IL YELLOW SUBMARINE E LA TRAGEDIA. FINO A CHE PUNTO SI È TENUTI A SALVARE LA VITA UMANA IN TUTTI I MODI?
Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti.
L’uomo la vita la riceve in comodato d’uso,non ne è arbitrario padrone e non può disporne come reputa opportuno, né togliendo la vita, come nel caso dell’aborto, né togliendosi la vita, come nel caso dell’eutanasia, anche se oggi è difficile parlare del valore salvifico della sofferenza umana, tema al quale il Santo Pontefice Giovanni Paolo II dedicò una propria enciclica: Salvifici Doloris. La vita umana valica la stessa realtà soggettiva dell’uomo che non si dona la vita da sé stesso, ma che come dono la riceve. Quindi non può essere lui a decidere di auto-sopprimersi. È vero che la vita è nelle mani dell’uomo, ma al tempo stesso rimane un dono che va ben oltre le sue mani. Per questo, quello della vita, è un dono sacro di cui si può disporre fino a un certo punto ed entro certi limiti.
Ecco un esempio accademicoestremo e terribile che può rendere l’idea: un nutrito gruppo di S.S. sta per attraversare un ponte, valicato il quale farà una strage di civili in quel paese, proprio come avvenne a Sant’Anna di Stazzema. Sospettano infatti che in quel paese siano nascosti dei partigiani, di cui ignorano generalità e identità, per questo hanno deciso di risolvere il problema alla radice uccidendo tutti gli abitanti, senza risparmiare anziani, donne e bambini. L’unica via di accesso a quel paese è un viadotto alto decine di metri costruito tra la parete di un monte e quella dell’altro monte. I membri della resistenza lo hanno minato, pronti a farlo saltare in caso di necessità. Mentre i soldati delle S.S. lo stanno per oltrepassare una madre ignara del tutto lo sta attraversando con il suo bambino per mano. Domanda: il ponte va fatto saltare oppure no?
Dire che le vite degli innocentinon possono essere sacrificate mai e in nessun caso, è una affermazione categorica basata su emotività illogiche e surreali, soprattutto quando il “no a tutti i costi al sacrificio degli esseri umani” viene scandito in nazioni nelle quali ogni giorno sono abortiti bambini, dopo avere deciso che in quel caso non si tratta però di vittime innocenti, perché l’aborto è un vero e proprio diritto, anzi di più: «Una grande conquista sociale».
Una trentina d’anni faaccadde nelle zone della mia Toscana che un giovane eccentrico con l’hobbydi conservare nella propria casa dei serpenti molto velenosi, pulendo una delle loro gabbie fu morso. In Italia, dove gli unici serpenti velenosi presenti sul nostro territorio sono le vipere, nessun centro farmaceutico disponeva di un antidoto, che poteva essere reperito solo in Svizzera presso una azienda farmaceutica specializzata a conservare farmaci molto rari. In ospedale riuscirono solo a rallentare l’effetto del veleno entrato in circolo. Nel mentre fu fatto partire dal centro dell’aeronautica Militare di Grosseto un aereo F104 che in una mezz’ora giunse in Svizzera dove un addetto dell’azienda consegnò al pilota l’antidoto senza che questi scendesse neppure dal potente velivolo, quindi tornando alla base, il tutto in poco più di un’ora. A questo caso seguì una polemica quando si seppe quanto costava mettere in moto un F104 e soprattutto che all’epoca, il costo di quell’antidoto, fu pari a 15 milioni delle vecchie Lire, pagati ovviamente dallo Stato, equivalenti a quello che oggi potrebbero essere in valore monetario attuale circa 25.000/30.000 Euro.
Alcuni cinici posero la domanda se era il caso di spendere tutti i soldi che furono spesi per salvare un soggetto che in violazione alle leggi che già all’epoca proibivano di acquistare, conservare e allevare certi rettili, si era andato a cercare un guaio del genere. Ma si trattava appunto di cinici, con l’aggravante della disumanità, perché la vita va salvata sempre e a tutti i costi, per esempio non facendo saltare un ponte a metà del quale si trova una madre con un bambino. Poi, le centinaia di persone che poco dopo saranno trucidate dalle S.S. appena passato quel valico, moriranno in ogni caso felici assieme ai loro bambini, per avere salvato due vite umane.
Da alcuni giornile televisioni e la stampa internazionale parlano di un gruppo di tre multimilionari, più un quarto che è il figlio di uno di loro, che si sono voluti togliere lo sfizio di scendere alla profondità di 3.800 metri per raggiungere il piroscafo Titanic affondato a largo di Terranova nel 1912 dopo avere colpito un icebergdi ghiaccio. Tragedia nella quale morirono 1.527 persone sui 2.232 passeggeri, solo 705 dei quali sopravvissero.
Si tratta dei capricci di ricconi?No, i veri ricchi, quelli che sono tali da generazioni, quelli che conoscono la delicatezza e la volatilità del danaro e quanto sia difficile conservarlo e incrementarlo; i veri ricchi che devono la loro ricchezza al proprio particolare genio imprenditoriale o finanziario, queste cose da spacconi non le fanno, sono gesta tipiche degli arricchiti. Perché solo degli arricchiti capricciosi, certi di potersi permettere qualsiasi cosa, potevano pagare ciascuno 250.000 U.S. $ per scendere alla profondità di quasi 4 chilometri dove si trova il relitto del Titanic, che è un sacrario, un cimitero, che come tale andrebbe rispettato. Quei fondali non possono essere meta di bravate spinte all’estremo a bordo di un mini-sottomarino simile a una supposta subacquea nella quale gli avventori non potevano stare neppure in piedi, neppure inginocchiati, quindi senza potersi muovere, ma solo seduti nello spazio di 5 metri di lunghezza per 1.60 di altezza [cfr. QUI]. Una morte terribile nelle più buie profondità marine, avvenuta per soffocamento all’interno di uno spazio angusto dove è bene non pensare neppure cosa possa essere accaduto nei momenti di panico che si sono manifestati all’interno di uno spazio claustrofobico mentre l’ossigeno mancava e i quattro multimilionari, con il pilota del mezzo, morivano per soffocamento. Lo dettaglia a La Stampa Paolo Narcisi, specialista in rianimazione, non mancando di aggiungere:
«Questa tragedia, pur nel rispetto delle persone coinvolte, ha costretto una mobilitazione nei soccorsi che non c’è stata neppure per i 600 naufraghi di qualche giorno fa».
Come per il Tizio morso dal serpente domestico,anche in questo caso sono stati impiegati mezzi aerei e marittimi, strumenti tecnologici sofisticati, personale, specialisti e via dicendo. Giusto, per salvare la vita umana si deve tentare di tutto. Senza dimenticare però che i quattro, prima di imbarcarsi, dopo avere versato 250.000 $ a testa hanno firmato un contratto con una precisa liberatoria per la società che ha organizzatola loro eccentrica bravata, nella quale è specificato che l’impresa avrebbe potuto comportare anche la possibilità di morire, il tutto specificato per ben tre volte nel testo sottoscritto e firmato dai quattro ricconi.
Dire che sono andati a cercarsela, non è né mancanza di pietà né di rispetto nei confronti di questi morti in modo peraltro molto tragico. Si tratta di una realtà, non di mancanza di pietà: sono stati loro stessi a sottoscrivere e dichiarare di essere consapevoli che sarebbero potuti anche andare incontro alla morte, che equivale a dire, nero su bianco, che se ciò fosse accaduto, era perché loro stessi se l’erano andata a cercare, dopo essere stati avvisati in tal senso e dopo averlo sottoscritto anche in un contratto.
Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti.
Firenze, 22 giugno 2023
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GRANDIOSA OMELIA DELL’ARCIVESCOVO METROPOLITA DI MILANO: «CHI ERA SILVIO BERLUSCONI? UN UOMO»
«Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».
Noi pastori in cura d’anime abituati a salire sui pulpiti e a predicare, sappiamo che ci sono momenti e situazioni particolari nelle quali non è facile pronunciare un’omelia che sia opportuna, come nel caso dei funerali di Silvio Berlusconi celebrati oggi nella Cattedrale di Milano. Qualcuno potrebbe pensare che la delicatezza possa essere data dalla complessa personalità del defunto, un uomo che per alcuni decenni ha cavalcato la scena politica nazionale e internazionale. Per seguire con la presenza delle massime autorità dello Stato, dal Presidente della Repubblica al Primo Ministro. Situazioni nelle quali non è ammessa, non dico una parola, ma neppure un sospiro sbagliato. La difficoltà non è però questa, anche se in circostanze più o meno simili diversi vescovi e preti hanno ovviato il problema dicendo più o meno tutto senza dire niente, evitando a questo modo qualsiasi eventuale problema.
L’Arcivescovo Metropolita di Milano, S.E. Mons. Mario Delpini, ha saputo fare invece un’omelia davvero grandiosa che ha riportato tutti con i piedi per terra in quest’aria di beatificazione del defunto Cavaliere, la cui figura è parte della storia d’Italia e per questo sarà oggetto di studi approfonditi da parte degli storici e degli esperti di geopolitica per decenni e decenni. L’Arcivescovo ambrosiano ha puntato su altro: sull’uomo Silvio Berlusconi che è stato indubbiamente un imprenditore di successo, un politico che ha presieduto per quattro mandati la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, un personaggio istrionico dotato di un senso raro e straordinario dell’auto-ironia, tanto che più volte dichiarò: «Molti si affaticano a prendermi in giro, dimenticando che mi prendo in giro da solo e che nessuno può riuscirci bene come me».
Dinanzi a questa figura complessa e anche controversa, l’Arcivescovo ambrosiano non si è nascosto dietro il “non dire niente”, ma ha detto tutto costruendo il proprio intero discorso su questa domanda retorica: «Cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi?». Dando subito la risposta: «È stato un uomo». E dell’uomo l’Arcivescovo ambrosiano ha parlato con una poetica cristiana che può essere applicata sia a una celebrità come Silvio Berlusconi, sia all’ultimo degli anziani morto dimenticato in un reparto di geriatria: un uomo.
Testo integrale dell’omelia dell’Arcivescovo Metropolita di Milano
Vivere
Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
Amare ed essere amato
Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande. Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
Essere contento
Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. Godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento
Cerco l’uomo
Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari. Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta. Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio.
Cattedrale Metropolitana di Milano, 14 giugno 2023
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IL CORPUS DOMINI. UNA FESTA DA RISCOPRIRE IN UN TEMPO IN CUI IL CULTO EUCARISTICO SEMBRA “PASSATO DI MODA” NELLE STRADE DISERTATE DAI PASTORI E OCCUPATE DALLE “SACRE PROCESSIONI” DEL “POLITICAMENTE CORRETTO”
Dispiace constatare – come attestano numerosi messaggi di sacerdoti arrivati alla nostra Isola di Patmos nei giorni passati – che in molte delle nostre città ormai la processione del Corpus Domini è diventata un ricordo. Perfino la Diocesi di Roma quest’anno non ha avuto la sua processione: in compenso la vigilia del Corpus Domini è stata però impiegata per lo svolgimento del meeting mondiale sulla Fraternità umana dal titolo Not Alone, che prevedeva anche la presenza del Santo Padre, non concretizzatasi a causa dell’ultimo intervento chirurgico.
In questi ultimi tempi abbiamo visto veramente più o meno di tutto. Sante Messe celebrate su materassini gonfiabili [cfr. QUI, QUI, QUI], su motociclette o quant’altro utilizzati per altari; con ministri sacri in costume da bagno o con vesti che giudicare inopportune per il Santo Sacrificio Eucaristico sarebbe un mero eufemismo. Altari della reposizione del Giovedì Santo che, da luoghi che dovrebbero esprimere amore e preghiera verso il tesoro più prezioso lasciatoci da Nostro Signore Gesù Cristo, che si sono trasformati in luogo di sfogo delle più stravaganti paturnie presbiterali [cfr. QUI].
Corpus Domini giugno 2020, benedizione eucaristica dal sagrato della cattedrale impartita dal Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo Metropolita di Firenze
Giunge allora come rugiada sul vello nel deserto la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente detta Corpus Domini, che la Chiesa celebra il primo giovedì dopo la festa della Santissima Trinità, o la domenica successiva. È stato scritto:
«Come la Santissima Eucaristia rappresenta il centro e il culmine di tutta la nostra vita religiosa, nonché il fulcro della Liturgia, il momento più alto della vita cristiana e il più santo dei Sacramenti, così la festività del Corpus Domini, a parte la Pasqua e il Natale, è la più radiosa dell’anno liturgico, perché segna il trionfo del Re eucaristico, e la sua istituzione è la più eloquente espressione della vita religiosa ed ecclesiale del Medioevo» (Bernhard Ridder, Manuale di storia ecclesiastica, Paoline, p. 368).
L’origine di questa festa la si fa risalire storicamente nell’anno 1247 nella diocesi di Liegi, dove il vescovo introdusse questa celebrazione in reazione alle tesi di Berengario di Tours (998-1088), secondo il quale la presenza di Cristo nell’Eucaristia non era reale ma solo simbolica. Il Vescovo fu ispirato dalla Santa mistica Giuliana di Cornillon (1192-1258), monaca agostiniana del convento di Mount Cornillon, che da giovane ebbe la visione della Chiesa, apparsale sotto le sembianze di una luna piena, solcata da una macchia scura, ad indicare la mancanza di una festività. In seguito ebbe la visione di Cristo stesso che le affidò il compito di adoperarsi affinché fosse istituita la festa del Santissimo Sacramento, per ravvivare la fede dei cristiani nella presenza reale nell’Eucaristia e per espiare i peccati commessi contro il Sacramento Eucaristico. Divenuta nel 1222 priora del suo convento chiese consiglio ai maggiori teologi del suo tempo (tra cui Jaques Pantaléon, futuro Papa Urbano IV) per chiedere l’istituzione della festa. Questo portò il vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte (+1246) ad indire nel 1246 un sinodo locale ― perché all’epoca i sinodi si occupavano di cose serie … ― il quale stabilì che dall’anno successivo venisse celebrata la festa del Corpus Domininella Diocesi di Liegi. Per inciso: all’epoca i vescovi avevano la facoltà di istituire feste liturgiche all’interno della propria diocesi.
Nel 1264 il Papa Urbano IV che già aveva contribuito e appoggiato la festa del Corpus Dominia Liegi, in seguito anche al riconoscimento del Miracolo Eucaristico di Orvieto-Bolsena del 1263, con la Bolla Transiturus de hoc mundo, istituì la solennità del Corpus Dominiper tutta la Chiesa universale, elevandola a festa di precetto e fissandone la celebrazione per il giovedì dopo l’Ottava di Pentecoste. Sul miracolo eucaristico di Bolsena-Orvieto lasciamo però la parola al nostro confratello orvietano Marco Nunzi, che ne è esperto conoscitore [cfr. QUI]. A me interessa sottolineare alcune particolarità liturgiche di questa festa:
Liturgia eucaristica.I testi delle letture delle tre Messe corrispondenti ai cicli liturgici festivi A, B e C, presentano anzitutto le figure simboliche dell’Antico Testamento riguardanti l’Eucaristia come la mannadata in cibo ad Israele nel deserto, gli olocausti e i sacrifici di comunione per il Signore, il sangue dell’alleanza, il pane e il vino offerti da Melchisedech ad Abramo. Nella seconda lettura delle stesse tre Messe, l’Apostolo Paolo afferma che la comunione con il Corpo di Cristo è un segno eloquente di unità, di intima amicizia e di “incorporazione” in Cristo, oltre che di fede e di completa donazione a lui. Il testo della Lettera agli Ebrei (B) presenta Gesù che offre s e stesso per purificare la nostra coscienza dalle opere di morte al fine di servire il Dio vivente. Nei brani evangelici viene parte del Discorso del Pane di vita tenuto da Gesù a Cafarnao (cfr. Gv 6), l’ultima cena di Gesù e l’istituzione dell’Eucaristia (cfr. Mc 14, 12-6. 22-26) e la moltiplicazione dei pani (cfr. Lc 9, 11-17). In particolare poi va sottolineata la stupenda sequenza Lauda Sion che canta il Cristo vero Pane di Vita che “ci nutre, ci difende e ci porta ai beni eterni nella terra dei viventi”.
Liturgia delle ore.Oltre gli inni del Pange lingua, del Sacris sollemniis e del Verbum supernum prodiens, insuperabili per contenuto e melodia musicale, i salmi dell’Ufficio delle Letture, delle Lodi e dei Vespri riassumono tutti i sentimenti che un’anima credente e amante può esprimere al Signore, che nell’Eucaristia ci dà il segno eloquente del suo amore infinito per noi. Le due letture presentano l’Eucaristia come centro di tutta la storia della salvezza, che ha la sua preparazione nell’Antico Testamento e la sua piena attuazione nel Nuovo Testamento. San Tommaso d’Aquino, nella seconda lettura, non esita a dire
«l’Unigenito Figlio di Dio, volendo farci partecipi della sua divinità […] si fece uomo per elevarci alle altezze di Dio […] offrì infatti a Dio Padre il suo corpo come vittima sull’altare della croce per la nostra riconciliazione. Sparse il suo sangue facendolo valere come prezzo e come lavacro perché, redenti dalla umiliante schiavitù, fossimo purificati da tutti i peccati. Perché, infine, rimanesse in noi un costante ricordo di così grande beneficio, lasciò ai suoi fedeli il suo Corpo in cibo e il suo Sangue come bevanda, sotto le specie del pane e del vino. Oh, meraviglioso convito! Che cosa vi può essere di più prezioso? Nessun sacramento è più salutare di questo. L’Eucaristia è il memoriale della passione di Cristo, è la più grande di tutte le meraviglie da lui operate, è il mirabile documento del suo immenso amore per gli uomini» (Opusc. 57, nella festa del Corpo del Signore, lect. 1-4).
Processione eucaristica.Come abbiamo già detto, Al fine di favorire la devozione al Santissimo Sacramento, il Papa Urbano IV estese la festa del Corpus Domini a tutta la Chiesa. Pur non facendo alcuna menzione nella Bolla ad una processione eucaristica, si prese subito l’abitudine di mostrare ai fedeli le Specie Eucaristiche nel corso di una solenne processione con il Santissimo Sacramento, che evidentemente si è sempre distinta per speciale importanza e per significato nella vita pastorale delle comunità cristiane. Conviene pertanto che, là dove le circostanze attuali lo permettono e la processione può essere davvero un segno di fede e di adorazione, essa venga conservata. In tal caso è bene che la processione con il Santissimo Sacramento si faccia immediatamente dopo la Messa, nella quale viene consacrata l’Ostia da portarsi poi in processione. I canti e le preghiere che si fanno lungo il tragitto, portino tutti a manifestare la loro fede in Cristo, unicamente intenti alla luce del Signore (cfr. Rito della Comunione fuori della Messa e Culto Eucaristico, nn. 102 – 104).
Dispiace constatare – come attestano numerosi messaggi di sacerdoti arrivati alla nostra Isola di Patmos nei giorni passati – che in molte delle nostre città ormai la processione del Corpus Domini è diventata un ricordo. Perfino la Diocesi di Roma quest’anno non ha avuto la sua processione: in compenso la vigilia del Corpus Dominiè stata però impiegata per lo svolgimento del meetingmondiale sulla Fraternità umana dal titolo Not Alone, che prevedeva anche la presenza del Santo Padre, non concretizzatasi a causa dell’ultimo intervento chirurgico.
