«NON VENGO AL CONCERTO, NON SONO UN PRINCIPE RINASCIMENTALE» DISSE IL SANTO PADRE, CIÒ NON VUOL DIRE PERÒ SDOGANARE IL PEGGIO DELLA SCIATTERIA
I nostri saggi maestri ci hanno messi in guardia sin da giovani su diversi insidiosi pericoli, facendoci presente che esiste l’anticonformismo dei conformisti, che è il conformismo peggiore; lo sprezzo del clericalismo da parte dei clericali, che si traduce poi nel clericalismo peggiore; il fascismo degli antifascisti, che finisce col manifestarsi come una forma violenta di neofascismo persino peggiore di quello del Ventennio Fascista.
Da allora sono passati ormai undici anni, era il giugno del 2013 quando il Santo Padre Francesco lasciò vuota la poltrona al centro dell’aula Paolo VI, mentre invitati e autorità ascoltavano un po’ interdetti il «Grande concerto di musica classica per l’Anno della Fede», il tutto all’assenza, anziché alla presenza, del Papa. Pochi giorni prima, parlando ai nunzi di tutto il mondo, il Santo Padre aveva denunciato la «mondanità spirituale» che è la «lebbra» della Chiesa, il «cedere allo spirito del mondo» che «espone noi pastori al ridicolo», quella «sorta di borghesia dello spirito e della vita che spinge ad adagiarsi, a ricercare una vita comoda e tranquilla». Fatto sta che a nessuno era mai capitato di annunciare ciò che è toccato all’Arcivescovo Rino Fisichella quando tutti, alle 17,30, si attendevano l’ingresso in sala del pontefice: «Il Santo Padre non potrà essere presente per un’incombenza urgente e improrogabile» (cfr. Gian Guido Vecchi, Corriere della Sera, QUI).
Cercherò di essere breve, ma non perché mancano argomenti, tutt’altro: di argomenti ce ne sarebbero fin troppi e, se in alcuni casi proprio non si può tacere, è bene essere molto misurati.
Chi di noi ha avuto la grazia di avere degli autentici maestri ― e ciascuno di noi Padri de L’Isola di Patmos, per divina grazia, li ha avuti ― ha potuto imparare ciò che forse qualcuno non ha avuto modo di imparare a Buenos Aires prima come religioso, poi come presbitero gesuita, infine come vescovo. Giunto infine al sacro soglio a 77 anni, non è facile cambiare visuale e prospettiva da anziani, affinché ciò avvenga sarebbe necessario che lo Spirito Santo si posasse sul capo del prescelto non come una colomba ma come un condor delle Ande.
I nostri saggi maestri ci hanno messi in guardia sin da giovani su diversi insidiosi pericoli, facendoci presente che esiste l’anticonformismo dei conformisti, che è il conformismo peggiore; lo sprezzo del clericalismo da parte dei clericali, che si traduce poi nel clericalismo peggiore; il fascismo degli antifascisti, che finisce col manifestarsi come una forma violenta di neofascismo persino peggiore di quello del Ventennio Fascista.
Qualcuno pensa che a esporre «noi pastori al ridicolo» siano soltanto le parate di quei personaggi, cosiddetti pizzi & merletti, che estetizzano la sacra liturgia in modo esasperato e talvolta esasperante? Nessuno nega la sussistenza dell’elemento del ridicolo in questi soggetti, se vogliamo pure del grottesco, ma il ridicolo ha però tante facce, quindi non dovrebbe essere considerato meno ridicolo che il Cardinale Sebastian Francis, Vescovo della Diocesi Penang in Malesia celebri la Santa Messa seduto a un tavolo con altri concelebranti e che elevi il Corpo di Cristo a capo coperto dallo zucchetto rosso; il tutto quando persino noi, all’epoca che facevamo i chierichetti, sapevamo che dinanzi al Santissimo Sacramento esposto il vescovo sta a capo scoperto e che durante le liturgie, finché l’Eucaristia non è stata riposta dentro il tabernacolo, non torna a coprirsi il capo (cfr. Cerimoniale dei Vescovi, nn. 153-166). E qui, sia chiaro, non si tratta di essere iper-critici, perché le foto che documentano il tutto sono veramente inquietanti.
Il Cardinale Sebastian Francis, che sarà sicuramente un sant’uomo, ha 72 anni. Se il Pontefice felicemente regnante non giungerà centenario, entrerà in conclave come elettore, dove si ritroverà di fronte a fratelli cardinali di precise tendenze, ma soprattutto di paesi ricchi in grado di sostenere intere Chiese locali dei paesi poveri, che con un dito gli indicheranno la sacca di soldi, con un altro dito gli indicheranno il candidato da scrivere sulla scheda.
Questo accade quando si cade nell’anticonformismo dei conformisti, nello sprezzo del clericalismo dei clericali, nel fascismo degli antifascisti. Ma il bello, se bello lo vogliamo chiamare, è ancora tutto da venire. E che Dio ci assista!
Firenze, 1° settembre 2024
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I Padri dell’Isola di Patmos
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«FATTI PIÙ IN LÀ, COSÌ VICINO MI FAI TURBAR …» SE UN PRETE TOGLIE IL CROCIFISSO DAL CENTRO DELL’ALTARE AFFINCHÈ NON COPRA LA “CENTRALITÀ” DEL CELEBRANTE-PROTAGONISTA, VUOL DIRE CHE SIAMO GIUNTI AL CAPOLINEA
Che dire se circolano video nei quali si vedono sacerdoti e perfino vescovi salire all’altare e rimuovere il crocifisso da sopra lo stesso perché evidentemente toglie visibilità, occupa lo spazio che poco dopo si prenderà il celebrante, brandendo talvolta mostruosi microfoni che, quelli si, possono benissimo rimanere dove sono?
Ciò che è strano e bizzarro di solito fa breccia sui social, perché aumenta a dismisura le visualizzazioni e attira i commenti della gente. Nessun ambito umano può ritenersi alieno da quest’ansia di ricerca del particolare, dal ridicolo fino al mostruoso, perfino quello religioso.
Alcuni eventi davvero strani avvenuti nelle chiese hanno trovato fortuna sulle diverse più famose e usate piattaforme. Dal prete che canta dall’altare una canzone in voga o ne fa lo sfondo per piccoli risibili video, agli abiti sconvolgenti di alcuni sposi, a certe eccessive benedizioni con l’acqua santa. Qualcuno usa i socialanche per stigmatizzare questi comportamenti che accadono nelle chiese o quei gesti che rasentano l’abuso sia del luogo, perché non consoni, che della liturgia usata a piacimento. Il mondo è diventato un gran palcoscenico e purtroppo anche i religiosi pensano che vi si possa salire sfruttando lo spazio dell’aula di una chiesa o di un presbiterio. È di pochi giorni fa la notizia di una stilista che ha disegnato un più che trasparente abito da sposa per un matrimonio in chiesa e non è mancato chi ha potuto commentare: «Una chiesa è solo un edificio, può indossare quello che vuole»(QUI).
Che dire però se circolano video nei quali si vedono sacerdoti e perfino vescovi salire all’altare e rimuovere il crocifisso da sopra lo stesso perché evidentemente toglie visibilità, occupa lo spazio che poco dopo si prenderà il celebrante, brandendo talvolta mostruosi microfoni che, quelli si, possono benissimo rimanere dove sono?
Il Vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro
Un presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno
Le bizzarrie del nostro tempo che intersecano anche il mondo religioso e come si vive e celebra la liturgia ci da il «La» per ricordare che i presbiteri non sono i padroni indiscussi delle celebrazioni e che in verità stanno agendo per un servizio che veicola un mistero più grande e profondo. A tal proposito mi vorrei soffermare proprio sull’altare perché alcune bizzarrie e storture sono avvenute lì, per mano di qualche celebrante o solerte “operatore pastorale”, per non parlare dei cosiddetti “animatori liturgici” che pensano di poter agire a loro piacimento o più probabilmente dimenticano che l’altare non è un arredo qualsiasi, un posto dove poggiare cose alla rinfusa.
Tanto per mettere subito le cose in chiaro, nel rito di dedicazione dell’altare si dice che:
«con l’unzione del Crisma [esso] diventa simbolo di Cristo, che fu detto Unto più degnamente di tutti; il Padre infatti lo unse con lo Spirito Santo e lo costituì Sommo Sacerdote, che offrisse il sacrificio della vita per la salvezza di tutti sull’altare del proprio corpo» (Ordo dedicationis Ecclesiae et Altaris, IV/22).
L’altare dunque è simbolo di Cristo e questa dottrina è tradizionale. Sant’Ambrogio l’ha ricordata più volte:
«Cos’è l’altare, se non il segno del corpo di Cristo?» (Quid est enim altare, nisi forma corporis Christi?), (Comm. in Cant. I,6: PL 15,1855; De sacram., V, 2, 7; cfr IV, 2, 7: PL 16, 447. 437).
Le vicende storiche che riguardano la presenza degli altari nelle chiese sono antiche e complesse e naturalmente esulano da questo modesto contributo. Si potrebbe cominciare dall’altare fisso che inizia a comparire nelle basiliche del IV secolo, fino all’adozione dell’altare lapideo per il quale non fu estraneo il simbolo biblico di Cristo «pietra angolare dell’edificio spirituale» (cfr. Sal 118, 22; Mt 21, 42; At 4, 11; 1Cor 10, 4; 1Pt 2, 4-8). Si potrebbe citare l’uso antico di celebrare l’Eucaristia sulle tombe dei martiri che trovò concreta traduzione nella costruzione di altari sopra i sepolcri degli stessi, come pure della traslazione delle loro reliquie sotto gli altari delle nuove basiliche. Al riguardo sempre sant’Ambrogio scrive: «Nel luogo in cui Cristo è vittima, vi siano anche le vittime trionfali. Sopra l’altare lui, che è morto per tutti; questi, redenti dalla sua passione, sotto l’altare» (Epistula22, 13: pl 16, 1023).
Tra tutti i luoghi che sono presenti in una chiesa solo l’altare conosce un rito di dedicazione, a sottolinearne l’eccellenza:
«L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la Santa Messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Institutio generalis Missalis Romani, 296).
Anche il Sommo Pontefice lo ha ricordato: «Verso l’altare si orienta lo sguardo degli oranti, sacerdote e fedeli, convocati per la santa assemblea intorno ad esso» (Discorso del 24 agosto 2017).
L’importanza dell’altare è ricordata naturalmente anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
«L’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore, e tanto più in quanto l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente sia come vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi» (n. 1383).
Per tali motivi la riforma liturgica risalendo la tradizione cristiana antica ha voluto che nelle chiese si costruisse un solo altare, staccato dalla parete per potervi girare attorno e celebrare verso il popolo, collocato in modo da attirare l’attenzione. Che fosse normalmente fisso e dedicato, con la mensa di pietra, ma non è esclusa altra materia degna, solida e ben lavorata. E sotto l’altare si possono porre reliquie di santi; che fosse coperto da una tovaglia e sopra o accanto a esso vi siano una croce e i candelieri (Institutio generalis Missalis Romani, 298-308).
La venerazione per l’altare ― che infatti si bacia, si incensa e davanti a esso ci si inchina ― è motivata dal suo legame col sacrificio di Cristo, al quale, nel Sacramento, si associa il sacrificio della Chiesa orante. Su di esso viene deposta l’offerta spirituale dei fedeli, significata nel pane e nel vino, perché lo Spirito Santo, per il ministero del sacerdote, li renda sacramento del Corpo e Sangue di Cristo, così che quanti se ne nutrono diventino un solo corpo in Cristo, a lode di Dio Padre. Lo esprime bene la preghiera del prefazio nella messa di dedicazione: «Intorno a quest’altare ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio per formare la tua Chiesa una e santa».
Ed è proprio l’unicità del sacrificio redentore, sul Calvario e nell’Eucaristia, da parte di Cristo sacerdote e vittima, che ha portato la riforma liturgica conciliare a stabilire che in una stessa chiesa non si celebrino contemporaneamente più Messe e che nelle nuove chiese l’altare fisso sia uno solo. È chiara l’intenzione di educare il popolo cristiano con questa prassi e con questo segno, l’altare, il quale «rappresenta (significat) in modo evidente e permanente Cristo Gesù, Pietra viva, e rappresenta in mezzo all’assemblea dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa» (Institutio generalis Missalis Romani, nn. 298, 303).
Il Concilio Vaticano II si chiuse nel 1965, eppure su questo aspetto, come su altri del resto, la sensibilità di quei Padri che celebrarono l’importante assise e quella dei molti documenti che ne seguirono non sembra purtroppo acquisita o recuperata da tutti. Nel 2002, per fare un esempio, la Santa Sede, ovvero la Congregazione per il Culto Divino, è dovuta intervenire per dichiarare «illecito» celebrare la Messa di Prima Comunione su un altare provvisorio in mezzo alla chiesa con l’ingenua intenzione di «evocare l’Ultima Cena», poiché inutile doppione del «segno già presente»; gesto atto a confondere il popolo distraendolo dall’essenziale. Ma anche ai nostri giorni in alcune Parrocchie, talvolta davanti l’altare, qualcuno pone un tavolo con sopra i simboli della Pasqua ebraica, ingenerando così una totale confusione liturgica e teologica, anche se l’intento sarebbe invece il contrario. Non è inconsueto che l’altare diventi un supporto per cartelloni esplicativi, per esempio di un particolare tempo liturgico e al di sotto vi si ponga di tutto, dal Presepe in tempo di Natale alle varie offerte, talvolta curiose, in alcune celebrazioni. Una volta ho visto un povero agnellino costretto a stare tutto il tempo dentro una cesta sotto l’altare mentre probabilmente avrebbe preferito brucare in un prato. Ad un certo punto si mise a belare, creando ilarità nei presenti all’Eucarestia. E sopra vi si pone di tutto un po’ e forse proprio per questo, come sopra ricordato, qualche celebrante non trova niente di meglio che levare la Croce, ritenendola probabilmente una ridondante suppellettile, mentre invece è prevista e lì collocata per ricordarci verso chi dobbiamo volgere lo sguardo.
Come rimediare a tutto ciò? Sicuramente attraverso la formazione continua di tutti. Dei presbiteri per primi che devono curare le celebrazioni e quindi essere esperti conoscitori della materia. In questo caso della peculiarità e della centralità del segno dell’altare che rimanda a quella di Cristo. Dovrebbero ricordare, per esempio, che anche al di fuori dell’azione liturgica, l’altare è invocazione e attesa della presenza di Colui, Cristo, che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5).
Per questo, attraverso le catechesi e i momenti educativi, devono aiutare i fedeli a formarsi spiritualmente e divenire consci che una liturgia ben celebrata con i suoi segni propri, trasparenti e più importanti, com’è appunto l’altare, è e deve essere per se stessa la prima scuola: «Lex orandi, lex credendi».
Abbiamo iniziato ricordando gli orrori che i social sono pronti a riverberare finché non ne salta fuori uno nuovo ed eclatante. Fra questi alcuni hanno a che fare con quanto avviene in chiesa e nelle liturgie. Così è nato questo contributo che non ha lo scopo di far ridere o moltiplicare i commenti negativi, come avviene sul web. Ma è solo un invito a cogliere, da questa circostanza, l’importanza e la bellezza dei contenuti della fede e come essi si esprimano nella liturgia. Se in questo ambito errori sono stati fatti e se ne faranno, vale sempre il principio: «Error corrigitur ubi deprehenditur»; che potremmo tradurre: gli errori si correggano appena ci si accorge di averli commessi.
In conclusione non possiamo omettere di ricordare a tutti quei cattolici ingenui, così preoccupati di scandalizzarsi e di gridare allo scandalo, non però altrettanto preoccupati di verificare con cura notizie e immagini, che molti video da loro postati sui socialnon hanno niente a che fare con la Chiesa Cattolica e il nostro clero. In giro per il mondo esistono infatti pseudo chiese che nell’apparato esterno liturgico si ispirano alla Chiesa Cattolica. A tal proposito basterebbe ricordare che dopo il Concilio Vaticano I (aperto nel 1869, terminato nel 1870, ma formalmente chiuso solo nel 1960) vi fu uno scisma che dette vita alla cosiddetta “chiesa” vetero-cattolica. Solo da questa aggregazione sono nate e a seguire si sono moltiplicate decine di sedicenti “chiese” gestite da personaggi alquanto esotici. Visto e considerato che nel nostro clero cattolico di abusi liturgici ne avvengono a sufficienza; visto e considerato che a volte si ha quasi l’impressione che certi nostri preti gareggino tra di loro a chi compie la stravaganza più eccentrica, che perlomeno non ci vengano attribuite le sceneggiate altrui, perché le nostre ci bastano e avanzano, oltre a imbarazzare a sufficienza quanti di noi seguitano a essere cattolici.
