Et adventum salvatoris nostri Iesu Christi

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

ET ADVENTUM SALVATORIS NOSTRI IESU CHRISTI

La prima domenica di Avvento è la porta d’ingresso di un nuovo anno liturgico, stavolta designato con la lettera «C», nel quale i brani evangelici della domenica saranno tratti dal Vangelo di Luca …

 

 

 

 

 

 

 

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La prima domenica di Avvento è la porta d’ingresso di un nuovo anno liturgico, stavolta designato con la lettera «C», nel quale i brani evangelici della domenica saranno tratti dal Vangelo di Luca.

Questo scritto costituisce la prima parte di un’unica opera, la seconda della quale sono gli Atti degli Apostoli. Costruendo questo complesso letterario Luca ha voluto mostrare che la vita della Chiesa è radicata in Cristo e trova in lui il suo centro di gravità. Non a caso gli Atti iniziano riassumendo così il terzo Vangelo:

«Nel primo racconto, o Teofilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito santo» (At 1,1-2).

E tra «ciò che Gesù fece e insegnò» vi è il discorso escatologico, quello sulle cose ultime, da cui è tratta la pericope di questa prima domenica di Avvento. Leggiamola:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Lc 21,25-28.34-36).

Il capitolo 21 del Vangelo lucano, costruito attorno al discorso escatologico del capitolo 13 di Marco, è un esempio di quel genere letterario presente anche in altri scritti del Nuovo Testamento e in particolare nell’ultimo libro del canone cristiano: l’Apocalisse. È una modalità di presentare la realtà che non ci deve spaventare, ma nemmeno distoglierci dal messaggio che porta e a volte cela. Per trovare un paragone musicale, è come il Dies irae della Messa da Requiem di Verdi. Dapprima intervengono tutti gli archi ed emergono le percussioni, tamburi e grancasse. Poi cessano improvvisamente il suono ed ecco, finalmente, il senso di quanto è stato eseguito:

«Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Lc 21,36).

Tutto questo movimento, nel brano odierno, prende avvio da un apparentemente innocuo apprezzamento fatto da alcuni discepoli, al v. 5: «Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, [Gesù] disse:

«Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta».

Così Gesù anziché sintonizzarsi sulla questione estetica della bellezza del tempio inizia un discorso escatologico sulla rovina di esso e di Gerusalemme, sulle catastrofi cosmiche e sul ritorno del Figlio dell’Uomo che copre l’intero capitolo fino al versetto sulla vigilanza cui abbiamo accennato, che lo chiude.

In tutto questo discorso Gesù spiega che la distruzione del tempio non è segno della fine del mondo (Lc 21,5-9), ma inizio dei «tempi delle genti» (cfr. καιροὶ ἐθνῶν di Lc 21,24), che sono poi i tempi della storia, i quali avranno termine con la venuta del Figlio dell’uomo. San Luca accenna rapidamente alla parusia – «Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (Lc 21,27) – poiché preferisce piuttosto soffermarsi sulle reazioni degli uomini dinanzi agli eventi escatologici. Se l’accento è posto sulla storia, perché è il luogo in cui il credente è chiamato a sperare, vigilando e pregando, in mezzo alle tribolazioni, la venuta gloriosa del Signore è vista da Luca framezzo le reazioni che produce sugli uomini. Gli eventi catastrofici nella natura o nella storia, in cielo o sulla terra, che saranno motivo di angoscia e smarrimento, di attesa ansiosa, di paura e morte per tanti uomini; per i credenti, invece, potranno essere il segno dell’avvicinarsi della salvezza: «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Sollevare la testa significa anche alzare gli occhi e vedere ciò che a molti resta invisibile, quella salvezza che avanza tra le tribolazioni che si dipanano nel tempo. Quel «Regno» che emerge da dietro le macerie della storia, fondato sulla promessa del Signore che resta salda anche nell’accumularsi delle rovine «sulla terra» (Lc 21,25). Nessun pessimismo dunque, nessun far coincidere le catastrofi naturali e storiche per quanto devastanti, come le guerre, le pandemie, le crisi ecologiche, con la fine del mondo, ma anche nessun cinismo, nessuna fuga dai dolori e dalle assurdità del reale per rifugiarsi in una visione spiritualistica o ingenuamente ottimista.

Per San Luca tutti, credenti e non, sono sottomessi al rischio di essere soverchiati e schiacciati dagli eventi che devono succedere, soprattutto i credenti se non veglieranno e non pregheranno (cfr. Lc 21,34). Le paure collettive, le angosce planetarie che schiavizzano uomini e donne, rendendoli preda di ciò che potrà accadere – «gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra» (Lc 21,26) – costituiscono un dramma escatologico che investe l’intero ecumene (oikouméne: Lc 21,26 cfr. «la faccia di tutta la terra» di Lc 21,35), anche i discepoli.

L’esortazione alla vigilanza allora (Lc 21,34.36) è anzitutto appello alla lucidità, alla sobrietà, a non cercare vie di stordimento e immunizzazione dal peso e dal dolore della realtà e a non lasciarsi ottundere dal «rumore» degli eventi e anche dalla seduzione di certa narrazione, che approfitta delle paure e delle angosce per stravolgere la realtà presentandone una alternativa, come abbiamo sperimentato durante il periodo della pandemia o adesso con le guerre in corso. Vale la pena ripetere; questi eventi catastrofici che saranno colti come segno di «fine» da tanti e quindi motivo di smarrimento, angoscia, paura e morte per molte persone, per i credenti potranno essere segno dell’avvicinarsi della salvezza e nuovo inizio di vita, «perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Il credente si erge in piedi nell’atteggiamento di chi possiede la speranza nata dalla Risurrezione di Cristo; e forte delle rassicurazioni del Signore intravede il senso di tutto ciò che accade. Ai discepoli che possono lasciarsi sopraffare dalle paure e dalle angosce Gesù ricorda: «Attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita». Sono parole che richiamano quanto il Signore aveva già annunciato in una parabola, riportata nel capitolo 8 di Luca, a riguardo del seme che viene soffocato dalle preoccupazioni.

Termino qui riportando le parole di Papa Benedetto XVI che, commentando questo passo del Vangelo, chiamava in causa la testimonianza cristiana, simile ad una città bene in vista:

«A questo ci richiama oggi la Parola di Dio, tracciando la linea di condotta da seguire per essere pronti alla venuta del Signore. Nel Vangelo di Luca, Gesù dice ai discepoli: “I vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita … vegliate in ogni momento pregando” (Lc 21,34.36). Dunque, sobrietà e preghiera. E l’apostolo Paolo aggiunge l’invito a “crescere e sovrabbondare nell’amore” tra noi e verso tutti, per rendere saldi i nostri cuori e irreprensibili nella santità (cfr. 1Ts 3,12-13). In mezzo agli sconvolgimenti del mondo, o ai deserti dell’indifferenza e del materialismo, i cristiani accolgono da Dio la salvezza e la testimoniano con un diverso modo di vivere, come una città posta sopra un monte. “In quei giorni – annuncia il profeta Geremia – Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia” (33,16). La comunità dei credenti è segno dell’amore di Dio, della sua giustizia che è già presente e operante nella storia ma che non è ancora pienamente realizzata, e pertanto va sempre attesa, invocata, ricercata con pazienza e coraggio» (Angelus 2.12.2012).

Dall’Eremo, 1° dicembre 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La croce di Cristo Re che porta sulle sue spalle il segno del trionfo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA CROCE DI CRISTO RE CHE PORTA SULLE SUE SPALLE IL SEGNO DEL TRIONFO 

Cristo portò per sé la croce, e per gli empi era un grande ludibrio ma per i fedeli un grande mistero. Cristo porta la croce come un re porta il suo scettro, come segno della sua gloria, della sua sovranità universale su tutti. La porta come un guerriero vittorioso porta il trofeo della sua vittoria

 

 

 

 

 

 

 

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Se Domenica scorsa è stato proclamato l’annuncio della seconda venuta di Cristo «sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13, 26), oggi, nell’ultima Domenica di questo Anno Liturgico, riapriamo il Vangelo secondo Giovanni nel punto dove viene svelata una qualità peculiare del Signore veniente, la sua regalità. Il singolare contesto, la passione del Signore, e l’interlocutore, un funzionario imperiale, rendono particolarmente intrigante la comprensione della regalità che Gesù incarna.

Ciò che il mondo rappresentato da Pilato non può capire, lo comprende invece chi con fede si apre ad una rivelazione inusitata e sorprendente. Leggiamo il brano.

«In quel tempo, Pilato disse a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?”. Pilato disse: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”» (Gv 18,33-37).

Viene descritto qui il primo dei due confronti che Pilato ebbe con Gesù all’interno del Pretorio. Essi culmineranno in quella scena centrale di tutta la narrazione della passione secondo San Giovanni, avvenuta sul Litòstroto, dove Pilato pronunciò le parole: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). Per dare risalto all’importanza della scena ed alla profondità di significato delle parole pronunciate, Giovanni annoterà che in quello stesso momento venivano preparati gli agnelli della Pasqua, nel giorno di Parasceve.

Nel brano evangelico di questa domenica Pilato, senza perder tempo, arriva subito al punto e alla questione cruciale che più gli interessa: «Sei tu il re dei Giudei?». Per il Prefetto romano, rappresentante del potere imperiale, questa domanda evidenzia una preoccupazione circa il governo dei suoi territori. In occasione della Pasqua ebraica, infatti, il Prefetto si spostava, truppe al seguito, da Cesarea a Gerusalemme, proprio per scongiurare che una sommossa potesse destabilizzare l’ordine e la pax romana. Ma, come diversi commentatori fanno risaltare, l’espressione «Re dei giudei» che Pilato utilizza può essere compresa, nel nostro brano, almeno in due altri modi, diversi da quello che egli probabilmente intende. I giudei, con quell’espressione, intendevano il re messia atteso fin dall’epoca di Davide per il tempo della salvezza, investito di una missione sia religiosa che politico-nazionale. Il termine Re ha qui, pertanto, in tale contesto, un significato terreno e storico, con anche un’allusione ad un contenuto teologico. Nella storia biblica, ambedue sono strettamente legati e impiegati l’uno per l’altro; tanto che i due significati giocheranno un ruolo decisivo nell’accusa rivolta a Gesù.