Quello di Roma è solo un esempio di eleganti “scuse” episcopali― con tanto di spallucce a chi invece fa notare l’importanza di un tale gesto ― per lasciare ad altri e ad altro le nostre vie e le nostre piazze, trasformate il più delle volte in grandi trattorie a cielo aperto, basterebbe fare in tal senso un giro in piazza del Duomo a Firenze per rendersene conto …
Forse su questa moda di buttare alle ortiche tutte le nostre tradizioniper essere “politicamente corretti” converrebbe fare una serena ma urgente riflessione, anche se il disagio e la sofferenza che in forma sempre maggiore stanno vivendo i preti e di riflesso i fedeli, sembrerebbe interessare poco o niente.
Firenze, 11 giugno 2023
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CI FOSSE STATO UN SOLO POLITICO ITALIANO CACCIATORE PROFESSIONISTA DI PULCI CHE HA FATTO UN SOSPIRO SUL MODO IN CUI VOLODYMYR ZELENSKYJ HA VIOLATO IL PROTOCOLLO
Non stiamo a parlare di formalità o di formalismi, ma di protocollo istituzionale, che non si regge su futili forme esteriori, ma si basa proprio sul rispetto dovuto a chi ti accoglie: sia il Paese, sia il suo Capo di Stato, sia il suo Primo Ministro.
— Notizie in breve —
Autore Redazione de L’Isola di Patmos
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L’Autocrate dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyj — perché tale è al pari del suo omologo russo Vladimir Putin: un autocrate — si è presentato in visita ufficiale di Stato in Italia con un abbigliamento non semplicemente indecoroso, ma proprio irrispettoso.
Non stiamo a parlare di formalità o di formalismi, ma di protocollo istituzionale, che non si regge su futili forme esteriori, ma si basa proprio sul rispetto dovuto a chi ti accoglie: sia il Paese, sia il suo Capo di Stato, sia il suo Primo Ministro. Pertanto, uno che si comporta a questo modo denota due cose:
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1) io posso permettermi tutto;
2) io sono io e voi non siete un … come diceva il mitico Marchese del Grillo in un celebre film di Alberto Sordi entrato ormai nella storia.
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In omaggio per questo abbigliamento caccia&pesca potevano anche regalargli una canna … da pesca. Ce ne fosse stato uno solo, tra quei nostri numerosi politici cacciatori professionisti di pulci, che avesse fatto un sospiro, uno solo.
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Bisogna riconoscere che Vladimir Putin, quando manca di rispetto a persone e istituzioni lo fa perlomeno in modo più subdolo ed “elegante”, ad esempio presentandosi per due diverse volte in visita ufficiale dal Sommo Pontefice in ritardo: nel 2013 con 50 minuti e poi a seguire nel 2015 con un’ora e 10 minuti di ritardo. Della serie: “Io sono lo zar della Grande Russia, posso permettermi questo e altro, ma volendo altro ancora”.
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dall’Isola di Patmos 14 maggio 2023
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.https://www.youtube.com/watch?v=ltEAQNopUYM&t=2s
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2023-05-14 18:43:532023-05-14 19:02:44Ci fosse stato un solo politico italiano cacciatore professionista di pulci che ha fatto un sospiro sul modo in cui Volodymyr Zelenskyj ha violato il protocollo
«DEI DELITTI E DELLE PENE». LE IMMANCABILI STRAVAGANZE DI CERTI PRETI ALLA LUCE DEL MISTERO PASQUALE
Nella Istruzione Redemptionis Sacramentum, è forse scritto che per certi abusi liturgici, alcuni dei quali sono veri e propri “delitti”, è prevista la pena, per esempio della sospensione a divinis del sacerdote per un congruo periodo di tempo? Si prevede forse, per quelli più gravi, la rimozione dall’ufficio di parroco? No, perché forse questo modo di fare non sarebbe caritatevole e misericordioso, quindi il nostro legislatore esorta, istruisce e nei propri documenti si lamenta con cuore franto, mentre chi abusa seguita a farlo in totale mancanza di precise pene.
C’è una celebre opera di Cesare Beccaria scritta nel 1764 che s’intitola Dei delitti e delle pene, dove si parla soprattutto della prontezza e della certezza della pena. Quante volte, nel nostro Paese, specie di fronte a situazioni di criminalità più o meno diffusa, abbiamo udito la frase e il lamento «manca la certezza della pena»? A dire il vero ciò che manca è l’applicazione della pena, perché in quanto a esistere, le pene ci sono e sono scritte e ben dettagliate. Invece noi, su questo problema Dei delitti e delle pene, non ci interroghiamo nemmeno, perché nei vari documenti e atti del Magistero della Chiesa degli ultimi decenni la parola “sanzione” o “pena” non esiste proprio, due sono infatti le cose essenziali che di prassi vengono fatte: si lamenta con cuore franto certe situazioni che proprio non vanno, poi si esorta con documenti che spesso si chiamano proprio per questo “esortazioni” o “istruzioni”, come per esempio la Istruzione Redemptionis Sacramentum, nella quale si istruisce con cuore trepidante e afflitto a non fare certe cose.
Sono andato a sfogliare il Codice di Diritto Penale e i testi di varie leggi prese a caso, ed ho scoperto, con mio grande stupore, che per ogni figura di reato è prevista una pena, che può essere una pena a un certo numero di anni di carcere, oppure una sanzione amministrativa per i reati meno gravi, attraverso l’obbligo al pagamento di una somma di danaro stabilita. Abituato come sono allo stile dei documenti nostri, mi sono chiesto perché, il legislatore, non si sia a limitato esortare e istruire che certi reati non si commettono, manifestando tutto il proprio “impotente” dolore per quelli che invece vengono commessi.
Nella Istruzione Redemptionis Sacramentum,è forse scritto che per certi abusi liturgici, alcuni dei quali sono veri e propri “delitti”, è prevista la pena, per esempio della sospensione a divinis del sacerdote per un congruo periodo di tempo? Si prevede forse, per quelli più gravi, la rimozione dall’ufficio di parroco? No, perché forse questo modo di fare non sarebbe caritatevole e misericordioso, quindi il nostro legislatore esorta, istruisce e nei propri documenti si lamenta con cuore sfranto, mentre chi abusa seguita a farlo in totale mancanza di precise pene.
Per parlare del tema degli abusi liturgici,alcuni dei quali ormai istituzionalizzati e divenuti quasi una norma in certe parrocchie o in certi gruppi laicali cattolici, prenderò quello che è il cuore della nostra liturgia: la Pasqua.
Durante il Triduo Pasquale di quest’anno 2023i nostri Lettori ci hanno inviato tra la sera del Giovedì Santo e il Sabato mattina fotografie e filmati dinanzi ai quali noi Padri de L’Isola di Patmos, che pure siamo navigati, oltre che consapevoli delle stravaganze di cui purtroppo sono capaci certi nostri confratelli, abbiamo stentato a credere, pur dinanzi a foto e documenti.
Vi offriamo solo una piccola rassegna di ciò che è pervenuto in redazione durante il Santo Triduo Pasquale, soprattutto riguardo la riposizione del Santissimo Sacramento all’interno dei Sepolcri presso gli altari della riposizione il Giovedì Santo e quanto accaduto a seguire il Venerdì Santo.
Giovedì Santo. In una cappella della riposizione è stato allestito un tavolo da pranzo con le sedie, apparecchiato con tovaglia, piatti, posate e bicchieri, di lato il tabernacolo con il Santissimo Sacramento, probabilmente per indicare che Nostro Signore Gesù Cristo, anziché sulla croce, è morto al termine di un pranzo assalito da un repentino colpo apoplettico. In un’altra cappella della riposizione la pisside con il Santissimo Sacramento è stata messa sopra un tavolo con attorno una ciambella di salvataggio, al posto dei fiori sono stati disposti dei giubbotti di salvataggio appesi, come se Nostro Signore Gesù Cristo, anziché in croce, fosse morto annegato in mare mentre dalla Giudea tentava di sbarcare come clandestino sulle coste del Mediterraneo. E ancora a seguire: il Santissimo Sacramento riposto all’altare della riposizione dentro un fornetto a microonde, pare per simboleggiare in che modo il Signore riscaldi i cuori (!?).
Altare della reposizione forse ispirato al musical: «Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più, se sposti un po’ la seggiola stai comodo anche tu …» (Parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, Rutigliano)
Venerdì Santo. Le immagini e i filmati che ci sono pervenuti fanno sorgere in noi il serio quesito se certi preti abbiano mai letto l’Ordinamento Generale del Messale Romano e se durante la formazione prima e lo svolgimento del sacro ministero a seguire, abbiano realmente capito che cos’è il Triduo Pasquale, per esempio leggendo un’opera del Novecento scritta dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, in edizione italiana “La teologia dei tre giorni” (1969). Opera che offre una meditazione del mistero pasquale secondo la scansione dei tre giorni: il mistero del venerdì santo (la croce nella vita di Gesù, l’Eucaristia, l’agonia), il mistero del sabato santo (in cui il Cristo fa l’esperienza della “seconda morte”), il mistero della Pasqua come teologia della risurrezione e della glorificazione del Figlio. Il Venerdì Santo, giorno in cui si commemora la passione di Cristo Signore, nel corso di una liturgia austera e silenziosa tutta incentrata sulla adorazione della croce, è mai pensabile che si possa cantare al suono di chitarre e tamburelli ritmati allegre canzoncine da campo-scuola, scandendo persino «alleluia, alleluia” in ritornelli di canti del tutto inappropriati e fuori luogo? Qualcuno ha forse dimenticato l’omissione dalla liturgia del Gloria e dell’Alleluia durante il periodo quaresimale, o le cosiddette “campane legate” il Giovedì Santo che torneranno a suonare solo nel giorno di Pasqua assieme al canto del Gloria e dell’Alleluia per rendere lode al Risorto dai morti?
Un altro autore che ci ha guidati nel mistero della teologia del Triduo Pasqualeè stato il fiorentino Padre Divo Barsotti, che in una sua predicazione del 1987 spiegò il senso mistagogico della “discesa agli inferi” di Gesù Cristo, articolo di fede contenuto anche nel Credo Apostolico in cui recitiamo «[…] patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte». Domandiamoci: quanti sono oggi i fedeli cattolici che comprendono il senso della “discesa” in quegli inferi indicati nell’antica tradizione anche come Shéolo Αιδην, il “regno dei morti” dove Gesù Cristo morto discese con l’anima unita alla sua Persona divina, per aprire le porte del cielo ai giusti che l’avevano preceduto (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 631-635).
Altare della riposizione dentro il barchino con le reti, Chiesa del Buon Pastore di Diamante
Il Triduo Pasquale, nella sua simbologia,racchiude una grande e sapiente pedagogia, una somma catechesi per il Popolo dei credenti, che non può essere certo finire svilita da stravaganze inscenate quasi sempre all’insegna del politicamente corretto del momento.
Vediamo adesso cosa è liturgicamente quel triduo pasqualeche conclude con quella che la Chiesa indica come la Madre di tutte le Veglie, nella speranza che possa servire di riflessione per la prossima Pasqua 2024. Il Triduo Pasquale è la realtà della Pasqua del Signore, celebrata liturgicamente e sacramentalmente in tre giorni: il Venerdì Santo, che fa memoria viva della Passione e Morte del Signore; il Sabato Santo, in cui la Chiesa sosta al sepolcro del Signore; la Domenica di Pasqua che celebra la gloriosa Resurrezione di Cristo. Caratteristica delle celebrazioni del Triduo è che sono organizzate come un’unica liturgia, per questo motivo la Missa in Coena Domininon termina con ite missa est(”la Messa è finita”), bensì in silenzio. L’azione liturgica del venerdì non comincia con l’usuale saluto e con il Segno della Croce e termina anch’essa senza saluto, in silenzio. Infine la solenne veglia comincia in silenzio e termina con il saluto finale.
Il Triduo Pasquale costituisce un’unica solennità,la più importante di tutto l’Anno liturgico cattolico. Dal Gloriadella Messa del Giovedì a quello della Veglia le campane devono stare in liturgico silenzio. Anticamente anche gli strumenti musicali dovevano tacere il Venerdì e il Sabato Santo, fino alla Veglia Pasquale, per meglio esprimere il senso penitenziale di questi giorni. Per questo molte composizioni di autori antichi per il Venerdì Santo furono scritte per solo coro. Oggi tuttavia è permesso l’uso degli strumenti musicali durante le celebrazioni di queste giornate, anche se solo per sostenere il canto.
Vertice e centro gravitazionale dell’intero Triduoè la Solenne Veglia Pasquale nella Notte Santa. Con la celebrazione della Missa in Coena Domini, la sera del Giovedì Santo ha inizio il Triduo Pasquale della Passione, morte e Risurrezione di Cristo, culmine di tutto l’anno liturgico e cuore della fede e della preghiera della Chiesa (cfr. SC 102). Il Giovedì Santo la Chiesa ricorda l’Ultima Cena di Gesù nella quale il Signore Gesù, la vigilia della Passione, spinse all’estremo il suo amore per i suoi che erano nel mondo, offrì al Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e, donandosi come nutrimento ai suoi apostoli, comandò loro di perpetuarne l’offerta in sua memoria, istituendo di fatto il sacerdozio della Nuova Alleanza. Obbediente al comando del Signore, la Chiesa celebra la Santa Cena, sentendosi impegnata a tradurre nella vita di ogni giorno lo stile di servizio e di amore fraterno (cfr. il segno della lavanda dei piedi, proprio della liturgia del Giovedì Santo) che ha nel Sacrificio del Signore, sacralmente presente nell’Eucaristia, il suo senso e la sua fonte. I testi che vengono usati in questa celebrazione sottolineano l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia e il suo carattere di memoriale del sacrificio del Signore (altro che “Cena Santa…”), annunziato e prefigurato dagli avvenimenti dell’Esodo di Israele dall’Egitto, col simbolo dell’agnello immolato e del passaggio dell’angelo del Signore per colpire i primogeniti di Egitto (I lettura); “memoriale” che il beato Apostolo Paolo descrive come rito celebrato da Gesù nella cena pasquale con i suoi apostoli, segno della nuova ed eterna Alleanza tra Dio e gli uomini, sigillata e ratificata col suo stesso sangue (II lettura). Infine – strettamente legato alle due letture – il brano evangelico di Giovanni ci mostra Gesù che pur essendo maestro e Signore, si fa servo, lavando i piedi ai suoi apostoli. Con questo gesto il Signore Gesù voleva manifestare che la sua missione era il più grande servizio che Dio rivolgeva agli uomini per salvarli: lavarli dai peccati e nutrirli con il suo Corpo e il suo Sangue.
Il Prefazio di questa Messa riassume l’ineffabile mistero dell’amore divino:
«Sacerdote vero ed eterno, egli istituì il rito del sacrificio perenne; a te per primo si offrì vittima di salvezza, e comandò a noi di compiere l’offerta in sua memoria. Il suo Corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza, il suo Sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa».
Al termine della Missa in Coena Domini del Giovedì Santo, l’Eucaristia viene riposta e custodita nell’altare della Reposizione, chiamato nel linguaggio popolare di alcune regioni del sud Italia sepolcro. Termine improprio in quanto non simboleggia la morte di Gesù ma è il luogo in cui adorare l’Eucaristia. Il termine giusto è altareo cappella della Reposizione. Parliamo dello spazio della chiesa allestito, al termine della Missa in Coena Domini, per accogliere le specie eucaristiche consacrate, conservandole sino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale. Le Sacre Specie vengono così riposte per essere adorate durante la notte. È tradizione che gli altari della reposizione siano addobbati in modo solenne, con composizioni floreali o altri simboli: non devono essere il luogo della stravaganza o della forzatura di segni che nulla hanno a che fare con l’unico scopo di invitare i fedeli all’adorazione. La lettera circolare della Congregazione del Culto Divino del 16 gennaio 1988 dal titolo Preparazione e celebrazione delle feste pasquali precisa a proposito dell’altare della reposizione quanto segue:
«Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio. Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un sepolcro. Si eviti il termine stesso di “sepolcro”. Infatti la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare “la sepoltura del Signore”, ma per custodire il pane eucaristico per la comunione, che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore. Si invitino i fedeli a trattenersi in chiesa, dopo la messa nella cena del Signore, per un congruo spazio di tempo nella notte, per la dovuta adorazione al Santissimo Sacramento solennemente lì custodito in questo giorno. Durante l’adorazione eucaristica protratta può essere letta qualche parte del Vangelo secondo Giovanni. Dopo la mezzanotte si faccia l’adorazione senza solennità, dal momento che ha già avuto inizio il giorno della passione del Signore» (nn. 55-56).
La lettera circolare della Congregazione del Culto Divino del 16 gennaio 1988 dal titolo Preparazione e celebrazione delle feste pasquali precisa a proposito dell’altare della reposizione quanto segue: «Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio»
Il Venerdì Santo la Chiesa celebra la Passione Morte del suo Signore e rimane in amorosa contemplazione e meditazione del suo sacrificio cruento, fonte della nostra salvezza. Per antichissima tradizione in questo giorno la Chiesa non celebra l’Eucaristia, ma solo una solenne Liturgia della Parola, seguita dall’adorazione della croce e dalla santa Comunione.
Davanti all’altare completamente spoglio,dopo la prostrazione del celebrante nel silenzio dell’assemblea e l’orazione introduttiva, vengono proclamate tre letture:
– il quarto canto del Servo di IHWH (Is 52, 13-15; 53, 1-12), dove nella figura del servo caricato dei nostri dolori, castigato, percosso e umiliato e che tuttavia giustificherà molti e dalle cui piaghe siamo stati guariti, non è difficile riconoscere la figura di Gesù, colui che si è fatto peccato, è divenuto il disgusto dei vicini e l’orrore di conoscenti (cfr. Salmo responsoriale) e che è l’unica nostra via di salvezza.
– La seconda lettura è tratta dalla lettera agli Ebrei (cfr. 4, 14-16; 5, 7-9) e precisa che il Cristo servo sofferente di IHWH è il sommo sacerdote che è stato provato in ogni cosa e che diviene causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono.
– Il Vangelo riporta il racconto della Passione secondo Giovanni (cfr. 18, 1 – 19,42). La morte di Gesù è la rivelazione suprema dell’amore di Dio che si prolunga sacramentalmente nei secoli nell’acqua (Battesimo) e nel Sangue (Eucaristia) ed è intimamente legata al dono dello Spirito Santo e con la nascita della Chiesa, rappresentata dalla Santa Vergine Maria e dall’apostolo Giovanni. All’omelia segue poi una solenne Preghiera universale in cui si innalzano suppliche per la Chiesa, il Papa, per tutti gli ordini sacri e i fedeli, per i catecumeni, per l’unità dei cristiani, per gli ebrei, per i non cristiani, per coloro che non credono in Dio, per i governanti e per i tribolati.
Come conseguenza della parola ascoltata ed accolta, segue poi la solenne Adorazione della Croce, gesto “scandaloso” e profetico perché venerata non più come semplice strumento di morte infame, ma come albero della vita, “talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore”. Il sacerdote scopre la croce in tre volte, presentandola al popolo come trofeo di vittoria e dicendo: «Ecco il legno della croce, a cui fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo»; a questo invito l’assemblea risponde: «Venite, adoriamo!». L’assemblea compie poi il gesto dell’adorazione, ricordando che già in quel momento si compie la Pasqua, si realizza la nostra salvezza nel sangue dell’Agnello immolato: «Adoriamo la tua croce, Signore; lodiamo e glorifichiamo la tua santa Resurrezione. Dal legno della croce è venuta la gioia in tutto il mondo». Al termine dell’adorazione, la croce viene posta vicino all’altare, segno anche esso del sacrificio di Cristo, offerto al Padre per la nostra salvezza.
All’adorazione della croce, segue la Comunione Eucaristica, con le sacre Specie consacrate il giorno precedente. La Commemorazione della Passione si conclude con una preghiera di benedizione sull’assemblea, che poi si scioglie in silenzio.