Firenze, 20 luglio 2024
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GIOVEDÌ SANTO 2024. UNA OMELIA DI SALUTO DEL CARDINALE GIUSEPPE BETORI
Affermare che oggi, dalle aquile e dai falchi che furono stiamo passando ai polli o, bene che vada, ai tacchini, non è una affermazione ingenerosa e irriverente ma un dato di fatto: negli ultimi anni abbiamo assistito a nomine episcopali di soggetti imbarazzanti, ma quel che è peggio tutti uguali, o come suol dirsi fatti a stampo, clonati per emulazione. Il tutto alla faccia della pluralità delle voci all’interno della Chiesa!
A ispirarmi questo articolo ― che tale non è, perché si tratta di riportare il testo di una omelia pronunciata dal Cardinale Giuseppe Betori Arcivescovo Metropolita di Firenze ― è stato il Padre Ariel, che poche settimane fa ha dedicato su queste nostre colonne un omaggio al suo Vescovo, S.E. Mons. Andrea Turazzi; omaggio fatto con un tocco di classe riassunto in questa frase:
«Un buon prete è tale se per lodare il proprio Vescovo attende la fine del suo mandato […] Solamente adesso che non ha più potere di governo pastorale sulla Diocesi e su di me, posso dire pubblicamente quanto abbia venerato, apprezzato e amato il mio Vescovo».
L’Arcivescovo di Firenze, pur avendo presentato al Sommo Pontefice la propria rinuncia al governo pastorale della nostra Diocesi non è ancora emerito, né è stato ancora ufficializzato il suo successore designato. La sua missione tra di noi, di fatto, è da considerarsi però terminata. Per quanto riguarda il suo successore, è pressoché certo che sia stato già scelto e nominato, dobbiamo solo attendere l’annuncio ufficiale.
Con il Cardinale Giuseppe Betori — e ormai pochissimi altri divenuti vescovi cinquantenni sotto il pontificato del Santo Pontefice Giovanni Paolo II — si chiude definitivamente una stagione ecclesiale ed ecclesiastica che ebbe anch’essa le sue non poche problematicità, ma comunque popolata anche di personalità di alto livello pastorale e spessore culturale. Affermare che oggi, dalle aquile e dai falchi che furono stiamo passando ai polli o, bene che vada, ai tacchini, non è una affermazione ingenerosa e irriverente ma un dato di fatto: negli ultimi anni abbiamo assistito a nomine episcopali di soggetti imbarazzanti, ma quel che è peggio tutti uguali, o come suol dirsi fatti a stampo, clonati per emulazione. Il tutto alla faccia della pluralità delle voci all’interno della Chiesa!
Facendo mie le parole rivolte da un confratello al proprio Vescovo oggi posso dire anch’io:
«Un buon prete è tale se per lodare il proprio Vescovo attende la fine del suo mandato […] Solamente adesso che non ha più potere di governo pastorale sulla Diocesi e su di me, posso dire pubblicamente quanto abbia venerato, apprezzato e amato il mio Vescovo».
Il Cardinale Giuseppe Betori si è rivelato una perla ormai incastonata nel diadema della genealogia degli ultimi Vescovi donati a questa nostra Chiesa fiorentina dalla Roma che ormai fu, come dimostra l’omelia che segue …
Firenze, 28 marzo 2024
Il Cardinale Giuseppe Betori Arcivescovo Metropolita di Firenze, Santa Messa del Crisma dell’anno 2024
La Messa crismale, che il Vescovo concelebra con i presbiteri delle diverse zone della diocesi e durante la quale benedice il santo crisma e gli altri oli, è considerata una delle principali manifestazioni della pienezza del sacerdozio del vescovo e un segno della stretta unione dei presbiteri con lui». Sono queste le parole del Pontificale Romano nelle Premesse al rito della Benedizione degli Oli. Con queste parole quindici anni fa mi rivolsi a voi nella mia prima presidenza della celebrazione della Messa Crismale nella Chiesa fiorentina. Ad esse faccio riferimento anche oggi, in questa celebrazione che si può presumere sia l’ultima mia presidenza della Messa Crismale in questa cattedrale, per rivolgermi in particolar modo a voi preti fiorentini, con cui ho condiviso il governo pastorale del popolo di Dio che mi è stato affidato in questi anni.
Le mie vogliono essere parole di ringraziamento, di riflessione, di consegna per il futuro. Vorrei però evitare di scivolare sul piano dei sentimenti, pur importanti e non assenti nel mio cuore in questo momento, per ricondurre tutto alla luce della parola di Dio. Gratitudine, consapevolezza, fiduciosa speranza vanno infatti misurate sulla fedeltà con cui siamo stati capaci di corrispondere al dono che Cristo ci ha fatto, di come ci sentiamo in dovere di approfondirne le forme in modo adeguato ai tempi, di come ci consegniamo ad esso nella certezza che la presenza del Signore e del suo Spirito tra noi, pur nelle incertezze del presente, non verrà mai meno.
In questo orizzonte accogliamo la rivelazione che oggi ci viene fatta dalla parola di Dio circa la missione di Cristo, delle dignità e responsabilità che sono consegnate ai suoi discepoli, del servizio della parola e della grazia che è affidato a noi suoi ministri a vantaggio di tutti. L’immagine che riassume questo mistero è quella dell’unzione, con cui il profeta esprime la consacrazione del Messia inviato a portare il lieto annunzio della salvezza, a porsi al servizio dei poveri e degli oppressi, a diffondere la consolazione della misericordia. Questa stessa unzione abbiamo udito Gesù proclamare come segno della missione per cui lo Spirito lo invia come liberatore dell’umanità da ogni sua fragilità per entrare nel tempo della grazia del Signore. Infine, questa unzione, ora definita regale e sacerdotale, è il segno di un popolo redento che vive per la gloria del Padre.
Annuncio, sacerdozio e regalità dalla persona di Cristo passano a quella dei credenti in lui e al servizio di questo passaggio è posto il nostro ministero di preti. Grazie dunque per il vostro ministero a servizio della Parola; viva sempre in voi il desiderio di conoscerla sempre più profondamente e di saperla ridire con parole che siano in grado di incrociare le domande espresse e inespresse dell’umanità contemporanea, guardiamo con fiducia al futuro, certi che nella inesauribile ricchezza della parola di Dio c’è un sicuro orientamento per le nuove sfide che incombono sull’umanità nei giorni a venire. Grazie per il vostro ministero di pontefici tra l’umanità e il suo Creatore, di generosi trasmettitori della grazia che viene dall’alto e di voce dell’umanità e delle sue attese verso il Padre di tutti; in un mondo che si edifica seguendo il mito dell’autosufficienza, sentite come particolare vostro impegno quello di risvegliare nella vostra gente il bisogno dell’invocazione e l’umiltà dell’accoglienza del dono di vita nuova opera dei sacramenti; alimentate sempre in voi la speranza, perché nessun ostacolo vi getti nello sconforto o anche solo nell’inerzia, perché tanto nulla cambia, avendo in noi la certezza che il Risorto ha il potere di fare nuove tutte le cose. Grazie per come nel vostro ministero animate le vostre comunità, vi consacrate ad esse, vi fate carico dei problemi in particolare dei più poveri; Siamo sì ministri della Chiesa, ma il nostro servizio è sempre per la venuta del Regno di Dio tra noi, nei segni di bene che aiutiamo a far sbocciare e nel contributo che come comunità cristiane siamo in grado di offrire per l’affermarsi della giustizia, della pace, del rispetto della dignità di ogni uomo, del bene comune; è in rapido mutamento il posto della Chiesa nella società e di conseguenza quello del prete, per cui siamo sollecitati a lasciare ogni nostalgia di centralità ma anche a ribadire che nessuno e nessun mondo può restare estraneo al dono di noi stessi nel Signore.
Nell’omelia di quindici anni fa vi richiamavo a una comunione che non fosse una massificante uniformità, ma un intrecciarsi di relazioni nella diversità delle esperienze e nella modulazione dell’unica verità. Vi chiedevo di rifuggire dallo stanco ripetersi di una melodia monocorde per cercare un’armonia polifonica in cui ciascuna voce cerca la sintonia con le altre, per una comunicazione che esprima intelligenza della realtà e bellezza dell’esperienza. Non so quanto siamo riusciti a vivere così in questi anni e sto qui anche a chiedervi perdono per quanto non ho fatto o per quanto posso aver fatto in senso contrario.
L’altro richiamo di quindici anni fa era alla radice sacramentale del nostro ministero, per non lasciarci ridurre ad agenti sociali, pur apprezzati e benvoluti, e neppure a funzionari di un sacro a cui ricorrere come rifugio delle angosce umane. Sacramentalità significa che ciò che è decisivo in noi è il dono della grazia, di cui siamo stati e siamo destinatari e di cui abbiamo la responsabilità di essere trasmettitori. Vi ricordavo e vi ripeto perciò che servire la dimensione sacramentale della Chiesa significa anzitutto impegno a mostrare come nel regime sacramentale possiamo cogliere il primato di Dio nella storia e come esso si manifesti a noi ed entri in contatto con la nostra vita grazie alla mediazione di Cristo, che dei sacramenti è il fondamento e il fondatore.
E questo richiamo a Cristo mi fa ripetere anche oggi che la misura del nostro essere prete è strettamente dipendente dal nostro legame a lui. Solo restando uniti a lui sia la nostra identità che il nostro servizio nella Chiesa e nel mondo potranno trovare verità ed efficacia. Non manchi mai nella nostra vita quotidiana questo guardare a Cristo, dialogare con lui, lasciarci da lui guidare e sostenere.
Abbiamo camminato insieme in questi anni. È stato un grande dono per me essere il vostro vescovo e poter contare sul vostro sostegno. Non sappiamo quando, ma in futuro sarà un altro vescovo a guidarvi, a cui vi consegnerò ma a cui chiedo anche a voi di consegnarvi con fiducia. I vescovi passano, il Signore resta ed è lui l’unico vero nostro Pastore, di cui noi siamo solo segni, consapevoli, per quanto mi riguarda di debolezza e insufficienza. Al Signore chiedo misericordia e a voi umana comprensione. Con affetto.
Firenze, 28 marzo 2024
Cattedrale Metropolitana di Santa Maria del Fiore
Santa Messa del Crisma
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GESTIS VERBISQUE, CIRCA LA LITURGIA. SPEZZIAMO UNA LANCIA A FAVORE DI “BESAME TUCHO”, ANCHE SE PARE AVERE DIMENTICATO LA REDEMPTIONIS SACRAMENTUM
Tanti, per usare un eufemismo, hanno storto il naso quando il Pontefice ha scelto l’attuale Prefetto. Le critiche non sono mancate. Rispondendo con rispetto e per alleggerire con una battuta tutto il discorso fatto fin qui si potrebbe ricordare il detto che recita: «Anche un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora giusta»
Per una curiosa legge del contrappasso molti che avevano gioito alla pubblicazione della Fiducia supplicans, confusa e ambigua dichiarazione del dicastero per la Dottrina della Fede pubblicata il 18 dicembre dell’anno scorso, dinanzi alla quale sono insorti interi episcopati, si sono sentiti di polemizzare con la più recente Nota del medesimo Dicastero sulla validità dei Sacramenti del 2 febbraio di questo anno e intitolata: Gestis verbisque.
La domanda sorge spontanea: nel 2004 fu pubblicata l’Istruzione Redemptionis Sacramentum che è un capolavoro di teologia sacramentaria, di disciplina dei Sacramenti e di pastorale liturgica. Istruzione che, stando a ciò che è seguitato ad accadere nelle nostre chiese, è stata bellamente disattesa da eserciti di preti creativi e da movimenti laicali che hanno seguitato imperterriti a crearsi le proprie liturgie personalizzate, Neocatecumenali in testa, il tutto nella totale incuranza e mancata vigilanza da parte dei vescovi, sebbene il documento parli molto chiaro nella sua conclusione finale:
«Questa Istruzione, redatta, per disposizione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti d’intesa con la Congregazione per la Dottrina della Fede, è stata approvata dallo stesso Pontefice il 19 marzo 2004, nella solennità di San Giuseppe, il quale ne ha disposto la pubblicazione e l’immediata osservanza da parte di tutti coloro a cui spetta».
Perché non richiamare all’osservanza di questa istruzione, così ben fatta e dettagliata, semmai stabilendo delle precise sanzioni per chi avesse disatteso le disposizioni date? Perché questo è il problema di fondo che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni di vita di una Chiesa che chiede, esorta, istruisce e raccomanda, ma che si guarda però bene, in questi documenti, di fissare precise sanzioni per i trasgressori. Non solo: nelle 64 note di richiamo della Gestis verbisque la Redemptionis Sacramentum non è mai stata richiamata e citata una sola volta, cosa oggettivamente grave.
Come ormai sanno anche i sassi la prima succitata Dichiarazione, nell’ambito più ampio del senso da dare alle benedizioni nella Chiesa, apriva alla possibilità di benedire spontaneamente anche coppie in situazioni irregolari e dello stesso sesso. Cosa che per molti vescovi e preti delle varie regioni del Nord dell’Europa non era necessaria, lo fanno arbitrariamente da anni. Questo controversa Dichiarazione prevede Benedizioni da impartire in luoghi e con modalità che non dovranno essere in alcun modo simili a quelle date alle coppie regolari, ma: «In altri contesti, quali la visita a un santuario, l’incontro con un sacerdote, la preghiera recitata in un gruppo o durante un pellegrinaggio. Infatti, attraverso queste benedizioni che vengono impartite non attraverso le forme rituali proprie della liturgia, bensì come espressione del cuore materno della Chiesa, analoghe a quelle che promanano in fondo dalle viscere della pietà popolare, non si intende legittimare nulla ma soltanto aprire la propria vita a Dio, chiedere il suo aiuto per vivere meglio, ed anche invocare lo Spirito Santo perché i valori del Vangelo possano essere vissuti con maggiore fedeltà» (nr 40).
Fin qui tutti contenti, almeno i fautori di questa apertura, come se noi avessimo negato in precedenza benedizioni a singole persone, soprattutto a quelle che vivevano in condizioni di irregolarità, o che si erano macchiate dei peccati e dei delitti più gravi.
Per ironia della sorte, proprio coloro che avevano esultato dinanzi alla Fiducia Supplicans, poco dopo si sono lanciati in dure critiche riguardo la Nota del 2 febbraio, Gestis Verbisque, perché utilizza un linguaggio tradizionale nel definire ciò che occorre affinché un Sacramento sia valido, oltre che lecito. La critica, in particolare, si appunta sull’uso insistito dei termini «forma» e «materia» utilizzati dalla Nota in quanto componenti insostituibili di ogni celebrazione dei Sacramenti, insieme all’intenzione del celebrante. Critica che riguarda lo scollegamento di questi tre elementi costitutivi dall’insieme della celebrazione del Sacramento, dai soggetti che vi partecipano e dai vari segni che vi intervengono, i quali dovrebbero essere, per loro stessa costituzionalità, significativi e, come si dice, parlanti. Gli appunti mossi, dunque, fanno riferimento al modo con cui la Nota non prende in esame l’interezza del Sacramento celebrato e, come onda di ritorno, si riversano anche sulla Fiducia supplicans, in quanto lì: «…Un benedire senza forma (senza spazio, tempo, parole, tutto) è un non senso» (cfr. Vedere QUI).
Non sta a me prendere le difese di un Dicastero strategico come quello per la Dottrina della fede. Però, a leggere e rileggere quella Nota mi viene in mente il «Rasoio di Occam» il quale si potrebbe sintetizzare più o meno così: «A parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire»; o anche «Non considerare la pluralità se non è necessario».
Questa Nota, sia nella lettera di accompagnamento del Prefetto, che nel suo corpo stesso, ricorda che da parte di Cardinali e Vescovi sono stati rilevate, e quindi richiesti chiarimenti, sulle gravi modifiche apportate alla materia e alla forma dei Sacramenti, rendendoli di fatto nulli. Basterebbe leggere i pochi indizi ed esempi, a volte strampalati e curiosi, a cui fa riferimento il Prefetto per capire lo scopo semplice della Nota stessa: richiamare tutti ad una celebrazione dei Sacramenti corretta, fedele, ecclesiale. Che se sono concessi, dove permessi dalle Conferenze episcopali, spazi di creatività, questi non divengano invece una inventiva che di fatto manipola arbitrariamente il Sacramento celebrato.