Ma bisogna tener conto del senso che le parole devono aver avuto per Gesù, particolarmente indicativo per la comprensione della festa di oggi. Sulla bocca di Gesù questo titolo rivela un nuovo significato, che solo San Giovanni mette in luce e fa risaltare. Gesù accettando il titolo e rispondendo: «Tu lo dici: Io sono re», nello stesso tempo nega il significato che Pilato vuole attribuirgli, per insistere invece sulla sua speciale regalità. Gesù si rifiuta di incarnare un messianismo terreno, come quello evocato già nelle tentazioni nel deserto, in particolare nella versione lucana della prova: «Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo» (Lc 4,5-7). «Tutto il mondo appartiene a Satana, che è disposto a dare a Gesù il potere su tutti i regni della terra. Ma Gesù, fin dall’inizio della sua vita pubblica, rifiuta radicalmente di fondare un regno terreno» (cfr. Ignace de La Potterie, La passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni, 1993). Se la regalità di Cristo deve essere compresa in un altro modo, questo non deve portarci all’idea contrapposta, ovvero ad immaginare un Messia estraniato dal mondo. Il testo del vangelo di questa domenica va letto con attenzione. In greco, le parole di Gesù al v. 36 sono, alla lettera: «Il mio regno non è «da» questo mondo». Quanta differenza rispetto agli apocrifi. «In certi scritti gnostici ispirati dal quarto vangelo, per esempio gli Atti di Pilato, viene introdotta in questo testo la piccola modifica seguente: «Il mio regno non è «in» questo mondo»; il che ha evidentemente un significato del tutto differente e porta a una separazione tra il mondo e il regno di Dio». Le parole di Gesù invece significano che «la regalità di Cristo non si fonda sui poteri di questo mondo e non è minimamente ispirata a questi. È una sovranità nel mondo, ma che si realizza in maniera diversa dal potere terreno e attinge la sua ispirazione da un’altra fonte» (cfr. Ignace de La Potterie).

Pilato era un funzionario esperto, concreto e, alla bisogna, violento e spietato. Secondo San Giovanni alle parole di Gesù, quasi sorpreso, non poté che chiedere: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù:

«Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

E qui che il Signore specifica il senso profondo della sua regalità e da dove scaturisce. La sua fonte è nel Padre che lo ha inviato, per divenire la via della verità e della vita. Afferma Giovanni nel Prologo:

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1, 14).

Continua poi incalzante San Giovanni:

«Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 16-18).

La verità dunque che Gesù porta all’umanità come una grazia, un dono e una missione dal Padre, è la sua rivelazione. Non una semplice verità astratta ed asettica, ma la vita, la parola, l’esistenza tutta del Signore Gesù, nella pienezza inesauribile del suo significato di amore, di salvezza e di vita nel Padre, per ogni persona che si apre ad essa e vi aderisce con la fede. In ogni uomo o donna che accoglie la verità di Cristo Egli regna nella pace. E questo nonostante la regalità del Signore sia dovuta passare attraverso il crogiuolo della passione, di cui la scena evangelica di questa domenica è il prodromo. Ma per San Giovanni, e solo per lui, proprio la passione sarà la manifestazione della regalità di Gesù: Il Cristo regna dalla Croce.

Giovanni, mentre racconta la passione di Cristo, non nega la realtà o la materialità degli avvenimenti che furono dolorosi. Mette però in rilievo, a differenza dei Sinottici, l’aspetto di regalità e di trionfo, di vittoria sul male e il valore salvifico, che è insito nella passione e nella morte subita da Gesù Cristo: mentre la narra ci dona anche il senso degli eventi. Questi aspetti emergono già durante il processo e poi alla crocifissione di Gesù. Alla fine del processo romano Pilato conduce Gesù di fronte alla folla e dice: «Ecce homo, Ecco l’uomo» (Gv 19,5). Gesù in quel momento indossa i simboli della regalità e oltre alla corona di spine ha ancora il mantello. Mentre i vangeli sinottici dicono che la porpora gli fu tolta causandogli dolore, nel Quarto Vangelo si ha addirittura l’impressione che Gesù vada verso la croce indossando ancora sia la porpora che la corona. E c’è un impressionante parallelismo, anche letterario, tra la scena avvenuta nel pretorio, nel luogo chiamato Gabbatà (Gv 19, 13-16), e quanto accade ai piedi della croce, sul Golgota (Gv 19, 17-22). In entrambi i casi Giovanni pone l’accento sul tema della regalità e in entrambi i casi è Pilato, cioè il detentore del più alto potere civile, che rende gli onori a Gesù. «Ecco il vostro re» dice alla folla radunata davanti al pretorio (Gv 19,14); poi sopra la croce egli fa scrivere: «Il re dei Giudei» (Gv 19,19). Questa è, di fronte al mondo, una proclamazione della regalità di Cristo fatta in tre lingue: in ebraico, la lingua di Israele, in greco, la lingua della cultura; e in latino, la lingua del potere civile. L’episodio, ancora una volta, viene raccontato solo da San Giovanni. E non è un caso se nella tradizione cristiana la Via crucis, ispirata principalmente al racconto di Giovani, diventerà una via trionfale. Così pure non poche croci dipinte, come il celebre Crocifisso di San Damiano in Assisi che parlò a San Francesco, raffigurano Gesù secondo la tipologia del Christus triumphans. Giovanni scrive che Gesù esce dalla città: «Et baiulans sibi crucem». Abitualmente viene tradotto: «Portando la croce da sé». In realtà la traduzione corretta è: «Portando la croce per sé», cioè portandola come strumento della sua vittoria. San Tommaso d’Aquino conferma questa traduzione e dice: «Cristo portò per sé la croce, e per gli empi era un grande ludibrio ma per i fedeli un grande mistero. Cristo porta la croce come un re porta il suo scettro, come segno della sua gloria, della sua sovranità universale su tutti. La porta come un guerriero vittorioso porta il trofeo della sua vittoria». E nei primi secoli san Giovanni Crisostomo aveva già usato un’espressione analoga: «Egli portò sulle proprie spalle il segno del trionfo».

Dall’Eremo, 24 novembre 2024

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Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL CIELO E LA TERRA PASSERANNO, MA LE MIE PAROLE NON PASSERANNO

In questa condizione il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. Essa non sarà angosciosa o foriera di ansie, piuttosto colma di fiducia, poiché poggia sull’assicurazione del Signore: «Io vengo presto»

 

 

 

 

 

 

 

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Un evento certo, ma di cui non si sa quando accadrà, esige che lo si attenda. È ciò che emerge dalla pagina evangelica di questa domenica. Tratta dal discorso escatologico di Marco (Cap. 13), essa annuncia come sicura la venuta del Signore, ma afferma che la sua data e il suo momento sono incerti. Leggiamola:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”» (Mc 13,24-32).

Il Cap. 13 del Vangelo di Marco prende avvio da due domande dei discepoli rivolte a Gesù all’uscita dal Tempio e sul Monte degli Ulivi:

«Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta” (vv.1.2). «Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?”» (vv. 3.4).

Gesù non risponde subito alla domanda dei quattro discepoli, ma nel frattempo ha l’occasione per parlare delle ultime cose. Le parole di Gesù che descrivono l’arrivare di codeste «cose ultime», in «quei giorni», sono una ripresa di testi profetici di Isaia, Gioele e Daniele. Chi le udiva sulla bocca di Gesù, probabilmente ne comprendeva il senso meglio di noi, che dopo tanti anni di distanza facciamo fatica ad orientarci. In realtà il linguaggio apocalittico non è lontano dalla nostra cultura, anzi essa ne è fortemente permeata. Bisogna tener presente, però, che detto linguaggio è un «genere letterario», quindi non un racconto storico o un trattato di scienza. Purtroppo molti credenti lo interpretano proprio così, leggendo eventi presenti come realizzazione delle parole di Gesù. Il linguaggio escatologico ha una sua propria chiave e come tale va interpretato. È un genere che nasce dalla confluenza della corrente sapienziale e profetica. Soprattutto quando quest’ultima finisce si attenderà in Israele un profeta che avrebbe sistemato le cose: «Riposero le pietre sul monte del tempio in luogo conveniente, finché fosse comparso un profeta a decidere di esse» (1Mac 4, 46). Del resto non possiamo pensare che Gesù volesse dire che la fine del mondo accadrà proprio come l’ha descritta. E poi, siamo sicuri che Egli stesse parlando della «fine del mondo», e non, invece, di un nuovo inizio? Perché dice che «questa generazione» vedrà quanto da lui annunciato.

La figura centrale del Vangelo odierno è quella del Figlio dell’Uomo. Mentre precedentemente il Signore aveva parlato del suo destino sofferente, stavolta dà ragione a ciò che si pensava di questo personaggio all’epoca e quindi fra i discepoli. Il Figlio dell’Uomo è una figura potente, quasi un’ipostasi divina come la descrive il profeta Daniele (7, 13-14), il cui compito principale sembra essere quello del giudice (Libro dei Giubilei). Gesù si descrive in tale modo, quando risponde al Sommo Sacerdote che gli domanda se è lui il Messia: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62); e queste parole diventeranno una delle ragioni della sua condanna. Ma oggi Egli parla del Figlio dell’Uomo legandolo ad un tema caro al giudaismo, ovvero il raduno dei dispersi. Sorprendentemente, infatti, per le tradizioni evangeliche esso non avverrà soltanto alla «fine del mondo», ma si è già realizzato in un momento particolare e cioè alla morte del Messia Gesù. Ciò è particolarmente chiaro nel Quarto Vangelo quando San Giovanni riporta le parole di Gesù: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il raduno delle genti operato dal Figlio dell’Uomo è preceduto da sconvolgimenti celesti. Così se andiamo a vedere il modo in cui l’Evangelista Marco descrive la morte del Messia, troviamo che alcuni segni che erano stati annunciati nel brano evangelico di oggi si compiono. Gesù aveva detto che il sole si sarebbe oscurato (Mc 13,24), ed ecco che dopo la crocifissione di Gesù, «venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio» (Mc 15,33). Matteo, amplificando il racconto marciano, aggiunge poi che anche «la terra tremò e le rocce si spaccarono» (Mt 27,51), un richiamo alla frase di Gesù per cui «gli astri si metteranno a cadere dal cielo» (Mc 13,25). Siamo quindi di fronte non solo ad un annuncio di fine del mondo e del tempo. che per altro si era già intravisto nelle parole iniziali del Vangelo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Ma con la venuta del Messia e con la morte del Signore Gesù inizia il tempo escatologico, il tempo della fine, per cui passa la scena di questo mondo: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve… passa infatti la figura di questo mondo!» (1Cor 7, 29-31).

