, grazie alle donazioni di molti ricchi benefattori furono costruiti istituti enormi, alcuni erano vere e proprie cittadelle. Tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento furono costruite colonie marine e montane in grado di ospitare sino a 3.000 bambini. Strutture faraoniche erette in anni nei quali non tanto la costruzione, ma la manutenzione e la conservazione di certi edifici aveva tutt’altri costi. Numerosi anche gli istituti per l’infanzia abbandonata, i cosiddetti orfanotrofi. Altrettanto numerosi quelli in cui erano accolti e assistiti i bambini disabili. Tutto questo avveniva in anni nei quali non eravamo ancora civili. Quando infatti nel 1978 si ebbe la «grande conquista sociale» della legge sull’aborto legalizzato che dette vita a questo «grande e intangibile diritto civile» [cfr. Ivano Liguori, QUI], le madri potevano andare direttamente negli ospedali a comminare legalmente la pena di morte ai propri figli. E così, a poco a poco, gli orfanotrofi sono stati definitivamente chiusi, in parte per il calo delle natività e in parte per l’aborto legalizzato. Mentre i bimbi affetti da sindrome di Down o da altre forme di disabilità sono sempre più rari a vedersi, perché possono essere ammazzati prima di nascere, in questo nostro Paese che ripudia la guerra e la pena di morte a suon di arcobaleni, salvo però fare guerra alla vita e comminare la pena di morte ai propri figli, a quelli non voluti e a quelli ritenuti non fisicamente perfetti. 

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Grazie all’impulso dato dal Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa aveva già vissuto analoga stagione felice tra fine Cinquecento e inizi Seicento con la nascita di numerosi istituti di cosiddetta vita apostolica. Risale a quell’epoca la nascita di tutte quelle congregazioni religiose maschili e femminili ― poi divenute numerose nei successivi tre secoli ―, impegnate nell’educazione, nell’assistenza dell’infanzia, nella cura degli anziani, degli ammalati e dei disabili. Nuove forme di vita religiosa che andavano dall’Ordine della Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio di Loyola all’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli di San Giovanni di Dio, dalla Congregazione della Compagnia dell’Oratorio di San Filippo Neri alle Dame ospedaliere di San Vicenzo de’ Paoli, le Figlie della Carità.

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Al calo delle nascite si unisce quello delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa. Molte Congregazioni di suore, sino a mezzo secolo fa fiorenti, oggi sono sempre più ridotte in numero e composte da religiose in età sempre più elevata. Le suore stanno ormai scomparendo da molte medie e piccole diocesi italiane, con notevoli riduzioni di numeri anche in quelle grandi e la conseguente progressiva chiusura di asili, scuole e istituti. Presto detto: come impiegare certi stabili storici di pregio nei centri delle città, oppure in luoghi singolari o strategici, per esempio di fronte al mare o in zone turistiche di montagna, o in zone collinari e di campagna divenute ai nostri giorni particolarmente esclusive? Sicuramente vendendole, oppure concedendole in locazione a società alberghiere. Monetizzare o rendere in qualche modo redditizie queste strutture non più utilizzabili agli scopi per i quali furono costruite, vuol dire ricavare il danaro necessario per sostenere altri generi di opere caritative o assistenziali di tutt’altre dimensioni, più necessarie e adeguate alle esigenze della società contemporanea, che di certo non è più quella degli anni Venti o Trenta del Novecento.

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Ci vuole tanto a capire questo, anziché urlare alle «vergognose speculazioni immobiliari della Chiesa», o anziché lanciare in un servizio sul settimanale L’Espresso la notizia totalmente falsa sulla Chiesa che a dire di certi giornalisti di pseudo-inchiesta non pagherebbe le tasse sugli immobili? Falso. La Chiesa paga da sempre le tasse sugli immobili dalle quali sono esentati solo gli edifici di culto e quelli delle istituzioni assistenziali e caritative [cfr. vedere in Avvenire, QUI]. O ignorano forse, i firmatari di queste periodiche inchieste pubblicate una tantum su L’Espresso, che anche i circoli dell’Arcigay non pagano le tasse perché riconosciuti come associazioni di pubblica utilità sociale in quanto preposte a diffondere il gender e le istanze delle lobby LGBT? Se certe Congregazioni di suore non avessero trasformato alcuni loro istituti non più utilizzabili in hotel più o meno di lusso, da dove tirerebbero fuori i soldi per sostenere altri generi di attività caritative e assistenziali in Italia o in vari Paesi poveri in giro per il mondo? Ai redattori de L’Espresso, che nel corso degli anni ci hanno bombardati con articoli rasenti la ferocia anticlericale, oltre alla gratuita menzogna, comprendere questo, è proprio così difficile? 

