Dalle “balle spaziali” sul Codice di Diritto Canonico a Benedetto XVI indicato come un grande latinista che non può commettere errori

DALLE “BALLE SPAZIALI” SUL CODICE DI DIRITTO CANONICO A BENEDETTO XVI INDICATO COME UN GRANDE LATINISTA CHE NON PUÒ COMMETTERE ERRORI 

Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.

— Attualità ecclesiale —

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Benedetto XVI annuncia il sua atto di rinuncia. Video con traduzione in italiano (cliccare sull’immagine per aprire il video)

Mai userei questa rivista che alla fine del corrente anno 2022 sta per giungere a oltre venti milioni di visite totalizzate in 11 mesi ― e ancora manca il mese di dicembre ― per dare visibilità a soggetti che sbraitano «… questi nostri sono numeri che fanno tremare!», il tutto dinanzi a poche migliaia di persone che ascoltano un video delirante su YouTube per fare quattro risate con le insulsaggini enunciate da qualche squinternato. Se lo facessi, oltre a ledere la serietà del lavoro che portiamo avanti dal 2014 mancherei di rispetto ai miei confratelli teologi e redattori, che considero preziosi come le pupille dei miei occhi.

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Come risaputo per i social media impazzano soggetti che si sono costruiti il proprio “ghetto telematico” affermando a gruppi di svalvolati ― o peggio dimostrando inconfutabilmente, a loro dire ― che l’atto di rinuncia del Sommo Pontefice Benedetto XVI è invalido per difetto di forma e che quindi non avrebbe fatto formale e valido atto di rinuncia, non avendo rispettato il dettato del Codice di Diritto Canonico che recita:

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«Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti» [cfr. canone 332 §2].

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Gli esotici personaggi in questione evitano sempre di leggere l’intero testo di questo canone che si inserisce integralmente e inscindibilmente nei canoni 330-367 dedicati a «La Suprema Autorità della Chiesa». Non solo, fanno peggio: citano esclusivamente due parole: «debitamente manifestata». Poi, per colpire l’esercito di analfabeti funzionali e di analfabeti digitali che credono alle loro idiozie come i bifolchi del contado credevano alle mirabolanti reliquie esibite dal boccaccesco Frate Cipolla [cfr. QUI], pronunciano come un abracadabra le due stesse parole in latino per produrre effetto misterico: «rite manifestetur». Seguono tutte le loro teorie equiparabili al film comico-fantascientifico Balle spaziali in cui confondono con crassa ignoranza i concetti di munus e ministerium sul piano giuridico e teologico, tirando in ballo codici da decifrare con i quali Benedetto XVI parlerebbe in modo criptico attraverso … anfibologie (!?). Il nostro confratello fiorentino Simone Pifizzi tirerebbe in ballo la toscanissima saga Amici miei: «La supercazzola prematurata con scappellamento a destra». Supercazzola alla quale il nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci ha dedicato più articoli per spiegare che questo termine è stato assunto dal corrente linguaggio filosofico per definire una affermazione totalmente priva di razionalità e senso logico [cfr. QUI].

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La crassa ignoranza dei manipolatori delle leggi ecclesiastiche gioca da sempre sul concetto di munus e ministerium: «… e perché Benedetto XVI ha rinunciato al ministerium e non al munus?». Ergo, «… ciò rende invalido il suo atto di rinuncia». E così, un esercito di fragili analfabeti funzionali e digitali, calandosi nel ruolo dei pappagalli parlanti si mettono a sproloquiare sui social media: «Benedetto XVI non ha rinunciato al munus», salvo non sapere cosa siano, significhino e comportino munus e ministerium. Dopodiché si mutano a loro volta in seminatori di confusione e soprattutto di odio verso la «falsa chiesa anticristica dell’antipapa usurpatore Bergoglio emissario di Satana». Cerchiamo di spiegare il tutto in modo quanto più semplice possibile: il munus è un “dono ricevuto” derivante da Sacramento, il ministerium è invece l’esercizio di questo ministero legato al munus, ossia al Sacramento. Esempio: con il Sacramento dell’Ordine io ho ricevuto il  “munus“, o meglio i tria munera (tre “doni”) che consistono in: insegnare, santificare e guidare/governare il Popolo di Dio. Questi tria munera si concretizzano poi attraverso il ministerium, che è l’esercizio del sacro ministero sacerdotale. Adesso prestate attenzione: per varie ragioni e motivi legati a gravi problemi di salute o a problemi personali altrettanto gravi, potrei chiedere di rinunciare all’esercizio del ministerium. Potrei anche chiedere di essere dispensato da tutti i doveri e dagli obblighi che il ministero sacerdotale comporta e che la Chiesa mi potrebbe concedere sino alla dispensa canonica dagli obblighi del celibato consentendomi di contrarre matrimonio e di avere una famiglia. Però non potrei mai chiedere di rinunciare al munus, perché sarebbe come chiedere di annullare il Sacramento dell’Ordine, cosa impossibile, perché il Sacramento è indelebile e incancellabile. Non solo, il Sacramento mi ha conferito un nuovo carattere che mi ha ontologicamente trasformato, il quale seguirebbe a permanere anche se fossi dispensato da tutti i doveri e gli obblighi derivanti dal ministerium.