In questa condizione il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. Essa non sarà angosciosa o foriera di ansie, piuttosto colma di fiducia, poiché poggia sull’assicurazione del Signore: «Io vengo presto» (Ap 22,7). È un atto di fede l’attesa cristiana della seconda venuta del Signore. Essa si diramerà nelle diverse direzioni della pazienza, della resistenza, della perseveranza e soprattutto della speranza. Dice l’Apostolo Paolo: «Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (per patientiam exspectamus, cfr. Rm 8,25). L’attesa paziente diviene persino motivo di beatitudine secondo il libro di Daniele: «Beato chi attenderà con pazienza» (Dn 12,12).

Va sottolineato che il brano evangelico di questa domenica è inquadrato fra due avvertimenti quasi identici: blépete, «guardate», «state attenti»; e agrupneite, «tenete gli occhi ben aperti e abbiate cura» (Mc 13,23.33). Il testo è incastonato all’interno di un’esortazione alla vigilanza e al discernimento. Il tempo della storia è abitato da tribolazioni di cui Marco ha parlato nei versetti precedenti (Mc 13,19-20), tribolazioni che precedono l’evento centrale dell’annuncio escatologico, che porrà fine alla storia accordandole un fine: la venuta del Figlio dell’Uomo. Lo sconvolgimento delle realtà celesti (Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, un evento di cui è protagonista il Dio creatore. Ma il sole e la luna, gli astri e le potenze celesti erano anche parte del pantheon degli antichi romani, entità divinizzate ed idoli; e sappiamo che Marco scrive a cristiani di Roma. Perciò qui non è annunciata solo la fine del mondo, ma anche la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’Uomo. E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può rappresentare un segno del regnare di Dio; grazie alla vigilanza, per non far regnare su di sé gli idoli. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione dagli idoli e dalle potenze mondane. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione. Ma la conversione ha come premessa necessaria la vigilanza.

Ecco allora l’immagine dolcissima del fico che germoglia, in tutti i sensi, poiché fa quasi pregustare l’esito finale quando spunterà il frutto maturo. Questa è una parabola del Signore che ci insegna come lo sguardo verso i segni celesti e l’osservazione di quelli terrestri non sono in alternativa. Il futuro si prepara nell’oggi che si vive, sulla terra dove siamo piantati e dove possiamo scorgere molti segnali della venuta gloriosa del Signore. Solo chi sa ben osservare sa anche scorgerli: «Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina» (Mc 13,28).

Dall’Eremo, 17 novembre 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

 GESÙ AL BUON SCRIBA: «NON SEI LONTANO DAL REGNO DI DIO»

«Uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».

 

 

 

 

 

 

 

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Prima del brano evangelico di questa domenica Gesù ha dovuto fronteggiare diversi gruppi di avversari: sacerdoti, scribi e anziani del popolo (Mc 11,27ss.); farisei ed erodiani (Mc 12,13ss.) infine i sadducei (Mc 12,18ss.).

Reggio di Calabria: Gesù e lo scriba, Cattedrale metropolitana di Maria Santissima Assunta

Ora, però, Gli si accosta, da solo, un singolo membro di uno di questi gruppi. Non ha prevenzioni, né una disposizione pregiudizialmente negativa nei confronti di Gesù. Ha appena ascoltato l’ultima discussione coi sadducei sulla Risurrezione e deve averne apprezzato la sapienza. Infatti fra i due si instaura una consonanza sincera. Leggiamo il brano:

«In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi”. Lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo». (Mc 12,28-34).

La domanda posta dallo scriba: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?», nasce da un’esigenza diffusa fra gli esperti della Torah: esiste un comandamento, una sintesi dei precetti di Dio, da cui dipendono tutti gli altri? I rabbini conteranno 613 comandi nel Talmud babilonese e questa ricerca dell’essenziale, del comandamento a cui «fosse appeso» tutto il resto non è nuova. Nell’Antico Testamento erano già presenti diverse formulazioni di precetti in forma sintetica. Nel Sal 15 ne sono elencati 11, in Is 33,15-16 ce ne sono 6 e così via.  Elaborati in seguito dai saggi d’Israele, venivano suddivisi, in particolare dalla scuola di Rabbi Hillel, in «pesanti» o «leggeri». Anche Gesù sembra accettare questa impostazione e riconosce che vi sono precetti «minimi» (Mt 5,19), che però non possono essere tralasciati.

Gesù risponde citando come primo comandamento l’inizio dello Shema, la professione di fede nel Signore Dio ripetuta tre volte al giorno da ogni credente ebreo, centrale in tutta la tradizione rabbinica:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).

Secondo questa preghiera l’ascolto ha un primato assoluto ed è la modalità di relazione decisiva dell’uomo nei confronti di Dio. Un ascolto obbediente sta poi alla base dell’amore verso Dio e non solo, come vedremo. A ben guardare le parole del Deuteronomio, riprese da Gesù, delineano un percorso teologico, spirituale ed affettivo che partendo dall’ascolto, «Ascolta, Israele», conduce alla fede, «Il Signore è il nostro Dio»; dalla fede alla sua conoscenza intima, «Il Signore è uno», e dalla conoscenza all’amore: «Amerai il Signore». Questa conoscenza sempre più penetrante che contraddistingue il monoteismo ebraico e che ha influito sul Cristianesimo e poi sull’Islam è qualcosa di originale e unico nel panorama culturale e religioso del tempo. Essa non nasce da un’idea, da una riflessione filosofica, come poté succedere in Grecia, ma dall’esperienza che Dio ha agito nella storia in favore del suo popolo, salvandolo e facendo alleanza con esso. Da questa rivelazione che richiede un riconoscimento si approda al rapporto di amore per Dio, per cui noi siamo suoi e Lui è per noi. Unico e solo Dio che si ama con tutte le potenze dell’anima umana.

Ma c’è di più. Mentre lo scriba domanda a Gesù un solo comandamento, ecco che Lui ne avanza un secondo, citando quello dell’amore per il prossimo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). La versione completa del versetto del Levitico recita:

«Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore».

L’amore per il prossimo anche dalla tradizione precedente a Gesù veniva considerato un precetto fondamentale, che, insieme al precetto dell’amore per Dio, condensava tutta la Torah. Ma Gesù collega i due comandi, coniugando in modo indissolubile l’amore di Dio con quello per il prossimo. Per Gesù i due precetti uniscono il cielo alla terra; l’uomo a Dio e l’uomo all’uomo: l’amore «verticale» che implica amare Dio e quello «orizzontale» che chiede di amare il prossimo non possono essere più separati. Da questa risposta, pertanto, sembra che non possa esistere l’amore per Dio senza quello per il prossimo. Il primo comandamento implica il secondo e il secondo presuppone il primo.

È importante riflettere sulla novità, a livello dei contenuti della fede, che questo accostamento di passi biblici porta con sé. È indubbio che Gesù stabilisca una precisa gerarchia tra i due precetti, ponendo l’amore per Dio al di sopra di tutto. Nello stesso tempo, però, risalendo la volontà del Legislatore, egli discerne che amore di Dio e del prossimo sono in stretta connessione tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, mai l’uno senza l’altro. Non a caso nella versione di Matteo il secondo comandamento è definito simile al primo (Mt 22,39), mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo […] e il prossimo tuo» (Lc 10,27). In altre parole, se è vero che ogni essere umano è creato da Dio a sua immagine (Gen 1,26-27), non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente, disprezzare la sua immagine sulla terra.

La tradizione cristiana ha declinato in modi diversi l’amore per Dio, esprimendolo come un movimento di ricerca, anelito o desiderio. Oppure l’amore per Lui è stato colto come un obbedire, nel senso proprio di ascoltare la sua parola e corrispondervi. È l’amore che cerca di realizzare la volontà di Dio e di vivere come Lui vuole. In ogni caso, a dispetto di quel che il mondo pensa, mondo che curiosamente si lega a molti dèi e idoli, fino a esserne schiavo, l’amore cristiano è liberante perché inscritto in questa relazione con Dio che lo esalta e lo fortifica e come un polo attrae verso di sé ogni tipo di amore che l’uomo può costruire sulla terra.