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Il tema trattato nella puntata di Report, resa ottima dai nostri confratelli partenopei Franco Cirino e Vincenzo Doriano De Luca, oltre a un meraviglioso Cardinale Crescenzio Sepe che incalzato in modo insistente da un pruriginoso giornalista lo ha mandato bellamente a farsi fottere [cfr. QUI] ― e ha fatto benissimo a farlo ― , verteva in parte sul numero di chiese storiche presenti nel centro storico di Napoli, circa mille, di cui solo il 15% di proprietà dell’Arcidiocesi di Napoli, in parte sul caso della Cittadella Apostolica fondata nel dopoguerra dal presbitero Gaetano Cascella con le donazioni di vari benefattori e lasciata in eredità all’Arcidiocesi di Napoli nel 1979. Una enorme struttura caritativa eretta a Pozzuoli di fronte al golfo e mutata in struttura alberghiera. Presto detto: quanto basta a far urlare i soliti noti assieme al coro dei disinformati totali contro la sporca Chiesa speculatrice: «La Chiesa deve essere povera perché Gesù era povero!».

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E adesso passiamo alla seconda parte: siamo sicuri che «Gesù era povero», come tuonano quelli che in chiesa non ci mettono piede neppure per Pasqua e per Natale e che quando per dovere sociale devono partecipare a qualche matrimonio o funerale, durante le liturgie non sanno che cosa rispondere, né quando sedere o alzarsi in piedi? E alle parole «Padre nostro che sei nei cieli …», scena muta totale della quasi totalità di certe assemblee convenute per dovere verso il caro estinto e i suoi familiari, mentre il sacerdote celebrante si risponde da sé stesso, o se è presente un ministrante o il sacrestano, a quel punto le loro saranno le sole voci a recitare assieme a lui «… sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno …». Eppure, sono proprio queste persone che non sanno distinguere il libro dei Santi Vangeli da un manuale di ricette per la cucina, ad alzare il dito ― ovviamente soprattutto sui social media ― per tuonare e ricordare in tono minaccioso: «Gesù era povero!».

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Mi dispiace disilludere questi assetati di povertà sulla pelle degli altri e della Chiesa in particolare, salvo cercare ed esigere per sé stessi tutti i lussi più costosi e persino inutili. Gesù non era affatto povero. Sia il Divino Maestro sia i suoi Apostoli avevano di che mangiare e vivere, pur avendo lasciato lavoro e case. Simone detto Pietro era quello che oggi potremmo definire un benestante imprenditore della pesca. Come lo erano Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo, sicuramente molto più benestante dello stesso Simone detto Pietro, basterebbe uscire dal club degli ignoranti dei social media e leggere le cronache dei Santi Vangeli:

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«Passando lungo il mare della Galilea vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» [Mc 1, 16-20].

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Capisco che oggi siamo all’analfabetismo sia funzionale che digitale, al punto da non capire persino ciò ch’è impresso nelle Sacre Scritture. Cerchiamo allora di capire questo passo. Anzitutto, i personaggi di questo racconto sulla chiamata degli Apostoli, possedevano non solo “una barca”, ma “delle barche”, che all’epoca non era poca cosa, specie in quella zona considerata una delle province più povere dell’Impero Romano. Esattamente come oggi è cosa del tutto diversa essere un camionista proprietario di un camion per grandi trasporti il cui costo può giungere sino a un milione di euro, ed essere un camionista che guida come dipendente stipendiato un camion per grandi trasporti di proprietà altrui. La stessa cosa si applica tutt’oggi nella pesca, sia ai pescatori sia ai pescherecci, che non sempre sono di proprietà di chi si dedica alla pesca. Gli apostoli erano degli imprenditori proprietari delle loro barche.

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Il Santo Vangelo qui richiamato specifica nel racconto che il padre di Giacomo e Giovanni avevano alle proprie dipendenze anche degli operai salariati: «Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» [Mc 1, 16-20].

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Il giovane Giovanni e suo fratello Giacomo provenivano quindi da una famiglia d’imprenditori benestanti, tanto che la madre, in un impeto di ingenuità nato dalla sua non comprensione della missione del Verbo di Dio, chiese a Cristo Signore: «Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno» [Mt 20, 21]. Ci si domandi chi, se non la madre di due figli appartenenti a quella che oggi chiameremmo borghesia mercantile, avrebbe osato avanzare una richiesta del genere a un Maestro di simile prestigio? Poteva farlo solo una donna appartenente a un preciso ceto sociale che desiderava per i propri rampolli un dovuto posto di riguardo.