È a partire da questo sfondo e cioè dalla preoccupazione dei Pastori delle Chiese, che la Nota va letta. La quale poi sintetizza ciò che occorre perché un Sacramento sia valido, richiamando la dottrina tradizionale, che è vero, nei suoi tratti salienti risale al Concilio di Trento che il Vaticano II ha ripreso e rielaborato in sintonia con tutto quello che nel frattempo la Chiesa, in quell’assise, riscopriva su sé stessa e su come intendeva proporsi al mondo di oggi.
Non a caso la Nota prende spunto proprio dalla Costituzione Sacrosantum Concilium per ricordare che il Concilio: «Riferisce analogicamente la nozione di Sacramento all’intera Chiesa». E dalla Lumen Gentium che afferma circa la Chiesa che quest’ultima è: «In Cristo come Sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». E ciò si realizza precipuamente per mezzo dei Sacramenti, in ciascuno dei quali si attua a suo modo la natura sacramentale della Chiesa, Corpo di Cristo… Cosciente di ciò la Chiesa, fin dalle sue origini, ha avuto particolare cura delle fonti dalle quali attinge la linfa vitale per la sua esistenza e la sua testimonianza: la Parola di Dio, attestata dalle sacre Scritture e dalla Tradizione, e i Sacramenti, celebrati nella liturgia, mediante i quali è continuamente ricondotta al mistero della Pasqua di Cristo» (cfr. nr. 6, 7 e 10).
Per la grandezza di tutto questo la Chiesa, si dice, riceve i Sacramenti, li amministra, ma non ne è padrona. Cosa che invece sembra sia accaduta con le varianti creative di diversi ministri e di vari movimenti laicali. È solo a questo punto che la Nota ricorda brevemente ― non è del resto un trattato di liturgia ― quelli che sono elementi essenziali. Innanzitutto la «forma» del Sacramento che corrisponde alle parole che si accompagnano alla materia, la trascende, veicolando il senso cristiano, salvifico ed ecclesiale di ciò che si sta compiendo nella celebrazione. Quindi la «materia» del Sacramento che consiste invece nell’azione umana, attraverso la quale agisce Cristo. In essa a volte è presente un elemento materiale (acqua, pane, vino, olio), altre volte un gesto particolarmente eloquente (segno della croce, imposizione delle mani, immersione, infusione, consenso, unzione). Tale corporeità appare indispensabile perché radica il Sacramento non solo nella storia umana, ma anche, più fondamentalmente, nell’ordine simbolico della Creazione e lo riconduce al mistero dell’incarnazione del Verbo e della Redenzione da Lui operata (cfr. nr 13).
Infine l’«intenzione» di chi celebra, che nulla ha a che vedere con la sua moralità e la fede, piuttosto con il convincimento di compiere: «Almeno ciò che fa la Chiesa» (Concilio di Trento). Questa disposizione sottrae il celebrante dall’automatismo e dalla possibile arbitrarietà del singolo, poiché questo atto squisitamente umano è anche ecclesiale. Atto interiore e soggettivo si, che però, manifestandosi nel Sacramento, diviene di tutta la comunità ecclesiale e: «Poiché ciò che fa la Chiesa non è altro che ciò che Cristo ha istituito, anche l’intenzione, insieme alla materia e alla forma, contribuisce a rendere l’azione sacramentale il prolungamento dell’opera salvifica del Signore» (cfr. nr 18).
A tal proposito la Chiesa ha approntato i libri liturgici che non vanno alterati o usati a piacimento, piuttosto osservati fedelmente nelle parole e persino nella gestualità che in essi è indicata. Gli stessi prevedono spazi di creatività e le stesse Conferenze episcopali dei diversi paesi hanno predisposto possibili adattamenti e varianti che corrispondono alla sensibilità e alla situazione dei partecipanti. Si pensi alle celebrazioni coi fanciulli, per esempio, ai diversi canoni eucaristici predisposti per loro ed approvati dalla CEI.
La Nota ricorda anche, e questo sembra rispondere agli appunti critici, che: «Materia, forma e intenzione sono sempre inseriti nel contesto della celebrazione liturgica, che non costituisce un ornatuscerimoniale dei Sacramenti e nemmeno una didascalica introduzione alla realtà che si compie, ma è nel suo complesso l’avvenimento in cui continua a realizzarsi l’incontro personale e comunitario tra Dio e noi, in Cristo e nello Spirito Santo, incontro nel quale, attraverso la mediazione di segni sensibili, «viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati». La necessaria sollecitudine per gli elementi essenziali dei Sacramenti, dai quali dipende la loro validità, deve pertanto accordarsi con la cura e il rispetto dell’intera celebrazione, in cui il significato e gli effetti dei Sacramenti sono resi pienamente intelligibili da una molteplicità di gesti e parole, favorendo in tal modo l’actuosa participatio dei fedeli (cfr. nr 20).
In questo contesto si inserisce tutta l’importanza della presidenza liturgica e l’arte di celebrare. Queste richiedono la conoscenza dei motivi teologici che le espirano, come quelli di agire, quando si celebra, In persona Christie Nomine ecclesiae. Come pure la conoscenza dei libri liturgici e dei loro Praenotandache spesso si saltano a piè pari perché noiosi. Ma se volessimo fare un paragone, che spero non appaia fuori luogo, fra il celebrare e il gesto sportivo, si vede come quest’ultimo risulti efficace se ha dietro una buona conoscenza e messa in atto dei cosiddetti fondamentali. Un campione, soprattutto di quelle discipline che richiedono gesti ripetuti uguali e precisi, passa molto tempo, anni addirittura, a studiare, ad allenarsi e a esprimersi poi con una disinvoltura che stupisce. Un gesto atletico molto difficile che vediamo eseguire, durante una olimpiade per esempio, ha richiesto una preparazione non indifferente, eppure ci sembra semplice e naturale.
Per concludere, so che tanti, per usare un eufemismo, hanno storto il naso quando il Pontefice ha scelto l’attuale Prefetto. Le critiche non sono mancate. Rispondendo con rispetto e per alleggerire con una battuta tutto il discorso fatto fin qui si potrebbe ricordare il detto che recita: «Anche un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora giusta». Però, onestamente, questa Nota stavolta suona bene. Non ha nulla di criticabile, se l’intenzione è proprio quella di invitare a custodire e a presentare in modo degno ed ecclesiale un bene tanto prezioso. Infatti così termina:
«Noi […] abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4, 7). L’antitesi utilizzata dall’Apostolo per sottolineare come la sublimità della potenza di Dio si riveli attraverso la debolezza del suo ministero di annunciatore ben descrive anche quanto accade nei Sacramenti. La Chiesa tutta è chiamata a custodire la ricchezza in essi contenuta, perché mai venga offuscato il primato dell’agire salvifico di Dio nella storia, pur nella fragile mediazione di segni e di gesti propri della umana natura» (nr 28).
Firenze, 21 febbraio 2024
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IL YELLOW SUBMARINE E LA TRAGEDIA. FINO A CHE PUNTO SI È TENUTI A SALVARE LA VITA UMANA IN TUTTI I MODI?
Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti.
L’uomo la vita la riceve in comodato d’uso,non ne è arbitrario padrone e non può disporne come reputa opportuno, né togliendo la vita, come nel caso dell’aborto, né togliendosi la vita, come nel caso dell’eutanasia, anche se oggi è difficile parlare del valore salvifico della sofferenza umana, tema al quale il Santo Pontefice Giovanni Paolo II dedicò una propria enciclica: Salvifici Doloris. La vita umana valica la stessa realtà soggettiva dell’uomo che non si dona la vita da sé stesso, ma che come dono la riceve. Quindi non può essere lui a decidere di auto-sopprimersi. È vero che la vita è nelle mani dell’uomo, ma al tempo stesso rimane un dono che va ben oltre le sue mani. Per questo, quello della vita, è un dono sacro di cui si può disporre fino a un certo punto ed entro certi limiti.
Ecco un esempio accademicoestremo e terribile che può rendere l’idea: un nutrito gruppo di S.S. sta per attraversare un ponte, valicato il quale farà una strage di civili in quel paese, proprio come avvenne a Sant’Anna di Stazzema. Sospettano infatti che in quel paese siano nascosti dei partigiani, di cui ignorano generalità e identità, per questo hanno deciso di risolvere il problema alla radice uccidendo tutti gli abitanti, senza risparmiare anziani, donne e bambini. L’unica via di accesso a quel paese è un viadotto alto decine di metri costruito tra la parete di un monte e quella dell’altro monte. I membri della resistenza lo hanno minato, pronti a farlo saltare in caso di necessità. Mentre i soldati delle S.S. lo stanno per oltrepassare una madre ignara del tutto lo sta attraversando con il suo bambino per mano. Domanda: il ponte va fatto saltare oppure no?
Dire che le vite degli innocentinon possono essere sacrificate mai e in nessun caso, è una affermazione categorica basata su emotività illogiche e surreali, soprattutto quando il “no a tutti i costi al sacrificio degli esseri umani” viene scandito in nazioni nelle quali ogni giorno sono abortiti bambini, dopo avere deciso che in quel caso non si tratta però di vittime innocenti, perché l’aborto è un vero e proprio diritto, anzi di più: «Una grande conquista sociale».
Una trentina d’anni faaccadde nelle zone della mia Toscana che un giovane eccentrico con l’hobbydi conservare nella propria casa dei serpenti molto velenosi, pulendo una delle loro gabbie fu morso. In Italia, dove gli unici serpenti velenosi presenti sul nostro territorio sono le vipere, nessun centro farmaceutico disponeva di un antidoto, che poteva essere reperito solo in Svizzera presso una azienda farmaceutica specializzata a conservare farmaci molto rari. In ospedale riuscirono solo a rallentare l’effetto del veleno entrato in circolo. Nel mentre fu fatto partire dal centro dell’aeronautica Militare di Grosseto un aereo F104 che in una mezz’ora giunse in Svizzera dove un addetto dell’azienda consegnò al pilota l’antidoto senza che questi scendesse neppure dal potente velivolo, quindi tornando alla base, il tutto in poco più di un’ora. A questo caso seguì una polemica quando si seppe quanto costava mettere in moto un F104 e soprattutto che all’epoca, il costo di quell’antidoto, fu pari a 15 milioni delle vecchie Lire, pagati ovviamente dallo Stato, equivalenti a quello che oggi potrebbero essere in valore monetario attuale circa 25.000/30.000 Euro.
Alcuni cinici posero la domanda se era il caso di spendere tutti i soldi che furono spesi per salvare un soggetto che in violazione alle leggi che già all’epoca proibivano di acquistare, conservare e allevare certi rettili, si era andato a cercare un guaio del genere. Ma si trattava appunto di cinici, con l’aggravante della disumanità, perché la vita va salvata sempre e a tutti i costi, per esempio non facendo saltare un ponte a metà del quale si trova una madre con un bambino. Poi, le centinaia di persone che poco dopo saranno trucidate dalle S.S. appena passato quel valico, moriranno in ogni caso felici assieme ai loro bambini, per avere salvato due vite umane.
Da alcuni giornile televisioni e la stampa internazionale parlano di un gruppo di tre multimilionari, più un quarto che è il figlio di uno di loro, che si sono voluti togliere lo sfizio di scendere alla profondità di 3.800 metri per raggiungere il piroscafo Titanic affondato a largo di Terranova nel 1912 dopo avere colpito un icebergdi ghiaccio. Tragedia nella quale morirono 1.527 persone sui 2.232 passeggeri, solo 705 dei quali sopravvissero.
Si tratta dei capricci di ricconi?No, i veri ricchi, quelli che sono tali da generazioni, quelli che conoscono la delicatezza e la volatilità del danaro e quanto sia difficile conservarlo e incrementarlo; i veri ricchi che devono la loro ricchezza al proprio particolare genio imprenditoriale o finanziario, queste cose da spacconi non le fanno, sono gesta tipiche degli arricchiti. Perché solo degli arricchiti capricciosi, certi di potersi permettere qualsiasi cosa, potevano pagare ciascuno 250.000 U.S. $ per scendere alla profondità di quasi 4 chilometri dove si trova il relitto del Titanic, che è un sacrario, un cimitero, che come tale andrebbe rispettato. Quei fondali non possono essere meta di bravate spinte all’estremo a bordo di un mini-sottomarino simile a una supposta subacquea nella quale gli avventori non potevano stare neppure in piedi, neppure inginocchiati, quindi senza potersi muovere, ma solo seduti nello spazio di 5 metri di lunghezza per 1.60 di altezza [cfr. QUI]. Una morte terribile nelle più buie profondità marine, avvenuta per soffocamento all’interno di uno spazio angusto dove è bene non pensare neppure cosa possa essere accaduto nei momenti di panico che si sono manifestati all’interno di uno spazio claustrofobico mentre l’ossigeno mancava e i quattro multimilionari, con il pilota del mezzo, morivano per soffocamento. Lo dettaglia a La Stampa Paolo Narcisi, specialista in rianimazione, non mancando di aggiungere:
«Questa tragedia, pur nel rispetto delle persone coinvolte, ha costretto una mobilitazione nei soccorsi che non c’è stata neppure per i 600 naufraghi di qualche giorno fa».
Come per il Tizio morso dal serpente domestico,anche in questo caso sono stati impiegati mezzi aerei e marittimi, strumenti tecnologici sofisticati, personale, specialisti e via dicendo. Giusto, per salvare la vita umana si deve tentare di tutto. Senza dimenticare però che i quattro, prima di imbarcarsi, dopo avere versato 250.000 $ a testa hanno firmato un contratto con una precisa liberatoria per la società che ha organizzatola loro eccentrica bravata, nella quale è specificato che l’impresa avrebbe potuto comportare anche la possibilità di morire, il tutto specificato per ben tre volte nel testo sottoscritto e firmato dai quattro ricconi.
Dire che sono andati a cercarsela, non è né mancanza di pietà né di rispetto nei confronti di questi morti in modo peraltro molto tragico. Si tratta di una realtà, non di mancanza di pietà: sono stati loro stessi a sottoscrivere e dichiarare di essere consapevoli che sarebbero potuti anche andare incontro alla morte, che equivale a dire, nero su bianco, che se ciò fosse accaduto, era perché loro stessi se l’erano andata a cercare, dopo essere stati avvisati in tal senso e dopo averlo sottoscritto anche in un contratto.
Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti.
Firenze, 22 giugno 2023
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GRANDIOSA OMELIA DELL’ARCIVESCOVO METROPOLITA DI MILANO: «CHI ERA SILVIO BERLUSCONI? UN UOMO»
«Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».
Noi pastori in cura d’anime abituati a salire sui pulpiti e a predicare, sappiamo che ci sono momenti e situazioni particolari nelle quali non è facile pronunciare un’omelia che sia opportuna, come nel caso dei funerali di Silvio Berlusconi celebrati oggi nella Cattedrale di Milano. Qualcuno potrebbe pensare che la delicatezza possa essere data dalla complessa personalità del defunto, un uomo che per alcuni decenni ha cavalcato la scena politica nazionale e internazionale. Per seguire con la presenza delle massime autorità dello Stato, dal Presidente della Repubblica al Primo Ministro. Situazioni nelle quali non è ammessa, non dico una parola, ma neppure un sospiro sbagliato. La difficoltà non è però questa, anche se in circostanze più o meno simili diversi vescovi e preti hanno ovviato il problema dicendo più o meno tutto senza dire niente, evitando a questo modo qualsiasi eventuale problema.
https://www.youtube.com/watch?v=P4JqPHsQ26U&t=2s
L’Arcivescovo Metropolita di Milano, S.E. Mons. Mario Delpini, ha saputo fare invece un’omelia davvero grandiosa che ha riportato tutti con i piedi per terra in quest’aria di beatificazione del defunto Cavaliere, la cui figura è parte della storia d’Italia e per questo sarà oggetto di studi approfonditi da parte degli storici e degli esperti di geopolitica per decenni e decenni. L’Arcivescovo ambrosiano ha puntato su altro: sull’uomo Silvio Berlusconi che è stato indubbiamente un imprenditore di successo, un politico che ha presieduto per quattro mandati la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, un personaggio istrionico dotato di un senso raro e straordinario dell’auto-ironia, tanto che più volte dichiarò: «Molti si affaticano a prendermi in giro, dimenticando che mi prendo in giro da solo e che nessuno può riuscirci bene come me».
Dinanzi a questa figura complessa e anche controversa, l’Arcivescovo ambrosiano non si è nascosto dietro il “non dire niente”, ma ha detto tutto costruendo il proprio intero discorso su questa domanda retorica: «Cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi?». Dando subito la risposta: «È stato un uomo». E dell’uomo l’Arcivescovo ambrosiano ha parlato con una poetica cristiana che può essere applicata sia a una celebrità come Silvio Berlusconi, sia all’ultimo degli anziani morto dimenticato in un reparto di geriatria: un uomo.