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Altra cosa invece il Papato, che non è né l’ottavo Sacramento né il massimo grado del Sacramento dell’Ordine diviso al suo interno in tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato. L’ufficio del Successore di Pietro non è conferito per via sacramentale ma per via puramente giuridica. Non a caso il Romano Pontefice non riceve una consacrazione sacramentale, viene “intronizzato”, o come si dice oggi “inizia il ministero petrino”. Se all’atto della sua elezione l’eletto non fosse rivestito del carattere episcopale, in tal caso si deve procedere a consacrarlo vescovo:

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«Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale» [cfr. Canone 332 – §1].

La trasmissione della successione petrina è pertanto unicamente giuridica e conferisce quindi sul piano giuridico, non sacramentale, il ministerium della pienezza della suprema giurisdizione sulla Chiesa universale. Il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Pertanto, se il Romano Pontefice fa atto di rinuncia, in tal caso rinuncerà al ministerium ricevuto per via giuridica, ma in lui seguiterà a permanere il munus episcopale ricevuto per via sacramentale. La rinuncia all’ufficio petrino, ossia al ministerium, comporta la perdita della giurisdizione pontificia che per via giuridica è stata conferita e alla quale per via giuridica si può rinunciare. Anche per questo sarebbe molto problematico definire un pontefice rinunciatario come “Vescovo emerito di Roma”, non potendo applicare alla sede petrina, proprio per la sua particolarità, i principi dell’emeritato dei vescovi diocesani, perché come già detto in precedenza: il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Ma questo sarebbe un ulteriore discorso che non può essere trattato adesso in questa sede.

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Chiariamo ulteriormente come certi soggetti facciano immane confusione affermando in modo assurdo e ottuso che Benedetto XVI avrebbe rinunciato all’ufficio di Romano Pontefice (ministerium) ma non a essere Romano Pontefice (munus). Tra i vari documenti citati a sproposito per supportare le loro assurde tesi c’è Lumen Gentium. Anche in questo caso è bene chiarire: all’interno di questo documento del Concilio Vaticano II [cfr. Capitolo III] è operata sì una distinzione tra munus ed esercizio della potestas, ma riferito all’esercizio del ministero episcopale basato sulla duplice trasmissione del potere, che è sacramentale per quanto riguarda l’ordine sacro e la consacrazione episcopale sorretta sul munus, di tipo giuridico per quanto riguarda invece la missione canonica conferita all’episcopo, ossia il ministerium inteso come potestas. È su questa distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis che è stata istituita dal Santo Pontefice Paolo VI la figura del vescovo emerito che giunto a 75 anni rinuncia al governo della diocesi a lui affidata, perdendo quindi la potestas iurisdictionis, ma conservando sempre il munus episcopale a lui trasmesso per via sacramentale mediante il conferimento della pienezza del sacerdozio apostolico. Il tutto a riprova di come certi personaggi manipolano i documenti della Chiesa e ne tirano fuori ciò che in essi non è scritto. La novità introdotta da Benedetto XVI consiste nel titolo e nello status di “papa emerito” da lui creato in modo felice o infelice, con risultati che solo la storia potrà valutare, assumendo questo titolo allo stesso modo in cui è assunto dai vescovi diocesani che rinunciano al ministerium acquisito per via giuridica ma mantenendo il munus acquisito per via sacramentale. Come già spiegato in precedenza, se Benedetto XVI avesse assunto il titolo di “Vescovo emerito di Roma” sarebbe stato non poco problematico sul piano giuridico e teologico.