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I dodici apostoli ricevevano aiuti dai benefattori e quando giungevano ospiti nelle case si provvedeva offrendo a loro il meglio che si potesse offrire, avevano devote donne che si occupavano delle loro cure e delle loro necessità.

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Il Beato Patriarca Giuseppe non era un operaio salariato ma un imprenditore che svolgeva un mestiere signorile, quello di ebanista; professione di riguardo e molto redditizia. Pertanto, chiunque dica «San Giuseppe operaio», o chiunque affermi che «San Giuseppe era un operaio», mistifica la figura del Beato sposo della Vergine Maria, perché Giuseppe non era un operaio come oggi lo si intende, perché era sicuramente lui che presso la sua azienda dava lavoro a degli operai salariati.

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La Beata Vergine Maria proveniva da una famiglia più benestante ancora di quella di Giuseppe, lo si evince sempre dai Santi Vangeli, per esempio nel racconto della sua visita alla cugina Elisabetta, madre di Giovanni detto il Battista e moglie di Zaccaria, che era un membro dell’antica casta sacerdotale e persona molto colta e abbiente. Non solo Zaccaria era un sacerdote, perché come tale apparteneva a un livello molto alto: era membro della classe di Abìa, che rappresentava l’VIII° delle XXIV classi in cui erano ripartiti i sacerdoti in servizio nel Tempio di Gerusalemme.

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All’epoca la cultura era strettamente legata al benessere economico. Anche in questo caso i Santi Vangeli ci dettagliano quale fosse il livello culturale di Zaccaria narrando di come, non avendo in quel momento l’uso della parola, ad esso tolta dall’Arcangelo Gabriele per non avere creduto all’annuncio che sua moglie avrebbe dato alla luce un figlio in età avanzata [cfr. Lc 1, 5-25], chiese una tavoletta per confermare il proprio assenso al nome che Elisabetta intendeva dare al nascituro, scrivendo: «Giovanni è il suo nome». [Lc 1, 63]. Dinanzi a questi racconti, gli storici e gli antropologi, ma soprattutto i teologi, dovrebbero spiegare quante all’epoca fossero le persone nell’antica Giudea che sapevano leggere e persino scrivere. Non per nulla, quando i giovani maschi ebrei celebravano il passaggio nell’età adulta attraverso il bar mtzvà e dovevano leggere e commentare pubblicamente un passo della Torah, come fece Gesù all’età di dodici anni durante l’episodio narrato dai Santi Vangeli come la sua disputa con i Dottori del Tempio [cfr. Lc 2, 41-50], per la gran parte erano dolori, perché la maggioranza degli adolescenti ebrei non sapeva leggere né scrivere. Così imparavano a memoria un versetto e poi, con il Sefer Torah aperto [il rotolo della Santa Legge], lo recitavano. Un po’ come accade oggi alla gran parte degli ebrei più o meno osservanti, molti dei quali non conosce l’ebraico, diversi riescono a leggerlo, ma non ne capiscono il significato. E così il rabbino provvede a scrivere un versetto traslitterato dall’ebraico, lo mette sul Sefer Torah e l’adolescente lo legge, qualche volta senza neppure sapere che cosa significa.

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Ma ecco la pronta replica di quanti vogliono un Gesù a tutti i costi povero e di rigore figlio di poveracci: «Gesù è nato in una povera stalla». Anche in questo caso le cose stanno però in modo diverso, narra infatti il Beato Evangelista Luca:

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«[…] al tempo in cui un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.  Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazareth, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» [Lc 2, 1-20]. 

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La realtà storica è che il potere allora vigente aveva comandato un censimento per ragioni amministrative, obbligando così Giuseppe e Maria, allora prossima al parto, a recarsi presso la città di Davide, Betlemme. E qui è interessante notare che Betlemme, in ebraico, significa “Casa del Pane”. E proprio in quella Città, non certo per puro caso, nacque colui che poi diverrà il Pane Vivo disceso dal cielo [cfr. Gv 6, 35-59], che non è «come quello che mangiarono i padri vostri e morirono» perché «chi mangia questo pane vivrà in eterno» [Gv. 6, 58].