Testo integrale dell’omelia dell’Arcivescovo Metropolita di Milano
Vivere
Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
Amare ed essere amato
Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande. Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.
Essere contento
Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. Godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento
Cerco l’uomo
Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari. Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta. Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio.
Cattedrale Metropolitana di Milano, 14 giugno 2023
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IL CORPUS DOMINI. UNA FESTA DA RISCOPRIRE IN UN TEMPO IN CUI IL CULTO EUCARISTICO SEMBRA “PASSATO DI MODA” NELLE STRADE DISERTATE DAI PASTORI E OCCUPATE DALLE “SACRE PROCESSIONI” DEL “POLITICAMENTE CORRETTO”
Dispiace constatare – come attestano numerosi messaggi di sacerdoti arrivati alla nostra Isola di Patmos nei giorni passati – che in molte delle nostre città ormai la processione del Corpus Domini è diventata un ricordo. Perfino la Diocesi di Roma quest’anno non ha avuto la sua processione: in compenso la vigilia del Corpus Domini è stata però impiegata per lo svolgimento del meeting mondiale sulla Fraternità umana dal titolo Not Alone, che prevedeva anche la presenza del Santo Padre, non concretizzatasi a causa dell’ultimo intervento chirurgico.
In questi ultimi tempi abbiamo visto veramente più o meno di tutto. Sante Messe celebrate su materassini gonfiabili [cfr. QUI, QUI, QUI], su motociclette o quant’altro utilizzati per altari; con ministri sacri in costume da bagno o con vesti che giudicare inopportune per il Santo Sacrificio Eucaristico sarebbe un mero eufemismo. Altari della reposizione del Giovedì Santo che, da luoghi che dovrebbero esprimere amore e preghiera verso il tesoro più prezioso lasciatoci da Nostro Signore Gesù Cristo, che si sono trasformati in luogo di sfogo delle più stravaganti paturnie presbiterali [cfr. QUI].
Corpus Domini giugno 2020, benedizione eucaristica dal sagrato della cattedrale impartita dal Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo Metropolita di Firenze
Giunge allora come rugiada sul vello nel deserto la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente detta Corpus Domini, che la Chiesa celebra il primo giovedì dopo la festa della Santissima Trinità, o la domenica successiva. È stato scritto:
«Come la Santissima Eucaristia rappresenta il centro e il culmine di tutta la nostra vita religiosa, nonché il fulcro della Liturgia, il momento più alto della vita cristiana e il più santo dei Sacramenti, così la festività del Corpus Domini, a parte la Pasqua e il Natale, è la più radiosa dell’anno liturgico, perché segna il trionfo del Re eucaristico, e la sua istituzione è la più eloquente espressione della vita religiosa ed ecclesiale del Medioevo» (Bernhard Ridder, Manuale di storia ecclesiastica, Paoline, p. 368).
L’origine di questa festa la si fa risalire storicamente nell’anno 1247 nella diocesi di Liegi, dove il vescovo introdusse questa celebrazione in reazione alle tesi di Berengario di Tours (998-1088), secondo il quale la presenza di Cristo nell’Eucaristia non era reale ma solo simbolica. Il Vescovo fu ispirato dalla Santa mistica Giuliana di Cornillon (1192-1258), monaca agostiniana del convento di Mount Cornillon, che da giovane ebbe la visione della Chiesa, apparsale sotto le sembianze di una luna piena, solcata da una macchia scura, ad indicare la mancanza di una festività. In seguito ebbe la visione di Cristo stesso che le affidò il compito di adoperarsi affinché fosse istituita la festa del Santissimo Sacramento, per ravvivare la fede dei cristiani nella presenza reale nell’Eucaristia e per espiare i peccati commessi contro il Sacramento Eucaristico. Divenuta nel 1222 priora del suo convento chiese consiglio ai maggiori teologi del suo tempo (tra cui Jaques Pantaléon, futuro Papa Urbano IV) per chiedere l’istituzione della festa. Questo portò il vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte (+1246) ad indire nel 1246 un sinodo locale ― perché all’epoca i sinodi si occupavano di cose serie … ― il quale stabilì che dall’anno successivo venisse celebrata la festa del Corpus Domininella Diocesi di Liegi. Per inciso: all’epoca i vescovi avevano la facoltà di istituire feste liturgiche all’interno della propria diocesi.
Nel 1264 il Papa Urbano IV che già aveva contribuito e appoggiato la festa del Corpus Dominia Liegi, in seguito anche al riconoscimento del Miracolo Eucaristico di Orvieto-Bolsena del 1263, con la Bolla Transiturus de hoc mundo, istituì la solennità del Corpus Dominiper tutta la Chiesa universale, elevandola a festa di precetto e fissandone la celebrazione per il giovedì dopo l’Ottava di Pentecoste. Sul miracolo eucaristico di Bolsena-Orvieto lasciamo però la parola al nostro confratello orvietano Marco Nunzi, che ne è esperto conoscitore [cfr. QUI]. A me interessa sottolineare alcune particolarità liturgiche di questa festa:
Liturgia eucaristica.I testi delle letture delle tre Messe corrispondenti ai cicli liturgici festivi A, B e C, presentano anzitutto le figure simboliche dell’Antico Testamento riguardanti l’Eucaristia come la mannadata in cibo ad Israele nel deserto, gli olocausti e i sacrifici di comunione per il Signore, il sangue dell’alleanza, il pane e il vino offerti da Melchisedech ad Abramo. Nella seconda lettura delle stesse tre Messe, l’Apostolo Paolo afferma che la comunione con il Corpo di Cristo è un segno eloquente di unità, di intima amicizia e di “incorporazione” in Cristo, oltre che di fede e di completa donazione a lui. Il testo della Lettera agli Ebrei (B) presenta Gesù che offre s e stesso per purificare la nostra coscienza dalle opere di morte al fine di servire il Dio vivente. Nei brani evangelici viene parte del Discorso del Pane di vita tenuto da Gesù a Cafarnao (cfr. Gv 6), l’ultima cena di Gesù e l’istituzione dell’Eucaristia (cfr. Mc 14, 12-6. 22-26) e la moltiplicazione dei pani (cfr. Lc 9, 11-17). In particolare poi va sottolineata la stupenda sequenza Lauda Sion che canta il Cristo vero Pane di Vita che “ci nutre, ci difende e ci porta ai beni eterni nella terra dei viventi”.
Liturgia delle ore.Oltre gli inni del Pange lingua, del Sacris sollemniis e del Verbum supernum prodiens, insuperabili per contenuto e melodia musicale, i salmi dell’Ufficio delle Letture, delle Lodi e dei Vespri riassumono tutti i sentimenti che un’anima credente e amante può esprimere al Signore, che nell’Eucaristia ci dà il segno eloquente del suo amore infinito per noi. Le due letture presentano l’Eucaristia come centro di tutta la storia della salvezza, che ha la sua preparazione nell’Antico Testamento e la sua piena attuazione nel Nuovo Testamento. San Tommaso d’Aquino, nella seconda lettura, non esita a dire
«l’Unigenito Figlio di Dio, volendo farci partecipi della sua divinità […] si fece uomo per elevarci alle altezze di Dio […] offrì infatti a Dio Padre il suo corpo come vittima sull’altare della croce per la nostra riconciliazione. Sparse il suo sangue facendolo valere come prezzo e come lavacro perché, redenti dalla umiliante schiavitù, fossimo purificati da tutti i peccati. Perché, infine, rimanesse in noi un costante ricordo di così grande beneficio, lasciò ai suoi fedeli il suo Corpo in cibo e il suo Sangue come bevanda, sotto le specie del pane e del vino. Oh, meraviglioso convito! Che cosa vi può essere di più prezioso? Nessun sacramento è più salutare di questo. L’Eucaristia è il memoriale della passione di Cristo, è la più grande di tutte le meraviglie da lui operate, è il mirabile documento del suo immenso amore per gli uomini» (Opusc. 57, nella festa del Corpo del Signore, lect. 1-4).
Processione eucaristica.Come abbiamo già detto, Al fine di favorire la devozione al Santissimo Sacramento, il Papa Urbano IV estese la festa del Corpus Domini a tutta la Chiesa. Pur non facendo alcuna menzione nella Bolla ad una processione eucaristica, si prese subito l’abitudine di mostrare ai fedeli le Specie Eucaristiche nel corso di una solenne processione con il Santissimo Sacramento, che evidentemente si è sempre distinta per speciale importanza e per significato nella vita pastorale delle comunità cristiane. Conviene pertanto che, là dove le circostanze attuali lo permettono e la processione può essere davvero un segno di fede e di adorazione, essa venga conservata. In tal caso è bene che la processione con il Santissimo Sacramento si faccia immediatamente dopo la Messa, nella quale viene consacrata l’Ostia da portarsi poi in processione. I canti e le preghiere che si fanno lungo il tragitto, portino tutti a manifestare la loro fede in Cristo, unicamente intenti alla luce del Signore (cfr. Rito della Comunione fuori della Messa e Culto Eucaristico, nn. 102 – 104).
Dispiace constatare – come attestano numerosi messaggi di sacerdoti arrivati alla nostra Isola di Patmos nei giorni passati – che in molte delle nostre città ormai la processione del Corpus Domini è diventata un ricordo. Perfino la Diocesi di Roma quest’anno non ha avuto la sua processione: in compenso la vigilia del Corpus Dominiè stata però impiegata per lo svolgimento del meetingmondiale sulla Fraternità umana dal titolo Not Alone, che prevedeva anche la presenza del Santo Padre, non concretizzatasi a causa dell’ultimo intervento chirurgico.
Quello di Roma è solo un esempio di eleganti “scuse” episcopali― con tanto di spallucce a chi invece fa notare l’importanza di un tale gesto ― per lasciare ad altri e ad altro le nostre vie e le nostre piazze, trasformate il più delle volte in grandi trattorie a cielo aperto, basterebbe fare in tal senso un giro in piazza del Duomo a Firenze per rendersene conto …
Forse su questa moda di buttare alle ortiche tutte le nostre tradizioniper essere “politicamente corretti” converrebbe fare una serena ma urgente riflessione, anche se il disagio e la sofferenza che in forma sempre maggiore stanno vivendo i preti e di riflesso i fedeli, sembrerebbe interessare poco o niente.
Firenze, 11 giugno 2023
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CI FOSSE STATO UN SOLO POLITICO ITALIANO CACCIATORE PROFESSIONISTA DI PULCI CHE HA FATTO UN SOSPIRO SUL MODO IN CUI VOLODYMYR ZELENSKYJ HA VIOLATO IL PROTOCOLLO
Non stiamo a parlare di formalità o di formalismi, ma di protocollo istituzionale, che non si regge su futili forme esteriori, ma si basa proprio sul rispetto dovuto a chi ti accoglie: sia il Paese, sia il suo Capo di Stato, sia il suo Primo Ministro.
— Notizie in breve —
Autore Redazione de L’Isola di Patmos
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L’Autocrate dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyj — perché tale è al pari del suo omologo russo Vladimir Putin: un autocrate — si è presentato in visita ufficiale di Stato in Italia con un abbigliamento non semplicemente indecoroso, ma proprio irrispettoso.
Non stiamo a parlare di formalità o di formalismi, ma di protocollo istituzionale, che non si regge su futili forme esteriori, ma si basa proprio sul rispetto dovuto a chi ti accoglie: sia il Paese, sia il suo Capo di Stato, sia il suo Primo Ministro. Pertanto, uno che si comporta a questo modo denota due cose:
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1) io posso permettermi tutto;
2) io sono io e voi non siete un … come diceva il mitico Marchese del Grillo in un celebre film di Alberto Sordi entrato ormai nella storia.
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In omaggio per questo abbigliamento caccia&pesca potevano anche regalargli una canna … da pesca. Ce ne fosse stato uno solo, tra quei nostri numerosi politici cacciatori professionisti di pulci, che avesse fatto un sospiro, uno solo.
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Bisogna riconoscere che Vladimir Putin, quando manca di rispetto a persone e istituzioni lo fa perlomeno in modo più subdolo ed “elegante”, ad esempio presentandosi per due diverse volte in visita ufficiale dal Sommo Pontefice in ritardo: nel 2013 con 50 minuti e poi a seguire nel 2015 con un’ora e 10 minuti di ritardo. Della serie: “Io sono lo zar della Grande Russia, posso permettermi questo e altro, ma volendo altro ancora”.
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dall’Isola di Patmos 14 maggio 2023
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2023-05-14 18:43:532023-05-14 19:02:44Ci fosse stato un solo politico italiano cacciatore professionista di pulci che ha fatto un sospiro sul modo in cui Volodymyr Zelenskyj ha violato il protocollo
«DEI DELITTI E DELLE PENE». LE IMMANCABILI STRAVAGANZE DI CERTI PRETI ALLA LUCE DEL MISTERO PASQUALE
Nella Istruzione Redemptionis Sacramentum, è forse scritto che per certi abusi liturgici, alcuni dei quali sono veri e propri “delitti”, è prevista la pena, per esempio della sospensione a divinis del sacerdote per un congruo periodo di tempo? Si prevede forse, per quelli più gravi, la rimozione dall’ufficio di parroco? No, perché forse questo modo di fare non sarebbe caritatevole e misericordioso, quindi il nostro legislatore esorta, istruisce e nei propri documenti si lamenta con cuore franto, mentre chi abusa seguita a farlo in totale mancanza di precise pene.
C’è una celebre opera di Cesare Beccaria scritta nel 1764 che s’intitola Dei delitti e delle pene, dove si parla soprattutto della prontezza e della certezza della pena. Quante volte, nel nostro Paese, specie di fronte a situazioni di criminalità più o meno diffusa, abbiamo udito la frase e il lamento «manca la certezza della pena»? A dire il vero ciò che manca è l’applicazione della pena, perché in quanto a esistere, le pene ci sono e sono scritte e ben dettagliate. Invece noi, su questo problema Dei delitti e delle pene, non ci interroghiamo nemmeno, perché nei vari documenti e atti del Magistero della Chiesa degli ultimi decenni la parola “sanzione” o “pena” non esiste proprio, due sono infatti le cose essenziali che di prassi vengono fatte: si lamenta con cuore franto certe situazioni che proprio non vanno, poi si esorta con documenti che spesso si chiamano proprio per questo “esortazioni” o “istruzioni”, come per esempio la Istruzione Redemptionis Sacramentum, nella quale si istruisce con cuore trepidante e afflitto a non fare certe cose.
Sono andato a sfogliare il Codice di Diritto Penale e i testi di varie leggi prese a caso, ed ho scoperto, con mio grande stupore, che per ogni figura di reato è prevista una pena, che può essere una pena a un certo numero di anni di carcere, oppure una sanzione amministrativa per i reati meno gravi, attraverso l’obbligo al pagamento di una somma di danaro stabilita. Abituato come sono allo stile dei documenti nostri, mi sono chiesto perché, il legislatore, non si sia a limitato esortare e istruire che certi reati non si commettono, manifestando tutto il proprio “impotente” dolore per quelli che invece vengono commessi.
Nella Istruzione Redemptionis Sacramentum,è forse scritto che per certi abusi liturgici, alcuni dei quali sono veri e propri “delitti”, è prevista la pena, per esempio della sospensione a divinis del sacerdote per un congruo periodo di tempo? Si prevede forse, per quelli più gravi, la rimozione dall’ufficio di parroco? No, perché forse questo modo di fare non sarebbe caritatevole e misericordioso, quindi il nostro legislatore esorta, istruisce e nei propri documenti si lamenta con cuore sfranto, mentre chi abusa seguita a farlo in totale mancanza di precise pene.
Per parlare del tema degli abusi liturgici,alcuni dei quali ormai istituzionalizzati e divenuti quasi una norma in certe parrocchie o in certi gruppi laicali cattolici, prenderò quello che è il cuore della nostra liturgia: la Pasqua.
Durante il Triduo Pasquale di quest’anno 2023i nostri Lettori ci hanno inviato tra la sera del Giovedì Santo e il Sabato mattina fotografie e filmati dinanzi ai quali noi Padri de L’Isola di Patmos, che pure siamo navigati, oltre che consapevoli delle stravaganze di cui purtroppo sono capaci certi nostri confratelli, abbiamo stentato a credere, pur dinanzi a foto e documenti.
Vi offriamo solo una piccola rassegna di ciò che è pervenuto in redazione durante il Santo Triduo Pasquale, soprattutto riguardo la riposizione del Santissimo Sacramento all’interno dei Sepolcri presso gli altari della riposizione il Giovedì Santo e quanto accaduto a seguire il Venerdì Santo.