Sabato Santo.Il Messale Romano ci presenta questo giorno con queste parole:
«Il Sabato Santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e la sua morte, nonché la discesa agli inferi, e aspettando la sua risurrezione, nella preghiera e nel digiuno. Spogliata la sacra mensa, la Chiesa si astiene dal sacrificio della Messa fino alla solenne Veglia o attesa notturna della risurrezione”. La Chiesa è chiamata a meditare prima di tutto il fatto che Gesù “morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15, 3-4).
Contempla ciò che nel Credo professa affermando «discese agli inferi»:Gesù Cristo si fa solidale con l’uomo da salvare, affrontando la morte nella certezza che l’avrebbe vinta non soltanto per sé, ma per tutti. Da questo punto di vista, il Sabato Santo è un giorno di grande speranza! Il Sabato Santo il cristiano è chiamato ad imitare le pie donne che dopo la sepoltura di Gesù «erano lì davanti al sepolcro» (Mt 27, 61). Non è cosa da poco fermarci anche noi, in clima di fede e di amore, per pregare, meditare e contemplare: può essere il giorno di deserto, di preghiera e di illuminata speranza in Dio che ha scelto non solo di morire per noi, ma di risorgere e di farci partecipi della sua vita di risorto.
La Veglia Pasquale nella Notte Santaè il vertice e il centro di tutto il Triduo Pasquale. Considerata la “madre di tutte le veglie”, in essa la Chiesa attende, vegliando, la risurrezione di Cristo e la celebra nei sacramenti (cf. Norme per l’anno liturgico e il calendario, 21). Tutta la celebrazione di questa Veglia, pertanto, deve svolgersi di notte e terminare prima dell’alba della domenica. Questa è la notte per eccellenza, in cui si celebrano i grandi sacramenti dell’Iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione, Eucaristia), che comunicano ai fedeli la grazia salvifica del mistero pasquale di Cristo. La Veglia Pasquale è costituita da quattro parti:
Liturgia della luce o lucernario. La Veglia si apre con la celebrazione di Cristo Risorto come luce del mondo. Il sacerdote benedice un fuoco divampante (generalmente preparato all’esterno della Chiesa) e prepara il cero pasquale, incidendo su di esso una croce, le lettere greche A e W e le cifre dell’anno corrente, seguendo questo schema:
Mentre compie questo gesto,acclama a Cristo Principio e Fine, Alfa e Omega, al quale appartiene il Tempo, i secoli, la gloria e il potere. Completata l’incisione, il celebrante può infiggere 5 grani di incenso in forma di croce e mentre compie questo gesto acclama alle piaghe sante, gloriose e salvifiche del Cristo. Il Cero viene acceso al fuoco nuovo e inizia una processione che si avvia verso il presbiterio; durante questa processione si acclama per tre volte “Lumen Christi!” e vengono accese le candele dei fedeli e le luci della Chiesa. Posizionato il cero nel suo candelabro, il diacono proclama il solenne Preconio Pasquale(detto “Exultet”) un testo bellissimo che annuncia la gloria della resurrezione di Cristo, vertice di tutta la storia della salvezza, iniziata dopo il peccato di Adamo, figurata nell’agnello della pasqua ebraica, dall’esodo, dal passaggio del mar Rosso, dalla colonna di fuoco e realizzata in pienezza da Cristo morto e risorto. Il Preconio è un cantico entusiasta che, ricapitolando tutti i grandi momenti della storia di Dio e dell’uomo, esprime l’esultanza del cielo e della terra, perché con la resurrezione di Cristo anche l’universo, abbruttito dal peccato, risorge e si rinnova. Un testo che andrebbe a lungo meditato e pregato anche personalmente.
Liturgia della Parola. Terminato il lucernario, il celebrante invita all’ascolto della Parola per meditare «come nell’antica alleanza Dio salvò il suo popolo e nella pienezza dei tempi ha mandato a noi il suo Figlio come redentore». Vengono quindi proclamate nove letture (sette dell’Antico Testamento e due del Nuovo), con lo scopo di introdurre i fedeli nel significato e nell’importanza della Pasqua nella vita della Chiesa e di ogni cristiano, in relazione ai sacramenti pasquali (Battesimo, Cresima ed Eucaristia) medianti i quali siamo morti e risorti con Cristo:
Epistola: Rm 6, 3-11: Cristo risorto dai morti non muore più
Vangelo: Uno dei tre sinottici a seconda del ciclo liturgico
Tra la VII lettura e l’Epistola viene cantato solennemente il Gloria e al termine dell’Epistola – dopo il “digiuno” quaresimale – viene solennemente intonata l’Alleluia.
Liturgia Battesimale: Fino dall’antichità, la Chiesa ha collegato con la Veglia Pasquale l’amministrazione del Battesimo, immersione nella morte di Cristo e risurrezione con Lui alla vita nuova. Dopo il canto delle litanie dei santi, viene benedetta l’acqua battesimale — con il particolare gesto di immergervi per tre volte il cero pasquale — con cui si amministra il Battesimo e si asperge l’assemblea, dopo che questa ha rinnovato la professione di fede con le promesse battesimali.
La Veglia termina con la Liturgia Eucaristica, che diviene compimento di tutta la celebrazione e azione di grazie più alta e significativa rivolta al Padre per averci dato il suo Figlio morto e risorto per la nostra salvezza. Con la Pasqua infatti ha avuto inizio la vera Eucaristia, nella quale, fino alla consumazione dei secoli, la Chiesa acclamerà «Cristo vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo; Cristo che, morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita» (Prefazio Pasquale I). Ed è così che inizia il “Giorno del Signore”, giorno di vita senza tramonto, in cui il dovere di ogni credente è quello di “cercare le cose di lassù” e di “nascondere la propria vita con Cristo risorto in Dio”.
A voi tutti lancio una domanda, ed assieme alla domanda lascio a tutti voi l’onere della risposta: il cuore centrale del mistero fondante della nostra fede, è la risurrezione del Cristo, dinanzi alla quale l’Apostolo Paolo afferma che se non fosse veramente risorto la nostra fede e la nostra speranza sarebbe del tutto vana (cfr. I Cor 15, 12-15) può essere forse motivo e occasione per lanciarsi in stravaganze che rischiano di trascendere non di rado tra la dissacrazione e il vero e proprio sacrilegio? Tutto è possibile, quando si esorta, si istruisce, ma non si puniscono i trasgressori, farlo sarebbe una mancanza di misericordia, un peccato questo sì, assolutamente intollerabile.
Firenze, 12 maggio 2023
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VENERABILI FRATELLI SACERDOTI, LA CHIESA STA VIVENDO UNA CRISI SENZA PRECEDENTI E NOI STIAMO VIVENDO LA PIÙ DIFFICILE DELLE PROVE: LA GRANDE PROVA DELLA FEDE
Oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa compromettendo qualsiasi ricerca a cammino di fede nei presbiteri e nei fedeli.
La severità che spesso uso,unita all’occorrenza a un’ironia affatto casuale ma voluta e soprattutto scientifica, mi porta a ipotizzare che forse non si abbia tempo di pensare ai preti. È probabile che presto giungeremo ad affiggere sulle porte delle nostre chiese l’avviso «saldi di fine stagione», oppure «svendita fallimentare». Nel Nord dell’Europa accade da tempo, quando nel 2010 mi recai a svolgere studi di approfondimento in Germania ho potuto vedere stabili di antiche chiese, sino a pochi decenni prima comunità parrocchiali, vendute e convertite in eleganti negozi, ristoranti, saloni per parrucchieri, alcune persino in night club. Nel mio libro E Satana si fece trinopubblicato a fine 2010 scrissi: «[…] un fiume in piena sta scendendo dal Nord dell’Europa e presto travolgerà anche noi».
Salvador Dali, Ultima cena
La situazione di molte diocesi italiane è drammatica, la penuria di clero sempre più alta e l’età media di certi presbitèri ha superato in molte i 70 anni. Le statistiche delle grandi diocesi sembrano bollettini di guerra, la media è pari ormai a 10 presbiteri defunti a fronte di uno o due nuovi ordinati. In alcune diocesi non si ordinano presbiteri da anni mentre nel corso degli stessi anni ne sono morti diversi. È inevitabile che nel giro di vent’anni, ma anche prima, le attuali 225 diocesi italiane saranno ridotte a 70 o 80 e che nei territori di quelle diocesi finite soppresse, composte oggi da 50 o 60 presbiteri avanti con l’età, ci saranno solo tre o quattro preti a prestare servizio girando per tutto l’intero territorio.
Sotto il pontificato di Benedetto XVI, tra il 2005 e il 2013 ci fu una leggera ripresa delle vocazioni, sotto quello del Sommo Pontefice Francesco, tra il 2014 e il 2022 c’è stato un calo vertiginoso dell’ingresso nei seminari e nei noviziati religiosi. L’anno 2022 ha registrato 1.045 presbiteri del clero secolare e regolare defunti e 392 nuove ordinazioni di presbiteri del clero secolare e regolare. I presbiteri defunti superano del 65% quello dei nuovi ordinati.
Nella stessa Romasono stati venduti molti stabili ecclesiastici di vari ordini e congregazioni religiose e numerosi altri sono in stato di agonia. Stabili faraonici abitati ormai da quattro o cinque anziani religiosi e religiose che a breve faranno la stessa fine. E se a Roma accade questo, vi lascio immaginare quale grande vendita del patrimonio ecclesiastico è ormai in corso in tutta Italia.
Dinanzi a questo inesorabile e irreversibile declino, stiamo forse seriamente pensando a una adeguata formazione dei sacerdoti, a ripensare i seminari oggi strutturati in modo a dir poco inadeguato e per certi versi anacronistico, o a puntare tutto su una attenta pastorale vocazionale che comporterebbe anzitutto presentare come modelli di vita dei veri sacerdoti di Cristo, non dei preti secolarizzati simili a liberi professionisti del religioso o ad assistenti sociali, ridotti spesso a celebratori compulsivi di Sante Messe in corsa da una parrocchia all’altra, senza che alcun vescovo si domandi quando pregano, quando studiano, quando curano la loro vita sacerdotale? Se non ci sono più sacerdoti per coprire le parrocchie del circondario, in tal caso si dovrebbe procedere con la soppressione canonica lasciando una sola parrocchia e dicendo a chiare note ai fedeli che devono smetterla di pretendere la chiesa sotto casa e fare quattro o cinque chilometri per andare alla Santa Messa, proprio come riescono a farne 40 o 50, anziani in testa a tutti, quando si tratta invece di andare ai grandi centri commerciali. Se le famiglie che compongono la comunità cristiana non sono più in grado di esprimere vocazioni, sarà bene che i Christi fidelessi assumano anch’essi le loro responsabilità, anziché pretendere di spremere i preti sino al loro esaurimento. Come però sappiamo viviamo nella Chiesa della mancanza di assunzione di responsabilità, da parte del clero per un verso, dei fedeli spesso egoisti e pigri per altro verso.
Per risolvere questi problemi ormai irreversibili, anziché ricorrere a quelle scelte radicali purtroppo necessarie, si tende invece a escogitare i peggiori espedienti evitando di fare i conti con quei nostri fallimenti che sovente gridano al cielo. Tanti sarebbero gli esempi, prendiamone uno solo: diversi vescovi, con tanto di solenni cerimonie, hanno già provveduto in giro per l’Italia ad affidare delle comunità parrocchiali a delle “accolitesse” istituite, o nella migliore delle ipotesi a dei diaconi permanenti tramite i quali è stata riesumata la antica Missa sicca[1], molto in voga tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, finché dopo la riforma liturgica del Santo Pontefice Pio V scomparve[2]. Però, come capita quando si pensa di fare grandi passi in avanti, non si fa altro che tornare indietro per dare tragica ripetizione alla storia passata, specie a quella più fallimentare. Perché di solito la storia si ripete sempre due volte: prima come tragedia e poi come farsa grottesca[3].
IL SACERDOTE È SUPERIORE AGLI ANGELI DI DIO MA RIMANE UN FRAGILE PECCATORE
Se il Verbo di Dio fatto uomo avesse voluto una Chiesa formata da entità angeliche non l’avrebbe fondata sulla terra, ma in quella Gerusalemme Celeste di cui ci parla il Beato Apostolo Giovanni nel capitolo XXI dell’Apocalisse. Invece l’ha fondata sulla terra, usando uomini corrotti dal peccato originale (cfr. Gn 2,17) ed esposti alla corruzione del peccato.
Durante l’Ultima Cena,istituendo la Santissima Eucaristia come mistero vivo della sua presenza e consacrando gli Apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza, li rese partecipi del sacerdozio ministeriale del Cristo Sommo Sacerdote (cfr. Eb 2,17; 4,14). Consacrandoli sacerdoti li elevò così in dignità al di sopra degli stessi Angeli di Dio[4]. Questa dignità non impedisce all’uomo-sacerdote di cadere nel peccato o di essere in certe occasioni un vero e proprio diffusore del peccato, nei casi più gravi e rari può persino accadere che il sacerdote giunga a mutarsi in un corruttore in grado di creare strutture di peccato all’interno della Chiesa. Basti pensare cosa fu capace di fare Giuda Iscariota, anche lui aveva ricevuto come tutti gli Apostoli prescelti la prima Eucaristia e la consacrazione sacerdotale.
Ci sono vari passi del Santo Vangelo che mettono in luce tutte le fragilità umane degli Apostoli, a partire da Pietro scelto da Cristo come Capo del Collegio Apostolico, che poco dopo avere ricevuto la sua investitura (cfr. Mt 16, 30-20) si dette alla fuga per primo dinanzi al pericolo, rinnegando il Divino Maestro per tre volte, come riportano i racconti dei tre Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni. Nel racconto degli Evangelisti Marco e Matteo si precisa che Pietro, alla terza volta che gli veniva chiesto se conoscesse quell’uomo «cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco quell’uomo!”». Nella cultura giudaica dell’epoca, giurare il falso o tirare in ballo il nome di Dio con un giuramento era considerato un delitto gravissimo che poteva essere punito persino con la morte. Eppure Pietro, il primo Capo del Collegio degli Apostoli, fece questo: imprecò e giurò il falso dicendo di non conoscere il Cristo.
Nel periodo successivo alla risurrezione di Cristo e dopo avere ricevuto i doni di grazia dello Spirito Santo a Pentecoste (cfr. At 2, 1-41), Pietro fu duramente rimproverato ad Antiochia dall’Apostolo Paolo che lo accusò di ambiguità e ipocrisia (cfr. Gal 2, 11-14). Per inciso: non mi risulta che nessuno abbia mai tacciato il Beato Apostolo di essere arrogante o più semplicemente inopportuno nelle sue espressioni critiche, anzi mi risulta che si debba tributargli tutt’oggi grande merito, perché se fosse stato per la “ipocrisia” e la “ambiguità” di Pietro o per un certo “integralismo” di Giacomo il Maggiore, oggi non saremmo ciò che siamo, ma solo una sètta giudaico-cristiana. Come tali non saremmo sopravvissuti, come non è sopravvissuto l’Ebraismo come religione dopo il 70 d.C. con la caduta del Tempio. Infatti, l’Ebraismo di oggi, è solo una pantomima di quella che fu l’antica religione ebraica, basti solo dire che sono scomparse le caste sacerdotali e i rituali di consacrazione che erano tutti quanti strettamente legati al Tempio. Elementi questi di cui scrissi in un mio corposo saggio del 2006: Erbe amare, il secolo del Sionismo.
C’è un passo drammatico del Vangelo della Passione di Cristo dove si narra l’arresto del Signore, dinanzi al quale risuonano queste parole: «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26, 56). Se ci pensiamo bene quello fu l’unico concilio della Chiesa dove tutti i Padri furono unanimi nella decisione. Per costituire la propria Chiesa, immagine visibile del corpo di cui Egli è capo e noi membra come illustra il Beato Apostolo Paolo (cfr. Col 1, 18), Cristo scelse degli uomini gravati da tutti i loro limiti, debolezze e inadeguatezze, che dinanzi all’arresto del Divino Maestro fuggirono.
I fedeli cattolici, ma anche le persone distanti dalla Chiesa o persino i non credenti, spesso pretendono che il sacerdote abbia quella purezza di vita che loro non hanno e che semmai non vogliono nemmeno avere. Talvolta i fedeli cattolici tendono ad avere del sacerdote un’idea surreale completamente scissa da quella che è la realtà del sacro ministero, rifiutandosi di capire che esercitarlo oggi è molto più difficile di quanto non lo fosse 100 anni fa, ma anche e solo 50 anni fa.
Il sacerdote,per il Sacramento di grazia col quale è stato segnato e per il sacro ministero a cui è chiamato, può finire con l’essere soggetto molto più di altri alle tentazioni del Demonio, perché è dispensatore della grazia attraverso i sacri misteri, per questo si accanirà con i consacrati in modo particolare. E questa fu una delle prime lezioni che imparai quando feci i corsi di formazione per gli esorcisti.
SENZA L’USO DELL’ELEMENTO STORICO NON SI PUÒ FARE TEOLOGIA NÉ SI POSSONO CAPIRE A FONDO CERTE SITUAZIONI RADICATE NEL CLERO, SE PERÒ LO FAI PRESENTE, PRONTA LA RISPOSTA DEL CLERICALE CHE MANIPOLA IL SANTO VANGELO: «CHI SEI TU PER GIUDICARE?»
Uno dei miei principali formatorifu il gesuita Peter Gumpel(1923-2022), eminente storico del dogma, che mi trasmise l’importanza fondamentale della storia nello studio della dogmatica, tutt’oggi materia di mio interesse e ricerca. Un teologo dogmatico privo di solidi fondamenti dati da adeguate conoscenze storiche, può seriamente rischiare di non avere una reale percezione dei fondamenti della fede finendo col perdersi nell’iperuranio della metafisica onirica. Dietro ai grandi concili dogmatici, a partire dal Primo niceno per seguire col Primo costantinopolitano che definiscono le verità fondamentali e che elaborano il nostro Simbolo di Fede, c’è una storia complessa e articolata intrecciata con articolate vicende politiche e difficili rapporti che correvano già all’epoca tra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente.