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Dimenticando tutte le tenere letture con le quali la pietà popolare ha colorato il testo del Vangelo lucano, esso narra che la nascita di Gesù avviene in uno spazio che si poteva trovare nelle abitazioni del tempo, quelle scavate all’interno, presumibilmente una stanza scavata nella roccia. Come quel genere di abitazioni che tutt’oggi sono visibili in certi siti archeologici, quelli ubicati in Sicilia presso la Necropoli di Pantalica nel siracusano [cfr. QUI], o nella Basilicata presso i cosiddetti Sassi di Matera [cfr. QUI], o nella bassa Maremma toscana nella Città di Pitigliano scavata nel tufo sul confine tra Toscana e Lazio [cfr. QUI]. 

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Nei Vangeli non c’è alcun riferimento al bue, all’asino e alla presenza di animali vari attorno alla Beata Vergine Maria. Soprattutto, questa nascita in un luogo non previsto, non è avvenuta perché Giuseppe era un sottoproletario squattrinato, ma perché ― come narrano i Vangeli ― sia per il censimento, sia per il grande afflusso di pellegrini a Gerusalemme, non c’era proprio nemmeno un buco libero.

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Faccio uso di un esempio che mi ha sempre fatto sorridere: la mamma del mio allievo e collaboratore, oggi presidente delle nostre Edizioni, Jorge Facio Lince, stava per partorirlo mentre si trovava all’interno di un taxi. Prontamente il tassista dirottò la corsa verso l’ospedale. Nessuno avrebbe però mai sostenuto, nel caso in cui quest’altra Maria ― Maria Ines, la mamma di Jorge ―, lo avesse partorito in un taxi, che la poverina era così povera e squattrinata da non potersi neppure permettere di partorire il figlio in una clinica di ostetricia-ginecologia.

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Gesù Cristo era povero allo stesso modo in cui è nato con la pelle bianchissima, i capelli biondi e gli occhi azzurri, in una città della Svezia ― come ovviamente leggiamo sui Santi Vangeli ― chiamata Betlemme, a poche decine di chilometri dalla capitale di Stoccolma. Tra i vari episodi che danno la corretta e reale percezione di quanto il Beato Giuseppe e la Vergine Maria non fossero dei poveri sottoproletari spiantati, è di certo esaustivo il racconto della strage degli innocenti. Il temibile Erode, avendo saputo che dei maghi astronomi si erano recati nella Giudea dove sarebbe nato un re, dopo avere tentato di trarli in inganno ordinò successivamente di far uccidere tutti i neonati maschi dai due anni in giù. Il Beato Giuseppe, avvisato in sogno da un Angelo, prende il bambino e la madre e fugge in Egitto, dove la famiglia rimase sino alla morte di Erode [cfr. Mt 2, 1-16]. Riguardo questo racconto bisogna precisare che sulla scia del protestante Rudolph Bultmann, maestro della demitologizzazione dei Santi Vangeli ― al quale molti nostri teologi ed esegeti si rifanno in modo impudente, trasmettendone teorie e insegnamenti direttamente dentro le nostre odierne università ecclesiastiche ―, molti sono gli studiosi che mettono in dubbio la storicità della fuga in Egitto. A dar loro man forte sono intervenuti certi nostri biblisti sostenendo che la fuga in Egitto del racconto del Beato Evangelista Matteo sarebbe stata costruita per dare un fondamento teologico a questo Vangelo diretto principalmente agli ebrei, ai quali era così esposto che Gesù Cristo era il nuovo Mosè e che attraverso di lui si era quindi realizzata la profezia del Profeta Osea: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» [Os 11,1]. Secondo altri il racconto del Beato Evangelista Matteo sarebbe null’altro che un plagio della Aggadah ebraica che narra come il Patriarca Mosè si fosse salvato dalla morte, dopo che il faraone aveva decretata la soppressione dei bambini. In verità, le similitudini tra il Patriarca Mosè e Cristo Dio, non rappresentano affatto un elemento solido per negare la storicità di quanto narrato dal Beato Evangelista Matteo.

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Dopo questa doverosa divagazione torniamo al problema, che è il seguente: come potevano permettersi due poveracci di trasferirsi a tempo indeterminato in Egitto? I cultori della odierna poverolatria gesuana, si sono mai domandati quanto costasse, all’epoca, soggiornare in Egitto? Ecco, facendo sia un parallelo sia una conversione socio-finanziaria, possiamo sostenere che all’epoca, soggiornare in Egitto, costava quanto oggi costerebbe soggiornare a Dubai, notoria meta dei più grandi morti di fame di questo mondo.