Infine, nel Vangelo di Giovanni, Gesù compirà un ulteriore passo quando affermerà: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34; 15,12), ossia senza misura, «fino alla fine» (Gv 13,1). In questa ardita sintesi, Gesù non esplicita neppure la richiesta di amare Dio, perché sa bene che quando le persone si amano le une e le altre, nel fare questo vivono già l’amore di Dio. Questo reciproco amore diviene anche il segno riconoscibile dei discepoli di Gesù:

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

A questo punto tutti si fermano, come soddisfatti, e non vanno oltre. Del resto quale argomento è più coinvolgente e totalizzante dell’amore, soprattutto se è rivolto a Dio. Mi piace, invece, concludere ricordando ancora questo scriba che ha provocato le risposte di Gesù. Il fatto, per esempio, che egli abbia atteso il momento opportuno per avvicinarlo. In fondo, dopo tutte quelle discussioni con chi voleva metterlo alla prova, Gesù poteva anche declinare e dire basta. Invece il Signore deve aver trovato la sua domanda pertinente e ne ha preso spunto per un insegnamento nuovo che ancora oggi troviamo inesauribile. Questo scriba ribatte a Gesù che ha ben parlato, ricalca le sue parole, unificandole in un unico comandamento che le ricapitola. Infine riconosce che questo comandamento supera perfino il sistema dei sacrifici e degli olocausti che, in quel momento, rappresentava un articolo importante del credo e del culto ebraico. Si merita perciò ampiamente quell’elogio di Gesù che rimarrà per sempre: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Dall’Eremo, 3 novembre 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Quella luce della fede che restituisce la vista ai ciechi

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUELLA LUCE DELLA FEDE CHE RESTITUISCE LA VISTA AI CIECHI

I discepoli devono finalmente aprire gli occhi, soprattutto quelli del cuore e della fede, per vedere bene ciò che sta per accadere, e cioè lo scandalo del Messia sconfitto, cogliendone tutto il suo significato e valore salvifico.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Vi sono molti racconti nei Vangeli, in cui si mette in evidenza la sollecitudine e la premura con cui Gesù si prende cura dei malati: egli li cura nel corpo e nello spirito e raccomanda ai suoi discepoli di fare altrettanto.

il chirurgo Grazia Pertile (a destra) durante un intervento alla retina nell’Ospedale di Negrar (Verona)

Quando Giovanni Battista manda due suoi discepoli a chiedere un contrassegno del Messia, Gesù afferma la propria identità con le parole: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito; i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti resuscitano» (Lc 7, 22). In questa Domenica, trentesima del tempo ordinario, ascoltiamo proprio della guarigione di un cieco.

«In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (Mc 10,46-52).

Il Vangelo odierno ci racconta l’ultimo miracolo compiuto da Gesù durante la sua vita terrena, se non prendiamo in considerazione la menzione di Matteo: «Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì» (Mt 21,14); e l’episodio, narrato da Luca nel racconto della passione, quando Gesù risana l’orecchio del servo del sommo sacerdote colpito da uno dei suoi (Lc 22, 51).

Questa guarigione del cieco Bartimeo è emblematica, poiché nel piano narrativo del secondo Vangelo, subito dopo aver detto: «la tua fede ti ha salvato», Gesù riprende velocemente il cammino. Il verso iniziale completo che recita: «E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla» (v. 46) esprime infatti tutta la fretta di Gesù di portare a termine il suo viaggio che lo porterà a Gerusalemme dove si compirà il suo destino umano e la sua missione. Manca ancora un breve tratto in salita (cfr Lc 10,30) e il cieco ormai guarito: «prese a seguirlo per strada» (v. 52).

Tenendo così presenti questi accenni e, in particolare, che la guarigione avviene a questo punto del ministero di Gesù, in prossimità della sua passione, comprendiamo che per Marco essa possa avere un valore simbolico rilevante. Come a voler dire che i discepoli devono finalmente aprire gli occhi, soprattutto quelli del cuore e della fede, per vedere bene ciò che sta per accadere, e cioè lo scandalo del Messia sconfitto, cogliendone tutto il suo significato e valore salvifico. Il racconto marciano del viaggio di Gesù ha avuto come intento principale quello di mostrare chi è Colui di cui si sta parlando. Non a caso lo scritto del secondo Vangelo è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È presso la Croce che si svela il mistero di Gesù Cristo. Secondo le intenzioni narrative di Marco l’identità di quel «Nascosto» che era Gesù (cfr il «segreto messianico) e che solo in momenti particolari, come la Trasfigurazione, si era rivelata agli occhi di pochi discepoli, adesso, al momento della crocifissione, è palesata attraverso le parole di un pagano.

Chi ha letto il Vangelo di Marco fin qui si ricorda che all’inizio del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù aveva guarito un altro cieco. Un episodio che è stato più volte riprodotto dai pittori nel corso dei secoli, insieme a quello del cieco nato di Gv 9. Quella volta la guarigione fu alquanto macchinosa e per ben due volte il Signore dovette imporre le mani sugli occhi del cieco che iniziava a vedere pian piano. Infatti invece di vedere persone vedeva «alberi che camminano» (Mc 8,24). Ora, quasi alle porte della città santa, per guarire Bartimeo non serve più il gesto dell’imposizione delle mani, ma soltanto la fede è necessaria.

Si capisce così che Marco non ha solo voglia di narrare un consueto atto di potenza da parte di Gesù, ma, soprattutto in questo momento, fare di esso una catechesi sulla vera fede, nascosta fra le pieghe del testo e valida per i credenti d’ogni generazione. Bartimeo che grida verso Gesù, che lo invoca forte: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!», mentre gli altri gli intimavano di star zitto, è l’esempio del discepolo che cerca insistentemente da Gesù la salvezza, mostrando in Lui fiducia. Questa fede di Bartimeo costringe Gesù a fermarsi, «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!», ed è tanto forte, come la sua voce, che Gesù non ha bisogno di toccarlo, ma questa sola basta perché il miracolo avvenga: «E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Lungo il viaggio descritto in Mc 8,22-10,52 Gesù ha insegnato ai suoi discepoli chi Egli sia, ciò che lo aspetta a Gerusalemme e cosa significhi seguire lui. Ma i più vicini a Gesù non lo hanno capito, hanno cercato piuttosto onori e primazie. Questo cieco che chiama Gesù col titolo messianico di Figlio di Davide e che interpellato si rivolge a Lui con quella variante aramaica, Rabbuni maestro mio, conservata solo qui da Marco e poi da Giovanni quando Maddalena riconosce Gesù Risorto (Gv 20, 16), esprime in questo modo il desiderio di ogni credente di alzare lo sguardo da terra, di vedere di nuovo, di sollevare la vista; la vista a questo punto della fede. Così possiamo interpretare quel verbo (ἀναβλέψω, anablepso) utilizzato da Marco per esprimere la volontà del cieco: «Rabbunì, che io veda di nuovo!».

Bartimeo ricevuto il dono della vista e della fede si incammina sulla strada di Gesù, quella che porta a Gerusalemme. Diviene l’emblema del discepolo che ha riconosciuto chi è Gesù e non si scandalizza se la sua strada lo porterà alla sofferenza e alla morte per mano delle autorità giudaiche e romane, perché grazie alla fede intravede il mistero salvifico nascosto in esse.

E da ultimo un’annotazione ormai riconosciuta da diversi esegeti. Questo cieco porta un nome curioso che non ritroviamo in alcun elenco di nomi del tempo di Gesù. Un nome per metà aramaico (bar) e per metà greco: il figlio di Timèo. Se il Vangelo di Marco, come riporta un’antica tradizione, fu scritto a Roma, diversi lettori istruiti e colti di allora non potevano non pensare al Timeo, uno dei più importanti dialoghi di Platone. È possibile che anche questo, nell’intento di Marco, sia un velato accenno. Non a caso Bartimeo si chiama così, come un greco, travestito da mendicante cieco attraverso il quale la cultura greca cerca un contatto con Gesù.

Scopriamo così che nascosta fra le pieghe di quello che inizialmente poteva apparire come l’ennesimo racconto di un miracolo, è celata la testimonianza di un’autentica fede e la ricerca sincera di un contatto fra culture. Del resto Marco ci aveva già abituato all’incontro del cristianesimo con mondi diversi. Pensiamo all’indemoniato Legione nella terra dei geraseni (Mc 5, 1) e alla donna di lingua greca che domanda a Gesù la guarigione per la figlia (Mc 7, 24-30). 

L’opera di Marco, come si evince dai dati interni al testo, quali la conoscenza di diverse parole latine, è tradizionalmente ritenuta il Vangelo portato nel cuore del paganesimo, Roma, ed emanazione della predicazione di Pietro in quella città. Nella figura di quel povero cieco al bordo della strada tra Gerico e Gerusalemme vi è forse racchiusa la speranza di uomini e donne di ogni parte che desiderano vedere e credere in Gesù per seguirlo.

Dall’Eremo, 27 ottobre 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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La richiesta davvero piccola di Giacomo e Giovanni: «Signore, concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA RICHIESTA DAVVERO PICCOLA DI GIACOMO E GIOVANNI: «SIGNORE, CONCEDICI DI SEDERE, NELLA TUA GLORIA, UNO ALLA TUA DESTRA E UNO ALLA TUA SINISTRA»

Della pagina evangelica di questa domenica si potrebbero sottolineare molte cose, anche importanti, che vanno dalla menzione della morte salvifica come bere un calice o ricevere un Battesimo, alla risposta di Gesù: «Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dal Vangelo secondo Marco: «In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse loro: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «”Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,35-45).

Andrea Mantegna, Crocifissione (1457-1459), Musée du Louvre, Parigi

Per comprendere la conosciuta scena che il Vangelo odierno ci presenta dovremo fare un passo indietro e rileggere i tre versetti che la precedono: «Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”» (Mc 10, 32-34).

Si tratta della terza predizione della sua Passione da parte di Gesù mentre procede camminando verso Gerusalemme e queste parole, premesse al testo odierno, evidenziano uno schema narrativo: a) annuncio della Passione; b) incomprensione da parte dei discepoli; c) ulteriore insegnamento di Gesù sull’essere suoi discepoli. Ci permettono anche di capire il valore teologico delle parole di Gesù ricordate nel passo evangelico. In esso risalta quanto i discepoli siano totalmente allineati con ciò che il mondo, perfino oggi, predilige e cioè l’onore, il rispetto ed una posizione sociale elevata. Le due risposte di Gesù (Mc 9, 33-37 e 10, 41-45) mettono in evidenza da un lato quanto questi discepoli fossero lontani dal modo di intendere la missione per cui Egli era stato inviato e come grossolanamente l’avessero fraintesa. D’altro canto, in un senso positivo, la cantonata dei discepoli ha favorito il ricordo e la trasmissione di un detto di Gesù molto significativo sul modo di intendere il potere nella Chiesa, valido per tutti i tempi.