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Chiarito il tutto, spero che almeno alcune persone, tra i vari analfabeti funzionali e digitali che in modo superficiale e totalmente a-critico si sono messi al seguito di certi ciarlatani, possano capire in che modo e a quali livelli questi pericolosi manipolatori e falsari li stanno trascinando nel mondo dell’irrazionale per scopi tutt’altro che puliti, perché siamo dinanzi a persone che mentono sapendo di mentire, non dinanzi a soggetti affetti da semplice ignoranza inevitabile o invincibile. Siamo dinanzi a pericolosi soggetti che si sono imprigionati in menzogne che devono sostenere e tenere in piedi in ogni modo, anche negando la più logica e palese realtà dei fatti.

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Prima di commentare con rigore scientifico certi canoni usati e abusati per ciò che al loro interno non contengono, è necessario chiarire che quelle ecclesiastiche sono leggi umane basate sì sulla Rivelazione, ovvio che sia così. Ma sono e restano leggi umane create dagli uomini per dare un ordinamento giuridico e amministrativo alla Chiesa intesa come societas. Il Diritto Canonico non è un dogma di fede e non sta a fondamento del deposito della fede cattolica. Insistere quindi che Benedetto XVI non ha fatto un atto valido perché la sua rinuncia non sarebbe stata «debitamente manifestata» (rite manifestetur), è una oggettiva e clamorosa idiozia. Basterebbe leggere bene il canone 332 che recita:

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«Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».

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A seguire andrebbe letto il Canone 333 §3 che è la prosecuzione logico-giuridica del precedente e che recita:

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«Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso».

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Questo canone chiarisce che il Romano Pontefice non è soggetto alla legge umana perché è al di sopra di qualsiasi legge umana, ciò per un semplice fatto: perché egli è il supremo legislatore [cfr. Canone 331]. Presupposto logico-giuridico, questo, che precede il Canone 332 manipolato e poi mutato in cavallo di battaglia da certi squinternati, al quale fa poi seguito, con altrettanto criterio logico-giuridico, il già citato canone 333. Un impianto giuridico segue nella sua totalità un ordine logico e coerente basato su principi di logica e di non-contraddizione, solo delle menti meschine possono estrapolare e manipolare un frammento per far dire alle leggi canoniche un qualche cosa che contraddice la loro stessa struttura portante. 

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Le menti confuse che portano avanti simili teorie seminando confusione e sconcerto nei semplici e nei fragili, stanno scambiando il Romano Pontefice per il Presidente di una repubblica democratica o per il Sovrano di una monarchia costituzionale, che oltre a essere custodi e garanti della Legge sono i primi ad esservi assoggettati. Non è però propriamente così per il Romano Pontefice, che con l’uso di un termine politico improprio potremmo definire il più grande monarca assoluto del mondo, perché la potestà e il potere che ha ricevuto attraverso il ministerium gli perviene da Dio e da Dio solo può essere giudicato, non esistendo al mondo autorità umana superiore a lui che possa farlo. Il Romano Pontefice non è giudicabile neppure dalle stesse leggi canoniche perché è al di sopra di esse, essendo lui il supremo legislatore, né il Codice di Diritto Canonico prevede e regolamenta l’esercizio di quell’istituto che nei sistemi giuridici retti dalla Common law è definito come impeachment, mentre il nostro ordinamento giuridico italiano prevede all’art. 90 della Costituzione della Repubblica Italiana la messa in stato d’accusa del Capo di Stato per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Un Capo di Stato, che delle leggi è garante e custode, ed alle quali è sottoposto per primo avanti a tutti, non può abrogarle o modificarle di propria iniziativa, perché è al Parlamento che spetta farlo, il Romano Pontefice nell’esercizio delle sue potestà può invece farlo:

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«[…] egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio» [cfr. Canone 333 §2].