I chierici hanno sempre vissuto momenti ciclici di decadenza dottrinale e morale particolarmente gravi. Se qualcuno non conosce la storia, è inutile se la prenda con me che in scritti o interventi pongo spesso in luce certe odierne derive ecclesiali ed ecclesiastiche. Non posso che sorridere su certe “anime delicate” che giudicano le mie parole come una sorta di attentato di lesa maestà clericale, posto che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo (cfr. Col 1, 18), non un circolo chiuso trasformato in una «struttura di peccato» piena di «sporcizia»[5], da coprire e proteggere in ogni modo con atteggiamenti distruttivi verso chiunque osi esercitare il prezioso dono critico dato dalla libertà dei figli di Dio. Chi agisce con atteggiamenti omertosi clericali dimostra anzitutto in modo inquietante di non conoscere le opere di molti Santi Padri e dottori della Chiesa che usarono forme di severità e durezze di linguaggio ben superiori alle mie. Può essere però che non abbiano mai letto gli scritti in cui San Pier Damiani condanna con toni di fuoco la pratica della sodomia diffusa tra il clero[6], o il testo indirizzato da San Bernardo di Chiaravalle al Sommo Pontefice Eugenio III nel quale gli illustra in che modo sia circondato da prelati ruffiani e simoniaci che guardavano solo ai loro sporchi interessi[7], o Santa Caterina da Siena che invitata ad Avignone rispose al Sommo Pontefice di non avere bisogno di visitare la sua corte perché il fetore che emanava si sentiva sin dalla sua Città[8], sino alle più recenti critiche alla mediocrità e immoralità dell’episcopato e del clero di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori[9] o alle analisi critiche del Beato Antonio Rosmini che lamentava l’ignoranza del clero[10]. Tutto sommato le stesse cose che lamento io a coloro che attaccandosi a forme stilistiche o al fatidico «chi sei tu per giudicare?» ― con il quale vorrebbero tappare la bocca a qualsiasi pensiero critico ― dimostrano di non conoscere ciò che di molto peggio e in tono ben più severo hanno detto e scritto molti Santi Padri e dottori della Chiesa. Basterebbe poi conoscere i canoni disciplinari di certi concili, per esempio il IV Lateranense del 1215, dove si indicano a uno a uno i pessimi costumi del clero disponendone la correzione col ricorso a severe pene. E come mai, il Concilio di Trento, riguardo gli ecclesiastici, vescovi e presbiteri, dispose certe precise e rigide regole? Per comprenderlo basterebbe conoscere ciò che accadeva nel clero all’epoca rinascimentale e la risposta sarebbe presto data. Poi, se vogliamo toccare con mano lo stato di degrado in cui versava il nostro clero negli anni Trenta del Novecento, in tal caso basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotiiscritta nel 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, attraverso le righe della quale il quadro è presto fatto e fornito. Domanda: non è che quei soggetti che si stracciano le vesti accusando me di usare toni duri e severi, o attaccandosi alla forma espressiva non potendo smentire la sostanza, sono semplicemente e palesemente degli ottusi ignoranti sul piano storico ed ecclesiologico che pretendono di trattare e gestire la Chiesa come se fosse una cosca mafiosa retta su principi di omertà?
Anche in questo caso la risposta del clericaleottuso è presto data: «Vuoi forse paragonare te stesso a certi Santi Padri e dottori della Chiesa? Ah, che superbia, che arroganza!». Accusa questa tipica di chi reagisce stravolgendo e manipolando sia la realtà sia ciò che hai detto, posto che mai ho paragonato me stesso a certi Santi, ho solo cercato di prendere esempio da loro, per il semplice fatto che anch’io sono chiamato alla santità come tutti i battezzati, posto che la santità non è affatto una meta irraggiungibile, ma una meta che tutti siamo chiamati a raggiungere. Anche Gesù Cristo fu schiaffeggiato nel Sinedrio e rimproverato «Come osi rispondere così al Sommo Sacerdote?» (Gv 18, 22). Ovviamente il clericale manipolatore ha già pronta la risposta: «Vuoi forse paragonare te stesso a Gesù Cristo?». Certo che no, però sono in tutto e per tutto un alter Christus e come tale devo imitarlo e conformarmi a lui, perlomeno fu questo che mi disse il Vescovo consacrandomi presbitero. Per questo rispondo come Gesù Cristo: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Pronta la replica del clericale manipolatore: «Il problema non è la sostanza ma la forma, il modo in cui dici le cose». Questo perché per il clericale ottuso e manipolatore a farci liberi non è affatto la verità (cfr. Gv 8,32), ma la forma in cui la verità si dice, perché la forma è sempre e di gran lunga superiore alla sostanza della verità. Non era forse questo che insegnavano Sant’Anselmo d’Aosta, San Tommaso d’Aquino e gli altri Padri della scolastica classica, ossia che gli accidenti sono superiori alle sostanze? Ma che arrogante che fu Tommaso da Kempis che scrisse la celebre opera Imitazione di Cristo. Come si può pensare di essere superbi al punto da presumere di poter imitare Cristo? Ecco perché affermo e non mi stanco di ribadire che il clericalismo è peggiore dell’ateismo. Perché l’ateo nega Dio, il clericale ottuso manipola e falsifica Dio e la sua Parola per imporre come suprema legge le proprie peggiori miserie umane.
Tutto questo si chiama mysterium iniquitatis, ne parla chiaramente il Beato Apostolo Paolo dicendo che «il mistero dell’iniquità è già in atto» (2 Ts 2, 1). Elemento teologico ben preciso dinanzi al quale, il peggio che si possa fare, è di irritarsi dinanzi a chi questo mistero lo affronta, lo analizza e all’occorrenza lo pone in luce per scuotere anche le coscienze sempre più narcotizzate di certi ecclesiastici, sempre pronti a irritarsi se qualcuno osa indicare il male per ciò che è: male.
Un ventennio fa il Santo Pontefice Giovanni Paolo II lanciò l’ennesimo allarme parlando di una «apostasia silenziosa» e scrivendo a tal proposito che «La cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse»[11].
In questa decadenza e in questo rifiuto del sacroe del trascendentale ci siamo immersi anche noi preti, c’è poco da gridare allo scandalo se affermo che oggi, la forma di ateismo peggiore è quella dell’ateismo clericale. Basta solo osservare come certi preti celebrano la Santa Messa, per poi domandarsi in modo a dir poco ragionevole se credono veramente in quel che fanno, oppure se hanno dimenticato del tutto quando il Vescovo gli disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore»[12].
IL PRETE DI IERI ERA PROTETTO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO, OGGI È PRIVO DI PROTEZIONE SIA ESTERNA CHE INTERNA
Sino a mezzo secolo fa il prete viveva in contesti sociali nei quali era protetto come uomo e come figura sacra dalla società e dalle sue stesse strutture. Preti indegni e peccatori che hanno infranto le regole sono sempre esistiti, ma sino a non molti decenni fa vivevano in contesti socio-culturali in cui erano protetti. Pertanto, il prete che aveva comportamenti non adeguati al proprio statussacerdotale violava le regole e commetteva i propri peccati in un clima di totale nascondimento, evitando di dare pubblico scandalo, perché aveva molto chiaro in sé che cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Questo perché anche ai membri della società dei tiepidi verso la fede o anche agli stessi non credenti era chiaro cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Se quindi il prete sbagliava, o se commetteva peccati, era consapevole di sbagliare e di peccare e faceva tutto il possibile affinché il suo peccato non desse pubblico scandalo. A questo si aggiunga che in epoche passate, anche recenti, non c’erano i mezzi di comunicazione e di controllo che ci sono oggi, dove nell’era dei socialviviamo tutti quanti esposti in vista su una pubblica piazza, mentre le notizie giungono da una parte all’altra del mondo in pochi secondi. Oggi il prete vive inserito all’interno di una società che oltre a non proteggerlo cerca di convincerlo che il male è bene e il bene male, inducendo i deboli a cadere nei peggiori vizi e perversioni.
Una volta il prete era considerato socialmente una autorità moralepersino da coloro che rigettavano la dottrina e la morale cattolica, ma che per quanto ostili al Cattolicesimo riconoscevano nel prete una figura ben precisa. Oggi la Chiesa Cattolica, il Romano Pontefice, i vescovi e i preti sono usati per fare non comicità o satira, cosa sempre esistita sin dai tempi del grande Giovanni Boccaccio e di Pietro l’Aretino. Con la scusa delle comicità e della satira che in realtà non sono però tali, si cerca di destituire la Chiesa e il suo clero di qualsiasi autorità, autorevolezza e fondamento spirituale e soprannaturale, in modo spesso subdolo, violento e distruttivo. A questo si aggiungano quei preti che sviliscono i sacri misteri trasformando il Sacrificio Eucaristico che si rinnova durante la celebrazione della Santa Messa in show stravaganti quasi sempre frutto del narcisismo egocentrico del prete e del suo pressoché assente senso del sacro.
Per questo e vari altri motivi dico spesso ai confratelli di cui sono confessore e direttore spirituale che il Demonio è un concentrato di intelligenza allo stato puro che nel corso dei secoli ha capito che le persecuzioni e il sangue dei martiri hanno sempre purificato e rafforzato la Chiesa, dandole forza e linfa vitale. La nuova tecnica che ha adottato ai nostri giorni è invece terribile: farci morire nel ridicolo. E a morire martiri per la fede i preti possono anche essere preparati, ben sapendo che potrebbe essere una possibilità del tutto eventuale, a suo modo scritta nel nostro carattere sacerdotale indelebile ed eterno. Mentre a morire sommersi nel ridicolo nessuno era preparato. Purtroppo è questa la morte che si tenta di riservare alla Chiesa e al suo clero: il ridicolo. E di fronte al rifiuto sociale e alla totale indifferenza che spesso vanifica qualsiasi tentativo di attività pastorale, non pochi sono i preti che finiscono per andare in crisi. Alcuni in modo serio, in particolare quelli con trenta o quarant’anni di sacro ministero che finiscono spesso per domandarsi quale sia la loro utilità, se sono utili a qualche cosa e che cosa? Quelli che si pongono questi quesiti quasi sempre dolorosi e drammatici, per quanto vivano in stato di crisi, sono i buoni preti che hanno sempre creduto e che credono nella loro missione. Poi ci sono gli altri, che vanno a braccetto con il mondo e che fanno di tutto per piacere al mondo e per compiacerlo. Questi secondi sono quasi sempre pessimi preti difficili da aiutare e recuperare, anche perché sono totalmente ripiegati nelle forme peggiori di secolarizzazione e a essere aiutati o recuperati non ci pensano proprio.
LA CRISI DELLA DOTTRINA DELLA FEDE E DELLA MORALE, OLTRE AL PROBLEMA DELL’IGNORANZA DEI PRETI MALFORMATI E DEFORMATI
In diversi miei libri e articoli scritti nel corso degli ultimi 15 anni ho spiegato ― e credo anche dimostrato ― in che modo, animati da ingenue buone intenzioni, dalla metà degli anni Sessanta del Novecento a seguire abbiamo cercato di andare incontro al mondo e di piacere a tutti i costi alla società contemporanea che si era messa in marcia verso la decadenza dei valori umani e morali. Nel fare questo ci siamo dimenticati che lo scopo della Chiesa non è quello di piacere al mondo ma di combattere le sue gravi malattie. E anche questo ci era stato detto:
«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15, 18-19).
Un male inteso spirito del Concilio fomentato da parte di coloro che i documenti del Concilio Vaticano II non li hanno mai studiati né bene né a fondo e che si sono creati per questo un concilio personale tutto loro, mai scritto dai Padri della Chiesa, ha finito col generare una crisi della dottrina che ha dato vita a sua volta a una crisi della fede sfociata infine in una devastante crisi morale del clero, buona parte del quale, specie in certi angoli del mondo, versa in condizioni di secolarizzazione che da tempo hanno superato tutti i livelli di guardia.
Il Santo Pontefice Paolo VI,che del Concilio Vaticano II indetto dal Santo Pontefice Giovanni XXIII fu il traghettatore, oltre a colui che ne portò la croce, dinanzi alla innegabile evidenza di certe derive sia dottrinali che secolariste disse:
«Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, d’incertezza»[13].
In quegli anni, uno dei maestri della Scuola Romana,Antonio Piolanti, che al concilio fu perito, dinanzi a certe stravaganze che presero a diffondersi agli inizi degli anni Settanta del Novecento soleva ripetere dalla sua cattedra della Lateranense:
«Questo non è il Concilio, nulla di tutto ciò è stato scritto dal Concilio, mai! Questo è solo il para-concilio dei preti e dei teologi eccentrici, che con il Concilio Vaticano II e i suoi documenti non ha niente da spartire!»
Tutti i giorni tocco con mano delle situazioni di grave immoralità diffuse nel clero, ma in scienza e coscienza posso dire e altrettanto facilmente dimostrare che spesso non è colpa dei sacerdoti ma del modo inadeguato e superficiale con il quale sono stati formati e portati al sacerdozio. Spesso, la colpa, è dei vescovi che hanno dimenticato persino il significato etimologico della parola ἐπίσκοπος e che hanno gravemente omesso di vigilare e accudire il loro clero, evitando di consacrare presbiteri soggetti immaturi privi di requisiti umani, morali e spirituali.
In molte università ecclesiastiche e istituti teologici si insegnano più sociologia e scienze politiche anziché i fondamenti della solida dottrina e della teologia cattolica di base che sono i soli in grado di dare ai preti un fondamento e soprattutto delle forti motivazioni pastorali che non si basano sulle effimere emozioni, ma sulla trascendenza. A quel punto il danno è presto fatto: molti preti oggi non conoscono neppure più il significato di certe parole e per questo le equivocano in modo gravemente sbagliato. Per esempio mi è capitato spesso di udire preti affermare, persino durante le omelie: «Basta con questi assolutismi … oggi non siamo più la Chiesa dell’assoluto che pensa di avere la sola verità in tasca» (!?). Non è però questo che troviamo scritto nel documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes che affronta il delicato tema del rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo. Per seguire con preti che usano termini come «dogmatico» o «tridentino» in accezione negativa se non addirittura offensiva, manifestando a questo modo una spaventosa ignoranza che unita all’arroganza si compiace di sé stessa. Signori Vescovi, ma a questi soggetti chi li ha formati, soprattutto: chi li ha fatti preti? E dico ignoranza perché anche il più umile dei preti divenuto tale solo dopo una semplice ma buona formazione di base, dovrebbe sapere che grazie al Concilio di Trento la Chiesa fu anzitutto purificata da molte corruzioni e soprattutto aprì le porte alla grande evangelizzazione, cessando nei successivi 100 anni di essere un fenomeno principalmente europeo per diffondersi in tutti i continenti del mondo. Il Concilio di Trento segnò anche una gloriosa stagione di grandi Santi e Sante della carità, dei grandi pedagoghi e dottori che crearono straordinari istituti e strutture di formazione, assistenza, educazione della povera infanzia ed evangelizzazione. Questo fu il Concilio di Trento usato oggi in accezione negativa da certi ignoranti che si compiacciono della propria ignoranza sentenziando: «Ah, questi vecchi dogmatismi che puzzano di naftalina … Ah, che spirito tridentino!». Quello di Trento fu un concilio grandioso che i Padri del futuro Concilio Vaticano II apprezzarono e richiamarono in modo sapiente in tutti i loro fondamentali documenti, a partire dalle Costituzioni Lumen gentiume Dei verbum.
Affermazioni del genere sono delle autentiche scempiaggini,ma vediamo come mai alcuni le pronunciano con disinvolta convinzione. Anzitutto perché confondono il termine “assoluto” ― che in tutte le religioni giudeo-cristiane, nella filosofia metafisica, nella teologia dogmatica e nella teologia fondamentale ha un significato ben preciso legato alla assolutezza della fede rivelata[14] ― con quello che invece è “l’assolutismo” di tipo politico. Il Santo Vangelo è pieno di espressioni categoriche e assolute pronunciate da Gesù Cristo, per esempio: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Cristo non fornisce altre opzioni, ma ne offre una sola e assoluta, perché Lui, il Verbo di Dio incarnato è l’Assoluto generato non creato dall’Assoluto, allo stesso modo in cui lo Spirito Santo è l’Assoluto che procede da Dio Padre e da Dio Figlio, essendo a sua volta Dio Spirito Santo. E quando nel Simbolo di Fedenoi professiamo di credere la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, enunciamo un assoluto, come in varie altre parti del Credone enunciamo altri, posto che Cristo sulla Terra ha fondato una sola Chiesa, non una molteplicità di chiese.
Se la formazione del sacerdote è fatta in modo superficiale senza che siano a lui fornite delle basi molto solide, appena si troverà inserito come prete nel mondo, rischia di fare la fine della canna spezzata dal vento, se non peggio: divenire un vero e proprio corruttore del Popolo di Dio.
CHI NON È IN GRADO DI REGGERE LA SOLITUDINE NON DOVREBBE DIVENTARE PRETE
La solitudine è quella compagna sgradita che spesso segue il prete nel corso della sua esistenza, a meno che non si muti in cristologica solitudine, per questo non si pentirà di averla scelta. Anche Cristo, nelle ore più tragiche della sua vita, restò solo, abbandonato da quegli stessi che Egli aveva scelti a testimoni e compagni della sua esistenza e che aveva amati fino alla fine (cfr. Gv 13, 1), ma dichiarò: «Io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32). Se certi preti, anziché inventarsi un egocentrico concilio mai celebrato dai Padri della Chiesa, studiassero veramente i documenti del Concilio Vaticano II e certi documenti del successivo magistero del Santo Pontefice Paolo VI, molti dei nostri drammatici problemi sarebbero risolti con la sola lettura dell’Enciclica Sacerdotalis Coelibatuspubblicata il 24 giugno 1967.
Per questo i momenti di solitudine sono sempre degli spazi preziosi di vita, che è bene anzi ritagliarsi e vivere, perché favoriscono la preghiera profonda, la riflessione e la meditazione spirituale sul mistero della vita e della morte. Spesso, durante le direzioni spirituali, mi capita di chiedere ai sacerdoti: … ma tu, mediti mai sulla morte? Se a questa domanda il prete mi risponde in modo scherzoso dicendo «Ah, ma per pensare alla morte c’è tempo!», o se peggio mi viene risposto «sono talmente impegnato in tante attività che alla morte non ci penso proprio» … ecco, in quel caso capisco subito che c’è molto da lavorare sulla spiritualità del prete, o forse sulla sua debole o a volte persino assente spiritualità. Troppi sono i preti che purtroppo non si distinguono per niente da quelli che possono essere i liberi volontari di associazioni non governative, troppi e sempre di più. Con alcuni è possibile lavorare, ottenendo anche buoni risultati, con altri purtroppo no, perché è mancata proprio la basilare formazione del prete.
Esiste però anche un altro genere di solitudine, quella che nasce da forme di abbandono o di isolamento. Non pochi sono i sacerdoti lasciati a sé stessi dai loro vescovi impegnati in tutt’altre faccende a loro dire sempre e di rigore più importanti, per potersi occupare dei propri preti. A quel punto nasce per prima cosa la disaffezione tra il prete e il proprio vescovo. Cosa grave e pericolosa, perché il sacerdozio del presbitero è intimamente e inscindibilmente legato alla pienezza del sacerdozio apostolico del vescovo[15]. Appena il prete incomincia a sentirsi abbandonato dal vescovo e dai propri confratelli, anch’essi affaccendati in molte cose sempre e di rigore più importanti della fraternità sacerdotale, a poco a poco incomincia a isolarsi. E da questi due elementi pericolosi che sono “isolamento” e “solitudine” può nascere veramente di tutto e di più.
Vorrei evitare di scendere in certi dettagli,quindi proverò a dare in modo delicato almeno un’idea del mio ministero con i sacerdoti, spiegando a che cosa possa portare quella solitudine che genera abbandono e conseguente senso di isolamento. Ecco allora casi di sacerdoti che cadono in forme più o meno gravi di depressione, che cadono nell’alcolismo, alcuni nell’uso delle droghe, altri nella dipendenza molto dannosa da internet con tutto ciò che questo strumento può comportare e offrire, o in frequentazioni di persone e ambienti per così dire … molto poco raccomandabili. Sacerdoti che si sentono inutili perché vorrebbero dare ma che ritengono di versare o di essere stati messi nella condizione e nella impossibilità di poter dare …
I PRETI SONO QUANTO DI PIÙ DELICATO CON IL QUALE UN PRETE PUÒ RITROVARSI A TRATTARE
Con certi vescovi ho cessato di discutere sin da quando ho capito che se il dono della paternità non l’hai ricevuto, o più semplicemente non lo hai mai sostanzialmente acquisito e sviluppato, non ti viene certo infuso al momento in cui ti mettono un anello alla mano, una mitria sulla testa e incominciano a chiamarti “Eccellenza Reverendissima”.