In particolare viene messo in evidenza dal Signore il suo esempio che diventa paradigmatico per la comunità dei credenti, uno speciale modo di servire che va a beneficio di tanti (anti pollôn, ἀντὶ πολλῶν) descritto come un «dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45). Questo termine usato da Gesù, «riscatto» (in greco: lytron), è singolare e va un po’ spiegato per evitare fraintendimenti col modo attuale di interpretarlo e cioè come un pagamento in denaro allo scopo di liberare una persona rapita per farla uscire dalla prigione nella quale è detenuta. Sulla bocca di Gesù ha un significato teologico. Esso si trova pure nel passo parallelo di Matteo: «E chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,27-28).

«Riscatto», sfondo scritturale e teologico di questa parola, è la figura del «Servo sofferente» di cui parla il profeta Isaia. Nella Prima Lettura di questa domenica si legge: «Il giusto mio servo giustificherà molti (rabbim in ebraico), egli si addosserà le loro iniquità» (Is 53,11). Un concetto che sarà ripreso anche dalla Prima lettera di Pietro: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia» (2,24). Così pure scriveva Isaia: «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4-5). Quando i cristiani, dopo la morte di Gesù, hanno tentato in vari modi di interpretare in senso salvifico quel fatto tragico, hanno utilizzato diversi linguaggi. Tra gli svariati tipi, quello del sacrificio, dell’espiazione, della soddisfazione o del merito, vi è anche quello del «riscatto». Ciò «Significa che l’opera della liberazione è stata onerosa per Cristo; non che egli abbia pagato il prezzo a Dio come a un creditore esoso. Anzi l’iniziativa parte proprio dall’amore di Dio ed è assolutamente gratuita, come la liberazione dall’Egitto» (Catechismo degli adulti, CEI, nr. 254). Quel linguaggio, che Gesù ha usato paragonandosi al Servo sofferente, esprime infatti un grande amore, quello per il quale il Padre ha mandato il Figlio, fino al punto da permettere che morisse per noi: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Della pagina evangelica di questa domenica si potrebbero sottolineare molte cose, anche importanti, che vanno dalla menzione della morte salvifica come bere un calice o ricevere un Battesimo, alla risposta di Gesù: «Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». Vorrei però concludere facendo risaltare un dettaglio significativo che diventa esemplare per noi, poiché ci dimostra come da una posizione sbagliata si possa invece passare ad una giusta. A differenza di Marco, Matteo fa porre la domanda incriminata a Gesù dalla madre dei figli di Zebedeo (Mt 20,20), una donna rimasta anonima. Diversi interpreti si sono dilungati su questa inclusione per parlare dello status sociale delle donne in quel tempo o per dire che il primo evangelista forse ha voluto evitare di mettere in cattiva luce i due importanti apostoli. Ma quando si tratterà di descrivere la scena della passione, il momento in cui quasi tutti hanno abbandonato Gesù, perfino i suoi discepoli, per Matteo ella invece è presente: «… C’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo» (Mt 27,56). Marco, invece, mostra di non conoscerla, perché nella sua posizione colloca una certa Salome: «Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome» (Mc 15,40). Nella sinfonia dei Vangeli questa donna svolge per noi una funzione fondamentale. Se Matteo infatti è a conoscenza della frase di Mc 15,40, la sostituzione di Salome con «la madre dei figli di Zebedeo» è voluta e serve proprio per completare la definizione del suo ruolo e il processo che aveva preso l’avvio al capitolo 20 del suo Vangelo, prima menzionato, quando aveva posto la domanda a Gesù. Diventa cioè un simbolo: ha seguito, con le altre donne, Gesù, fin dalla Galilea, e si appresta ora ad andare con lui a Gerusalemme. Alla sua domanda di primazia per i figli, Gesù si rivolge anche a lei, insieme ai figli, e la invita a bere il calice che lui sta per bere. Mentre però i figli non lo faranno, «lei, sorprendentemente, che aveva avanzato in modo inappropriato quella richiesta, alla fine berrà quel calice, stando al fianco di Gesù, alla sua esecuzione» (A.J. Saldarini).

Dall’Eremo, 20 ottobre 2024

 

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Gli Apostoli compresero così bene che si misero a discutere su chi fosse tra di loro il più grande

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

GLI APOSTOLI COMPRESERO COSÌ BENE CHE SI MISERO A DISCUTERE SU CHI FOSSE TRA DI LORO IL PIÙ GRANDE

«E il Signore ebbe pietà di questa moltitudine… Prese una bambina, Teresa, e la pose in mezzo agli apostoli; e questa bambina rivelò loro verità così semplici, così attraenti, che i dottori furono costretti a confessare la loro ignoranza, e si fecero discepoli della fanciulletta per insegnare al popolo la sua dottrina».

 

 

 

 

 

 

 

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Il Vangelo di Marco riporta tre annunci della passione (Mc 8,31; 9,31; 10,33 e ssg.). Questo che si legge nel Vangelo della XXV Domenica del tempo ordinario è il secondo e tutti e tre costituiscono un filo redazionale attraverso il quale Marco ha tessuto il racconto che va dalla confessione di Pietro all’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Ecco il brano evangelico.

«In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,30-37).

Gesù, traversando la sua terra di origine, la Galilea, non cerca stavolta il consesso della folla, ma richiedendo l’anonimato piuttosto dedica il suo insegnamento ai discepoli che lo accompagnavano più da presso. Egli cerca di spiegare loro cosa gli accadrà. Ma ogni volta che Gesù parla della propria morte, con uno schema che si ripete, interviene la reazione opposta dei discepoli. Prima Pietro (Mc 8,32-33) e poi tutti gli altri (Mc 9,32) rifiutano o non comprendono le parole del Maestro. Subito dopo gli ultimi due annunci gli apostoli addirittura rivendicano per loro primazia e privilegi (Mc 9,33-37; 35-40). Per questo motivo il brano evangelico di oggi costituisce una piccola unità, formata dalla profezia di Gesù circa il suo destino e poi dall’incomprensione dei discepoli. Quest’ultima è espressa nel nostro brano dal commento di Marco: «Essi però non comprendevano» del v. 32; ed è rafforzata infine con le parole fuori posto degli stessi discepoli, riportate dall’evangelista: «Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande», al v. 34.

Gesù per annunciare la sua passione definisce se stesso come il «Figlio dell’uomo», un’espressione che ricorre tante volte nei Vangeli (ben 82, di cui 14 in Marco) e viene adoperata da Gesù soprattutto per descriversi come protagonista o destinatario di una condizione umiliata e dolorosa, a cui seguirà la sua esaltazione o risurrezione. I discepoli che per un verso si fanno problema di tale destino, dall’altro conoscono evidentemente questa figura che si credeva esistesse in cielo come gli angeli e che era prima del mondo, cioè esisteva quando c’era soltanto Dio (Libro delle parabole di Enoc). Al Figlio dell’uomo Dio concede sue prerogative e poteri, tanto da sembrare un’ipostasi divina. Non è un angelo, non esegue ordini, ha compiti generali ma non comandi precisi: la sua volontà sembra essere la stessa di Dio e i suoi compiti riguardano essenzialmente la giustizia ed il diritto (Dan 7, 13-14). Dato questo sfondo soteriologico e messianico, Gesù, ora, almeno ai discepoli, può rivelarsi per quello che è. Può parlare loro con parresia e affermare che Egli è quel Figlio dell’uomo, figura a noi nota dal libro di Daniele e dall’apocrifo veterotestamentario de Il Libro delle Parabole. E’ l’inizio di un tempo nuovo della missione di Gesù: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (cfr. Mc 8, 31). Ma per i discepoli è una sorta di doccia fredda, perché Pietro prima ed i discepoli poi sanno che la figura del Figlio dell’uomo è potente e gloriosa, impossibile quindi che vada incontro a sventure, sofferenze, sconfitte. Pietro respinge questa presentazione e Gesù lo bolla come Satana (Mc 8,33), mentre i discepoli parlano d’altro.

Con molta probabilità è per questo che Gesù, dopo qualche giorno, decide di prendere tre dei suoi discepoli a lui più vicini, Pietro, Giacomo e Giovanni e di portarli con se su un alto monte dove «si trasfigurò davanti a loro» (Mc  9, 2). Lì questi discepoli sanno che il Figlio dell’uomo, di cui avevano qualche cognizione, è Figlio di Dio: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9, 7). Scendendo dal Tabor Gesù ripete l’invito ai discepoli di non parlare a nessuno della visione se non dopo la morte e risurrezione. Per i lettori del Vangelo di Marco è sempre più chiaro che Gesù è quel «nascosto» nel mistero di Dio, destinato a rivelarsi.

Annunciando la sua passione Gesù afferma che verrà consegnato. Il verbo «consegnare» (paradídomi) è molto importante per il racconto delle ultime ore di Gesù. Si ritrova, in Marco, non soltanto negli annunci della passione e risurrezione di Gesù, ma talvolta ha anche Giuda come soggetto (Mc 3,19; 14,10-11) ed è riferito perfino alla sorte dei discepoli (Mc 13,9.11.12). Tutto questo per sottolineare che il destino di chi segue Gesù è solidale e simile a quello del Maestro.

Ma più sopra abbiamo accennato alla reazione dei discepoli al secondo annuncio di Gesù, al loro non comprendere (v. 32) e ai discorsi sul «più grande» (vv. 33-34). Anche in questo caso, come è stato per Pietro, Gesù deve correggere i discepoli, rispondendo loro in due modi, con parole e con un gesto simbolico rimasti imperituri.