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Se il Romano Pontefice volesse domani mattina potrebbe alzarsi e sostituire di motu proprio tutti i canoni che vuole con altri, senza dover rendere conto a nessuno né essere ad alcun titolo tenuto a fornire spiegazioni, meno che mai giustificazioni. Nessun Capo di Stato potrebbe mai dire a un tribunale di sospendere il giudizio su un accusato e disporre la chiusura immediata del processo, il Romano Pontefice sì, potrebbe farlo con qualsiasi tribunale ecclesiastico, senza dover neppure dare spiegazioni a nessuno. Che poi questo non lo faccia, è un altro discorso, però potrebbe farlo in modo del tutto legittimo e soprattutto indiscutibile e insindacabile. Basterebbe solo aggiungere che egli potrebbe respingere persino una proposta avanzata da un concilio ecumenico unanime, perché lo stesso concilio, espressione massima dell’autorità e della collegialità dei Vescovi della Chiesa, non ha una autorità superiore a quella del Romano Pontefice. Ciò malgrado dobbiamo assistere alla semina di confusione da parte di soggetti tragici e ridicoli che insistono a confondere i semplici ponendo in discussione il suo valido atto di rinuncia, perché a loro dire Benedetto XVI non avrebbe recitato una formuletta perfetta, o perché ha fatto qualche errore di grammatica latina nella sua declaratio. Ebbene si sappia che di per sé basterebbe che la rinuncia fosse fatta almeno davanti a due testimoni, per iscritto o oralmente, secondo quanto previsto dal Canone 189, § 1. Per quanto riguarda quella di Benedetto XVI la rinuncia è stata fatta pubblicamente nel Concistoro dei Cardinali da lui convocato l’11 febbraio 2013. Vogliamo continuare veramente a giocare e a tentare di spacciare per credibili le stratosferiche idiozie sulla formuletta, o peggio sul fatto che «avesse anche fatto libero atto di rinuncia non sarebbe in ogni caso valido»? È davvero umiliante e degradante dover spiegare delle cose così ovvie a chi non vuole capire a priori, ma per la salvezza delle anime ben venga l’umiliazione intellettuale che di per sé comporta replicare alle idiozie di emeriti idioti che come tali non meriterebbero replica da parte di qualsiasi persona colta e dotata di cultura giuridica e teologica. 

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Sui social media impazzano però questi soggetti che attaccandosi alla parolina della «libera rinuncia» scissa dal loro pluri-citato Canone 332, affermano con inquietante leggerezza che «Benedetto XVI non era libero» ma che «è stato costretto con la coercizione a rinunciare» (!?) Chiariamo: per poter dichiarare e dimostrare una cosa del genere bisognerebbe che gli estensori di cotanto asserto demenziale avessero il potere di leggere la più intima e profonda coscienza del Pontefice rinunciatario. E qui passiamo dal diritto canonico alla teologia dogmatica. Solo Dio può scrutare e leggere le più intime sfere profonde della coscienza umana:

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«La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» [cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 16: AAS 58 (1966) 1037].

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Anche in questo caso la risposta è presto data, perché uno di questi soggetti non esita ad affermare che a svelargli quanto racchiuso nella coscienza di Benedetto XVI è stata la Madonna che gli avrebbe affidata la missione di lottare contro «la falsa chiesa e il falso papa usurpatore» (!?).

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È noto però quanto l’idiozia si compiaccia di sé stessa: «… siccome Benedetto XVI non può dichiarare di essere stato costretto a rinunciare, allora trasmette messaggi in codice criptico dopo essersi auto-esiliato in sede impedita».

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Come già detto in precedenza: non immaginate neppure quanto sia umiliante per un presbitero e un teologo dover scrivere su certi temi per rispondere a simili idiozie. Ma ripeto: dinanzi alle anime a noi affidate spinte da altri in grave errore, il buon pastore in cura d’anime accetta anche l’umiliazione intellettuale, che tra tutte potrebbe essere anche una delle peggiori. Se quindi andiamo a leggere i canoni 412-415 in cui si enunciano casi e situazioni che determinano la sede impedita episcopale, chiunque dovrebbe capire all’istante che non possono ricorrere nel caso di Benedetto XVI, salvo totale stravolgimento e grottesche manipolazioni di quanto racchiuso all’interno di questi canoni. Ricordo infatti che la legge si interpreta, non si manipola. La manipolazione e lo stravolgimento dei testi non ha niente a che fare con l’interpretazione, anche con quella cosiddetta estensiva. Ricordiamo per inciso che la Legge può essere interpretata o applicata in modo restrittivo o estensivo.