Come hanno risolto certi problemialcuni vescovi molto lungimiranti? Presto detto: mettendo a disposizione dei preti degli psicologi, preferibilmente donne, alcune delle quali provenienti persino dalla scuola freudiana e lacaniana. A quel punto perché non dare direttamente cattedra ai corsi filosofici presso gli studi teologici dove si formano i nostri futuri preti a degli ideologi marxisti? Chiariamo: che un prete possa avere bisogno di un bravo medico specialista in psichiatria è cosa del tutto possibile. Io stesso sono in stretto contatto con due bravi ed esperti psichiatri cattolici ai quali varie volte ho indirizzato miei confratelli che avevano evidente bisogno di supporti clinico-psichiatrici, o perché versavano in stati depressivi, o perché affetti da nevrosi ossessive, o perché sofferenti per vari altri disturbi. Ma un direttore spirituale non può, né mai potrà essere sostituito con una “psicologa diocesana”, perché per aiutare un prete e sanare le ferite della sua anima occorre sempre e di necessità un altro prete, nessun altro lo può fare. E su questa moderna mania tutta quanta tedesca di distribuire “quote rosa” dentro la Chiesa in modo puramente politico e ideologico, preferisco veramente soprassedere, tanto sono infastidito da certe invadenti cattoliche impegnate e militanti che se potessero ci caccerebbero fuori per celebrare al posto nostro anche la Santa Messa.
Per i preti, trovare un bravo confessore è sempre più difficile, anche perché confessare un prete è cosa molto delicata. Trovare un bravo direttore spirituale è più difficile che trovare un bravo confessore. Se infatti il confessore è colui che ti assolve dai peccati, il direttore spirituale è colui che dirige i tuoi passi sul cammino della fede e della vita sacerdotale, che ti aiuta nella tua formazione permanente al sacerdozio e a ravvivare il dono che è in te[16]. Colui che all’occorrenza, con quella prudenza e lungimiranza frutto dei doni di grazia dello Spirito Santo, ti dice cosa fare o, in caso di necessità, ti impone proprio quel che è opportuno fare o non fare.
Tra un sociologismo e l’altro ci siamo inventati un nuovo termine che alcuni hanno ritenuto più allettante di “direzione spirituale”, quello di … “accompagnamento spirituale” (!?). Anche in questo caso è necessario chiarire: dirigereeaccompagnaresono due cose totalmente diverse. Purtroppo certi ecclesiastici non hanno imparato niente dai clamorosi fallimenti sociali ed educativi che si sono consumati pochi decenni fa, quando nei poco gloriosi anni Settanta del Novecento la psicologia selvaggia lanciò la moda dei “genitori amici”, in un fiorire di pensierini e di temi scolastici in cui i bimbi spiegavano: “… il mio papà è il mio migliore amico”, mentre le bambine scrivevano che “la mia mamma è la mia migliore amica”. E una volta divenute adolescenti si sono ritrovate con madri diseducative che pretendevano di fare le teenagerandando a ballare con le figlie, se non peggio rubando alle figlie i fidanzati.
Il genitore, padre e madre, sono tutt’altra cosa.Non sono degli amici del cuore che accompagnano, sono gli educatori che dirigono i figli, il punto fermo e fondamentale della loro crescita, coloro che all’occorrenza gli alzano la voce e dicono di no, o che se necessario proibiscono di fare una cosa sbagliata e dannosa.
Curare l’anima di un prete è difficile come lo è per un medico curare un altro medico, o come per un chirurgo portare in sala operatoria un altro chirurgo.
NEPPURE IO TI CONDANNO. E ADESSO VAI E NON PECCARE PIÙ!
Quando infine molti sacerdoti hanno preso coraggio e vuotato il sacco narrandomi le peggiori cose e le loro peggiori gesta, a volte a testa basta, spesso e volentieri piangendo, mi hanno chiesto: «Ma tu, non provi disgusto per me?». Con molto affetto ho ricordato loro il brano del Santo Vangelo del Beato Evangelista Giovanni in cui si narra della prostituta che stava per essere lapidata. Prima però, i farisei, posero un quesito provocatorio a Gesù «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Rispose loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Poi disse alla donna: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 7, 53-8,11).
Quella pubblica peccatrice è una persona reale, ma al tempo stesso un paradigma, perché tutti siamo prostitute e nessuno di noi potrebbe lanciare la prima pietra vantando di non avere peccato. Per questo ho sempre risposto al quesito di certi sofferenti dicendo che non provavo disgusto ma senso di amorevolezza per il peccatore pentito cui potevo solo dire in sacerdotale coscienza … neppure io ti condanno, adesso vai in pace con Dio e d’ora in poi non peccare più.
Che un peccatore possa assolvere dal peccato un altro peccatore,o che un peccatore possa guidare un altro peccatore sul giusto cammino, non è cosa illogica, ma costituisce da sempre una delle principali ratiodel grande mistero della fede. Il Beato Apostolo Paolo scrive «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5, 20) e nella notte di Pasqua, quando si benedice il cero simbolo della luce del Cristo risorto, sulle parole dell’Aquinate si canta nel Preconio: «O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!»[17].
La cosa peggiore che si può fare con un sofferente afflitto,umiliato e pentito per il proprio peccato, è quella di investirlo con rimproveri e giudizi morali. In pratica come se il medico di un pronto soccorso, anziché chiudere una ferita aperta che sanguina, ci mettesse del sale sopra.
PER FARE LO STUDIOSO NON È NECESSARIO DIVENTARE PRETE
La teologia non può essere una semplice speculazioneintellettuale fine a sé stessa, ma una orante e incessante ricerca della verità, cosa questa che si realizza soltanto pregando e studiando, ma soprattutto tenendo sempre fisso all’orizzonte il monito: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31), vale a dire quella verità di cui siamo servitori e non certo padroni. O come diceva San Tommaso d’Aquino: «Non sei tu che possiedi la verità, ma la verità che possiede te». Ritengo inaccettabile, anzi aberrante che siano tutt’oggi tollerati preti-teologi che non hanno alcun concreto rapporto con la reale vita pastorale, che da anni non entrano in un confessionale, che tengono lezioni accademiche ma che non predicano nelle chiese o che non saprebbero neppure da che parte incominciare nel dare il Sacramento dell’unzione degli infermi. È inaccettabile che l’attività di questi soggetti si limiti alla celebrazione della Santa Messa al mattino in una cappella di anziane religiose per poi dedicarsi a tutt’altre faccende. Questo genere di preti non sono teologi, ma veri e propri mostri. Personalmente non sono mai riuscito a concepire la teologia scissa dalla concreta vita ecclesiale, pastorale e sacramentale. Il sacerdote, quello che svolge il ministero di parroco in modo particolare, ha delle precise responsabilità verso il Popolo di Dio, basate sul principio di priorità. Esempio: non si spediscono le pie donne a portare la Santa Comunione agli ammalati perché a loro dire impegnati in inderogabili … attività pastorali (!?) Fossi il vescovo di certi preti non esiterei a richiamarli severamente precisando che se da una parte c’è il consiglio parrocchiale o una serata con i giovani e dall’altra un infermo da visitare, il prete lascia il consiglio e i giovani e si reca dall’infermo, anziché spedirvi la pia donna. Sorvoliamo poi su quei parroci che a tutti danno la chiave del tabernacolo ma a nessuno darebbero mai la chiave della cassa dove tengono i soldi o della loro automobile personale. Sorvoliamo, posto che noi siamo i custodi della Santissima Eucaristia e non certo dei quattrini, oltre al fatto che se i vescovi devono richiamare i preti, spesso lo fanno per cose talmente risibili e ridicole che riportano alla mente il moscerino filtrato e il cammello ingoiato (cfr. Mt 23, 24).
NON INTERESSANO LE TUE OPERE, CONTA LA FORMA. QUEL SOGGETTO VOLGARE E INOPPORTUNO DI GESÙ CRISTO CHE NELLA FORMA DIFETTAVA GRAVEMENTE
È necessario fare ricorso a un esempio personaleche se potessi eviterei, ma purtroppo è utile per rendere chiaramente l’idea. Uno dei vari preti che ho assistito e che dopo alcuni anni è uscito da una brutta depressione, a vari suoi intimi e confratelli ha affermato: «Se quella sera, dopo un lungo colloquio telefonico, Ariel non fosse partito alle 17 del pomeriggio da dove si trovava, per fare 500 chilometri e giungere da me poco prima di mezzanotte, forse, al mattino, mi avrebbero trovato a penzolare con una corda attaccata al collo». Pur malgrado, a fronte di questo mio lavoro pastorale, è accaduto che ci si sia rivolti a me più volte con delle lettere unicamente per sollevare rimproveri basati sul «… mi hanno detto che … alcuni si sono lamentati per certi tuoi scritti … per i toni che usi…». I miei scritti contengono forse elementi o espressioni in contrasto con la dottrina della fede e la morale cattolica? Ovvio che no, la dottrina della fede e la morale cattolica le difendo e le diffondo. Dunque? Presto detto: la forma. Evidentemente, chi si attacca alla forma, non ha mai letto le invettive di Gesù Cristo contro gli scribi e i farisei, o se le ha lette, forse non ne ha proprio colto sia la forma che la sostanza (cfr. Mt 23, 1-39). Per comprenderne la portata e la gravità offensiva basterebbe accantonare il surreale Vangelo fatto di danze al ritmo dei bonghi di certi Neocatecumenali, o quello delle stelline e dei cuoricini palpitanti e degli svenimenti emozionali di certi carismatici e focolarini per imparare un po’ di esegesi novo testamentaria. Per esempio, vediamo che cosa voleva dire rivolgersi in questi toni a degli alti notabili e a dei membri della casta sacerdotale:
«sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume».
Chiariamo: la Legge, ossia la הלכה e il תַּלְמוּד consideravano il cadavere la quintessenza della impurità. Ai כּוהנים membri della casta sacerdotale in particolare era proibito non solo avere contatti con i cadaveri, ma non potevano avvicinarsi neppure a distanza ai luoghi di sepoltura, perché sarebbero caduti in stato di impurità (טָמְאָה). Per tornare puri (טָהוֹר) avrebbero dovuto sottoporsi a lunghi e meticolosi rituali di purificazione per la durata di 30 giorni. Presto detto: se Gesù Cristo si fosse rivolto a loro dicendo וזה חרא טוטאלי (siete dei pezzi di merda), per la cultura giudaica dell’epoca e dinanzi alla Legge sarebbe stato molto meno offensivo. Per non parlare dell’epiteto «razza di vipere», una offesa di una gravità inaudita, non solo perché il serpente era l’animale più impuro (טָמְאָה), ma perché era il simbolo biblico per antonomasia del male. Non solo Gesù Cristo paragona questi “ecclesiastici” a dei serpenti, perché fa molto di peggio: li chiama «razza». Cosa terribile, perché non solo offende loro, ma addirittura l’intera ascendenza dei loro antenati. Presto detto: la nota espressione romanesca «li mortacci tua» a confronto è davvero niente. Ecco, avrei gradito che coloro che una tantum mi hanno mandato la letterina di rito per informarmi «mi hanno detto che … hanno protestato perché …», avessero invitato certi clericali suscettibili a studiare il vero significato di certe espressioni del Nuovo Testamento, perché delle due cose l’una esclude l’altra: o sono ignoranti loro, oppure leggiamo e predichiamo proprio due Vangeli diversi. Il Vangelo che mi fu messo in mano e consegnato prima quando fui ordinato diacono e poi quando fui consacrato sacerdote è il Vangelo di Gesù Cristo, non quello prodotto dalla industria Perugina che dentro i suoi baci al cioccolato mette delle cartine con dei teneri pensierini struggenti. A me il Vescovo disse «conformati alla croce di Cristo», in ossequio al comando del Divino Maestro che ci invita a prendere la nostra croce e seguirlo (Lc 9, 23). Nessuno mi ha mai detto di conformarmi alla Perugina e di lanciare manciate di bacetti al cioccolato ai Christi fideles, o di annunciare un Vangelo annacquato quanto basta per non irritare e offendere nessun cuoricino emozionale. E la croce è molto “brutta” sia nella forma che nella sostanza, è uno strumento di tortura a tal punto infame che i cittadini romani non potevano essere condannati a questo supplicium more maiorum, neppure i peggiori criminali[18]. Per questo Pietro, giudeo, fu condannato alla crocifissione, Paolo, civis romanus, fu invece decapitato, perché in quanto cittadino romano non poteva essere crocifisso.
Ovviamente su certe proteste rido,perché non ritengo meritino lacrime, se infatti si deve proprio soffrire, è bene farlo per delle cose serie, non per dei permali clericali che umiliano chi li esprime e non certo chi ne è reso oggetto, sempre sulla base del principio di quanto taluni sono in parte bravi e in parte irrazionali quando decidono di scansare il moscerino e ingoiare poi un intero cammello (cfr. Mt 23, 24).
«TU HAI CRITICATO IL SOMMO PONTEFICE»
Desidero chiarire questa falsa accusa che più volte mi è stata rivolta: chi estrapola da miei scritti o libri una frase, la manipola e poi mi accusa di avere criticato il Sommo Pontefice, mente e dice il falso. Nella mia vita sacerdotale ho sempre applicato il principio del Santo Padre e Dottore della Chiesa Ambrogio Vescovo di Milano che disse:
«Dite al Papa che dopo Gesù Cristo per noi viene solo lui e che lo amiamo e veneriamo, ma ditegli anche che la testa che Dio ci ha dato non intendiamo solo usarla per metterci un cappello sopra».
È vero che ho criticato nel corso degli anni certi discorsi e scelte pastorali del Sommo Pontefice Francesco; è vero che mi sono sentito profondamente ferito vedendo il Sommo Pontefice lavare i piedi alla Missa in Coena Dominia carcerati e prostitute nel giorno in cui si festeggia la istituzione della Santissima Eucaristia e del Sacerdozio; è vero che sono rimasto imbarazzato nel vederlo a Lund accanto a una “arcivescova” dichiaratamente lesbica e convivente con la sua compagna rivestita delle insegne episcopali; è vero che ho pubblicato un libro nel quale esprimo le mie perplessità sullo stile espressivo sociologico e la mancanza di chiarezza che serpeggia in alcune pagine di Amoris Laetitia, ma non ho mai criticato i suoi contenuti magisteriali. Ci sono decine di miei articoli che testimoniano con quale fedeltà, all’occorrenza con quale durezza ho richiamato certi sacerdoti e fedeli all’obbedienza che siamo tenuti a prestare al Romano Pontefice, che può essere oggetto di critiche, anzi deve esserlo, per il bene suo e del suo ministero petrino. Sempre chiarendo che un conto è avanzare critiche a discorsi fatti a braccio in modo colloquiale, oppure durante le fasi di studio di certi problemi, quando si può e si deve disputare di tutto, però, se il Sommo Pontefice pubblica un atto di magistero o dà una disposizione in forma di motu proprio, in quel caso si ubbidisce, si esegue e si ricorda a certi fedeli che sono capaci a porsi come giudici al di sopra della Cattedra di Pietro, che se il Successore del Beato Apostolo Pietro stabilisce e dispone, ogni discorso è chiuso, si deve solo prestargli ossequio nell’obbedienza della fede.
Qualcuno vuol forse negareche nel corso degli anni ho sollevato questioni e proposto soluzioni che tempo dopo sono divenute atti del magistero dati in forma di motu proprio? Ne cito uno tra i tanti: Traditionis Custodes. Due anni prima dell’uscita di questo documento pubblicai un articolo critico dove spiegai che sarebbe stato opportuno revocare, o perlomeno correggere il motu propriodel Sommo Pontefice Benedetto XVI, che nel 2007 concesse l’uso del Messale di San Pio V, presto trasformato in pretesto da molti circoli di cosiddetti “tradizionalisti” che lo hanno usato come una mazza ferrata per attaccare il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica del Santo Pontefice Paolo VI. Nella Chiesa possono esistere e convivere assieme opinioni diverse, che sono sempre di importante e prezioso stimolo, non però due partiti in lotta su una materia delicata come la sacra liturgia, perché l’Eucaristia è il cuore dell’unità della Chiesa e nessuno può usarla per creare divisioni ideologiche.
Ho sempre detto e affermato che il Sommo Pontefice Francescoè un uomo gravato come tutti noi dai propri limiti e difetti, ma ho sempre aggiunto e ripetuto: il Beato Apostolo Pietro rinnegò il Divino Maestro per tre volte, imprecando, giurando il falso e dandosi alla fuga. Nulla di questo ha mai fatto il Santo Padre Francesco eletto da un Conclave di Cardinali, al contrario di Pietro che fu scelto invece da Cristo in persona, chissà, forse proprio perché incarnava tutte le nostre fragilità umane?
Permettetemi comunque di sorridere all’idea che queste critiche mi siano rivolte da certi clericali velenosi, quelli che non esitano a rifiutare ― per dirne solo una ― la nuova versione del Pater Noster. A chi mi ha domandato se la nuova versione mi piaceva non ho esitato a rispondere di no, ma ho subito chiarito: che a me piaccia o no è cosa irrilevante, perché come pregare e insegnare a pregare al Popolo di Dio me lo dice e me lo comanda la Chiesa, mio obbligo e dovere è seguire gli insegnamenti della Chiesa mater et magistra. E quante volte, durante i colloqui e le direzioni spirituali ho ripetuto a molti sacerdoti: «Meglio fare la cosa sbagliata in obbedienza al Sommo Pontefice e al proprio Vescovo, piuttosto che fare la cosa giusta in disobbedienza a quanto il Sommo Pontefice o il Vescovo hanno stabilito e richiesto».
Detto questo torno a ribadire:oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa.
QUEI VESCOVI CHE NON ESITANO A SACRIFICARE I PROPRI PRETI PUR DI PIACERE A TUTTI I COSTI A UN ESERCITO DI LAICI INSOLENTI E ARROGANTI
Quei vescovi che per loro quieto vivere non esiterebbero a sacrificare i propri preti sono dei pastori indegni e pericolosi. I presbiteri devono costituire il primario interesse del vescovo, perché è grazie ad essi che può esercitare la pienezza del proprio sacerdozio apostolico, allo stesso modo in cui i presbiteri esercitano il proprio sacerdozio in virtù del sacerdozio apostolico del vescovo. Il buon vescovo non è colui che dinanzi a un prete afflitto e smarrito lo mette subito in guardia dicendogli «non voglio problemi!», ma colui che lo accoglie dicendogli l’esatto contrario: «Il mio compito primario di padre e pastore è quello di aiutarti a risolvere i tuoi problemi e restituirti serenità». Il buon vescovo non è quello che passa sopra a tutto, a partire dai peggiori capricci dei fedeli, nel tentativo di piacere a tutti e di non scontentare nessuno, ma colui che all’occorrenza cerca proprio di non piacere, perché chi piace a tutti rischia alla fine di non piacere a Dio.
Due le figure degli Apostoli che venero particolarmente,ai quali mi ispiro e coi quali in un certo senso mi identifico caratterialmente: Giovanni e Paolo. Spesso mi chiedo: in quanti conoscono veramente il Beato Apostolo Paolo? Se analizziamo in profondità le Lettere Apostoliche e gli Atti degli Apostoli non emerge un carattere facile, bensì un soggetto che non ne lasciava passare una. Lo provano i suoi disaccordi con il Beato Evangelista Marco (cfr. At 13,13; At 15,37-38), verso il quale in seguito si tranquillizza (cfr. Col 4,10). Ebbe accesi disaccordi con il suo discepolo Barnaba (At 15,39-40; Gal 2,13). Per non parlare dell’accesa disputa con il Beato Apostolo Pietro (Gal 2,11-16), con il Beato Apostolo Giacomo che capeggiava la corrente giudaico-cristiana (cfr. At 15; Gal 2). Quando si afferma che alla partenza di Paolo «la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (cfr. At 9,30-31) temo proprio che molti non riescano a cogliere quanto questa frase suoni ironica, perché tradotta in altri termini equivale a dire … «Meno male che si è tolto di torno!». Come però già detto in precedenza, queste sfumature sfuggono agli ideatori e diffusori del Vangelo surreale e sentimentale dei pensierini impressi sulle carte dei Baci Perugina.