Giovedì Santo. In una cappella della riposizione è stato allestito un tavolo da pranzo con le sedie, apparecchiato con tovaglia, piatti, posate e bicchieri, di lato il tabernacolo con il Santissimo Sacramento, probabilmente per indicare che Nostro Signore Gesù Cristo, anziché sulla croce, è morto al termine di un pranzo assalito da un repentino colpo apoplettico. In un’altra cappella della riposizione la pisside con il Santissimo Sacramento è stata messa sopra un tavolo con attorno una ciambella di salvataggio, al posto dei fiori sono stati disposti dei giubbotti di salvataggio appesi, come se Nostro Signore Gesù Cristo, anziché in croce, fosse morto annegato in mare mentre dalla Giudea tentava di sbarcare come clandestino sulle coste del Mediterraneo. E ancora a seguire: il Santissimo Sacramento riposto all’altare della riposizione dentro un fornetto a microonde, pare per simboleggiare in che modo il Signore riscaldi i cuori (!?).
Altare della reposizione forse ispirato al musical: «Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più, se sposti un po’ la seggiola stai comodo anche tu …» (Parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, Rutigliano)
Venerdì Santo. Le immagini e i filmati che ci sono pervenuti fanno sorgere in noi il serio quesito se certi preti abbiano mai letto l’Ordinamento Generale del Messale Romano e se durante la formazione prima e lo svolgimento del sacro ministero a seguire, abbiano realmente capito che cos’è il Triduo Pasquale, per esempio leggendo un’opera del Novecento scritta dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, in edizione italiana “La teologia dei tre giorni” (1969). Opera che offre una meditazione del mistero pasquale secondo la scansione dei tre giorni: il mistero del venerdì santo (la croce nella vita di Gesù, l’Eucaristia, l’agonia), il mistero del sabato santo (in cui il Cristo fa l’esperienza della “seconda morte”), il mistero della Pasqua come teologia della risurrezione e della glorificazione del Figlio. Il Venerdì Santo, giorno in cui si commemora la passione di Cristo Signore, nel corso di una liturgia austera e silenziosa tutta incentrata sulla adorazione della croce, è mai pensabile che si possa cantare al suono di chitarre e tamburelli ritmati allegre canzoncine da campo-scuola, scandendo persino «alleluia, alleluia” in ritornelli di canti del tutto inappropriati e fuori luogo? Qualcuno ha forse dimenticato l’omissione dalla liturgia del Gloria e dell’Alleluia durante il periodo quaresimale, o le cosiddette “campane legate” il Giovedì Santo che torneranno a suonare solo nel giorno di Pasqua assieme al canto del Gloria e dell’Alleluia per rendere lode al Risorto dai morti?
Un altro autore che ci ha guidati nel mistero della teologia del Triduo Pasqualeè stato il fiorentino Padre Divo Barsotti, che in una sua predicazione del 1987 spiegò il senso mistagogico della “discesa agli inferi” di Gesù Cristo, articolo di fede contenuto anche nel Credo Apostolico in cui recitiamo «[…] patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte». Domandiamoci: quanti sono oggi i fedeli cattolici che comprendono il senso della “discesa” in quegli inferi indicati nell’antica tradizione anche come Shéolo Αιδην, il “regno dei morti” dove Gesù Cristo morto discese con l’anima unita alla sua Persona divina, per aprire le porte del cielo ai giusti che l’avevano preceduto (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 631-635).
Altare della riposizione dentro il barchino con le reti, Chiesa del Buon Pastore di Diamante
Il Triduo Pasquale, nella sua simbologia,racchiude una grande e sapiente pedagogia, una somma catechesi per il Popolo dei credenti, che non può essere certo finire svilita da stravaganze inscenate quasi sempre all’insegna del politicamente corretto del momento.
Vediamo adesso cosa è liturgicamente quel triduo pasqualeche conclude con quella che la Chiesa indica come la Madre di tutte le Veglie, nella speranza che possa servire di riflessione per la prossima Pasqua 2024. Il Triduo Pasquale è la realtà della Pasqua del Signore, celebrata liturgicamente e sacramentalmente in tre giorni: il Venerdì Santo, che fa memoria viva della Passione e Morte del Signore; il Sabato Santo, in cui la Chiesa sosta al sepolcro del Signore; la Domenica di Pasqua che celebra la gloriosa Resurrezione di Cristo. Caratteristica delle celebrazioni del Triduo è che sono organizzate come un’unica liturgia, per questo motivo la Missa in Coena Domininon termina con ite missa est(”la Messa è finita”), bensì in silenzio. L’azione liturgica del venerdì non comincia con l’usuale saluto e con il Segno della Croce e termina anch’essa senza saluto, in silenzio. Infine la solenne veglia comincia in silenzio e termina con il saluto finale.
Il Triduo Pasquale costituisce un’unica solennità,la più importante di tutto l’Anno liturgico cattolico. Dal Gloriadella Messa del Giovedì a quello della Veglia le campane devono stare in liturgico silenzio. Anticamente anche gli strumenti musicali dovevano tacere il Venerdì e il Sabato Santo, fino alla Veglia Pasquale, per meglio esprimere il senso penitenziale di questi giorni. Per questo molte composizioni di autori antichi per il Venerdì Santo furono scritte per solo coro. Oggi tuttavia è permesso l’uso degli strumenti musicali durante le celebrazioni di queste giornate, anche se solo per sostenere il canto.
Vertice e centro gravitazionale dell’intero Triduoè la Solenne Veglia Pasquale nella Notte Santa. Con la celebrazione della Missa in Coena Domini, la sera del Giovedì Santo ha inizio il Triduo Pasquale della Passione, morte e Risurrezione di Cristo, culmine di tutto l’anno liturgico e cuore della fede e della preghiera della Chiesa (cfr. SC 102). Il Giovedì Santo la Chiesa ricorda l’Ultima Cena di Gesù nella quale il Signore Gesù, la vigilia della Passione, spinse all’estremo il suo amore per i suoi che erano nel mondo, offrì al Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e, donandosi come nutrimento ai suoi apostoli, comandò loro di perpetuarne l’offerta in sua memoria, istituendo di fatto il sacerdozio della Nuova Alleanza. Obbediente al comando del Signore, la Chiesa celebra la Santa Cena, sentendosi impegnata a tradurre nella vita di ogni giorno lo stile di servizio e di amore fraterno (cfr. il segno della lavanda dei piedi, proprio della liturgia del Giovedì Santo) che ha nel Sacrificio del Signore, sacralmente presente nell’Eucaristia, il suo senso e la sua fonte. I testi che vengono usati in questa celebrazione sottolineano l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia e il suo carattere di memoriale del sacrificio del Signore (altro che “Cena Santa…”), annunziato e prefigurato dagli avvenimenti dell’Esodo di Israele dall’Egitto, col simbolo dell’agnello immolato e del passaggio dell’angelo del Signore per colpire i primogeniti di Egitto (I lettura); “memoriale” che il beato Apostolo Paolo descrive come rito celebrato da Gesù nella cena pasquale con i suoi apostoli, segno della nuova ed eterna Alleanza tra Dio e gli uomini, sigillata e ratificata col suo stesso sangue (II lettura). Infine – strettamente legato alle due letture – il brano evangelico di Giovanni ci mostra Gesù che pur essendo maestro e Signore, si fa servo, lavando i piedi ai suoi apostoli. Con questo gesto il Signore Gesù voleva manifestare che la sua missione era il più grande servizio che Dio rivolgeva agli uomini per salvarli: lavarli dai peccati e nutrirli con il suo Corpo e il suo Sangue.
Il Prefazio di questa Messa riassume l’ineffabile mistero dell’amore divino:
«Sacerdote vero ed eterno, egli istituì il rito del sacrificio perenne; a te per primo si offrì vittima di salvezza, e comandò a noi di compiere l’offerta in sua memoria. Il suo Corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza, il suo Sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa».
Al termine della Missa in Coena Domini del Giovedì Santo, l’Eucaristia viene riposta e custodita nell’altare della Reposizione, chiamato nel linguaggio popolare di alcune regioni del sud Italia sepolcro. Termine improprio in quanto non simboleggia la morte di Gesù ma è il luogo in cui adorare l’Eucaristia. Il termine giusto è altareo cappella della Reposizione. Parliamo dello spazio della chiesa allestito, al termine della Missa in Coena Domini, per accogliere le specie eucaristiche consacrate, conservandole sino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale. Le Sacre Specie vengono così riposte per essere adorate durante la notte. È tradizione che gli altari della reposizione siano addobbati in modo solenne, con composizioni floreali o altri simboli: non devono essere il luogo della stravaganza o della forzatura di segni che nulla hanno a che fare con l’unico scopo di invitare i fedeli all’adorazione. La lettera circolare della Congregazione del Culto Divino del 16 gennaio 1988 dal titolo Preparazione e celebrazione delle feste pasquali precisa a proposito dell’altare della reposizione quanto segue:
«Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio. Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un sepolcro. Si eviti il termine stesso di “sepolcro”. Infatti la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare “la sepoltura del Signore”, ma per custodire il pane eucaristico per la comunione, che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore. Si invitino i fedeli a trattenersi in chiesa, dopo la messa nella cena del Signore, per un congruo spazio di tempo nella notte, per la dovuta adorazione al Santissimo Sacramento solennemente lì custodito in questo giorno. Durante l’adorazione eucaristica protratta può essere letta qualche parte del Vangelo secondo Giovanni. Dopo la mezzanotte si faccia l’adorazione senza solennità, dal momento che ha già avuto inizio il giorno della passione del Signore» (nn. 55-56).
La lettera circolare della Congregazione del Culto Divino del 16 gennaio 1988 dal titolo Preparazione e celebrazione delle feste pasquali precisa a proposito dell’altare della reposizione quanto segue: «Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio»
Il Venerdì Santo la Chiesa celebra la Passione Morte del suo Signore e rimane in amorosa contemplazione e meditazione del suo sacrificio cruento, fonte della nostra salvezza. Per antichissima tradizione in questo giorno la Chiesa non celebra l’Eucaristia, ma solo una solenne Liturgia della Parola, seguita dall’adorazione della croce e dalla santa Comunione.
Davanti all’altare completamente spoglio,dopo la prostrazione del celebrante nel silenzio dell’assemblea e l’orazione introduttiva, vengono proclamate tre letture:
– il quarto canto del Servo di IHWH (Is 52, 13-15; 53, 1-12), dove nella figura del servo caricato dei nostri dolori, castigato, percosso e umiliato e che tuttavia giustificherà molti e dalle cui piaghe siamo stati guariti, non è difficile riconoscere la figura di Gesù, colui che si è fatto peccato, è divenuto il disgusto dei vicini e l’orrore di conoscenti (cfr. Salmo responsoriale) e che è l’unica nostra via di salvezza.
– La seconda lettura è tratta dalla lettera agli Ebrei (cfr. 4, 14-16; 5, 7-9) e precisa che il Cristo servo sofferente di IHWH è il sommo sacerdote che è stato provato in ogni cosa e che diviene causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono.
– Il Vangelo riporta il racconto della Passione secondo Giovanni (cfr. 18, 1 – 19,42). La morte di Gesù è la rivelazione suprema dell’amore di Dio che si prolunga sacramentalmente nei secoli nell’acqua (Battesimo) e nel Sangue (Eucaristia) ed è intimamente legata al dono dello Spirito Santo e con la nascita della Chiesa, rappresentata dalla Santa Vergine Maria e dall’apostolo Giovanni. All’omelia segue poi una solenne Preghiera universale in cui si innalzano suppliche per la Chiesa, il Papa, per tutti gli ordini sacri e i fedeli, per i catecumeni, per l’unità dei cristiani, per gli ebrei, per i non cristiani, per coloro che non credono in Dio, per i governanti e per i tribolati.
Come conseguenza della parola ascoltata ed accolta, segue poi la solenne Adorazione della Croce, gesto “scandaloso” e profetico perché venerata non più come semplice strumento di morte infame, ma come albero della vita, “talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore”. Il sacerdote scopre la croce in tre volte, presentandola al popolo come trofeo di vittoria e dicendo: «Ecco il legno della croce, a cui fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo»; a questo invito l’assemblea risponde: «Venite, adoriamo!». L’assemblea compie poi il gesto dell’adorazione, ricordando che già in quel momento si compie la Pasqua, si realizza la nostra salvezza nel sangue dell’Agnello immolato: «Adoriamo la tua croce, Signore; lodiamo e glorifichiamo la tua santa Resurrezione. Dal legno della croce è venuta la gioia in tutto il mondo». Al termine dell’adorazione, la croce viene posta vicino all’altare, segno anche esso del sacrificio di Cristo, offerto al Padre per la nostra salvezza.
All’adorazione della croce, segue la Comunione Eucaristica, con le sacre Specie consacrate il giorno precedente. La Commemorazione della Passione si conclude con una preghiera di benedizione sull’assemblea, che poi si scioglie in silenzio.
Sabato Santo.Il Messale Romano ci presenta questo giorno con queste parole:
«Il Sabato Santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e la sua morte, nonché la discesa agli inferi, e aspettando la sua risurrezione, nella preghiera e nel digiuno. Spogliata la sacra mensa, la Chiesa si astiene dal sacrificio della Messa fino alla solenne Veglia o attesa notturna della risurrezione”. La Chiesa è chiamata a meditare prima di tutto il fatto che Gesù “morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15, 3-4).
Contempla ciò che nel Credo professa affermando «discese agli inferi»:Gesù Cristo si fa solidale con l’uomo da salvare, affrontando la morte nella certezza che l’avrebbe vinta non soltanto per sé, ma per tutti. Da questo punto di vista, il Sabato Santo è un giorno di grande speranza! Il Sabato Santo il cristiano è chiamato ad imitare le pie donne che dopo la sepoltura di Gesù «erano lì davanti al sepolcro» (Mt 27, 61). Non è cosa da poco fermarci anche noi, in clima di fede e di amore, per pregare, meditare e contemplare: può essere il giorno di deserto, di preghiera e di illuminata speranza in Dio che ha scelto non solo di morire per noi, ma di risorgere e di farci partecipi della sua vita di risorto.
La Veglia Pasquale nella Notte Santaè il vertice e il centro di tutto il Triduo Pasquale. Considerata la “madre di tutte le veglie”, in essa la Chiesa attende, vegliando, la risurrezione di Cristo e la celebra nei sacramenti (cf. Norme per l’anno liturgico e il calendario, 21). Tutta la celebrazione di questa Veglia, pertanto, deve svolgersi di notte e terminare prima dell’alba della domenica. Questa è la notte per eccellenza, in cui si celebrano i grandi sacramenti dell’Iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione, Eucaristia), che comunicano ai fedeli la grazia salvifica del mistero pasquale di Cristo. La Veglia Pasquale è costituita da quattro parti:
Liturgia della luce o lucernario. La Veglia si apre con la celebrazione di Cristo Risorto come luce del mondo. Il sacerdote benedice un fuoco divampante (generalmente preparato all’esterno della Chiesa) e prepara il cero pasquale, incidendo su di esso una croce, le lettere greche A e W e le cifre dell’anno corrente, seguendo questo schema:
Mentre compie questo gesto,acclama a Cristo Principio e Fine, Alfa e Omega, al quale appartiene il Tempo, i secoli, la gloria e il potere. Completata l’incisione, il celebrante può infiggere 5 grani di incenso in forma di croce e mentre compie questo gesto acclama alle piaghe sante, gloriose e salvifiche del Cristo. Il Cero viene acceso al fuoco nuovo e inizia una processione che si avvia verso il presbiterio; durante questa processione si acclama per tre volte “Lumen Christi!” e vengono accese le candele dei fedeli e le luci della Chiesa. Posizionato il cero nel suo candelabro, il diacono proclama il solenne Preconio Pasquale(detto “Exultet”) un testo bellissimo che annuncia la gloria della resurrezione di Cristo, vertice di tutta la storia della salvezza, iniziata dopo il peccato di Adamo, figurata nell’agnello della pasqua ebraica, dall’esodo, dal passaggio del mar Rosso, dalla colonna di fuoco e realizzata in pienezza da Cristo morto e risorto. Il Preconio è un cantico entusiasta che, ricapitolando tutti i grandi momenti della storia di Dio e dell’uomo, esprime l’esultanza del cielo e della terra, perché con la resurrezione di Cristo anche l’universo, abbruttito dal peccato, risorge e si rinnova. Un testo che andrebbe a lungo meditato e pregato anche personalmente.