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Più volte Gesù venne onorato con omaggi preziosi, come il costoso olio di nardo col quale Maria gli cosparse i piedi a Betania [cfr. Mc 14, 3-9]. Tra gli spettatori presenti al fatto c’era Giuda Iscariota, che criticò con parole dure quel gesto di amorevole devozione lamentando cotanto spreco. Quell’olio era infatti molto prezioso e costoso, valeva trecento danari, come dettaglia lo stesso racconto evangelico. E qui, per spiegare a che cosa corrispondesse un simile importo nella Giudea dell’epoca, basta dire che un danaro era la paga giornaliera di un soldato romano e che quell’olio, più costoso dell’oro, corrispondeva a quasi un anno di paga. Dinanzi all’episodio di Giuda che afferma che quel danaro si sarebbe potuto dare ai poveri, l’Evangelista Giovanni ci narra che l’Iscariota non aveva alcuna preoccupazione per i poveri, ma che era un ladro. La comunità degli apostoli aveva infatti una cassa dalla quale egli rubava denaro [cfr. Gv 12, 1-8]. Un giudizio duro, quello racchiuso in questo racconto col quale Giovanni condanna Giuda, non condanna la preoccupazione per i poveri, ma quella ipocrisia che ieri come oggi si serve all’occorrenza dei poveri e dinanzi alla quale il Signore risponde a Giuda fugando ogni dubbio per il presente e per il futuro: «I poveri li avrete sempre tra di voi, ma non sempre avrete me» [Gv. 12, 1-11].

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Gesù vestiva pure elegante, diremmo oggi d’alta sartoria. Infatti indossava una tunica preziosa, tessuta per intero e senza cuciture, tanto che sotto la croce i soldati non la fecero a pezzi com’eran soliti fare con gli stracci dei poveretti, coi quali ripulivano poi le lance e le spade e lustravano le proprie armature, ma se la giocarono a dadi. I Vangeli sinottici si limitano a narrare che i soldati tirarono a sorte la sua veste [cfr. Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34], mentre il Beato Evangelista Giovanni indugia a spiegare il pregio e il valore di quel capo di vestiario: «Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”» [Gv 19, 23-24]. Il tutto perché un pezzo di tale pregio e valore, non poteva certo essere rovinato.

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Tra i dodici apostoli — come dicevamo poc’anzi — c’era anche un cassiere, una specie di antesignano del presidente della APSA (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Questo primitivo amministratore non era però un galantuomo, si chiamava Giuda Iscariota ed era un soggetto dal quale guardarsi bene, non tanto quando parlava dei poveri, fingendo che gli stessero tanto a cuore; da lui bisognava guardarsi soprattutto quando dava i baci [cfr. Mt 26,47-56; Mc 14,43-52; Lc 22,47-53].

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Il corpo del Signore morto fu avvolto in un lino prezioso e deposto in un pregevole sepolcro nuovo fornito da un uomo ricco divenuto seguace del Cristo: Giuseppe di Arimatea [cfr. Mt. 27, 57-60]. Quindi Gesù, per rendere l’idea, non fu sepolto in una fossa comune o in un modesto loculo a spese del comune di Gerusalemme, ma in quella che oggi sarebbe in tutto e per tutto l’elegante cappella sepolcrale di una famiglia molto altolocata.

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Una spiegazione a parte meriterebbe la stessa pena della crocifissione e le modalità adottate. Accadeva infatti di frequente, per non dire di prassi, che i carnefici, per alleviare le sofferenze del condannato e affrettarne la morte spezzassero loro le gambe e le braccia per accelerarne il decesso che in tal modo avveniva per soffocamento. Una volta deposti i cadaveri dalle croci i corpi seguivano questa sorte: o venivano presi e gettati in una grande fossa comune, oppure erano fatti in pezzi a colpi di scure.