Il Beato Apostolo Paoloscrive al proprio discepolo Timoteo: «Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro» (I Tm 3,1). Non ho mai aspirato all’episcopato e non intendo aspirarci, ma nei termini paolini e in un contesto storico analogo vi aspirerei anch’io. Ma vediamo cosa intende il Beato Apostolo con questa frase scritta in un’epoca nella quale i vescovi e i presbiteri rischiavano seriamente la vita, perché durante le prime grandi persecuzioni erano considerati i principali sobillatori di un gruppo di fuorilegge noto come cristiani o come seguaci del Nazareno. Non a caso gli Apostoli, primi vescovi creati da Cristo Signore, fecero questa fine: Giacomo ucciso con la spada per ordine di Erode Agrippa in Giudea. Pietro crocifisso a Roma durante le persecuzioni di Nerone. Matteo ucciso a colpi di ascia. Bartolomeo detto Natanaele ucciso in Armenia a colpi di frusta. Andrea crocifisso in Grecia su una croce a forma di “X”. Mattia, che sostituì Giuda nel Collegio Apostolico, si presume sia morto martire. Tommaso ucciso a colpi di frecce nell’attuale Kerala. Luca impiccato a un albero dai sacerdoti greci. Giuda Taddeo ucciso a Odessa. Simone lo Zelota crocifisso in Britannia. Giacomo il Minore lapidato nella Giudea. Filippo morì nella Frigia inchiodato a un albero. Giovanni, morto secondo la tradizione quasi centenario, fu l’unico degli apostoli a non essere martirizzato. Questo ciò che comportava all’epoca in rischi l’episcopato indicato come meritevole aspirazione dall’Apostolo Paolo, anch’esso martirizzato alle Acque Salvie in Roma. Il giorno in cui torneremo a situazione diverse, ma comunque analoghe, vedrete bene con quale fretta ci libereremo all’istante dalla piaga dei carrieristi!
Il Santo Vangelo che da sempre lascia un segno indelebile nella storia non è tanto quello predicato, ma quello praticato, per quant’è vero che siamo chiamati a essere testimoni viventi del Cristo verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo (cfr. Lc 24,48). Come infatti sta scritto: «Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2, 18). E oggi, la nostra fede, quella di noi sacerdoti avanti a tutti, è messa seriamente alla prova, perché non siamo più protetti e tutelati all’esterno dalla società, ma soprattutto all’interno della Chiesa, ridotta oggi a una struttura che cade a pezzi in stato di decadenza avanzata. Non ci resta dunque che cercare di passare dalla porta stretta, perché, come sta scritto: «[…] molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24). E riuscirci oggi è meno facile di quanto lo fosse ieri. Ecco, la nostra grande prova da superare: la prova della fede.
dall’Isola di Patmos, 7 aprile 2023
Giovedì Santo – Istituzione della SS. Eucaristia e del Sacerdozio Ministeriale
La cd. Missa Sicca era solitamente celebrata nel pomeriggio, in occasione di funerali o matrimoni, dopo che il sacerdote aveva già celebrato nel corso della mattina e non poteva celebrare altre Sante Messe dopo le ore 12. Consisteva nella celebrazione di una Santa Messa in cui erano omessi i riti di offertorio, la Preghiera Eucaristica (consacrazione delle sacre specie) e la Santa Comunione.
[2]Cfr. Giovanni Bona, Rerum liturgicarum, libr. duo, I, xv.
[3]Cfr. Karl Marx nell’opera Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, edito nel 1869. La frase completa è: «Hegel fa notare che tutti i grandi personaggi e i grandi fatti della storia tendono a ripetersi due volte. Si è solo dimenticato di precisare: la prima volta come tragedia la seconda come farsa».
[4]Cfr. Sant’Ambrogio, De dignitate Sacerdotis; Sant’Agostino, in Ps. 37; San Bernardo di Chiaravalle, Sermo ad Pastor. In Syn; San Gregorio Nazanzieno, Sermo 26 de Sanct. Petr.; San Girolamo, Sermo de Corpore Christi; San Pier Damiani, Sermo 28; S.S. Innocenzo III, Nova quaedam de Poen. Rem.; San Bernardino da Siena, om. I, Sermo 20, art. 2, c.7; San Bernardino da Siena, Tom.I, Sermo 20, art. 2, c. 7.
[5]Cfr. Joseph Ratzinger, meditazione alla IX stazione della Via Crucisdel Venerdì Santo 2005: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il Sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore».
[7]Cfr. Bernardo di Chiaravalle, Trattato buono per ogni Papa, adattato a Eugenio III, anno 1145.
[8]Cfr. Caterina Benincasa, Lettera al Sommo Pontefice Urbano VI ad Avignone (1378-1389).
[9]Cfr. Alfonso Maria de’ Liguori, Homo apostolicus, anno 1759.
[10]Cfr. Antonio Rosmini, Sulle cinque piaghe della Chiesa, trattato dedicato al clero cattolico, anno 1848.
[11]S.S. Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 2003.
[12]Cfr. Messale Romano, Sacro rito della ordinazione dei presbiteri.
[13]Cfr. S.S. Paolo VI, omelia pronunciata il 29 giugno 1972 per la festa dei Santi Pietro e Paolo.
[14]Dichiarazione Dominus Jesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000.
[15]S.S. Paolo VI, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteriPresbyterorum Ordinis, 7 dicembre 1965.
[16]S.S. Giovanni paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, 25 marzo 1992.
[17]San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 1, a. 3, ad 3.
[18]Leges Regiae, maximae poenae, in pars Supplicium more maiorum: crucifixio.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2023-04-06 15:35:222023-04-07 19:18:19Venerabili Fratelli Sacerdoti, la Chiesa sta vivendo una crisi senza precedenti e noi stiamo vivendo la più difficile delle prove: la grande prova della fede
TEMPO DI QUARESIMA E RIFLESSIONE SULLA MORTE PER APRIRCI ALLA GIOIA DELLA RISURREZIONE E DELLA VITA SENZA FINE
La Quaresima dovrebbe essere un momento di riflessione anche sulla morte. Una riflessione serena, non gravata da turbamenti o paure, peggio dal rifiuto della stessa idea di morte. Meditare sulla morte, per noi cristiani, vuol dire pensare e riflettere, con serenità e fiducia, a ciò che ci attende dopo questo passaggio: la risurrezione alla vita. Perché con Cristo Signore tutti siamo morti e con Lui tutti risorgeremo.
Le norme generaliper l’ordinamento dell’anno liturgico sanciscono e spiegano:
«Scopo del tempo di Quaresima è quello di preparare alla celebrazione della Pasqua. La liturgia quaresimale infatti prepara alla celebrazione del mistero pasquale tanto i catecumeni … quanto i fedeli, per mezzo del ricordo del battesimo che della pratica della penitenza» [cfr. n. 27].
A nessuno può sfuggire la forza di attrazione attuale della Quaresima che ogni anno si presenta immutata nella sostanza profonda, anche se notevolmente mitigata. La Quaresima rimane il periodo liturgico spiritualmente più ricco e apostolicamente più fecondo di tutto l’anno liturgico: «Ecco il momento favorevole, ecco il giorno della salvezza» [II Cor 5,2].
Nel discorso del 3 marzo 1965, Papa Paolo VI riassumeva le ragioni di interesse della Quaresima:
«È incalcolabile il progresso morale e civile a cui questo ricorrente e potente esercizio ascetico e spirituale ha dato impulso e sviluppo. Un riferimento a ciò che avviene ai nostri giorni si presenta alla mente; possiamo infatti ricordare come, proprio in questi ultimi anni, in ossequio ed in virtù della disciplina quaresimale, sono state promosse queste collette, rese possibili da qualche sacrificio penitenziale, le quali vanno ad alleviare la fame nel mondo: un’astinenza suggerita dallo spirito della quaresima, si traduce in valori economici, e questo diventa “pane per la fame nel mondo”, per una moltitudine cioè di poveri, lontani e sconosciuti, che godono così della carità sgorgante dalla osservanza quaresimale … E del senso liturgico della quaresima che cosa diremo? Essa è il grande tirocinio alla grazia del battesimo e della penitenza, è la grande pioggia fecondatrice della Parola di Dio, è la grande mediazione preparatoria alla Pasqua. In nessun altro momento dell’anno la spiritualità della Chiesa è più ricca, più commossa, più lirica, più attraente, più benefica: chi la studia la scopre stupenda; chi la sperimenta la sente umana; chi la vive, si, la gode divina».
La Quaresimaha un carattere duplice che troviamo descritto in Sacrosanctum Concilium in cui si parla dei questo tempo indicando:
«Il duplice carattere del tempo quaresimale che, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione del battesimo e mediante la penitenza, dispone i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale con l’ascolto più frequente della parola di Dio e con la dedizione alla preghiera, sia posto in maggiore evidenza tanto nella liturgia quanto nella catechesi liturgica. Perciò a) si utilizzino più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale e, se opportuno, se ne riprendano alcuni dalla tradizione precedente; b) lo stesso si dica degli elementi penitenziali. Quanto alla catechesi poi, si inculchi nell’animo dei fedeli, insieme con le conseguenze sociali del peccato, quel carattere proprio della penitenza che detesta il peccato in quanto è offesa di Dio; né si dimentichi la parte della chiesa nell’azione penitenziale e si solleciti la preghiera per i peccatori» [cfr. n. 109].
Per il battesimo,il mistero pasquale del Cristo è diventato il mistero pasquale del cristiano. Per mezzo del battesimo infatti siamo stati inseriti, innestati e incorporati vitalmente in Cristo e nella Chiesa, diventando così protagonisti responsabili della storia della salvezza che ora si compie nel mondo. Per risvegliare in noi la coscienza battesimale la Chiesa, durante la Quaresima, seguendo il Vangelo di Giovanni ci presenta il mistero pasquale attraverso la simbologia dell’acqua, della luce e della vita, quale risulta dai tre importanti episodi evangelici della Samaritana, del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro. Si tratta di temi specificatamente adatti per farci riscoprire la gradualità del movimento di adesione a Cristo. Infatti la Samaritana riconobbe il Messia appena dimentica la sete fisica e ne ammette un’altra, più vera e più profonda [cfr. Gv 4, 1-42]. Il cieco nato, dalla visione della luce naturale passa a quella soprannaturale che salva [cfr. Gv 9, 1-40]. Lazzaro è richiamato in vita dopo che Gesù ha affermato solennemente la necessità della fede: «Chi crede in me, anche se morto vivrà» [cfr. Gv 11, 1-53]. Questi tre elementi fondamentali ci aiutano a capire la storia della salvezza eminentemente legata a questi tre segni: acqua, luce e vita.
Elemento dell’Acqua.È facile cogliere una teologia dell’acqua nella Scrittura. Data la necessità di dissetarsi per un popolo nomade come Israele, l’acqua diventa il segno della provvidenza di Dio verso il suo popolo, mentre la sua privazione, un castigo. L’acqua è usata dai profeti come segno dei tempi messianici e la salvezza che da questi tempi verrà. Ma del tutto singolare è il rapporto dell’acqua con il battesimo: lo Spirito che si libra sulle acque primordiali, il diluvio [cfr. Gn 1, 1-2], il Mar Rosso [cfr. Es 14,15-15,1] sono, secondo i Padri della Chiesa, tutte prefigurazioni del Battesimo.
Elemento della Luce. In antico il Battesimo era chiamato “illuminazione” e i battezzati “illuminati”. Il rapporto luce e battesimo viene messo in evidenza, oltre che dal brano del cieco nato, anche dalla celebrazione della veglia pasquale. La simbologia del cero è fin troppo evidente: Cristo vince le tenebre. Per il battesimo siamo diventati figli della luce: dobbiamo camminare come riflettori della luce del Signore.
Elemento della Vita. È l’aspetto culminante di questa catechesi battesimale. La vita nuova è l’elemento primo nel battesimo perché lo è nella persona stessa di Cristo. Per capire ciò, occorre avere una conoscenza viva della morte spirituale, della impotenza a risorgere da soli e della necessità dell’intervento divino: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» [cfr. Gv 11, 1-57]. Finché non riusciamo a suscitare in noi il senso del bisogno di essere salvati, cioè “risuscitati”, dovremo amaramente abituarci a vivere un cristianesimo che, senza il suo fondamento battesimale, non avrà niente di pasquale. Tutta la liturgia battesimale consiste in un mistero di morte e resurrezione: l’uomo, per ritrovare il proprio autentico significato, deve necessariamente passare attraverso una lotta in cui qualcuno deve morire. La forza mortifera del peccato viene a poco a poco smorzata, vinta dalla volontaria mortificazione, che ci fa produrre il mistero della morte di Cristo in noi. Colui che così riesce a morire, attraverso la stessa morte conoscerà e avrà la vita. La Quaresima comincia appunto col presentarci Cristo in lotta con Satana [cfr. Mt 4, 1-11]; lotta che va crescendo fino a toccare la morte di croce. Ma è proprio nell’accettazione volontaria e obbediente della morte che Cristo realizza la vittoria sulla stessa morte e ci introduce alla novità di vita.
Analizziamo adesso il carattere penitenziale. In passato la disciplina penitenziale della Quaresima, con le sue pratiche severe, serviva al cristiano come momento di espiazione dei peccati. Il rito delle ceneri ne è chiara allusione. I pubblici peccatori per lunghi giorni vivevano in dura penitenza. Il rigore del digiuno toccava limiti per noi inconcepibili! Oggi, pur con la mitigazione delle pratiche esteriori, rimane sempre urgente il bisogno, il dovere della penitenza, come ci ricorda la liturgia quaresimale:
«sia parca e frugale la mensa / sia sobria la lingua e il cuore / fratelli è tempo di ascoltare / la voce dello Spirito» [Cfr. Inno delle lodi].
Il vero digiuno è rinuncia a ciò che ingombra il nostro cammino verso Dio e rende meno generoso il nostro servizio a Dio e ai fratelli. La Quaresima deve manifestare la tensione di un popolo penitente che attua in sé l’aspetto mortificante del mistero pasquale. La nostra penitenza trae motivo e significato dal battesimo che ci fa morire con Cristo prima di risorgere con lui, e ci rapporta alla confessione, dove muore la morte e risorge la vita, preparandoci all’Eucaristia. La penitenza ci aiuta a vedere la vita cristiana in una concezione più unitaria e a renderci conto che ogni atto da noi compiuto è sempre manifestazione e attuazione del mistero pasquale.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II,nel decreto sull’Apostolato dei laici, ci ricorda che con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui ci conformiamo a Cristo sofferente, possiamo raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla loro salvezza [Apostolicam actuositatem,16].
La Quaresima dovrebbe essere un momento di riflessione anche sulla morte. Una riflessione serena, non gravata da turbamenti o paure, peggio dal rifiuto della stessa idea di morte. Meditare sulla morte, per noi cristiani, vuol dire pensare e riflettere, con serenità e fiducia, a ciò che ci attende dopo questo passaggio: la risurrezione alla vita. Perché con Cristo Signore tutti siamo morti e con Lui tutti risorgeremo. Questo è il cuore del mistero pasquale incontro al quale andiamo attraverso il prezioso periodo della Quaresima.
Firenze, 18 marzo 2023
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SONO UN TEOLOGO CUSTODE DELLA TRADIZIONE IN LINEA CON IL PENSIERO DEL TEOLOGO ANDREA GRILLO, ME LO IMPONE L’ONESTÀ INTELLETTUALE
I tradizionalisti onirico-estetici sono di fondo malati patologici dinanzi ai quali si potrebbe prendere un neonato e sgozzarlo nel fonte battesimale durante il santo rito della iniziazione alla vita cristiana, però, se il Santo Battesimo è celebrato in lingua latina con l’antico rito, potete stare certi che ci passeranno sopra, o comunque troveranno in ogni caso sempre delle giustificazioni, per quanto assurde e irrazionali, sempre.
Un anno e mezzo fa ha creato malumore e sconcerto la Lettera Apostolica Traditionis custodes data in forma di motu propriodal Sommo Pontefice Francesco il 16 luglio 2021 circa l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, che di fatto crea delle comprensibili e opportune restrizioni al Motu Propriodato il 7 luglio 2007 dal Sommo Pontefice Benedetto XVI sull’uso del Messale Romano di San Pio V prima della riforma delineata dalla Sacrosanctum Conciliumil 4 dicembre 1963.
Su questo tema è intervenuto il teologo sacramentario Andrea Grillo con un suo articolo del 24 febbraio 2022 nel quale si domanda: È legittimo creare stabili riserve indiane dell’anti-concilio? Articolo che per quanto mi riguarda ho accolto e giudicato equilibrato e anche lungimirante.
il teologo sacramentario Andrea Grillo
Sui cosiddetti e impropriamente detti tradizionalistipreferirei sorvolare, è però necessario rendere l’idea del loro statuspsicologico con alcuni esempi mirati a chiarire di che cosa si parla, ma soprattutto quanto irrazionale ed emotivo sia il loro approccio con la sacra liturgia. Proviamo quindi a formulare delle precise domande: i membri dei Francescani dell’Immacolata non avevano forse generato, all’interno di quella loro giovane e confusa congregazione religiosa, delle forme di vero e proprio caos giuridico? Non sono forse risultati tutt’altro che sporadici, bensì purtroppo numerosi, i casi registrati di giovani religiosi che dai loro austeri conventi sono usciti per finire sotto cure psichiatriche, dopo essere stati non tanto mal formati, ma proprio deformati sul piano umano e spirituale? Alla prova dei fatti, non hanno forse dimostrato, con inaudita arroganza, di essere una congregazione nata ieri, riconosciuta dalla Santa Sede appena nel 1990, che pur non avendo fatto in tempo a formare nemmeno una generazione di teologi, per non dire una scuola teologica, si sono messi a promuovere convegni internazionali contro i massimi esponenti della Nouvelle Théologie, che possono essere sì criticati, ma dai Domenicani o dai Francescani, che nel corso di otto secoli hanno dato vita a importanti correnti di pensiero teologico e donato alla Chiesa scuole teologiche e diversi grandi Santi e dottori della Chiesa? Con il loro alquanto confuso Padre Serafino Lanzetta, all’epoca poco più che un ragazzino, non si misero forse a battere il chiodo del Vaticano II concilio solo pastorale, quindi di fatto un concilio non dogmatico e come tale una sorta di conciliettodi seconda classe? Con il loro arrogantissimo mariologo Padre Alessandro Apollonio, non si misero forse a dare per già dichiarato il dogma mariano di Maria corredentrice, chiamando la Beata Vergine con questo titolo e istituendone persino il culto e la devozione, ignari di quanto il concetto stesso di “corredentrice” crei da sempre problemi enormi nell’ambito della dogmatica e soprattutto della cristologia? Non hanno forse avuto, dulcis in fundo, problemi legati a gestioni finanziarie e patrimoniali? Come non detto, perché potremmo prendere a uno a uno questi dati di fatto e altri ancora a seguire, tutti provati e documentati, senza però riuscire a smuovere minimamente i tradizionalisti onirico-estetici convinti che i poveri Francescani dell’Immacolata siano stati perseguitati perché celebravano la Messa con il vetus ordoe perché muovevano critiche al teologo tedesco Karl Rahner.
I tradizionalisti onirico-esteticisono di fondo malati patologici dinanzi ai quali si potrebbe prendere un neonato e sgozzarlo nel fonte battesimale durante il santo rito della iniziazione alla vita cristiana, però, se il Santo Battesimo è celebrato in lingua latina con l’antico rito, potete stare certi che ci passeranno sopra, o comunque troveranno in ogni caso sempre delle giustificazioni, per quanto assurde e irrazionali, sempre.