Innanzitutto notiamo che Gesù non raccoglie il frasario dei discepoli, non lo accetta. Mentre questi discorrono su «chi fosse il più grande», Egli invece parla di primo e di ultimo. Cosa vuol dire questo? Che Gesù non esclude che nella comunità ci siano precedenze, che qualcuno sia il primo e non semplicemente il più grande.  Ma dice anche che costui dev’essere uno che si mette al servizio in modo incondizionato, sia, cioè, il diacono (diakonos) di tutti gli altri. Lungo la strada che conduce a Gerusalemme, la ricerca di potenza, di benessere e di prestigio dei discepoli si scontra con la logica di Gesù, secondo cui il Regno è servizio e in esso il primo è colui che serve. Gesù, si ferma, si siede, nell’atteggiamento di chi sta per dare un’istruzione importante. La discussione culminerà più avanti con questa affermazione che ricapitola tutto, dove Gesù di nuovo si pone come esempio: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).

Ecco allora che il gesto di prendere un bambino e abbracciarlo rafforza il contenuto delle affermazioni di Gesù. Il Maestro vuole essere accolto non solo perché lui è il «più grande», come potrebbe apparire agli occhi dei discepoli. Ma il bambino (paidion) che ha le dimensioni dell’ultimo, essendo il più piccolo, ritenuto senza importanza e soggetto senza particolari diritti, agli occhi di Gesù incarna la misura ideale del Regno di Dio. Questo è paragonato ad un seme di modeste dimensioni che pure cresce e diventa un albero. Allo stesso modo Gesù, come il seme, dovrà morire per portare frutto (Mc 4,8). Per questo chi accoglie il piccolo bambino, non solo accoglie Gesù stesso, ma perfino il Padre da cui tutto ha origine e che ha mandato Gesù.

Secoli più tardi il Signore susciterà nella Chiesa la santità di Teresa del Bambin Gesù, nel Carmelo di Lisieux. Il suo cammino spirituale, l’infanzia evangelica, così fu descritta nel 1913 da Joseph Lotte, un letterato francese convertito, amico e confidente di Péguy:

«E il Signore ebbe pietà di questa moltitudine… Prese una bambina, Teresa, e la pose in mezzo agli apostoli; e questa bambina rivelò loro verità così semplici, così attraenti, che i dottori furono costretti a confessare la loro ignoranza, e si fecero discepoli della fanciulletta per insegnare al popolo la sua dottrina».

Dall’Eremo, 21 settembre 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Facendo uso di segni visibili Gesù ci porta dal materiale allo spirituale

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

FACENDO USO DI SEGNI VISIBILI GESÙ CI PORTA DAL MATERIALE ALLO SPIRITUALE

Gesù proclamerà la beatitudine di chi crede senza avere visto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». La fede apre gli occhi e consente di risalire dal segno al suo significato profondo, dal dono al Donatore, dalla realtà materiale alla sua dimensione simbolica, dal pane materiale al «pane della vita»

 

 

 

 

 

 

 

 

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La lettura del Vangelo giovanneo ci mette in contatto col modo particolare che ha questo autore di narrare le vicende di Gesù. L’intento del singolare evangelista è quello di elevarci dal semplice fatto storico narrato al significato o mistero in esso nascosto. A lui si potrebbe applicare quel che scrisse Gregorio Magno riferendosi alla Sacra Scrittura: «Uno eodemque sermone dum narrat textum, prodit mysterium (Perché con una stessa parola mentre espone il testo enuncia un mistero)» (Moralia in Iob, XX,1).

L’esposizione di una domanda e talvolta il fraintendere tornano utili all’autore del Quarto Vangelo per compiere questa operazione ermeneutica. La Samaritana chiede a Gesù come possa attingere al pozzo senza un mezzo, la Maddalena domanda dove fosse stato posto il corpo di Gesù che non trovava più. I primissimi discepoli chiedono a Gesù: «Dove rimani?». Nella pagina evangelica di questa XVIII Domenica le domande sono addirittura tre: «Rabbi, quando sei venuto qua?»; «Che cosa dobbiamo compiere?»; «Quale segno tu compi perché vediamo e crediamo?». Ecco la pagina del Vangelo di cui vogliamo parlare.

«In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”. Gesù rispose loro: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. Gesù rispose loro: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Allora gli dissero: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: ‘Diede loro da mangiare un pane dal cielo’. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”. Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”» (Gv 6,24-35).

Con il brano odierno il Lezionario ci introduce nel discorso sul pane di vita contenuto nel capitolo VI del Quarto Vangelo. Le annotazioni iniziali ci mettono in contatto con l’affanno delle folle che cercano Gesù. Se teniamo presente ciò che riferisce il v. 23: «il luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie»; si comprende ciò che era rimasto impresso nella memoria della folla. L’aver mangiato pane abbondante è uno stadio iniziale, ma basta a mettere in movimento le persone alla ricerca di Gesù. La descrizione di questa è un po’ confusa, come a far percepire, attraverso l’affanno e l’ansia della folla, una incoativa ricerca di fede: prima vedono una sola barca, poi notano che Gesù che non vi era salito, quindi vedono arrivare altre imbarcazioni (vv. 22. 23). E quando finalmente lo rintracciano in Cafarnao la domanda «Quando sei venuto qua?» (Gv 6,25), mostra più un interesse sugli spostamenti di Gesù, come sia potuto sfuggir loro, che l’aver compreso il significato recondito del segno compiuto da Gesù. Il lettore è così spontaneamente invitato a chiedersi: «Cosa cerchiamo quando desideriamo incontrare Gesù?».

Le parole di Gesù mettono inizialmente a nudo questa ricerca che non va in profondità e si arresta sul limitare del bisogno soddisfatto: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). Le folle non hanno capito il segno e la straordinaria novità che esso indicava e cioè che in Gesù si rivela la sovrabbondante gratuità di Dio che non è circoscritta al bisogno imminente, presente ora, ma conduce ad un futuro eterno. Ciò che dice Gesù è decisivo in proposito: «Mettetevi all’opera per il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà» (Gv 6,27).

Il verbo utilizzato, ἐργάζεσθε, che significa lavorare, fare concretamente, guadagnare, richiama l’altra curiosa espressione di Gesù ricordata nel Vangelo di Giovanni: «fare la Verità».  La prima cosa che si aspetta da un uomo che viene messo a confronto col Cristo e con la sua parola è che egli «faccia la verità». Questa formula biblica non significa come si potrebbe pensare: vivere in conformità con la verità. «Fare la verità» comporta, nel Quarto Vangelo, tutto il processo di assimilazione della rivelazione portata da Gesù, il cammino del progresso nella fede; significa «far propria la verità» di Gesù, ascoltando la sua parola e contemplando la sua persona e le sue azioni. Così l’uomo entra progressivamente nel mistero di Cristo e diventa cristiano. Ma credere non basta. Il credente deve anche approfondire la sua fede. È ciò che Giovanni definisce con l’espressione: «conoscere la verità». Questa conoscenza profonda non si acquista in un giorno; essa si ottiene a poco a poco, col ritmo stesso dello sviluppo della fede.

Ecco allora che Gesù, secondo il modo proprio di narrare giovanneo, ci fa entrare nella comprensione profonda del segno compiuto, passando dal materiale allo spirituale, dal bisogno al desiderio di Dio, alla fede nel Cristo che dona il pane di vita eterna. Rispondendo, dunque, alla domanda delle persone su quali siano le «opere di Dio» da compiere (v. 28), Gesù non rinvia alle «buone opere», per esempio del digiuno, dell’elemosina o della preghiera. Non ci sono molte opere, ma una sola: l’opera della fede. La famosa diatriba fra la fede e le opere in San Giovanni è superata affermando che la fede è l’opera essenziale e necessaria. Essa dà il senso e l’orientamento alla sacramentalità delle azioni del cristiano. L’opera di Dio, ovvero ciò che consente a Dio di operare nell’uomo, è la fede, così espressa da Gesù: «Credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). E richiamando il tema del fare e della Verità, precedentemente accennato, nello stesso Vangelo Gesù aveva affermato: «Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21).

La risposta di Gesù non viene recepita e compresa in profondità dai suoi interlocutori che gli chiedono di nuovo un segno che legittimi la sua autorità e li abiliti a «vedere e credere» (Gv 6,30). Per dare fondamento alla richiesta le folle citano l’episodio avvenuto durante l’esodo dei figli d’Israele dall’Egitto, quando il dono della manna legittimò l’autorità di Mosè (Es 16,4.15; Sal 78,24). Siamo ancora nell’ottica dei prodigi e del dono di scambio, come avviene fra i poteri di questo mondo, un’ottica aborrita da Gesù per cui chi ha visto i suoi segni vuole farlo re (Gv 6,14-15). Ma alla logica del «vedere per credere» delle folle, Gesù oppone di fatto il «credere per vedere». Non dirà forse a Marta: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11,40)? A Tommaso che afferma: «Se non vedo, … io non credo» (Gv 20,25) Gesù proclamerà la beatitudine di chi crede senza avere visto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). La fede apre gli occhi e consente di risalire dal segno al suo significato profondo, dal dono al Donatore, dalla realtà materiale alla sua dimensione simbolica, dal pane materiale al «pane della vita» (Gv 6,35), il «pane vero» (Gv 6,32), il «pane di Dio» (Gv 6,33), il pane che non è frutto della terra, ma «che discende dal cielo» (Gv 6,33).

Gesù chiarisce allora per mezzo di una sua affermazione di fede, la quale opera un passaggio dal passato al presente, dai fatti dell’Esodo all’oggi, e rivela chi dona il Pane, quello vero, che è Gesù il Cristo: «Non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane del cielo, quello vero» (Gv 6,32). Dio che per Gesù è «il Padre mio» (Gv 6,33) non «diede», come in passato, ma finalmente «dà» oggi e sempre questo pane. Questo è il punto culminante dove Gesù svela l’opera di Dio Padre che si compie in Lui e che la manna del deserto sinaitico prefigurava. E la rivelazione è che questo pane è il Cristo stesso: «Io sono il pane della vita». La pericope evangelica di questa domenica si arresta qui, su questa autorivelazione: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai» (Gv 6,35).