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Come mai, il Santo corpo di Cristo Signore non seguì questa sorte, o meglio questa prassi, dopo la sua crocifissione sul Golgota? Lo stesso nome di quel lugubre colle, racchiude sia la sua storia sia il suo significato. Parola di derivazione aramaica, il luogo è chiamato in greco ολγοϑᾶ e in latino Golgotha, alla lettera significa “luogo del cranio”, o del “teschio”, per la presenza di crani ossificati e di ossa sparse per il terreno. I cadaveri erano infatti gettati, interi o a pezzi, in fosse non sempre profonde, con la conseguenza che i diversi animali presenti sul territorio spesso dissotterravano e poi seminavano in giro i resti dei corpi umani. Ma questa sorte, che era l’ordinaria prassi, non toccò invece a Cristo Signore, il cui corpo fu deposto dalla croce, raccolto, lavato, unto con oli ed essenze preziose, infine avvolto in altrettanto prezioso sudario. Evidentemente Gesù di Nazareth, per quanto condannato a quell’orrenda pena, non era propriamente uno dei vari ordinari condannati, quindi il suo corpo e la cura dello stesso seguì tutt’altre sorti. E queste sorti diverse denotano che non era propriamente un poveraccio, né un ordinario condannato circondato da altrettanti poveracci, come i numerosi condannati per i quali gli stessi familiari non osavano neppure andare a richiedere i corpi per una degna sepoltura, anche perché avrebbero dovuto dare una lauta mancia ai soldati romani. Alcuni poveri familiari dei morti crocifissi tentavano semmai di rubare i loro corpi di notte, col rischio di finire sottoposti a dure pene se scoperti. Detto questo non voglio avanzare ipotesi che potrebbero suscitare in alcuni persino scandalo. Però, poste queste premesse, avanzo una semplice domanda dubitativa: non è che Giuseppe di Arimatea, indicato dagli stessi Santi Vangeli come «ricco» [cfr. Mt 27, 57-61] recandosi in pieno giorno a richiedere il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, dai soldati romani non si presentò propriamente a mani vuote per prendere il corpo e porgendo loro tante grazie per la sensibilità e la comprensione?

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Pochi giorni dopo, dinanzi alla pietra rovesciata del sepolcro del Cristo Risorto, i Capi del Popolo invitarono i soldati romani posti di guardia della tomba a mentire. Per indurli a ciò dettero ad essi una buona somma di danaro [cfr. Mt 28, 12-14]. Tema questo a cui ho dedicata una video-lezione alla quale rimando [vedere video QUI]. Come mai, i Capi del Popolo, non dissero semplicemente ai romani: “Cari Soldati, siate gentili e fateci questo favore, dite che …”? Non fecero nulla di questo per il semplice fatto che nell’antica Giudea dove tutto si vendeva, si comprava e si commerciava, i romani che si erano perfettamente ambientati e integrati alla cultura e ai modi di fare del luogo, gratis non facevano niente, neanche uccidere velocemente, perché persino un “misericordioso” colpo di lancia per alleviare le sofferenze di un condannato aveva un prezzo da pagare.

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Il Santo Vangelo della Natività e quello della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo non narrano affatto la nascita di un poveraccio né la morte e la sepoltura di un altrettanto poveraccio. E tutti noi, sia devoti fedeli, sia persone anche non fedeli e non credenti, sulle basi di quella che si chiama onestà intellettuale dobbiamo stare ai racconti storici dei Santi Vangeli, che nulla hanno da spartire con le esegesi ideologiche più o meno ardite. 

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Se non entriamo in questo stile di pensiero non possiamo capire certi passi dei Santi Vangeli, ma possiamo solo stravolgerli, di conseguenza sporcarli e falsarli. Quando infatti nel Discorso della Montagna, Cristo Signore enuncia le Beatitudini [cfr. Mt 5, 1-16], il suo riferimento ai poveri non è un secco e lapidario «Beati i poveri», come mormorava durante l’ultimo conclave il Cardinale Claudio Hummes, o come da nove anni a questa parte si sente purtroppo enunciare dai pulpiti sempre più poveri di fede delle nostre chiese, con sproloqui omiletici incentrati in modo ossessivo su immigrati e profughi. Il Verbo di Dio non ha mai pronunciato questa frase lapidaria, ma ha enunciato una espressione molto più articolata: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Egli non fa alcun riferimento alla povertà materiale, tanto meno indicandola come virtù, posto che la povertà, la miseria, non sono virtù cardinali, sono disgrazie dalle quali uscire e aiutare gli altri a uscire. Noi siamo invitati a essere poveri «in spirito», ossia a entrare in una precisa disposizione interiore. Essere interiormente poveri vuol dire infatti essere anzitutto coscienti dei nostri limiti e delle nostre miserie di uomini nati con la corruzione del peccato originale. Essere poveri in spirito vuol dire riconoscere la nostra libera e vitale esigenza di dipendere dalla grazia di Dio Padre. E il modello per antonomasia di quella povertà sinonimo di umiltà e donazione incondizionata d’amore è Cristo Dio che, come ci istruisce il Beato Apostolo Paolo, pur essendo ricco si è fatto povero per noi:

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«Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» [Fil 2, 6-11].