Andrea Grillo appartiene a quella che taluni sono soliti definire “area progressista” o “molto progressista”. Si tratta di definizioni che non mi sono mai piaciute, perché per me esistono solo teologi che discutono e che come unica e sola “etichetta” hanno quella di cattolici. Ho conosciuto Andrea Grillo in anni passati, è un uomo di profonda cultura giuridica, teologica e sacramentaria. Alla domanda se condivido certe sue tesi e posizioni risponderei di no, ma che sia uno studioso di altissimo livello, questo è indubitabile. A questo si aggiunga che è anche amabile come persona e molto talentato come didatta, sempre disponibile e premuroso con gli studenti delle scuole di specializzazione. Se certi tradizionalisti onirico-esteticila cui arroganza è da sempre pari alla loro ignoranza, si mettessero a discutere sulla struttura teologica e pastorale del Messale di San Pio V, per non parlare della sua storia ed evoluzione attraverso i secoli, con un liturgista del genere ― di cui ripeto bisogna riconoscere anzitutto la levatura e la cultura enciclopedica ― penso che dopo tre minuti scarsi non rimarrebbe di loro neppure una piuma.
Ho cercato sempre di essere uno studioso intellettualmente onesto, pertanto non ho mai avuto alcuna difficoltà ad affermare che Hans Küng aveva doti naturali e capacità speculative di gran lunga superiori a quelle di Joseph Ratzinger, perché lo provano i fatti storici e la originalità dei suoi scritti. Diversamente, quelli di Joseph Ratzinger, sono scritti di un teologo molto colto nonché eccellente didatta in grado di esporre in modo magistrale, ma l’originalità del pensiero è però tutt’altra cosa. Il mio confratello e amico Brunero Gherardini (1925-2017), che era la quintessenza dell’ortodossia più ligia e anche rigorosa, non aveva alcuna difficoltà ad ammettere in toni di stima che Leonard Boff era uno tra i più dotati e talentati ecclesiologi degli ultimi 50 anni, o che il commento e l’esegesi più bella alla Lettera ai Romani rimane quella del protestante Karl Barth, al momento insuperabile. Ma c’è di più: forse, se noi possedessimo le opere e gli scritti ― che purtroppo non ci sono invece pervenuti ― potremmo persino scoprire che l’eresiarca Pelagio era più dotato, a livello teologico e speculativo, di quanto lo fosse Agostino vescovo d’Ippona, in seguito Santo e dottore della Chiesa. Purtroppo di Pelagio non abbiamo le opere e di lui conosciamo solo le risposte e le confutazioni di Agostino. Ma se contro Pelagio si mosse un titano come Agostino, già questo dimostra che dall’altra parte, eretico quanto vogliamo, c’era un altro titano e un osso a dir poco duro contro il quale combattere. E vogliamo parlare dell’eresiarca Ario, che con le sue teorie sulla Incarnazione del Verbo riuscì a convincere quasi tutta la cattolicità che il Cristo era una creatura divina creata da Dio? Le sue teorie, molto ben strutturate e avvincenti, costrinsero i Padri della Chiesa a radunarsi nel Concilio Ecumenico di Nicea, nell’anno 325, per definire dogmaticamente che il Cristo non era una creatura bensì «generato non creato della stessa sostanza del Padre» (γεννηθέντα οὐ ποιηθέντα ὁμοούσιον τῷ Πατρί). Lungi dall’essere debellata, l’eresia ariana proseguì a diffondersi per i secoli successivi in intere regioni dell’Europa. I popoli germanici e non solo, furono evangelizzati da vescovi e presbiteri ariani agli inizi del IV secolo. Solo nel VI secolo i popoli germanici furono ri-convertiti dai missionari, dopo due secoli di arianesimo, che seguitò a lasciare comunque il proprio segno.
Questo genere di teologia e di storia della teologia certi poveri tradizionalisti onirico-estetici rinchiusi in quattro formule rancide della neo-scolastica decadente ― che della scolastica classica non è manco lontana parente ― non sanno neppure dove abita, perché come tutti i mediocri devono inventarsi nemici, sguazzare tra millenarismi e profezie catastrofiche, imminenti trionfi magici del Cuore Immacolato di Maria, dando a credere di saperla più lunga di tutti, ma soprattutto tentando di distruggere coloro che decidono di elevare a rango di supremi nemici, perché l’immagine del nemico è un presupposto fondante del loro stesso essere ed esistere. Tipica caratteristica di queste persone è quella di non combattere le idee ma le persone nel tentativo di distruggerle in ogni modo e con qualsiasi mezzo, secondo lo stile consolidato dei peggiori integralismi di matrice pseudo-religiosa.
Sulle colonne di questa nostra rivista il Padre Ivano Liguori e io siamo stati più e più volte severi con certi preti showman, ma non solo: sempre e di prassi abbiamo richiamato alla responsabilità i loro vescovi accusandoli senza mezzi termini di scarsa vigilanza. Non possiamo però dire che la Chiesa sia stata indifferente e silente da questo punto di vista, perché contro gli abusi liturgici hanno parlato e scritto sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI, nel 2004 fu promulgata l’istruzione Redemptionis Sacramentum che è un documento molto chiaro e preciso del quale molti si sono bellamente fregati, in testa a tutti Neocatecumenali e vari gruppi Carismatici.
Ben prima di Traditionis custodesinvocai in modo provocatorio che sarebbe stato bene revocare quel motu propriodi Benedetto XVI sulla Missa vetus ordo[vedere mia video-conferenza] visti certi esiti tutt’altro che minoritari o isolati. E per anni, non per giorni o mesi, ma per anni ho ripetuto inutilmente a certi gruppi e fedeli di smetterla con le loro amenità del tipo: «Ah, questa sì che è la sola Messa, la Messa valida, la Messa di sempre, mica quella Messa protestantica di Paolo VI inventata da quel massone di Annibale Bugnini!». E quante volte gli ho ripetuto che non potevano né dovevano usare il Missale vetus ordoper attaccare un intero concilio della Chiesa, o una necessaria riforma liturgica avviata già prima del concilio dal Sommo Pontefice Pio XII e via dicendo a seguire. Altrettanto inutilmente ho ripetuto per anni che se avessero continuato a quel modo, prima o poi quel motu proprio sarebbe stato revocato. Come non detto, questa la risposta: «No, non è possibile, perché la Messa di sempre è irrevocabile, intoccabile!». E ancora, inutilmente, per anni e anni ho ripetuto loro che quel motu proprio non era una definizione dogmatica irrevocabile e che da sempre a Roma si dice che «un Papa bolla e un Papa sbolla».
Tempo perso, parole sprecate, teste ottuse che si sono sempre rifiutate di capire, andando avanti per anni, in modo ostinato e pertinace, a fare uso di un messale per creare due partiti all’interno della Chiesa, usando come elemento di divisione ciò che costituisce il cuore dell’unità: l’Eucaristia.
A mio modesto parere, con tutto il dispiacere per quelli che invece non hanno avuto questi atteggiamenti, ritengo che il Sommo Pontefice abbia fatto bene a promulgare quel motu proprio restrittivo che di fatto è Traditionis custodes, a cui riguardo possiamo dire in legittimo tono critico, ma soprattutto alla luce dei principi di prudenza, equilibrio e soprattutto aequitas, che il suo è stato un agire indubbiamente giusto, ma altrettanto indubbiamente parziale. Per quanto mi riguarda può starmi bene che si stringa la cinghia sull’uso del Messale di San Pio V, visto il modo in cui non alcuni, ma molti lo hanno usato, visti certi esiti infelici e conclamati, però, essendo intellettualmente onesto, non posso omettere di chiedermi e di chiedere: e i gruppi Neocatecumenali che hanno invaso e che hanno in mano quasi la metà delle parrocchie della Diocesi di Roma, che in modo impudente, insolente e arrogante affittano saloni negli alberghi della Capitale o nelle case religiose dell’Urbe, per fare della sacra liturgia ciò che vogliono e come vogliono direttamente sotto le finestre del Santo Padre, qualcuno gli ha forse detto qualche cosa, o intende semmai a breve dirgli qualche cosa? È stato per caso emanato un documento nel quale si proibisce di celebrare le Messe senza autorizzazione dell’Autorità Ecclesiastica fuori dagli spazi consacrati, che né a Roma né in tutto il resto dell’Italia mancano, permettendogli di seguitare a radunarsi in saloni di hotel o di compiacenti case religiose, con il prete “preso a noleggio” che esegue gli ordini dei laici genuflessi alle peggiori direttive bizzarre di Kiko Argüello? Il Sommo Pontefice, che di recente ha messo mano alla propria Diocesi con una riforma radicale, si è mai accorto che il Vicariato è da alcuni decenni in mano ai Neocatecumenali, grazie all’infausta protezione a loro accordata prima dal Cardinale Camillo Ruini e a seguire dal Cardinale Agostino Vallini? Il Sommo Pontefice, è al corrente di che cosa i Neocatecumenali hanno fatto in ostracismi e cattiverie, a quei preti da loro reputati ostili alle loro eccentricità dottrinali e liturgiche, usando il braccio armato dei loro fedeli sodali come l’inamovibile cancelliere del Vicariato di Roma Giuseppe Tonello, in grado di fare il bello e cattivo tempo, o di decidere come e in che modo tagliare le teste di certi preti ostili alla “Chiesa” del Signor Kiko Argüello? Siccome nulla di questo per adesso è stato fatto, ciò mi induce a leggere Traditionis custodescome un provvedimento reso necessario dalla situazione che si è creata, ma che al tempo stesso manifesta ancora una volta la parzialità e gli squilibri di questo Augusto Pontificato, nel quale ci si cura a giusta ragione di coloro che hanno avuto l’aperta indecenza di usare il Missale vetus ordo per attaccare un intero Concilio della Chiesa e una riforma liturgica, senza però curarsi minimamente di coloro che in modo non meno insolente e arrogante fanno della liturgia ciò che vogliono e come vogliono direttamente nella Diocesi di Roma sotto le finestre del Sommo Pontefice.
Ribadisco: le analisi del Prof. Andrea Grillo, insigne, colto e qualificato teologo sacramentario, sul piano della dottrina, della liturgia, della ecclesiologia e della pastorale non fanno assolutamente una piega. Tesi che per quanto mi riguarda approvo e condivido, mosso da quella onestà intellettuale che anima e sorregge la fede, al contrario di chi cerca di mutare la fede, vuoi col Messale di San Pio V vuoi con le stravaganze liturgiche dei Neocatecumenali e di certe frange dei Carismatici, nel mondo delle soggettive emozioni. E un Sommo Pontefice, per essere veramente giusto quando fa cose giuste, deve essere anzitutto al di sopra delle emozioni e dei partiti in lotta tra di loro. E se il caso gli impone la necessità di bastonare, in quel caso sarebbe bene bastonare in modo equo sia a destra che a sinistra.
Non credo di dovermi giustificare di alcunché, in ogni caso è bene precisare che sono un grande estimatore del Venerabile Messale di San Pio V, di cui credo di conoscere a fondo quella struttura teologica e quell’impianto pastorale del tutto sconosciuto a quegli esotici pretinitrentenni che si sono alzati una mattina e improvvisati cosiddetti “tridentini”, ignari anzitutto che un “rito tridentino” non è proprio mai esistito, è solo un modo di dire del tutto improprio. Soprattutto ignari che in quel Messale persino gesti e silenzi hanno un profondo significato mistagogico e spirituale, da loro completamente ignorato per lasciare spazio a forme di estetismi esotici quasi sempre tragicamente fini a se stessi. I tradizionalisti onirico-estetici che citano a sproposito la bolla Quo primum tempore con la quale il Santo Pontefice Pio V promulgò nel 1570 quel Messale definendolo irriformabile con tanto di anathema sit, dimostrano di non conoscere lo stile col quale erano usualmente composti certi documenti pontifici che avevano un loro preciso stile retorico, ma soprattutto ignorano che quel Messale fu revisionano e riformato per un totale di diciotto volte a partire dal 1614, quanto il Sommo Pontefice Urbano VIII ne pubblicò una prima edizione aggiornata e migliorata ad appena 44 anni dalla sua promulgazione, con sostanziali e radicali correzioni. Le ultime importanti riforme furono fatte nel Novecento dal Santo Pontefice Pio X, dal Venerabile Pontefice Pio XII e dal Santo Pontefice Giovanni XXIII nello spazio di neppure cinquant’anni. Aborro gli abusi liturgici, ma proprio per questo, in mia modesta qualità di povero teologo dogmatico e storico del dogma, sono perfettamente consapevole che con quel Venerabile Messale avvenivano abusi liturgici molto peggiori di quelli ai quali assistiamo oggi con il Messale promulgato nel 1969 ed entrato in vigore nel 1970. Sono un cultore della lingua latina e quando posso uso sempre la editio typica latina del Messale di Paolo VI, quello in lingua italiana sempre e di rigore quando celebro per le assemblee dei fedeli. Mal tollero certi ciechi e ottusi anacronismi tipici delle persone che invocano di fatto la riesumazione di un cadavere, per quanto santo, vale a dire il Messale di San Pio V, non più proponibile oggi sia a livello pastorale che a livello di evangelizzazione. Il problema di fondo di queste persone è che prendendo come oggetto di disputa e lotta un Messale tendono a sfogare i disagi di una cristianità immatura o mal vissuta, rigettando l’elemento teologico ed escatologico che la Chiesa inizia il proprio incessante cammino con i discepoli lungo la Via di Emmaus assieme al Signore [cfr. Lc 24, 13-35], mentre alcuni avrebbero voluto paralizzarla, come Pietro, in modo statico sul Monte Tabor, dinanzi alla trasfigurazione del Cristo [cfr. Mc 9, 2-10]. La Chiesa è per propria natura costitutiva Popolorum progressio, chiunque tenti di mutarla in Populorum regressio rivendica il diritto insolito, ma soprattutto inaccettabile, a tradire la missione che il Cristo le ha affidato, in un cammino incessante, sempre proteso in avanti, sino al suo ritorno alla fine dei tempi.
dall’Isola di Patmos, 27 febbraio 2023
Il problema della aequitas e l’antico gioco dei punibili e degli impunibili, dei bastonabili e degli accarezzabili …
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2023-02-27 15:31:392023-05-11 20:07:09Sono un teologo custode della tradizione in linea con il pensiero del teologo Andrea Grillo, me lo impone l’onestà intellettuale
IL NAUFRAGATO POLO MARIANO DI VERONA. È PIÙ FACILE CHE UN CAMMELLO PASSI PER LA CRUNA DI UN AGO CHE ALESSANDRO MINUTELLA DICA LA VERITÀ
Le nostre sono domande nello stretto merito, basate sui fatti e sulle somme di danaro offerte e transitate su precisi conti correnti. Attendiamo risposta da parte del Sig. Minutella, non interpretazioni o manipolazioni della realtà come in altri numerosi casi ha fatto. Sappiamo che ciò gli riesce particolarmente difficile e faticoso, ma per una volta speriamo provi a dire le cose come realmente sono andate, ossia: che per una volta provi a dire la verità.
Desideriamo ringraziarVi per la disponibilità e per lo spazio che avete accettato di riservarci nella Vostra rivista L’Isola di Patmos.
Siamo una coppia veneta che abita sulle colline veronesi, sposati da 27 anni. Abbiamo ricevuto la grande grazia della ri-conversione recandoci nel marzo 2011 in un centro europeo di spiritualità mariana. Da allora il nostro unico desiderio è stato quello di consacrare la nostra vita e il nostro matrimonio a Gesù e a Maria. Desiderio che andato sempre più rafforzandosi e consolidandosi, anche se in seguito cademmo, in totale buona fede, nelle spirali del “Piccolo Resto” del presbitero scomunicato e dimesso dallo stato clericale Alessandro Minutella.
La mattina del 23 febbraio il Sig. Minutella, nella diretta della rubrica Santi e Caffè sul canale Radio Domina Nostra, al minuto 07:10 si è lanciato in una dichiarazione menzognera, a cui riguardo vorremmo dare la nostra versione dei fatti affinché le anime che seguono questo personaggio inizino seriamente a considerare quale infausta e funesta via stanno percorrendo. Questo è quanto il Sig. Minutella ha dichiarato:
«[…] vorrei dire una cosa che non ho mai detta per una questione di pudore, chiamiamola così, di rispetto delle situazioni. Ad ogni modo, siccome mi è stato chiesto da più parti che fine ha fatto il Polo Mariano. Il Polo Mariano non è strutturalmente legato a un luogo, per cui, se si è spostato dai Colli Veronesi a Trebaseleghe (Padova) non cambia nulla. Ci sono stati dei problemi gestionali, in ragione anche della mia prolungata assenza che non mi sono piaciuti. E fino a prova contraria sono io che devo prendere le decisioni. Ci ho pregato, ci ho riflettuto e ho capito che non era più possibile proseguire da quelle parti li. Ma così, serenamente, avevo dato delle indicazioni che non sono state evidentemente rispettate, poi ognuno dica quel che vuole, abbiamo la coscienza personale e questo era quanto, l’opera prosegue altrove […]» [vedere video QUI].
Questa dichiarazione basata totalmente sulla alterazione e la manipolazione ci obbliga a porre in evidenza alcuni dati di fatto, spiegando perché abbiamo deciso di dare pubblica testimonianza, mossi da quella carità che come cardine principale ha la salvezza delle anime, ovvero di tutte quelle persone che è necessario conoscano il vero svolgersi dei fatti per trarre poi le proprie conclusioni. Scelta, questa nostra, conseguente a un periodo privato di ampio confronto con una delle persone interessate nella vicenda, secondo il dettame evangelico della correzione fraterna «Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo» (Mt 18,15).
Passiamo adesso ai fatti: la nostra conoscenza del sacerdote palermitano Alessandro Minutella risale al Giugno 2018, inizialmente tramite il social networkFacebook. Dopo tre mesi decidemmo di andarlo a conoscere di persona in Sicilia presso il Centro di spiritualità mariana “Piccola Nazaret” da lui fondato a Carini. In quell’occasione fummo invitati a cena e rimanemmo con loro per un po’ di giorni. Impossibile negare e rinnegare i sentimenti di stima e di simpatia che ci mossero nel conoscere questa realtà, infatti decidemmo sempre di più col passare del tempo di collaborare all’opera e alla “missione” di questo sacerdote. Successivamente, poiché si iniziava a cercare uno spazio disponibile per fondare un altro centro di spiritualità nel Nord Italia, precisamente nella zona di Verona, essendo noi della zona ci siamo messi a disposizione per aiutare nella ricerca di un luogo idoneo. Dopo varie ricerche proponemmo al Minutella un luogo in collina con casale di oltre 400mq e terreni adiacenti per oltre 35.000 mq, dov’era nato un nostro parente.
Di ritorno da un suo tour in Spagna, il Minutella venne a visitare il posto e ne rimase entusiasta, tanto da voler subito chiamare “Polo Mariano” e fondare quel giorno stesso un’Associazione che decise di chiamare “San Michele Arcangelo”. Fu a quel punto che noi acquistammo il posto e lo donammo all’Associazione. Il Minutella chiese a noi di divenire i Presidenti, ma noi fidandoci ciecamente facemmo un passo indietro, essendo anche incompetenti in materia. Fu così decisa un’altra persona, lì presente, come Presidente di questa neonata Associazione. Dopo alcune problematiche legate a certi ostacoli frapposti da persone terze, noi e la Presidente in questione decidemmo di continuare a portare avanti l’Associazione, sul conto bancario della quale cominciarono ad arrivare anche offerte cospicue per i lavori di realizzazione del Polo Mariano. Tutto questo con il benestare del Minutella e delle persone a lui vicine.