Liturgia della Parola. Terminato il lucernario, il celebrante invita all’ascolto della Parola per meditare «come nell’antica alleanza Dio salvò il suo popolo e nella pienezza dei tempi ha mandato a noi il suo Figlio come redentore». Vengono quindi proclamate nove letture (sette dell’Antico Testamento e due del Nuovo), con lo scopo di introdurre i fedeli nel significato e nell’importanza della Pasqua nella vita della Chiesa e di ogni cristiano, in relazione ai sacramenti pasquali (Battesimo, Cresima ed Eucaristia) medianti i quali siamo morti e risorti con Cristo:
Epistola: Rm 6, 3-11: Cristo risorto dai morti non muore più
Vangelo: Uno dei tre sinottici a seconda del ciclo liturgico
Tra la VII lettura e l’Epistola viene cantato solennemente il Gloria e al termine dell’Epistola – dopo il “digiuno” quaresimale – viene solennemente intonata l’Alleluia.
Liturgia Battesimale: Fino dall’antichità, la Chiesa ha collegato con la Veglia Pasquale l’amministrazione del Battesimo, immersione nella morte di Cristo e risurrezione con Lui alla vita nuova. Dopo il canto delle litanie dei santi, viene benedetta l’acqua battesimale — con il particolare gesto di immergervi per tre volte il cero pasquale — con cui si amministra il Battesimo e si asperge l’assemblea, dopo che questa ha rinnovato la professione di fede con le promesse battesimali.
La Veglia termina con la Liturgia Eucaristica, che diviene compimento di tutta la celebrazione e azione di grazie più alta e significativa rivolta al Padre per averci dato il suo Figlio morto e risorto per la nostra salvezza. Con la Pasqua infatti ha avuto inizio la vera Eucaristia, nella quale, fino alla consumazione dei secoli, la Chiesa acclamerà «Cristo vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo; Cristo che, morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita» (Prefazio Pasquale I). Ed è così che inizia il “Giorno del Signore”, giorno di vita senza tramonto, in cui il dovere di ogni credente è quello di “cercare le cose di lassù” e di “nascondere la propria vita con Cristo risorto in Dio”.
A voi tutti lancio una domanda, ed assieme alla domanda lascio a tutti voi l’onere della risposta: il cuore centrale del mistero fondante della nostra fede, è la risurrezione del Cristo, dinanzi alla quale l’Apostolo Paolo afferma che se non fosse veramente risorto la nostra fede e la nostra speranza sarebbe del tutto vana (cfr. I Cor 15, 12-15) può essere forse motivo e occasione per lanciarsi in stravaganze che rischiano di trascendere non di rado tra la dissacrazione e il vero e proprio sacrilegio? Tutto è possibile, quando si esorta, si istruisce, ma non si puniscono i trasgressori, farlo sarebbe una mancanza di misericordia, un peccato questo sì, assolutamente intollerabile.
Firenze, 12 maggio 2023
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VENERABILI FRATELLI SACERDOTI, LA CHIESA STA VIVENDO UNA CRISI SENZA PRECEDENTI E NOI STIAMO VIVENDO LA PIÙ DIFFICILE DELLE PROVE: LA GRANDE PROVA DELLA FEDE
Oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa compromettendo qualsiasi ricerca a cammino di fede nei presbiteri e nei fedeli.
La severità che spesso uso,unita all’occorrenza a un’ironia affatto casuale ma voluta e soprattutto scientifica, mi porta a ipotizzare che forse non si abbia tempo di pensare ai preti. È probabile che presto giungeremo ad affiggere sulle porte delle nostre chiese l’avviso «saldi di fine stagione», oppure «svendita fallimentare». Nel Nord dell’Europa accade da tempo, quando nel 2010 mi recai a svolgere studi di approfondimento in Germania ho potuto vedere stabili di antiche chiese, sino a pochi decenni prima comunità parrocchiali, vendute e convertite in eleganti negozi, ristoranti, saloni per parrucchieri, alcune persino in night club. Nel mio libro E Satana si fece trinopubblicato a fine 2010 scrissi: «[…] un fiume in piena sta scendendo dal Nord dell’Europa e presto travolgerà anche noi».
Salvador Dali, Ultima cena
La situazione di molte diocesi italiane è drammatica, la penuria di clero sempre più alta e l’età media di certi presbitèri ha superato in molte i 70 anni. Le statistiche delle grandi diocesi sembrano bollettini di guerra, la media è pari ormai a 10 presbiteri defunti a fronte di uno o due nuovi ordinati. In alcune diocesi non si ordinano presbiteri da anni mentre nel corso degli stessi anni ne sono morti diversi. È inevitabile che nel giro di vent’anni, ma anche prima, le attuali 225 diocesi italiane saranno ridotte a 70 o 80 e che nei territori di quelle diocesi finite soppresse, composte oggi da 50 o 60 presbiteri avanti con l’età, ci saranno solo tre o quattro preti a prestare servizio girando per tutto l’intero territorio.
Sotto il pontificato di Benedetto XVI, tra il 2005 e il 2013 ci fu una leggera ripresa delle vocazioni, sotto quello del Sommo Pontefice Francesco, tra il 2014 e il 2022 c’è stato un calo vertiginoso dell’ingresso nei seminari e nei noviziati religiosi. L’anno 2022 ha registrato 1.045 presbiteri del clero secolare e regolare defunti e 392 nuove ordinazioni di presbiteri del clero secolare e regolare. I presbiteri defunti superano del 65% quello dei nuovi ordinati.
Nella stessa Romasono stati venduti molti stabili ecclesiastici di vari ordini e congregazioni religiose e numerosi altri sono in stato di agonia. Stabili faraonici abitati ormai da quattro o cinque anziani religiosi e religiose che a breve faranno la stessa fine. E se a Roma accade questo, vi lascio immaginare quale grande vendita del patrimonio ecclesiastico è ormai in corso in tutta Italia.
Dinanzi a questo inesorabile e irreversibile declino, stiamo forse seriamente pensando a una adeguata formazione dei sacerdoti, a ripensare i seminari oggi strutturati in modo a dir poco inadeguato e per certi versi anacronistico, o a puntare tutto su una attenta pastorale vocazionale che comporterebbe anzitutto presentare come modelli di vita dei veri sacerdoti di Cristo, non dei preti secolarizzati simili a liberi professionisti del religioso o ad assistenti sociali, ridotti spesso a celebratori compulsivi di Sante Messe in corsa da una parrocchia all’altra, senza che alcun vescovo si domandi quando pregano, quando studiano, quando curano la loro vita sacerdotale? Se non ci sono più sacerdoti per coprire le parrocchie del circondario, in tal caso si dovrebbe procedere con la soppressione canonica lasciando una sola parrocchia e dicendo a chiare note ai fedeli che devono smetterla di pretendere la chiesa sotto casa e fare quattro o cinque chilometri per andare alla Santa Messa, proprio come riescono a farne 40 o 50, anziani in testa a tutti, quando si tratta invece di andare ai grandi centri commerciali. Se le famiglie che compongono la comunità cristiana non sono più in grado di esprimere vocazioni, sarà bene che i Christi fidelessi assumano anch’essi le loro responsabilità, anziché pretendere di spremere i preti sino al loro esaurimento. Come però sappiamo viviamo nella Chiesa della mancanza di assunzione di responsabilità, da parte del clero per un verso, dei fedeli spesso egoisti e pigri per altro verso.
Per risolvere questi problemi ormai irreversibili, anziché ricorrere a quelle scelte radicali purtroppo necessarie, si tende invece a escogitare i peggiori espedienti evitando di fare i conti con quei nostri fallimenti che sovente gridano al cielo. Tanti sarebbero gli esempi, prendiamone uno solo: diversi vescovi, con tanto di solenni cerimonie, hanno già provveduto in giro per l’Italia ad affidare delle comunità parrocchiali a delle “accolitesse” istituite, o nella migliore delle ipotesi a dei diaconi permanenti tramite i quali è stata riesumata la antica Missa sicca[1], molto in voga tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, finché dopo la riforma liturgica del Santo Pontefice Pio V scomparve[2]. Però, come capita quando si pensa di fare grandi passi in avanti, non si fa altro che tornare indietro per dare tragica ripetizione alla storia passata, specie a quella più fallimentare. Perché di solito la storia si ripete sempre due volte: prima come tragedia e poi come farsa grottesca[3].
IL SACERDOTE È SUPERIORE AGLI ANGELI DI DIO MA RIMANE UN FRAGILE PECCATORE
Se il Verbo di Dio fatto uomo avesse voluto una Chiesa formata da entità angeliche non l’avrebbe fondata sulla terra, ma in quella Gerusalemme Celeste di cui ci parla il Beato Apostolo Giovanni nel capitolo XXI dell’Apocalisse. Invece l’ha fondata sulla terra, usando uomini corrotti dal peccato originale (cfr. Gn 2,17) ed esposti alla corruzione del peccato.
Durante l’Ultima Cena,istituendo la Santissima Eucaristia come mistero vivo della sua presenza e consacrando gli Apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza, li rese partecipi del sacerdozio ministeriale del Cristo Sommo Sacerdote (cfr. Eb 2,17; 4,14). Consacrandoli sacerdoti li elevò così in dignità al di sopra degli stessi Angeli di Dio[4]. Questa dignità non impedisce all’uomo-sacerdote di cadere nel peccato o di essere in certe occasioni un vero e proprio diffusore del peccato, nei casi più gravi e rari può persino accadere che il sacerdote giunga a mutarsi in un corruttore in grado di creare strutture di peccato all’interno della Chiesa. Basti pensare cosa fu capace di fare Giuda Iscariota, anche lui aveva ricevuto come tutti gli Apostoli prescelti la prima Eucaristia e la consacrazione sacerdotale.
Ci sono vari passi del Santo Vangelo che mettono in luce tutte le fragilità umane degli Apostoli, a partire da Pietro scelto da Cristo come Capo del Collegio Apostolico, che poco dopo avere ricevuto la sua investitura (cfr. Mt 16, 30-20) si dette alla fuga per primo dinanzi al pericolo, rinnegando il Divino Maestro per tre volte, come riportano i racconti dei tre Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni. Nel racconto degli Evangelisti Marco e Matteo si precisa che Pietro, alla terza volta che gli veniva chiesto se conoscesse quell’uomo «cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco quell’uomo!”». Nella cultura giudaica dell’epoca, giurare il falso o tirare in ballo il nome di Dio con un giuramento era considerato un delitto gravissimo che poteva essere punito persino con la morte. Eppure Pietro, il primo Capo del Collegio degli Apostoli, fece questo: imprecò e giurò il falso dicendo di non conoscere il Cristo.
Nel periodo successivo alla risurrezione di Cristo e dopo avere ricevuto i doni di grazia dello Spirito Santo a Pentecoste (cfr. At 2, 1-41), Pietro fu duramente rimproverato ad Antiochia dall’Apostolo Paolo che lo accusò di ambiguità e ipocrisia (cfr. Gal 2, 11-14). Per inciso: non mi risulta che nessuno abbia mai tacciato il Beato Apostolo di essere arrogante o più semplicemente inopportuno nelle sue espressioni critiche, anzi mi risulta che si debba tributargli tutt’oggi grande merito, perché se fosse stato per la “ipocrisia” e la “ambiguità” di Pietro o per un certo “integralismo” di Giacomo il Maggiore, oggi non saremmo ciò che siamo, ma solo una sètta giudaico-cristiana. Come tali non saremmo sopravvissuti, come non è sopravvissuto l’Ebraismo come religione dopo il 70 d.C. con la caduta del Tempio. Infatti, l’Ebraismo di oggi, è solo una pantomima di quella che fu l’antica religione ebraica, basti solo dire che sono scomparse le caste sacerdotali e i rituali di consacrazione che erano tutti quanti strettamente legati al Tempio. Elementi questi di cui scrissi in un mio corposo saggio del 2006: Erbe amare, il secolo del Sionismo.
C’è un passo drammatico del Vangelo della Passione di Cristo dove si narra l’arresto del Signore, dinanzi al quale risuonano queste parole: «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26, 56). Se ci pensiamo bene quello fu l’unico concilio della Chiesa dove tutti i Padri furono unanimi nella decisione. Per costituire la propria Chiesa, immagine visibile del corpo di cui Egli è capo e noi membra come illustra il Beato Apostolo Paolo (cfr. Col 1, 18), Cristo scelse degli uomini gravati da tutti i loro limiti, debolezze e inadeguatezze, che dinanzi all’arresto del Divino Maestro fuggirono.
I fedeli cattolici, ma anche le persone distanti dalla Chiesa o persino i non credenti, spesso pretendono che il sacerdote abbia quella purezza di vita che loro non hanno e che semmai non vogliono nemmeno avere. Talvolta i fedeli cattolici tendono ad avere del sacerdote un’idea surreale completamente scissa da quella che è la realtà del sacro ministero, rifiutandosi di capire che esercitarlo oggi è molto più difficile di quanto non lo fosse 100 anni fa, ma anche e solo 50 anni fa.
Il sacerdote,per il Sacramento di grazia col quale è stato segnato e per il sacro ministero a cui è chiamato, può finire con l’essere soggetto molto più di altri alle tentazioni del Demonio, perché è dispensatore della grazia attraverso i sacri misteri, per questo si accanirà con i consacrati in modo particolare. E questa fu una delle prime lezioni che imparai quando feci i corsi di formazione per gli esorcisti.
SENZA L’USO DELL’ELEMENTO STORICO NON SI PUÒ FARE TEOLOGIA NÉ SI POSSONO CAPIRE A FONDO CERTE SITUAZIONI RADICATE NEL CLERO, SE PERÒ LO FAI PRESENTE, PRONTA LA RISPOSTA DEL CLERICALE CHE MANIPOLA IL SANTO VANGELO: «CHI SEI TU PER GIUDICARE?»
Uno dei miei principali formatorifu il gesuita Peter Gumpel(1923-2022), eminente storico del dogma, che mi trasmise l’importanza fondamentale della storia nello studio della dogmatica, tutt’oggi materia di mio interesse e ricerca. Un teologo dogmatico privo di solidi fondamenti dati da adeguate conoscenze storiche, può seriamente rischiare di non avere una reale percezione dei fondamenti della fede finendo col perdersi nell’iperuranio della metafisica onirica. Dietro ai grandi concili dogmatici, a partire dal Primo niceno per seguire col Primo costantinopolitano che definiscono le verità fondamentali e che elaborano il nostro Simbolo di Fede, c’è una storia complessa e articolata intrecciata con articolate vicende politiche e difficili rapporti che correvano già all’epoca tra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente.
I chierici hanno sempre vissuto momenti ciclici di decadenza dottrinale e morale particolarmente gravi. Se qualcuno non conosce la storia, è inutile se la prenda con me che in scritti o interventi pongo spesso in luce certe odierne derive ecclesiali ed ecclesiastiche. Non posso che sorridere su certe “anime delicate” che giudicano le mie parole come una sorta di attentato di lesa maestà clericale, posto che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo (cfr. Col 1, 18), non un circolo chiuso trasformato in una «struttura di peccato» piena di «sporcizia»[5], da coprire e proteggere in ogni modo con atteggiamenti distruttivi verso chiunque osi esercitare il prezioso dono critico dato dalla libertà dei figli di Dio. Chi agisce con atteggiamenti omertosi clericali dimostra anzitutto in modo inquietante di non conoscere le opere di molti Santi Padri e dottori della Chiesa che usarono forme di severità e durezze di linguaggio ben superiori alle mie. Può essere però che non abbiano mai letto gli scritti in cui San Pier Damiani condanna con toni di fuoco la pratica della sodomia diffusa tra il clero[6], o il testo indirizzato da San Bernardo di Chiaravalle al Sommo Pontefice Eugenio III nel quale gli illustra in che modo sia circondato da prelati ruffiani e simoniaci che guardavano solo ai loro sporchi interessi[7], o Santa Caterina da Siena che invitata ad Avignone rispose al Sommo Pontefice di non avere bisogno di visitare la sua corte perché il fetore che emanava si sentiva sin dalla sua Città[8], sino alle più recenti critiche alla mediocrità e immoralità dell’episcopato e del clero di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori[9] o alle analisi critiche del Beato Antonio Rosmini che lamentava l’ignoranza del clero[10]. Tutto sommato le stesse cose che lamento io a coloro che attaccandosi a forme stilistiche o al fatidico «chi sei tu per giudicare?» ― con il quale vorrebbero tappare la bocca a qualsiasi pensiero critico ― dimostrano di non conoscere ciò che di molto peggio e in tono ben più severo hanno detto e scritto molti Santi Padri e dottori della Chiesa. Basterebbe poi conoscere i canoni disciplinari di certi concili, per esempio il IV Lateranense del 1215, dove si indicano a uno a uno i pessimi costumi del clero disponendone la correzione col ricorso a severe pene. E come mai, il Concilio di Trento, riguardo gli ecclesiastici, vescovi e presbiteri, dispose certe precise e rigide regole? Per comprenderlo basterebbe conoscere ciò che accadeva nel clero all’epoca rinascimentale e la risposta sarebbe presto data. Poi, se vogliamo toccare con mano lo stato di degrado in cui versava il nostro clero negli anni Trenta del Novecento, in tal caso basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotiiscritta nel 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, attraverso le righe della quale il quadro è presto fatto e fornito. Domanda: non è che quei soggetti che si stracciano le vesti accusando me di usare toni duri e severi, o attaccandosi alla forma espressiva non potendo smentire la sostanza, sono semplicemente e palesemente degli ottusi ignoranti sul piano storico ed ecclesiologico che pretendono di trattare e gestire la Chiesa come se fosse una cosca mafiosa retta su principi di omertà?