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Nei Santi Vangeli il Signore non ci dice “dovete essere poveri”, tutt’altro: ci esorta dicendo in modo chiaro «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» [cfr. Lc 12, 13-21]. L’intimo senso delle parole del Signore è: non affannarti per niente, perché vale sì la pena affannarsi, ma è bene affannarsi per quel tutto inteso come cristocentrismo cosmico, per l’essere presente proiettato verso un divenire futuro eterno, non certo per il nulla.

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I beni materiali sono necessari e possono essere molto utili per trasformarli in vario modo in un bene collettivo. Investire sugli studi, per esempio, o in certi studi in modo particolare, è molto costoso, ma grazie all’impiego di importanti somme di danaro alcuni uomini di talento sono divenuti dei chirurghi che hanno poi inventato nuove tecniche operatorie, altri degli scienziati che hanno scoperto nuove molecole o creato nuovi vaccini. E tutto questo è stato possibile tramite quello strumento chiamato danaro, attraverso il quale — dicono taluni — si muove il mondo. Ammettiamo anche che il danaro muova il mondo, l’importante è che il suo movimento non renda l’uomo schiavo intrappolato e incapace a vedere al di là della materia, cosa inaccettabile per noi cristiani che nella professione di fede proclamiamo il nostro credo trinitario nell’eternità: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

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Nelle pagine dei Santi Vangeli, più che l’invito a una surreale povertà, o peggio a una povertà ideologica, il Signore invita a fare un uso sano e generoso delle ricchezze, usandole per il migliore sviluppo di noi stessi e per il bene degli altri, per esempio attraverso quei meccanismi di flusso di danaro che creano posti di lavoro e benessere collettivo. Tutto questo con buona pace dei grandi squali del peggiore capitalismo selvaggio liberalista, i quali affermano che «la Chiesa deve essere povera», mentre il povero africano extracomunitario gli serve un Cuba libre sul bordo della loro piscina in memoria di Fidel Castro, nel dolce ricordo di Ernesto Guevara detto El Che, anche noto come El Cerdo, ossia il Maiale, tanto era notoriamente sporco sia fuori sia dentro. In caso contrario, a chi animato da egoismo pensa solo a riempire i propri granai per poi dire a se stesso: «Riposati, mangia, bevi e divertiti e datti alla gioia» [Lc 12, 19]. Il Signore ricorda: «Attento, tu che accumuli tesori solo per te stesso e non ti preoccupi di arricchirti al cospetto di Dio» [Lc 12, 21].

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Ricchezza e benessere non sono male, tutt’altro, possono essere fonti di gran bene e come tali servire per creare ricchezza e benessere superiore. I mezzi materiali, a partire dal danaro, sono strumenti da sempre utili, anzi indispensabili per l’annuncio stesso della Parola di Dio e per l’evangelizzazione. Gli stessi Dodici, che lasciarono famiglia, casa e lavoro per dedicarsi all’apostolato, avevano mezzi di sostentamento. La loro missione apostolica era sostenuta da fedeli benefattori e da vedove molto benestanti. Facciamo dunque sì che la ricchezza possa veramente produrre vera ricchezza, per noi stessi e per il bene degli altri, affinché tutto quanto non sia soltanto «vanità di vanità», come ammonisce Qoelet aprendo il proprio discorso con una invettiva contro la vanità [cfr. Qo 1,3].

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Non dovremmo desiderare né pregare affinché si realizzi una «Chiesa povera per i poveri» [cfr. QUI]. La Chiesa è di tutti, dei poveri e dei ricchi e tutti sono chiamati alla salvezza. Anche perché non è scritto in nessuna pagina dei Santi Vangeli che povero è uguale a buono e che ricco è uguale a cattivo. Ci sono poveri dotati di una cattiveria e di una malvagità spaventosa, come ci sono ricchi che vivono con grande rispetto per il prossimo, soprattutto per i meno abbienti. E spesso solo dopo la morte di diversi di costoro si è venuto a sapere quanta beneficienza hanno fatto e quante famiglie hanno aiutato nel totale nascondimento. Così come ci sono poveri capaci a privarsi del necessario per rendere gloria a Dio, si pensi al racconto evangelico della povera vedova che getta nel tesoro del tempio le due uniche monete che possedeva [cfr. Mt 12, 41-44]. Per questo ho sempre pregato e seguiterò a pregare non per una ideologica «Chiesa povera per i poveri», ma per una Chiesa di uomini e donne ricchi di fede, lasciando ad altri la suprema ideologia del povero, che non ha mai costituito né una verità né tanto meno un dogma della santa fede cattolica. Posto peraltro che il primo a non essere nato da due poveri, a non avere vissuto da povero, a non avere mangiato da povero, a non avere vestito da povero, a non essere stato infine neppure sepolto da povero, è stato proprio Nostro Signore Gesù Cristo. E chi vi dice il contrario vi parla di un Cristo del tutto diverso da quello descritto nei Santi Vangeli, quindi vi annuncia un Cristo storico falso, un Cristo che non è mai esistito e che non poteva neppure esistere. Pertanto, chi per ignoranza dovuta alla totale mancanza di conoscenza dei Santi Vangeli, chi per crassa ignoranza, chi per anticlericalismo becero, chi per ideologia o piacioneria clericale parla di un Gesù povero ridotto a un figlio dei fiori squattrinato, annuncia un falso Cristo mai esistito che non corrisponde alle cronache storiche narrate e trasmesse dagli Evangelisti.