Il padre latino Sant’Ambrogio (339-340 – 397), commentando il Salmo 118, così si esprime:

«Sta a te prendere questo pane. Accostati a questo pane e lo prenderai. Se ti allontanerai da Cristo, morirai, se ti avvicinerai a Cristo, vivrai. Questo è il pane della vita: dunque, chi mangia la Vita, non può morire. Come potrà morire chi ha per cibo la Vita? Come potrà venir meno chi avrà la Vita per sostentamento? Accostatevi a Lui e saziatevi: Egli è pane. Accostatevi a Lui e bevete: Egli è la sorgente. Accostatevi a Lui e lasciatevi illuminare: Egli è la luce. Accostatevi a Lui e lasciatevi liberare: infatti dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è la libertà. Accostatevi a Lui e lasciatevi sciogliere dai legami: Egli è la remissione dei peccati. Vi domandate chi Egli sia? Ascoltate quello che lui stesso dice: “Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame, chi viene a me non avrà più sete”».

 

Dall’Eremo, 4 agosto 2024

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Maria Maddalena «La apostola degli apostoli», da una meditazione mattutina per le Carmelitane scalze

MARIA MADDALENA, LA «APOSTOLA DEGLI APOSTOLI», DA UNA MEDITAZIONE MATTUTINA PER LE CARMELITANE SCALZE

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Tenerissimo rimane nei secoli il quesito di Maria di Magdala, che spaurita dinanzi al sepolcro vuoto geme addolorata: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». E, detto questo, poco dopo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi, alle sue spalle; ma la sua ragione non sapeva che era Gesù; fu però quella stessa ragione che la portò sùbito a compiere il salto della fede dinanzi al celeste corpo di luce del Risorto, che ella riconobbe dalla sua voce che pronunciò il suo nome: «Maria!».

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Meditazione sulla figura di Maria di Magdala offerta alle Carmelitane Scalze nella mattina odierna.

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Nella festa di oggi la Chiesa universale celebra la memoria liturgica di Santa Maria Maddalena, una figura femminile straordinaria nell’esperienza cristologica che ci richiama al Beato Apostolo Paolo che, rivolgendosi agli abitanti di Corinto, chiarisce in poche e brevi parole il fondamento della nostra fede:

«Se Cristo non fosse veramente risorto, vana sarebbe la nostra fede e vana la nostra speranza» (I Cor, 15).

Dinanzi al sepolcro vuoto di Cristo risorto, il legame tra ragione e fede, più che stretto è inscindibile. Perché con la ragione si arriva alla pietra rovesciata del sepolcro di Cristo Dio, con la fede si entra nell’eterno mistero del Risorto.

Monica Bellucci nel ruolo di Maddalena nel film The Passion, 2004.

Sulle parole del Beato Apostolo Paolo, che nella risurrezione del Cristo ci indica il mistero dei misteri sul quale la nostra fede può reggersi o morire, sorge razionale la domanda: ma che cosa è la fede? E non uso certo a caso la parola “razionale”, perché il rapporto tra ratio e fides, ragione e fede, è messo in luce da tre Santi Padri e dottori della Chiesa che costituiscono le colonne della speculazione teologica: Sant’Agostino vescovo d’Ippona, Sant’Anselmo d’Aosta prima Abate de Le Bec e poi Arcivescovo di Canterbury,  San Tommaso d’Aquino.

La costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, Dei Verbum, riprende quasi alla lettera il testo della costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I, ribadendo in una linea di continuità con il precedente magistero e col Concilio di Trento il «Rapporto tra fede e ragione» espresso con queste parole:

«La medesima Santa Madre Chiesa professa ed insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (cf. Rm 1,20) [1]».

A un secolo circa di distanza dal Vaticano I, seguendo l’insegnamento dell’Aquinate il Santo Pontefice Giovanni Paolo II ci donò la sua enciclica sulla fede e la ragione, la Fides et Ratio.

Al grande quesito “cos’è la fede”, che in noi risuona grazie al dono divino della ragione, l’Autore della Lettera agli Ebrei fornisce risposta dicendo: 

«la fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di realtà che non si vedono» (Eb 11, 1).

Per aprirsi alla fede, che è al tempo stesso «certezza » e «speranza», è necessario proiettarci in una dimensione di eternità, perché la fonte della fede è l’Eterno.

Il Servo di Dio Anastasio Ballestrero soleva dire che «La vita presente è spazio di beatitudine nella misura in cui si radica in essa l’eternità».

Questo racconto della risurrezione del Cristo, col quale si conclude l’intero Vangelo del Beato Apostolo Giovanni, si colloca nell’Eterno come porta aperta sulla via verso l’ἔσχατον, il giorno glorioso nel quale Cristo tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. E tutto questo è una sfida all’umana ragione per indurre l’uomo al grande passo della fede.

Il Beato Evangelista seguita a narrare che mentre i due discepoli tornavano a casa, Maria rimase piangente all’esterno del sepolcro:

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?” Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e dì loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto (Gv 20,1-2 e 11-18).

Durante i sacri riti della Pasqua di risurrezione cantiamo un’antica sequenza di rara bellezza il Victimae Paschalis, di cui una strofa recita: Mors et vita duello conflixere mirando ... (la morte e la vita si affronteranno in un prodigioso duello). E da questo duello n’è uscita sconfitta la morte, perché la risurrezione del Cristo è un’esplosione di amore vitale senza inizio e senza fine che ci riporta alla dimensione eterna della nostra originaria esistenza nell’antico Giardino di Eden, perché con Cristo tutti siamo morti al peccato e con Lui tutti siamo risorti. Come infatti tutti siamo stati coinvolti nel peccato di Adamo, tutti siamo stati coinvolti e resi partecipi della risurrezione redentrice del Cristo.

La morte ci tocca sempre in modo doloroso, specie quando ci priva di affetti preziosi, ce lo dimostra Maria Maddalena col suo tenero lamento. Ma per quanto dolorosa, la morte non ci tocca per sempre, ci coglie per un momento di passaggio verso l’eternità, come proclamiamo nella nostra professione di fede:

«… credo nella risurrezione dei morti e nella vita del mondo che verrà».

E ancora, in modo diverso ma simile, lo proclamiamo durante la Santa Messa sulle Santissime Specie Eucaristiche di Cristo presente vivo e vero col Suo corpo, il Suo sangue la Sua anima e la Sua divinità, acclamando:

«Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta».

Per capire cosa Maddalena stesse provando in cuor proprio in quel momento, potrebbe esserci di aiuto San Giovanni della Croce, che come tutti i veri mistici viveva coi piedi saldi a terra, perché è dalla Gerusalemme terrena che siamo chiamati a proiettarci verso l’eterna Gerusalemme celeste. Rifacendosi al Beato Apostolo Paolo (cfr. Rm 14, 3) egli esorta:

«Chi agisce secondo la ragione è come colui che si nutre di cibi sostanziosi; chi invece si muove dietro al gusto della volontà è come chi si nutre di frutta fradicia»[2].

Per questo, a soli 49 anni, giunto alla pienezza in Cristo dopo avere volato sulle «due ali»[3] della fede e della ragione, San Giovanni della Croce accolse la morte calato nella spirituale coerenza che pochi anni prima lo portò a scrivere nella sua celebre poesia «Rompi la tela ormai al dolce incontro»[4]. E quella che egli raffigurò come «tela», era la raffigurazione mistico-poetica dell’ultimo strappo attraverso il quale, passando per la pietra rovesciata del sepolcro vuoto del Risorto, si giunge alla contemplazione del Divino Agnello Vittorioso che trionfa sulla morte e che attraverso il mistero della sua risurrezione ci coinvolge nell’eternità; e chi è riuscito ad assaporare l’eterno, dirà assieme al Beato Apostolo Paolo: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (I Fil 1, 21).   

Tenerissimo rimane nei secoli il quesito di Maria di Magdala, che spaurita dinanzi al sepolcro vuoto geme addolorata:

«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

E, detto questo, poco dopo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi, alle sue spalle; ma la sua ragione non sapeva che era Gesù; fu però quella stessa ragione che la portò sùbito a compiere il salto della fede dinanzi al celeste corpo di luce del Risorto, che ella riconobbe dalla sua voce che pronunciò il suo nome: «Maria!».

Se distogliamo il nostro sguardo impaurito dalla pietra rovesciata dei nostri sepolcri vuoti, scopriremo quanto l’amore dell’Eterno va oltre la morte, basta che ci voltiamo indietro; e giorno per giorno scopriremo che l’alpha e l’omega, il Verbo di Dio, è alle nostre spalle, a chiamarci per nome, perché tutti noi siamo nel divino cuore del grande mistero del Padre, che ci ha voluti, amati e chiamati per nome prima ancora dell’inizio dei tempi.

Maria di Màgdala è donna che cerca l’amato del suo cuore, ed a lei la Chiesa, in questa liturgia della Parola, rivolge le parole del Libro del Cantico dei Cantici nel quale è rivelato l’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per il suo Dio:

«… ho cercato l’amore dell’anima mia […] trovai l’amore dell’anima mia».