Anche in questo caso la risposta del clericaleottuso è presto data: «Vuoi forse paragonare te stesso a certi Santi Padri e dottori della Chiesa? Ah, che superbia, che arroganza!». Accusa questa tipica di chi reagisce stravolgendo e manipolando sia la realtà sia ciò che hai detto, posto che mai ho paragonato me stesso a certi Santi, ho solo cercato di prendere esempio da loro, per il semplice fatto che anch’io sono chiamato alla santità come tutti i battezzati, posto che la santità non è affatto una meta irraggiungibile, ma una meta che tutti siamo chiamati a raggiungere. Anche Gesù Cristo fu schiaffeggiato nel Sinedrio e rimproverato «Come osi rispondere così al Sommo Sacerdote?» (Gv 18, 22). Ovviamente il clericale manipolatore ha già pronta la risposta: «Vuoi forse paragonare te stesso a Gesù Cristo?». Certo che no, però sono in tutto e per tutto un alter Christus e come tale devo imitarlo e conformarmi a lui, perlomeno fu questo che mi disse il Vescovo consacrandomi presbitero. Per questo rispondo come Gesù Cristo: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Pronta la replica del clericale manipolatore: «Il problema non è la sostanza ma la forma, il modo in cui dici le cose». Questo perché per il clericale ottuso e manipolatore a farci liberi non è affatto la verità (cfr. Gv 8,32), ma la forma in cui la verità si dice, perché la forma è sempre e di gran lunga superiore alla sostanza della verità. Non era forse questo che insegnavano Sant’Anselmo d’Aosta, San Tommaso d’Aquino e gli altri Padri della scolastica classica, ossia che gli accidenti sono superiori alle sostanze? Ma che arrogante che fu Tommaso da Kempis che scrisse la celebre opera Imitazione di Cristo. Come si può pensare di essere superbi al punto da presumere di poter imitare Cristo? Ecco perché affermo e non mi stanco di ribadire che il clericalismo è peggiore dell’ateismo. Perché l’ateo nega Dio, il clericale ottuso manipola e falsifica Dio e la sua Parola per imporre come suprema legge le proprie peggiori miserie umane.
Tutto questo si chiama mysterium iniquitatis, ne parla chiaramente il Beato Apostolo Paolo dicendo che «il mistero dell’iniquità è già in atto» (2 Ts 2, 1). Elemento teologico ben preciso dinanzi al quale, il peggio che si possa fare, è di irritarsi dinanzi a chi questo mistero lo affronta, lo analizza e all’occorrenza lo pone in luce per scuotere anche le coscienze sempre più narcotizzate di certi ecclesiastici, sempre pronti a irritarsi se qualcuno osa indicare il male per ciò che è: male.
Un ventennio fa il Santo Pontefice Giovanni Paolo II lanciò l’ennesimo allarme parlando di una «apostasia silenziosa» e scrivendo a tal proposito che «La cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse»[11].
In questa decadenza e in questo rifiuto del sacroe del trascendentale ci siamo immersi anche noi preti, c’è poco da gridare allo scandalo se affermo che oggi, la forma di ateismo peggiore è quella dell’ateismo clericale. Basta solo osservare come certi preti celebrano la Santa Messa, per poi domandarsi in modo a dir poco ragionevole se credono veramente in quel che fanno, oppure se hanno dimenticato del tutto quando il Vescovo gli disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore»[12].
IL PRETE DI IERI ERA PROTETTO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO, OGGI È PRIVO DI PROTEZIONE SIA ESTERNA CHE INTERNA
Sino a mezzo secolo fa il prete viveva in contesti sociali nei quali era protetto come uomo e come figura sacra dalla società e dalle sue stesse strutture. Preti indegni e peccatori che hanno infranto le regole sono sempre esistiti, ma sino a non molti decenni fa vivevano in contesti socio-culturali in cui erano protetti. Pertanto, il prete che aveva comportamenti non adeguati al proprio statussacerdotale violava le regole e commetteva i propri peccati in un clima di totale nascondimento, evitando di dare pubblico scandalo, perché aveva molto chiaro in sé che cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Questo perché anche ai membri della società dei tiepidi verso la fede o anche agli stessi non credenti era chiaro cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Se quindi il prete sbagliava, o se commetteva peccati, era consapevole di sbagliare e di peccare e faceva tutto il possibile affinché il suo peccato non desse pubblico scandalo. A questo si aggiunga che in epoche passate, anche recenti, non c’erano i mezzi di comunicazione e di controllo che ci sono oggi, dove nell’era dei socialviviamo tutti quanti esposti in vista su una pubblica piazza, mentre le notizie giungono da una parte all’altra del mondo in pochi secondi. Oggi il prete vive inserito all’interno di una società che oltre a non proteggerlo cerca di convincerlo che il male è bene e il bene male, inducendo i deboli a cadere nei peggiori vizi e perversioni.
Una volta il prete era considerato socialmente una autorità moralepersino da coloro che rigettavano la dottrina e la morale cattolica, ma che per quanto ostili al Cattolicesimo riconoscevano nel prete una figura ben precisa. Oggi la Chiesa Cattolica, il Romano Pontefice, i vescovi e i preti sono usati per fare non comicità o satira, cosa sempre esistita sin dai tempi del grande Giovanni Boccaccio e di Pietro l’Aretino. Con la scusa delle comicità e della satira che in realtà non sono però tali, si cerca di destituire la Chiesa e il suo clero di qualsiasi autorità, autorevolezza e fondamento spirituale e soprannaturale, in modo spesso subdolo, violento e distruttivo. A questo si aggiungano quei preti che sviliscono i sacri misteri trasformando il Sacrificio Eucaristico che si rinnova durante la celebrazione della Santa Messa in show stravaganti quasi sempre frutto del narcisismo egocentrico del prete e del suo pressoché assente senso del sacro.
Per questo e vari altri motivi dico spesso ai confratelli di cui sono confessore e direttore spirituale che il Demonio è un concentrato di intelligenza allo stato puro che nel corso dei secoli ha capito che le persecuzioni e il sangue dei martiri hanno sempre purificato e rafforzato la Chiesa, dandole forza e linfa vitale. La nuova tecnica che ha adottato ai nostri giorni è invece terribile: farci morire nel ridicolo. E a morire martiri per la fede i preti possono anche essere preparati, ben sapendo che potrebbe essere una possibilità del tutto eventuale, a suo modo scritta nel nostro carattere sacerdotale indelebile ed eterno. Mentre a morire sommersi nel ridicolo nessuno era preparato. Purtroppo è questa la morte che si tenta di riservare alla Chiesa e al suo clero: il ridicolo. E di fronte al rifiuto sociale e alla totale indifferenza che spesso vanifica qualsiasi tentativo di attività pastorale, non pochi sono i preti che finiscono per andare in crisi. Alcuni in modo serio, in particolare quelli con trenta o quarant’anni di sacro ministero che finiscono spesso per domandarsi quale sia la loro utilità, se sono utili a qualche cosa e che cosa? Quelli che si pongono questi quesiti quasi sempre dolorosi e drammatici, per quanto vivano in stato di crisi, sono i buoni preti che hanno sempre creduto e che credono nella loro missione. Poi ci sono gli altri, che vanno a braccetto con il mondo e che fanno di tutto per piacere al mondo e per compiacerlo. Questi secondi sono quasi sempre pessimi preti difficili da aiutare e recuperare, anche perché sono totalmente ripiegati nelle forme peggiori di secolarizzazione e a essere aiutati o recuperati non ci pensano proprio.
LA CRISI DELLA DOTTRINA DELLA FEDE E DELLA MORALE, OLTRE AL PROBLEMA DELL’IGNORANZA DEI PRETI MALFORMATI E DEFORMATI
In diversi miei libri e articoli scritti nel corso degli ultimi 15 anni ho spiegato ― e credo anche dimostrato ― in che modo, animati da ingenue buone intenzioni, dalla metà degli anni Sessanta del Novecento a seguire abbiamo cercato di andare incontro al mondo e di piacere a tutti i costi alla società contemporanea che si era messa in marcia verso la decadenza dei valori umani e morali. Nel fare questo ci siamo dimenticati che lo scopo della Chiesa non è quello di piacere al mondo ma di combattere le sue gravi malattie. E anche questo ci era stato detto:
«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15, 18-19).
Un male inteso spirito del Concilio fomentato da parte di coloro che i documenti del Concilio Vaticano II non li hanno mai studiati né bene né a fondo e che si sono creati per questo un concilio personale tutto loro, mai scritto dai Padri della Chiesa, ha finito col generare una crisi della dottrina che ha dato vita a sua volta a una crisi della fede sfociata infine in una devastante crisi morale del clero, buona parte del quale, specie in certi angoli del mondo, versa in condizioni di secolarizzazione che da tempo hanno superato tutti i livelli di guardia.
Il Santo Pontefice Paolo VI,che del Concilio Vaticano II indetto dal Santo Pontefice Giovanni XXIII fu il traghettatore, oltre a colui che ne portò la croce, dinanzi alla innegabile evidenza di certe derive sia dottrinali che secolariste disse:
«Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, d’incertezza»[13].
In quegli anni, uno dei maestri della Scuola Romana,Antonio Piolanti, che al concilio fu perito, dinanzi a certe stravaganze che presero a diffondersi agli inizi degli anni Settanta del Novecento soleva ripetere dalla sua cattedra della Lateranense:
«Questo non è il Concilio, nulla di tutto ciò è stato scritto dal Concilio, mai! Questo è solo il para-concilio dei preti e dei teologi eccentrici, che con il Concilio Vaticano II e i suoi documenti non ha niente da spartire!»
Tutti i giorni tocco con mano delle situazioni di grave immoralità diffuse nel clero, ma in scienza e coscienza posso dire e altrettanto facilmente dimostrare che spesso non è colpa dei sacerdoti ma del modo inadeguato e superficiale con il quale sono stati formati e portati al sacerdozio. Spesso, la colpa, è dei vescovi che hanno dimenticato persino il significato etimologico della parola ἐπίσκοπος e che hanno gravemente omesso di vigilare e accudire il loro clero, evitando di consacrare presbiteri soggetti immaturi privi di requisiti umani, morali e spirituali.
In molte università ecclesiastiche e istituti teologici si insegnano più sociologia e scienze politiche anziché i fondamenti della solida dottrina e della teologia cattolica di base che sono i soli in grado di dare ai preti un fondamento e soprattutto delle forti motivazioni pastorali che non si basano sulle effimere emozioni, ma sulla trascendenza. A quel punto il danno è presto fatto: molti preti oggi non conoscono neppure più il significato di certe parole e per questo le equivocano in modo gravemente sbagliato. Per esempio mi è capitato spesso di udire preti affermare, persino durante le omelie: «Basta con questi assolutismi … oggi non siamo più la Chiesa dell’assoluto che pensa di avere la sola verità in tasca» (!?). Non è però questo che troviamo scritto nel documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes che affronta il delicato tema del rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo. Per seguire con preti che usano termini come «dogmatico» o «tridentino» in accezione negativa se non addirittura offensiva, manifestando a questo modo una spaventosa ignoranza che unita all’arroganza si compiace di sé stessa. Signori Vescovi, ma a questi soggetti chi li ha formati, soprattutto: chi li ha fatti preti? E dico ignoranza perché anche il più umile dei preti divenuto tale solo dopo una semplice ma buona formazione di base, dovrebbe sapere che grazie al Concilio di Trento la Chiesa fu anzitutto purificata da molte corruzioni e soprattutto aprì le porte alla grande evangelizzazione, cessando nei successivi 100 anni di essere un fenomeno principalmente europeo per diffondersi in tutti i continenti del mondo. Il Concilio di Trento segnò anche una gloriosa stagione di grandi Santi e Sante della carità, dei grandi pedagoghi e dottori che crearono straordinari istituti e strutture di formazione, assistenza, educazione della povera infanzia ed evangelizzazione. Questo fu il Concilio di Trento usato oggi in accezione negativa da certi ignoranti che si compiacciono della propria ignoranza sentenziando: «Ah, questi vecchi dogmatismi che puzzano di naftalina … Ah, che spirito tridentino!». Quello di Trento fu un concilio grandioso che i Padri del futuro Concilio Vaticano II apprezzarono e richiamarono in modo sapiente in tutti i loro fondamentali documenti, a partire dalle Costituzioni Lumen gentiume Dei verbum.
Affermazioni del genere sono delle autentiche scempiaggini,ma vediamo come mai alcuni le pronunciano con disinvolta convinzione. Anzitutto perché confondono il termine “assoluto” ― che in tutte le religioni giudeo-cristiane, nella filosofia metafisica, nella teologia dogmatica e nella teologia fondamentale ha un significato ben preciso legato alla assolutezza della fede rivelata[14] ― con quello che invece è “l’assolutismo” di tipo politico. Il Santo Vangelo è pieno di espressioni categoriche e assolute pronunciate da Gesù Cristo, per esempio: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Cristo non fornisce altre opzioni, ma ne offre una sola e assoluta, perché Lui, il Verbo di Dio incarnato è l’Assoluto generato non creato dall’Assoluto, allo stesso modo in cui lo Spirito Santo è l’Assoluto che procede da Dio Padre e da Dio Figlio, essendo a sua volta Dio Spirito Santo. E quando nel Simbolo di Fedenoi professiamo di credere la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, enunciamo un assoluto, come in varie altre parti del Credone enunciamo altri, posto che Cristo sulla Terra ha fondato una sola Chiesa, non una molteplicità di chiese.
Se la formazione del sacerdote è fatta in modo superficiale senza che siano a lui fornite delle basi molto solide, appena si troverà inserito come prete nel mondo, rischia di fare la fine della canna spezzata dal vento, se non peggio: divenire un vero e proprio corruttore del Popolo di Dio.
CHI NON È IN GRADO DI REGGERE LA SOLITUDINE NON DOVREBBE DIVENTARE PRETE
La solitudine è quella compagna sgradita che spesso segue il prete nel corso della sua esistenza, a meno che non si muti in cristologica solitudine, per questo non si pentirà di averla scelta. Anche Cristo, nelle ore più tragiche della sua vita, restò solo, abbandonato da quegli stessi che Egli aveva scelti a testimoni e compagni della sua esistenza e che aveva amati fino alla fine (cfr. Gv 13, 1), ma dichiarò: «Io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32). Se certi preti, anziché inventarsi un egocentrico concilio mai celebrato dai Padri della Chiesa, studiassero veramente i documenti del Concilio Vaticano II e certi documenti del successivo magistero del Santo Pontefice Paolo VI, molti dei nostri drammatici problemi sarebbero risolti con la sola lettura dell’Enciclica Sacerdotalis Coelibatuspubblicata il 24 giugno 1967.
Per questo i momenti di solitudine sono sempre degli spazi preziosi di vita, che è bene anzi ritagliarsi e vivere, perché favoriscono la preghiera profonda, la riflessione e la meditazione spirituale sul mistero della vita e della morte. Spesso, durante le direzioni spirituali, mi capita di chiedere ai sacerdoti: … ma tu, mediti mai sulla morte? Se a questa domanda il prete mi risponde in modo scherzoso dicendo «Ah, ma per pensare alla morte c’è tempo!», o se peggio mi viene risposto «sono talmente impegnato in tante attività che alla morte non ci penso proprio» … ecco, in quel caso capisco subito che c’è molto da lavorare sulla spiritualità del prete, o forse sulla sua debole o a volte persino assente spiritualità. Troppi sono i preti che purtroppo non si distinguono per niente da quelli che possono essere i liberi volontari di associazioni non governative, troppi e sempre di più. Con alcuni è possibile lavorare, ottenendo anche buoni risultati, con altri purtroppo no, perché è mancata proprio la basilare formazione del prete.