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Cristo è via, verità e vita [Cfr. Gv 14, 6], lo è nella sua assolutezza e totalità. Cristo non può essere ridotto a un pretesto per legittimare la nostra via e le nostre opinabili verità, conducendo infine il gregge a noi affidato da pascere dal Divino Pastore verso una via diversa da quella donata e offerta dal Datore Supremo della vita. Perché in tal caso incomberà su di noi il grido:

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«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo». Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: «Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una» [Ger 23, 1-4].

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E su di noi che le pecore le abbiamo disperse, perché impegnati a imporre le ideologie del nostro “io” anziché le verità di Dio, incomberà come sul «servo fannullone» la condanna, quindi saremo «gettati fuori nelle tenebre, là dove sarà pianto e stridore di denti» [Mt 25, 30].

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Sia per evangelizzare sia per aiutare i poveri la Chiesa ha bisogno dei ricchi, molti dei quali sono stati spesso generosi nella stessa misura in cui hanno percorso in lungo e in largo tutti i peggiori peccati capitali. Senza i soldi dei ricchi la Chiesa non avrebbe mai potuto aiutare i poveri. È per questo che la Chiesa ha accumulato dei beni, cercando nel tempo di aumentarli e di metterli a frutto facendoli rendere. Con buona pace di quelli che potremmo definire i cosiddetti “benefattori immobiliari” che tuonano: «La Chiesa deve vendere i suoi beni e darli ai poveri». Sarebbe una bella idea. Però, viaggiando un giorno per la Sicilia sud orientale e parlando con un saggio contadino che allevava mucche ― e che per inciso guadagnava in una settimana quello che un alto funzionario di banca guadagnava in un mese ―, ho capito dalle sue acute parole che fare una cosa simile sarebbe parecchio dannoso, anzitutto proprio per i poveri. Se infatti prendiamo una mucca e la macelliamo ― disse il saggio contadino ―, dando per una settimana da mangiare le carni arrostite ai poveri, quando poi i poveri verranno a chiedere il latte, noi dovremo rispondere che il latte non c’è perché la mucca se la sono mangiata. Però, macellandola e offrendola in cibo, avremmo compiuto un gesto di straordinaria “generosità” e di “donazione assoluta”. Uno di quei gesti che tanto piacciono ai fricchettoni delle sinistre radical chic. Quindi potremmo mandare i poveri a bussare alle porte dei loro super-attici ai Parioli, o a quelle delle loro ville di Capalbio, dove volendo si possono trovare persino 24.000 euro dentro la cuccia del cane, come accadde al Senatore Monica Cirinnà. Prontamente difesa dal Gruppo Editoriale La Repubblica-L’Espresso [cfr. QUI] che con tanto di decreto di archiviazione del competente tribunale di Grosseto spiega quanto l’interessata fosse estranea. Lo stesso settimanale L’Espresso che nel corso degli anni ha trattato in più servizi la Chiesa Cattolica come una via di mezzo tra una mafia e una associazione a delinquere [cfr. QUI, QUI, QUI, ecc…]. E quando le loro inchieste sono risultate fasulle e i dati falsi o falsati, nessuno ha mai spiegato quanto fossimo estranei a certe accuse, perché non siamo membri della sinistra radical chic e perché non ci chiamiamo Monica Cirinnà. Ecco perché le cucce della Chiesa per L’Espresso puzzano sempre a priori, anche quando odorano di lavanda e zagara e non contengono danaro di misteriosa provenienza lasciato in custodia al cane.

dall’Isola di Patmos, 15 novembre

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