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Altro punto in cui si insiste è che «nella declaratio di rinuncia ci sono errori formali che la rendono in ogni caso invalida a prescindere che Benedetto XVI abbia anche fatto un atto libero di rinuncia». E con questa asserzione si dichiara e si ripete pubblicamente ― come fa da tempo un oscuro personaggio ― che la forma è superiore all’intenzione sostanziale. In questo modo la mera forma viene elevata al di sopra della volontà e del deliberato consenso. Una idiozia clamorosa! Qualsiasi persona che avesse un solo barlume di ragione dovrebbe comprendere all’istante che siamo dinanzi a espressioni che spaziano tra follia e magia, dove ciò che solo conta non è la volontà sostanziale, ma la corretta pronuncia formale di una “formula magica”. Perché a questo certi soggetti giungono: alla magia delle formule.

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Passiamo all’ultimo punto: gli errori latini. Questi soggetti affermano che a rendere invalida la rinuncia in modo inconfutabile sarebbe «la presenza di numerosi errori di sintassi latina, perché la declaratio deve essere “debitamente manifestata”» (rite manifestetur) ai sensi del pluri-citato Canone 332. Dopo avere affermato questo proseguono dicendo che «Benedetto XVI è sempre stato un fine e grande latinista e che come tale e in quanto tale non poteva fare questi errori, alcuni persino grossolani. Se però li ha fatti è stato per rendere volutamente invalida la rinuncia e ritirarsi in sede impedita». Riflettiamo: se Benedetto XVI avesse fatto una cosa del genere saremmo di fronte al Sommo Pontefice più vigliacco e bugiardo dell’intera storia del Papato.

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Il latino è una lingua insidiosa, sotto vari aspetti più del greco antico. Anzitutto è una lingua morta non più parlata da secoli. Poi bisognerebbe tener presente che esistono vari latini: il latino di Marco Tullio Cicerone o di Tito Lucrezio Caro, quello di Seneca o di Catullo non è quello in cui scriveva e si esprimeva tra il IV e il V secolo Sant’Agostino vescovo di Ippona, né quello in cui scriveva e si esprimeva tra l’XI e il XII secolo Sant’Anselmo d’Aosta. Altro ancora quello in cui si esprimeva e scriveva San Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, a sua volta del tutto diverso da quello del XVI secolo, un latino ormai relegato a precisi ambiti di persone colte, essendosi sviluppata e diffusa a cavallo tra XIII e XIV secolo, tra la Scuola di Federico II di Svevia a Palermo e di Dante Alighieri a Firenze la cosiddetta lingua volgare, che aveva non poco imbastardito lo stesso latino per i secoli a seguire, facendo confluire al suo interno neologismi che nulla avevano da spartire con l’antico latino classico. Il latino di fine Settecento inizi Ottocento era un latino ormai molto “imbastardito”. Infine quello usato in ambito scientifico, giuridico ed ecclesiastico tra fine Ottocento inizi Novecento, più che un latino era un latinetto. Non a caso esiste il preciso termine di “latino ecclesiastico”.

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Taluni ricordano che la lingua usata per tenere le lezioni nelle università ecclesiastiche sino a inizi anni Settanta era il latino. Permettetemi di sorridere e narrare che ex studenti, divenuti poi a seguire teologi di fama della Scuola Romana e professori ordinari in quelle stesse università ecclesiastiche, ultimi in ordine di serie Brunero Gherardini e Antonio Livi, mi hanno narrato in modo divertito molti gustosi aneddoti, spiegando che si trattava, più che di latino, di un latino maccheronico. O come mi disse Antonio Livi, che del latino era un cultore: «Tanto valeva usare l’italiano, o altre eventuali lingue nazionali moderne, smettendola con la pagliacciata di quello pseudo-latino che faceva fuoriuscire asinate grammaticali dalle bocche dei docenti e inducendo gli studenti a capire meno ancora di ciò che avrebbero potuto capire». Ricordo che Antonio Livi fu decano di filosofia alla Pontificia Università Lateranense, dopo avere concorso in precedenza alla istituzione della Pontificia Università della Santa Croce.