Tra il II e il III secolo Sant’Ippolito di Roma[5] la definisce «l’Apostola degli Apostoli». Ella è infatti la prima a vedere Cristo risorto, secondo il racconto del Beato Evangelista Giovanni. E dopo averlo riconosciuto è corsa a dirlo agli undici Apostoli, nascosti e sconvolti da ciò che avevano visto pochi giorni prima sul Golgota. E da questo episodio si comprende quanto venerabile sia la figura della Maddalena, inviata da Cristo ad annunciare la sua risurrezione a quegli intimoriti che pochi giorni prima, durante l’Ultima Cena, aveva istituiti sacerdoti della Nuova Alleanza; gli stessi che pochi giorni prima, come narra un passo drammatico del Vangelo: «E tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono» (cfr. Mt 26, 56). E il primo degli Apostoli, rivestito da Cristo Dio di una funzione vicaria e da Egli definito come roccia edificante della sua Chiesa (cfr. Mt 16, 13-20), dinanzi allo scenario sconvolgente della cattura e della condanna del Divino Maestro, non disse, come disse sul monte Athos durante la trasfigurazione di Cristo «… rimaniamo qui», anzi «facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» (cfr.  Mc 9, 2-8). Dopo che Cristo ebbe sudato sangue nell’orto degli ulivi andando poco dopo incontro alla sua dolorosa passione, Pietro lo rinnegò per tre volte. E anche l’abbandono di Dio da parte dei suoi apostoli e sacerdoti, fa parte, da sempre, del mistero della Chiesa; fa parte, da sempre, del mistero della fede. Per prendere infatti la nostra croce e seguirlo (cfr.  Mc 8, 27-35), non basta la sola ragione, perché occorre fare attraverso la ragione il salto della fede. Solo così potremo riconoscere il Risorto che alle spalle ci chiama per nome, perché tutti, siamo chiamati a essere Maria. E, come Maria, essere annunciatori della sua Risurrezione.

dall’Isola di Patmos, 22 luglio 2024

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NOTE 

[1] Concilio Vaticano I: Denz. -Schönm., 3004; cf 3026

[2] San Giovanni della Croce, da Le orazioni dell’anima innamorata, n. 43.

[3] Cf. San Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, preambolo introduttivo.

[4] San Giovanni della Croce, da O fiamma di amor viva.

[5] Ippolito Romano [170-235 d.C], teologo e presbitero. Fu il primo antipapa della storia della Chiesa, morì riconciliato con il legittimo Pontefice Ponziano, assieme al quale morì in Sardegna dopo essere stato condannato ad metalla (ai lavori forzati) da Massimino il Trace.

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

VENITE IN DISPARTE, IN UN LUOGO SOLITARIO, E RIPOSATEVI UN PO’

Il Signore non vuole che si sentano protagonisti esclusivi del bene che hanno compiuto, cedendo al rischio di appropriarsi di quanto hanno realizzato. Ricordiamo infatti che gli apostoli sono stati chiamati e inviati e il potere che a loro è stato conferito proveniva da Gesù, dalla sua autorità.

 

 

 

 

 

 

 

 

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La porzione di testo evangelico scelto per la Liturgia di questa XVI Domenica del Tempo Ordinario salta a piè pari tutta la narrazione della morte di Giovanni il Battista (Mc 6,17-29), che, nell’opera marciana, segue il Vangelo di domenica scorsa, dove viene descritta diffusamente e con dovizia di particolari. In effetti, stando al racconto di Marco, sia Gesù che i discepoli sembrano non accorgersi della morte del Battista. Cosa che non succede naturalmente ai discepoli di Giovanni che ne raccolgono e seppelliscono il cadavere. Così pure Matteo deve aver percepito questa discrepanza e infatti nella sua opera stabilisce un collegamento tra la morte di Giovanni e Gesù che decide di andare in disparte con i suoi, poiché scrive:

«I discepoli [del Battista] andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù. Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,12-14).

Vincent van Gogh, Mezzogiorno, riposo dal lavoro, 1890, Parigi, Musée d’Orsay

Se nella versione di Matteo si può evincere che Gesù si ritira in un luogo solitario per poter riflettere sulla morte del suo antico maestro, noi, invece, seguendo Marco, possiamo cercare altre ragioni all’invito di Gesù: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Ricordiamo anche che per Marco il racconto della morte di Giovanni voluta da Erode parte dalla constatazione di quest’ultimo su Gesù: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!» (Mc 6, 16). Ecco la pericope inserita nella Liturgia della Parola:

«In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,30-34).

Nel desiderio di Gesù di ascoltare il resoconto degli apostoli e nella voglia che essi hanno di riferire quanto hanno «fatto e insegnato» (Mc 6, 30) troviamo il motivo per cui Egli li invita in disparte. Il Signore non vuole che si sentano protagonisti esclusivi del bene che hanno compiuto, cedendo al rischio di appropriarsi di quanto hanno realizzato. Ricordiamo infatti che gli apostoli sono stati chiamati e inviati e il potere che a loro è stato conferito proveniva da Gesù, dalla sua autorità. Questa evidenza getta un anticipato sguardo su quelle che saranno le dinamiche della missione post pasquale e che riguardano la Chiesa di ogni tempo. Da parte dei missionari, gli Apostoli come ogni altro annunciatore del Vangelo, viene messo un grande impegno ed un forte entusiasmo, ma il risultato è garantito dalla forza della Parola che ha in sé una potenza che oltrepassa anche chi la annuncia (Rom 1,16). La tentazione è sempre quella, che gli inviati si percepiscano come gli artefici del successo e che la buona riuscita sia solo opera loro. Gesù insegnerà ai discepoli, ce lo ricorda l’evangelista Luca, che:

«Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).

Gesù, invitando i Dodici a riposarsi con lui, li invita anche a distaccarsi da quanto hanno fatto e insegnato. In questo senso comprendiamo anche il tema del riposo e ciò che seguirà dopo. Oltre che essere un segno di attenzione umana, come quella che Gesù aveva avuto nei confronti della figlia di Giairo riportata in vita, invitando gli astanti a darle da mangiare (Mc 5,43), il riposo in tutta la Scrittura ha anche un significato teologico. Si va dal riposo di Dio al termine dell’opera creata, alla ripresa dello stesso nello scritto della Lettera agli Ebrei:

«Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza» (Eb 4,10-11).

Anche nel Vangelo di Matteo troviamo un invito al riposo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Il riposo dei discepoli, oltre che avere una valenza umanissima, ricorda molto la consapevolezza spirituale che il salmista aveva cantato:

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome» (Sal 23).

A questo punto si capisce che se da un lato viene richiesta la presa di distanza dall’opera compiuta, superando quella umana tentazione di sentirsene custodi e padroni per tutto l’impegno che vi è stato profuso, dall’altra il riposo fa gustare ciò che è essenziale e che corrisponde al primo motivo per cui i Dodici furono scelti: «Ne costituì Dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Lo «stare con lui» richiama alla memoria quell’episodio evangelico, riportato da Luca, che vede contrapposte l’operosa Marta e l’oziosa Maria che rimane vicina a Gesù per ascoltarlo. Le due sorelle, a torto o a proposito, sono state prese a modello della vita attiva o della contemplativa:

«Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 41-42).

Ciò che segue è importante, perché costituisce una buona introduzione a quel che verrà dopo, sia nel Vangelo che nel Lezionario liturgico: il racconto della «Moltiplicazione dei pani» impegnerà infatti le domeniche dell’anno liturgico dalla prossima, la diciassettesima, fino alla ventesima. Un racconto decisivo che ritroviamo anche nell’intero capitolo sesto di Giovanni e che ci aiuterà a capire, attraverso il segno del pane, chi è Gesù e quale dono offre. Il fatto che la Chiesa ancora oggi continui a donare quel pane, in diverse maniere, ci fa capire quanto ciò sia importante per la fede e per la vita dei cristiani. Quindi Gesù coi discepoli «andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte», ma il narratore aggiunge che «molti li videro partire e capirono e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero» (Mc 6,33). Il lettore in questo modo non è stupito quando, sbarcato, Gesù si rende conto che il luogo in cui si è recato non è per niente in disparte, ma anzi è più che mai popolato. Il lettore, preparato dall’abile narrazione marciana, si chiede: «Come reagirà Gesù?». E la risposta è presto data, vista la numerosa folla: «Ne provò compassione perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Dietro a quel provare compassione vi è il comprendere la sete profonda di Parola di Dio, di Vangelo, che ha spinto quelle persone a precedere a piedi sull’altra riva l’imbarcazione con Gesù e i discepoli. Erano «pecore senza pastore».

Nell’Antico Testamento questa espressione ricorre diverse volte per indicare un popolo sbandato per mancanza di capi o a causa di cattivi dirigenti (Nm 27,17; 1Re 22,17; 2Cr 18,16; Gdt 11,19). Possiamo però pensare anche ad un velato riferimento alla morte di Giovanni Battista; Gesù sente di dover continuare il suo ministero perché le folle che ugualmente accorrevano da Giovanni non si trovino abbandonate (Mc 1,5). Il desiderio disatteso, il riposo frustrato, viene così colto non come problema ma come occasione. Il progetto di riposo viene accantonato per andare incontro al bisogno delle folle. Ma come abbiamo letto non è certo un’etica del dovere che porta Gesù a questa scelta, bensì la compassione. Il riposo può attendere se urge un servizio tanto necessario quanto richiesto e verranno altri momenti per ritirarsi in luoghi appartati e riposare coi suoi discepoli.

La compassione è l’origine e il fondamento dell’azione di Gesù, perciò «si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Come si era accorto del bisogno di riposo dei Dodici ora vede la fame di Parola delle genti che lo cercano. Non ne prova fastidio o si innervosisce, ma immediatamente inizia a predicare e ad annunciare il Vangelo. Accetta di mutare il proprio progetto, perché la compassione che prova Gesù è più di un sentimento di pietà o commiserazione, piuttosto un portare l’altro dentro di sé, accoglierlo profondamente. Così come Egli aveva accolto il progetto del Padre:

«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare» (Gv 17, 3-4). 

Manzoni nel suo romanzo «I promessi sposi» da una lettura di cosa sia la compassione, i suoi effetti e cosa la provoca da un punto di vista religioso. Nel capitolo ventunesimo dell’opera riferisce il dialogo fra il Nibbio e l’Innominato che gli aveva ordinato il rapimento di Lucia: 

«…M’ha fatto troppa compassione». «Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?». «Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo». «Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione». «O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…».

Che cosa aveva fatto la rapita se non chiedere il perché della violenza, implorare il rilascio e provare tutti i sentimenti e i moti dell’animo che si possono vivere in tali circostanze? Manzoni dopo averli descritti e accertata l’impotenza di arginare la dura contingenza così dice nel romanzo: «Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini…» (Cap. XX).

Dall’Eremo, 21 luglio 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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