Verso la fine dell’anno 2021 la Presidente ci comunica l’intenzione di voler lasciare la Presidenza dell’Associazione, salvo però rimanere in carica in accordo con lo Staffdel Minutella. Si continuò così ad andare avanti, malgrado i momenti di prova, finché arrivò la comunicazione, giustificata a nostro avviso da sterili motivazioni, secondo cui le offerte dei fedeli destinate alla realizzazione del Polo Mariano non dovevano più arrivare sul conto IBAN dell’Associazione “San Michele Arcangelo”, come fino a quel momento era avvenuto, bensì sull’unico conto IBAN della “Piccola Nazaret” di Carini. A quel punto ci fu chiaro che qualche cosa non andava e ci domandammo il perché di quella decisione.
A questo e a altri interrogativi simili, incoraggiati dalle tante persone che ci invitavano a non mollare, pro bono pacis e per “non disobbedire al padre” ― classico leitmotivche purtroppo continua ancora oggi a condizionare le menti di tanti poveri fedeli ―, decidemmo di non dare risposte, ma di fidarci e di accettare questa decisione.
Questi furono gli esiti:dal 1° gennaio 2022 al 16 dicembre 2022 (giorno in cui la Presidente dette le sue dimissioni dall’Associazione “San Michele Arcangelo”), non sono più arrivate le offerte mensili dei fedeli per il Polo Mariano. I poveri fedeli offerenti che hanno creduto in quest’opera e per la quale versarono i propri contributi, iniziarono a chiedersi e informarsi su come mai il Polo non andasse avanti. Riferimmo tutto ciò al Minutella che ci rispose: «Dite per problemi tecnici oppure del Comune» (!?). Stufi di mentire iniziammo a dire alle persone di chiamare giù in Sicilia e di informarsi direttamente con le persone interessate.
Da lì in poi fu tutto un susseguirsi di registrazioni nascoste,che a quanto pare è per loro una cosa abbastanza usuale, di sospetti e umiliazioni davanti ad altre persone, senza alcuna possibilità di difendersi da accuse infondate, ma anche questo sembra essere molto usuale in quell’ambiente. Il tutto da parte dello staff del Minutella e del Minutella stesso.
Dato che è stato più volte fatto presente in privata sede senza alcun risultato, ci teniamo a sottolineare che sarebbe doveroso da parte del Presidente dell’Associazione “San Michele Arcangelo” di far sapere ai fedeli che generosamente hanno dato i propri contributi in danaro dove sono andate a finire le loro offerte, posto che furono raccolte per uno scopo preciso e dietro precisi progetti. Ci auguriamo che adesso, dopo questa testimonianza pubblica, i fedeli vengano informati su tutto ciò proprio in virtù di quella parresia evangelica, da loro tanto decantata.
Desideriamo soprattutto ringraziare Iddioper averci portati via da questa realtà settaria in cui eravamo finiti soprattutto per ignoranza e approssimazione in materia di dottrina e di fede, riaccolti oggi in seno alla Sua Santa e unica Chiesa Cattolica. Dopo esserci dissociati totalmente e definitivamente da questa pericolosa setta, desideriamo ringraziarVi per aver permesso alle nostre anime ― adesso consapevoli dell’errore commesso e di aver gravemente ferito Nostro Signore ―, di ritornare con più slancio, ardore e zelo tra le braccia di quella Madre, la Chiesa, che malgrado ferita e umiliata dai Suoi nemici, è Madre e Madre rimane, continuando ad allattare i suoi figli col puro latte spirituale dei Santi Sacramenti.
In conclusione desideriamo far giungere al Sig. Minutellaquesto messaggio da parte di un esteso gruppo di veronesi, invitandolo a rispondere “sui contenuti” e non lanciando anatemi a destra e a manca, o creando le sue solite fanta-storie e presentandosi infine come vittima contro la quale tutti si accaniscono. Queste le domande nel merito:
A Verona molte persone, dopo aver fatto scelte di vita in cui ci si è staccati dalle proprie case e in cui ci si è adoperati nel lavoro con le risorse possibili nella costruzione del Polo Mariano, si chiedono che fine abbia fatto questo progetto e il danaro offerto per la realizzazione dello stesso. Vuole fornire risposta?
A fronte delle molte offerte devolute, ritiene serio liquidare il tutto in meno di un minuto durante una diretta sul Canale Domina Nostra di YouTube?
È possibile avere chiarimenti precisi riguardo il silenzio fin qui esteso sul Polo Mariano e che solo stamani abbiamo appreso non «essere strutturalmente legato a un luogo», ma un qualcosa che si «sposta» da una parte all’altra del Veneto secondo le sue personali e indiscutibili decisioni?
Come può una persona seria e matura liquidare in 40 secondi un’opera in cui tanta gente ha investito, creduto e dato fiducia, lasciando chiaramente intendere che quando una cosa non gli va più bene o quando le sue indicazioni «non vengono più rispettate» è pronto a sostituirla senza avere nemmeno l’onestà intellettuale di dire cosa realmente è accaduto?
A Verona, a suo dire almeno fino a qualche tempo fa unico posto che “la Madonna” aveva scelto prima di cambiare idea e di volersi traferire a Padova, iniziano a sorgere dubbi molto seri a riguardo di questo progetto in generale, intende chiarire il tutto sia sul piano spirituale che su quello materiale e finanziario?
Le nostre sono domande nello stretto merito,basate sui fatti e sulle somme di danaro offerte e transitate su precisi conti correnti. Attendiamo risposta da parte del Sig. Minutella, non interpretazioni o manipolazioni della realtà come in altri numerosi casi ha fatto. Sappiamo che ciò gli riesce particolarmente difficile e faticoso, ma per una volta speriamo provi a dire le cose come realmente sono andate, ossia: che per una volta provi a dire la verità.
Grazie ancora cari Padri de L’Isola di Patmos,ci raccomandiamo alle Vostre preghiere con un augurio sincero per il Vostro apostolato.
Giannantonio e Barbara (Verona)
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I Padri dell’Isola di Patmos
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/02/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2023-02-23 22:31:072023-02-25 12:00:51Il naufragato “Polo Mariano” di Verona. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che Alessandro Minutella dica la verità
I COLORI LITURGICI NON SONO GIOCHI DI ARCOBALENI IDEOLOGICI, MA SEGNI VISIBILI DEI SACRI MISTERI CHE CELEBRIAMO
La sciatteria, come la vanità,sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.
Quando i presbiteri sono consacrati sacerdoti il Vescovo rivolge un monito che dovrebbe segnare la nostra intera esistenza: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore» [Cfr. Liturgia della sacra ordinazione dei presbiteri, n. 150].
Il sacerdozio è legato a una dimensione di eternità, perché sacerdoti lo saremo in eterno. Il carattere indelebile dell’Ordine Sacro conferisce una dignità che ci rende superiori persino agli Angeli di Dio, che dinanzi ai sacerdoti si pongono di lato. A illustrarlo in modo magistrale è il nostro confratello Marcello Stanzione, considerato uno dei massimi esperti europei di Angeli e al cui articolo vi rimando [vedere QUI].
La sacra liturgia è fatta di segni e simboli che non sono certo fini a sé stessi, perché costituiscono quegli “accidenti esterni” o “segni esteriori” attraverso i quali si concreta e prende forma la sostanza. Un esempio, anzi direi l’esempio più eclatante: la Santissima Eucaristia, mistero del Corpo e Sangue di Cristo e sua presenza reale tra di noi, si realizza attraverso la materia e il segno esterno del pane e del vino che divengono realmente e sostanzialmente Cristo vivo e vero.
Nella sacra liturgia ogni segno e gesto, persino i silenzi hanno un loro significato teologico e mistagogico. Di “silenzi liturgici” ne sono previsti tre dal rito della Santa Messa: durante l’atto penitenziale, dopo che il celebrante ha detto: «Prima di celebrare degnamente questi santi misteri riconosciamo i nostri peccati». Poi dopo la proclamazione del Santo Vangelo, se non c’è l’omelia, oppure dopo l’omelia. Infine, dopo la Santa Comunione. Momenti di silenzio che sarebbe bene rispettare e non omettere, cosa che per inciso i Vescovi farebbero bene a ricordare a quei loro preti che in 15 minuti scarsi celebrano la Santa Messa feriale, forse dimenticando di avere recitato sin dall’inizio la frase «…prima di celebrare degnamente…». Parola, quella di “dignità”, che dovrebbe avere un grande peso, specie nella celebrazione dei «sacri misteri».
Tra questi segni vi sono anche le vesti liturgiche che ― come ogni segno ― talvolta rischiano di oscurare anziché rivelare la realtà a cui sono riferite. Non possiamo infatti nascondere il rischio che nel nostro contesto culturale alcune vesti liturgiche, per la loro leziosità e ricercatezza, possano offuscare la gloria di Dio ed essere semplicemente considerate come l’esibizione di una umana vanità. Ma è deprecabile altresì quella inqualificabile sciatteria ― oggi considerata povertà e semplicità, ma che invece andrebbe chiamata col suo nome: sciatteria! ― che non solo stravolge il segno liturgico (pensiamo alle varie casule e stole arcobaleno) ma addirittura, talvolta, lo rimuove del tutto con un arbitrio che a nessun ministro di Dio è consentito.
La sciatteria, come la vanità,sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.
La veste liturgica, rispetto ad altri segni, ha un’importanza molto relativa. N’è prova che per almeno i primi quattro secoli della vita della Chiesa le fonti non riportano che i ministri ordinati indossassero vesti particolari durante le celebrazioni, convinti che era essenzialmente importante essere “rivestiti di Cristo” [cfr. Gal 3, 26]. Il Papa Celestino I, nel V secolo, si lamentava con alcuni vescovi della Gallia del Sud perché alcuni preti avevano cominciato a usare vistosi abiti per la liturgia, e così concludeva:
«Dobbiamo distinguerci dagli altri per la dottrina, non per il vestito; per la condotta, non per l’abito; per la purezza della mente, non per l’ornamento esteriore» (cfr. Celestino I, Lettera, PL 50, 431).
Meriterebbe anche spiegare come e perché, durante i primi secoli, simboli e vesti dell’antica paganitasromana confluirono nella primitiva liturgia cristiana a partire dagli inizi del IV secolo. Si tratta di segni esteriori ai quali fu data una profonda valenza cristiana. La struttura di certi riti è più antica ancora, per esempio quelli d’offertorio della Santa Messa affondano le loro radici nelle antiche liturgie offertoriali fatte dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme. Si tratta però di argomenti complessi legati alla storia della liturgia che tratteremo specificamente in altro articolo.
Pur nella consapevolezza ben espressa dall’antico detto popolare “l’abito non fa il monaco”, che la veste liturgica, come tutti i segni esteriori, abbia un’importanza secondaria nel culto cristiano, questo non può certo indurre a ignorare che essa appartiene a quel complesso di segni convenzionali di cui l’umanità fin dal principio ha fatto uso per esprimere il pensiero, lo stile di vita, le idee e il ruolo di una persona. L’abito, che lo si voglia o no, lancia sempre un messaggio ed esprime qualcosa del ruolo, dell’identità e della missione di una persona. E proprio partendo da quest’ultimo concetto possiamo individuare uno dei principali significati delle vesti liturgiche intese come segno di un mandato e di una missione non certo accaparrata, bensì ricevuta dal Signore. E se rimane profondamente vero per ogni battezzato che il Signore Gesù ci invita a un culto in spirito e verità [cfr. Gv 4, 24], lo è altrettanto il fatto che noi ― che viviamo nel regime dei segni e vediamo le realtà invisibili “come in uno specchio” [cfr. ICor 13,12] ― abbiamo bisogno di questi segni per poter esprimere un culto che non sia teorico, disincantato, ma che sappia raccogliere tutto quanto è profondamente umano per esprimere al massimo ciò che intende comunicare.
La veste liturgica, come tutte le espressioni umane non esenti da quella corruzione che affonda le sue radici nel cuore dell’uomo, dovrà sempre “fare i conti” tra il significato “alto” che vuole esprimere e quelle deviazioni rappresentate dalla sciatteria, dalla vanità e dal potere. I paramenti dei ministri ordinati, come tutti gli abiti rituali dei ministeri istituiti e dei laici (e in questo ci metterei anche alcuni abiti per i matrimoni e per le prime Comunioni) hanno il compito simbolico di esprimere una realtà interiore e un servizio ecclesiale in modo semplice e chiaro, e non per questo in contrasto con la bellezza e il decoro, perché la bellezza e la dignità difficilmente non portano anche al vero. Il tutto sempre evitando che si trasformino in elementi che ostacolano la comprensione corretta del messaggio di cui la liturgia è portatrice, o che stravolgano addirittura l’essenza stessa della sacra liturgia.
Nel complesso dei segni e dei simboli di cui la liturgia vive e si nutre, le vesti liturgiche abbiamo detto hanno un valore secondario. A maggior ragione questo discorso vale per i colori che sono entrati nell’uso liturgico sia per le vesti che per gli altri addobbi. Tuttavia essi sono presenti nella liturgia e non di rado suscitano nei fedeli delle curiosità e degli interrogativi a cui occorre dare una risposta seria e precisa, ricordando che nel culto cristiano ― in modo particolare a partire dalla riforma del Concilio Vaticano II ― niente deve risultare semplicemente decorativo o superfluo o peggio ancora relegato a pura forma esteriore, al contrario: tutto deve avere un significato teologico e mistagogico.
Tralasciando i complessi dettagli storici, perlomeno in questo nostro contesto, voglio ricordare che nella liturgia i colori, in quanto simboli, sono entrati piuttosto tardivamente. Per ben sette secoli i colori non hanno avuto una particolare importanza nel culto cristiano. Sicuramente ― e sono le fonti sia scritte che iconografiche che ce lo confermano ― vi era un uso predominante del bianco, considerato sempre nella cultura mediterranea il colore della festa e delle grandi occasioni. Parlando della veste bianca battesimale il Santo dottore della Chiesa Ambrogio da Milano ricordava ai neo battezzati:
«Hai quindi ricevuto delle bianche vesti per dimostrare che tu hai abbandonato l’involucro del peccato e ti sei rivestito dei puri abiti dell’innocenza come ha detto il profeta: purificami con issopo e sarò mondato: lavami e sarò più bianco della neve» [Sant’Ambrogio, Sui misteri, VII, 34].
Nel corso dei secolisi codifica pian piano ciò che riguarda la foggia e la preziosità delle vesti liturgiche, soprattutto nella liturgia bizantina. Ma per trovare un’accentuazione della sensibilità al linguaggio dei colori dobbiamo aspettare il Medioevo, in un contesto in cui, ciò che non viene più compreso dal popolo attraverso la lingua latina e il significato dei riti, è reso attraverso il linguaggio visivo. Non a caso, il Medioevo, ha rappresentato quel felice periodo in cui segni, simboli, gesti o silenzi parlavano in modo eloquente, ma soprattutto erano carichi del tutto di profondi significati teologici e spirituali. Con Papa Innocenzo III [†1216] si hanno ― a proposito dei colori ― le prime direttive comuni che pian piano si impongono ovunque, venendo infine codificate con il Messale di San Pio V nel 1570, dove sono stabilite le vesti bianche, verdi, rosse, viola e nere a seconda delle celebrazioni: appare anche l’uso del colore rosa nella III domenica d’Avvento e nella IV domenica di Quaresima, anche detta Dominica Laetare, quando si interrompeva il rigido digiuno.
La riforma attuata dal Concilio Vaticano IInon ha soppresso la normativa riguardo ai colori liturgici, considerandola però nel più vasto contesto di quei segni che devono essere «chiari, adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno di molte spiegazioni» [cfr. Sacrosanctum Concilium,34]. In base a questo principio è data alle varie conferenze episcopali nazionali la libertà di determinare e usare liberamente i colori liturgici secondo la cultura dei singoli popoli [cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 346].
Le norme attuali prevedono per il rito romano e la nostra area occidentale l’uso di questi colori:
– BIANCO: è il colore della luce, della purezza e della gioia. Si usa in tutte le Solennità e feste del Signore (eccetto quelle della Passione), per le feste della Vergine Maria, degli Angeli, dei Santi non martiri. È usato anche per amministrare i Sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.
– ROSSO: colore del fuoco e del sangue, simbolo dell’Amore/ Carità, del dono, del sacrificio, del martirio. È usato la Settimana Santa per la Domenica delle Palme e per il Venerdì Santo, il giorno di Pentecoste, per le feste degli Apostoli, dei Santi Martiri, per la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, così come nelle Messe votive al Preziosissimo Sangue di Gesù. Può essere usato anche per la Messa del Sacramento della Cresima.
– VERDE: nella nostra cultura è un colore riposante che esprime la normalità, cammino tenace e permanente della speranza. È usato nelle celebrazioni feriali e domenicali del Tempo Ordinario.
– VIOLA:Inizialmente usato come variante del nero, nel corso del tempo è diventato colore a sé stante. Colore solenne e grave, esprime contemporaneamente la fatica e la speranza. È usato nei tempi di Avvento e Quaresima ed esprime penitenza e preparazione alla venuta di Cristo. Viene usato anche nelle celebrazioni dei defunti al posto del colore nero, il cui uso rimane opzionale, poiché nella nostra cultura esprime meglio la speranza cristiana che pure è presente di fronte al mistero della morte.
– ROSACEO: Concepito come una variazione del viola, segna due pause che la Chiesa fa durante i tempi di penitenza. È usato due volte l’anno, la terza domenica di Avvento, detta DominicaGaudetee la quarta domenica di Quaresima detta DominicaLaetare.
Oltre a questi, nelle diverse “famiglie” liturgiche esistono e vengono usati nelle sacre celebrazioni anche altri colori:
– ORO: Simboleggiando la luce divina l’oro o il giallo possono essere utilizzati per sostituire qualsiasi colore tranne il viola.
– NERO: Generalmente considerato in rapporto alle celebrazioni dei defunti, nel Medioevo era usato per indicare i tempi penitenziali. Dal Concilio di Trento fu usato anche per il Venerdì Santo.
– AZZURRO: è associato al dogma mariano e può quindi essere usato solo durante le celebrazioni legate alla Beata Vergine Maria, come l’Assunzione o l’Immacolata Concezione. Unico colore che rappresenta un vero privilegio liturgico, il suo uso fu autorizzato dal Concilio di Trento solo in Portogallo, in Spagna, negli ex territori di questi due Paesi, nell’ex regno di Baviera, in certe chiese di Napoli e infine nell’Ordine Francescano considerato storicamente e teologicamente meritevole di avere difeso il dogma mariano. Questo privilegio vale ancora oggi.
I colori liturgici, al di là del loro uso e significato, servono a comunicare il messaggio che, secondo le diverse celebrazioni, può essere di festa, di speranza, di conversione, di solidarietà nel dolore… Tutto questo certamente non è sufficiente come elemento fine a sé stesso, se non è accompagnato dallo scopo fondamentale di ogni cristiano ― specialmente se ministro ordinato ― e di ogni comunità di discepoli del Signore, ovvero: vivere il Vangelo!
Per non rendere paramenti, colori o altri simboli e segni liturgici niente più che espressioni di folclore, stranezza o semplice vanità, occorre che essi diventino “epifania” del mistero di salvezza che trova la sua radice unica e profonda nell’incontro vitale e vivificante con Gesù, Verbo incarnato, Eterno Sacerdote della Nuova Alleanza. Perché tutto, nella sacra liturgia, manifesta ed esprime il mistero del Verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo. Per questo l’assemblea liturgica acclama sul vivo corpo e sangue di Cristo: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». Questo è il cuore della sacra liturgia.
Firenze, 26 gennaio 2023
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