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Un conto è leggere, capire e tradurre questa lingua morta, un conto scriverla o peggio parlarla. Affermare che il giovane Joseph Ratzinger perito al concilio «parlava in latino, lui come gli altri partecipanti» è una colossale bufala, una pura leggenda metropolitana messa in circolazione da chi, non conoscendo la storia della Chiesa, non trova di meglio da fare che inventare a posteriori storie e fatti che nel passato recente, antico e remoto non sono mai esistite. Sono stato allievo di due maestri che furono entrambi periti al concilio, uno dei quali morto alle soglie dei 100 anni poche settimane fa. Durante le varie fasi del concilio, uno dei suoi compiti fu anche quello di riassumere in lingua inglese, spagnola e francese ― le tre lingue che meglio conosceva oltre alla sua madrelingua tedesca ― le varie relazioni redatte nella lingua ufficiale della Chiesa: il latino. Perché a inizi anni Sessanta molti vescovi non erano in grado di comprendere e tradurre il latino, specie quelli provenienti dai cosiddetti Paesi del Terzo Mondo e dalle varie terre di missione del continente latino americano.

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Benedetto XVI non è mai stato e non è un «raffinato latinista» ma solo un buon conoscitore del latino come lo sono molti di noi, ed è per questo più che comprensibile che abbia fatto errori nel redigere la sua declaratio di rinuncia. Qualsiasi buon conoscitore del latino li avrebbe fatti. Cercherò di chiarire meglio con un esempio personale: una volta tradussi dall’italiano al latino una mia lettera di una pagina. Dopodiché la inviai non a uno e neppure a due, ma a cinque esperti latinisti, due dei quali addetti alla traduzione dei testi ufficiali latini presso la Santa Sede. Tutti e cinque mi dissero che il testo andava quasi bene, facendomi varie correzioni grammaticali. Ebbene, ciascuno mi apportò correzioni diverse, tutte rigorosamente giuste, ma una dissimile dall’altra. Perché questo è il latino: una lingua morta dove oltre alla grammatica giocano molto sia l’interpretazione che la costruzione della struttura del testo, che può essere corretta per un latinista ma non corretta per un altro, pur avendo entrambi ragione.

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La declaratio di rinuncia di Benedetto XVI è un testo molto intimo e personale che il diretto interessato ha redatto da sé stesso dopo lunga riflessione e preghiera, facendo i conti con la propria coscienza, con la propria anima e anche con la futura storia della Chiesa alla quale l’avrebbe consegnata per i secoli avvenire come evento del tutto straordinario. Non ha sottoposto il testo della sua declaratio a quei bravi ed esperti latinisti di cui la Santa Sede dispone proprio per la delicata e intima natura di quell’atto personalissimo che è tale e che tale rimane e deve rimanere. Atto nel quale Benedetto XVI ha fatto diversi errori grammaticali, sbagliando nella forma lessicale come avrebbe fatto qualsiasi buon conoscitore che il latino è in grado di leggerlo, tradurlo e usarlo in forma privata, ma comporre in lingua latina è cosa che solo i latinisti più esperti possono fare, talvolta commettendo qualche errore anche loro. Benedetto XVI non è affatto «un fine e grande latinista», come possono esserlo quegli studiosi che allo studio di questa non facile lingua morta hanno dedicato la propria intera vita. E sono proprio i più bravi latinisti ad affermare che fare errori in una redazione latina è cosa facile per tutti coloro che il latino lo conoscono bene, senza nulla togliere alla loro conoscenza del latino. Pertanto, con buona pace delle follie e delle leggende metropolitane messe in giro da certi complottardi, ribadisco che scrivere e comporre in latino è difficile persino per gli esperti latinisti, mentre parlarlo correttamente rasenta quasi l’impossibile. A meno che non si voglia confondere il latino con il latinetto dei chierici d’inizi Novecento o con i brocardi giuridici latini, che ricordiamo sono delle brevi massime ricavate dalle leggi e per questo indicati anche come principia generalia

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Lascio valutare a tutte le persone ragionevoli se degli errori di grammatica latina possano invalidare — in nome del «rite manifestetur» estrapolato da un canone 332 e citato in modo ossessivo-compulsivo — un libero e personalissimo atto di rinuncia come quello espresso da Benedetto XVI dinanzi al Collegio dei Cardinali, che a seguire ha ribadito in tutti i discorsi pronunciati pubblicamente prima della convocazione del nuovo conclave quanto quella sua decisione sia stata ponderata e libera.

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Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremmo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.

 

Dall’Isola di Patmos, 30 novembre 2022

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