Esiste però anche un altro genere di solitudine, quella che nasce da forme di abbandono o di isolamento. Non pochi sono i sacerdoti lasciati a sé stessi dai loro vescovi impegnati in tutt’altre faccende a loro dire sempre e di rigore più importanti, per potersi occupare dei propri preti. A quel punto nasce per prima cosa la disaffezione tra il prete e il proprio vescovo. Cosa grave e pericolosa, perché il sacerdozio del presbitero è intimamente e inscindibilmente legato alla pienezza del sacerdozio apostolico del vescovo[15]. Appena il prete incomincia a sentirsi abbandonato dal vescovo e dai propri confratelli, anch’essi affaccendati in molte cose sempre e di rigore più importanti della fraternità sacerdotale, a poco a poco incomincia a isolarsi. E da questi due elementi pericolosi che sono “isolamento” e “solitudine” può nascere veramente di tutto e di più.
Vorrei evitare di scendere in certi dettagli,quindi proverò a dare in modo delicato almeno un’idea del mio ministero con i sacerdoti, spiegando a che cosa possa portare quella solitudine che genera abbandono e conseguente senso di isolamento. Ecco allora casi di sacerdoti che cadono in forme più o meno gravi di depressione, che cadono nell’alcolismo, alcuni nell’uso delle droghe, altri nella dipendenza molto dannosa da internet con tutto ciò che questo strumento può comportare e offrire, o in frequentazioni di persone e ambienti per così dire … molto poco raccomandabili. Sacerdoti che si sentono inutili perché vorrebbero dare ma che ritengono di versare o di essere stati messi nella condizione e nella impossibilità di poter dare …
I PRETI SONO QUANTO DI PIÙ DELICATO CON IL QUALE UN PRETE PUÒ RITROVARSI A TRATTARE
Con certi vescovi ho cessato di discutere sin da quando ho capito che se il dono della paternità non l’hai ricevuto, o più semplicemente non lo hai mai sostanzialmente acquisito e sviluppato, non ti viene certo infuso al momento in cui ti mettono un anello alla mano, una mitria sulla testa e incominciano a chiamarti “Eccellenza Reverendissima”.
Come hanno risolto certi problemialcuni vescovi molto lungimiranti? Presto detto: mettendo a disposizione dei preti degli psicologi, preferibilmente donne, alcune delle quali provenienti persino dalla scuola freudiana e lacaniana. A quel punto perché non dare direttamente cattedra ai corsi filosofici presso gli studi teologici dove si formano i nostri futuri preti a degli ideologi marxisti? Chiariamo: che un prete possa avere bisogno di un bravo medico specialista in psichiatria è cosa del tutto possibile. Io stesso sono in stretto contatto con due bravi ed esperti psichiatri cattolici ai quali varie volte ho indirizzato miei confratelli che avevano evidente bisogno di supporti clinico-psichiatrici, o perché versavano in stati depressivi, o perché affetti da nevrosi ossessive, o perché sofferenti per vari altri disturbi. Ma un direttore spirituale non può, né mai potrà essere sostituito con una “psicologa diocesana”, perché per aiutare un prete e sanare le ferite della sua anima occorre sempre e di necessità un altro prete, nessun altro lo può fare. E su questa moderna mania tutta quanta tedesca di distribuire “quote rosa” dentro la Chiesa in modo puramente politico e ideologico, preferisco veramente soprassedere, tanto sono infastidito da certe invadenti cattoliche impegnate e militanti che se potessero ci caccerebbero fuori per celebrare al posto nostro anche la Santa Messa.
Per i preti, trovare un bravo confessore è sempre più difficile, anche perché confessare un prete è cosa molto delicata. Trovare un bravo direttore spirituale è più difficile che trovare un bravo confessore. Se infatti il confessore è colui che ti assolve dai peccati, il direttore spirituale è colui che dirige i tuoi passi sul cammino della fede e della vita sacerdotale, che ti aiuta nella tua formazione permanente al sacerdozio e a ravvivare il dono che è in te[16]. Colui che all’occorrenza, con quella prudenza e lungimiranza frutto dei doni di grazia dello Spirito Santo, ti dice cosa fare o, in caso di necessità, ti impone proprio quel che è opportuno fare o non fare.
Tra un sociologismo e l’altro ci siamo inventati un nuovo termine che alcuni hanno ritenuto più allettante di “direzione spirituale”, quello di … “accompagnamento spirituale” (!?). Anche in questo caso è necessario chiarire: dirigereeaccompagnaresono due cose totalmente diverse. Purtroppo certi ecclesiastici non hanno imparato niente dai clamorosi fallimenti sociali ed educativi che si sono consumati pochi decenni fa, quando nei poco gloriosi anni Settanta del Novecento la psicologia selvaggia lanciò la moda dei “genitori amici”, in un fiorire di pensierini e di temi scolastici in cui i bimbi spiegavano: “… il mio papà è il mio migliore amico”, mentre le bambine scrivevano che “la mia mamma è la mia migliore amica”. E una volta divenute adolescenti si sono ritrovate con madri diseducative che pretendevano di fare le teenagerandando a ballare con le figlie, se non peggio rubando alle figlie i fidanzati.
Il genitore, padre e madre, sono tutt’altra cosa.Non sono degli amici del cuore che accompagnano, sono gli educatori che dirigono i figli, il punto fermo e fondamentale della loro crescita, coloro che all’occorrenza gli alzano la voce e dicono di no, o che se necessario proibiscono di fare una cosa sbagliata e dannosa.
Curare l’anima di un prete è difficile come lo è per un medico curare un altro medico, o come per un chirurgo portare in sala operatoria un altro chirurgo.
NEPPURE IO TI CONDANNO. E ADESSO VAI E NON PECCARE PIÙ!
Quando infine molti sacerdoti hanno preso coraggio e vuotato il sacco narrandomi le peggiori cose e le loro peggiori gesta, a volte a testa basta, spesso e volentieri piangendo, mi hanno chiesto: «Ma tu, non provi disgusto per me?». Con molto affetto ho ricordato loro il brano del Santo Vangelo del Beato Evangelista Giovanni in cui si narra della prostituta che stava per essere lapidata. Prima però, i farisei, posero un quesito provocatorio a Gesù «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Rispose loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Poi disse alla donna: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 7, 53-8,11).
Quella pubblica peccatrice è una persona reale, ma al tempo stesso un paradigma, perché tutti siamo prostitute e nessuno di noi potrebbe lanciare la prima pietra vantando di non avere peccato. Per questo ho sempre risposto al quesito di certi sofferenti dicendo che non provavo disgusto ma senso di amorevolezza per il peccatore pentito cui potevo solo dire in sacerdotale coscienza … neppure io ti condanno, adesso vai in pace con Dio e d’ora in poi non peccare più.
Che un peccatore possa assolvere dal peccato un altro peccatore,o che un peccatore possa guidare un altro peccatore sul giusto cammino, non è cosa illogica, ma costituisce da sempre una delle principali ratiodel grande mistero della fede. Il Beato Apostolo Paolo scrive «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5, 20) e nella notte di Pasqua, quando si benedice il cero simbolo della luce del Cristo risorto, sulle parole dell’Aquinate si canta nel Preconio: «O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!»[17].
La cosa peggiore che si può fare con un sofferente afflitto,umiliato e pentito per il proprio peccato, è quella di investirlo con rimproveri e giudizi morali. In pratica come se il medico di un pronto soccorso, anziché chiudere una ferita aperta che sanguina, ci mettesse del sale sopra.
PER FARE LO STUDIOSO NON È NECESSARIO DIVENTARE PRETE
La teologia non può essere una semplice speculazioneintellettuale fine a sé stessa, ma una orante e incessante ricerca della verità, cosa questa che si realizza soltanto pregando e studiando, ma soprattutto tenendo sempre fisso all’orizzonte il monito: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31), vale a dire quella verità di cui siamo servitori e non certo padroni. O come diceva San Tommaso d’Aquino: «Non sei tu che possiedi la verità, ma la verità che possiede te». Ritengo inaccettabile, anzi aberrante che siano tutt’oggi tollerati preti-teologi che non hanno alcun concreto rapporto con la reale vita pastorale, che da anni non entrano in un confessionale, che tengono lezioni accademiche ma che non predicano nelle chiese o che non saprebbero neppure da che parte incominciare nel dare il Sacramento dell’unzione degli infermi. È inaccettabile che l’attività di questi soggetti si limiti alla celebrazione della Santa Messa al mattino in una cappella di anziane religiose per poi dedicarsi a tutt’altre faccende. Questo genere di preti non sono teologi, ma veri e propri mostri. Personalmente non sono mai riuscito a concepire la teologia scissa dalla concreta vita ecclesiale, pastorale e sacramentale. Il sacerdote, quello che svolge il ministero di parroco in modo particolare, ha delle precise responsabilità verso il Popolo di Dio, basate sul principio di priorità. Esempio: non si spediscono le pie donne a portare la Santa Comunione agli ammalati perché a loro dire impegnati in inderogabili … attività pastorali (!?) Fossi il vescovo di certi preti non esiterei a richiamarli severamente precisando che se da una parte c’è il consiglio parrocchiale o una serata con i giovani e dall’altra un infermo da visitare, il prete lascia il consiglio e i giovani e si reca dall’infermo, anziché spedirvi la pia donna. Sorvoliamo poi su quei parroci che a tutti danno la chiave del tabernacolo ma a nessuno darebbero mai la chiave della cassa dove tengono i soldi o della loro automobile personale. Sorvoliamo, posto che noi siamo i custodi della Santissima Eucaristia e non certo dei quattrini, oltre al fatto che se i vescovi devono richiamare i preti, spesso lo fanno per cose talmente risibili e ridicole che riportano alla mente il moscerino filtrato e il cammello ingoiato (cfr. Mt 23, 24).
NON INTERESSANO LE TUE OPERE, CONTA LA FORMA. QUEL SOGGETTO VOLGARE E INOPPORTUNO DI GESÙ CRISTO CHE NELLA FORMA DIFETTAVA GRAVEMENTE
È necessario fare ricorso a un esempio personaleche se potessi eviterei, ma purtroppo è utile per rendere chiaramente l’idea. Uno dei vari preti che ho assistito e che dopo alcuni anni è uscito da una brutta depressione, a vari suoi intimi e confratelli ha affermato: «Se quella sera, dopo un lungo colloquio telefonico, Ariel non fosse partito alle 17 del pomeriggio da dove si trovava, per fare 500 chilometri e giungere da me poco prima di mezzanotte, forse, al mattino, mi avrebbero trovato a penzolare con una corda attaccata al collo». Pur malgrado, a fronte di questo mio lavoro pastorale, è accaduto che ci si sia rivolti a me più volte con delle lettere unicamente per sollevare rimproveri basati sul «… mi hanno detto che … alcuni si sono lamentati per certi tuoi scritti … per i toni che usi…». I miei scritti contengono forse elementi o espressioni in contrasto con la dottrina della fede e la morale cattolica? Ovvio che no, la dottrina della fede e la morale cattolica le difendo e le diffondo. Dunque? Presto detto: la forma. Evidentemente, chi si attacca alla forma, non ha mai letto le invettive di Gesù Cristo contro gli scribi e i farisei, o se le ha lette, forse non ne ha proprio colto sia la forma che la sostanza (cfr. Mt 23, 1-39). Per comprenderne la portata e la gravità offensiva basterebbe accantonare il surreale Vangelo fatto di danze al ritmo dei bonghi di certi Neocatecumenali, o quello delle stelline e dei cuoricini palpitanti e degli svenimenti emozionali di certi carismatici e focolarini per imparare un po’ di esegesi novo testamentaria. Per esempio, vediamo che cosa voleva dire rivolgersi in questi toni a degli alti notabili e a dei membri della casta sacerdotale:
«sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume».
Chiariamo: la Legge, ossia la הלכה e il תַּלְמוּד consideravano il cadavere la quintessenza della impurità. Ai כּוהנים membri della casta sacerdotale in particolare era proibito non solo avere contatti con i cadaveri, ma non potevano avvicinarsi neppure a distanza ai luoghi di sepoltura, perché sarebbero caduti in stato di impurità (טָמְאָה). Per tornare puri (טָהוֹר) avrebbero dovuto sottoporsi a lunghi e meticolosi rituali di purificazione per la durata di 30 giorni. Presto detto: se Gesù Cristo si fosse rivolto a loro dicendo וזה חרא טוטאלי (siete dei pezzi di merda), per la cultura giudaica dell’epoca e dinanzi alla Legge sarebbe stato molto meno offensivo. Per non parlare dell’epiteto «razza di vipere», una offesa di una gravità inaudita, non solo perché il serpente era l’animale più impuro (טָמְאָה), ma perché era il simbolo biblico per antonomasia del male. Non solo Gesù Cristo paragona questi “ecclesiastici” a dei serpenti, perché fa molto di peggio: li chiama «razza». Cosa terribile, perché non solo offende loro, ma addirittura l’intera ascendenza dei loro antenati. Presto detto: la nota espressione romanesca «li mortacci tua» a confronto è davvero niente. Ecco, avrei gradito che coloro che una tantum mi hanno mandato la letterina di rito per informarmi «mi hanno detto che … hanno protestato perché …», avessero invitato certi clericali suscettibili a studiare il vero significato di certe espressioni del Nuovo Testamento, perché delle due cose l’una esclude l’altra: o sono ignoranti loro, oppure leggiamo e predichiamo proprio due Vangeli diversi. Il Vangelo che mi fu messo in mano e consegnato prima quando fui ordinato diacono e poi quando fui consacrato sacerdote è il Vangelo di Gesù Cristo, non quello prodotto dalla industria Perugina che dentro i suoi baci al cioccolato mette delle cartine con dei teneri pensierini struggenti. A me il Vescovo disse «conformati alla croce di Cristo», in ossequio al comando del Divino Maestro che ci invita a prendere la nostra croce e seguirlo (Lc 9, 23). Nessuno mi ha mai detto di conformarmi alla Perugina e di lanciare manciate di bacetti al cioccolato ai Christi fideles, o di annunciare un Vangelo annacquato quanto basta per non irritare e offendere nessun cuoricino emozionale. E la croce è molto “brutta” sia nella forma che nella sostanza, è uno strumento di tortura a tal punto infame che i cittadini romani non potevano essere condannati a questo supplicium more maiorum, neppure i peggiori criminali[18]. Per questo Pietro, giudeo, fu condannato alla crocifissione, Paolo, civis romanus, fu invece decapitato, perché in quanto cittadino romano non poteva essere crocifisso.
Ovviamente su certe proteste rido,perché non ritengo meritino lacrime, se infatti si deve proprio soffrire, è bene farlo per delle cose serie, non per dei permali clericali che umiliano chi li esprime e non certo chi ne è reso oggetto, sempre sulla base del principio di quanto taluni sono in parte bravi e in parte irrazionali quando decidono di scansare il moscerino e ingoiare poi un intero cammello (cfr. Mt 23, 24).
«TU HAI CRITICATO IL SOMMO PONTEFICE»
Desidero chiarire questa falsa accusa che più volte mi è stata rivolta: chi estrapola da miei scritti o libri una frase, la manipola e poi mi accusa di avere criticato il Sommo Pontefice, mente e dice il falso. Nella mia vita sacerdotale ho sempre applicato il principio del Santo Padre e Dottore della Chiesa Ambrogio Vescovo di Milano che disse:
«Dite al Papa che dopo Gesù Cristo per noi viene solo lui e che lo amiamo e veneriamo, ma ditegli anche che la testa che Dio ci ha dato non intendiamo solo usarla per metterci un cappello sopra».
È vero che ho criticato nel corso degli anni certi discorsi e scelte pastorali del Sommo Pontefice Francesco; è vero che mi sono sentito profondamente ferito vedendo il Sommo Pontefice lavare i piedi alla Missa in Coena Dominia carcerati e prostitute nel giorno in cui si festeggia la istituzione della Santissima Eucaristia e del Sacerdozio; è vero che sono rimasto imbarazzato nel vederlo a Lund accanto a una “arcivescova” dichiaratamente lesbica e convivente con la sua compagna rivestita delle insegne episcopali; è vero che ho pubblicato un libro nel quale esprimo le mie perplessità sullo stile espressivo sociologico e la mancanza di chiarezza che serpeggia in alcune pagine di Amoris Laetitia, ma non ho mai criticato i suoi contenuti magisteriali. Ci sono decine di miei articoli che testimoniano con quale fedeltà, all’occorrenza con quale durezza ho richiamato certi sacerdoti e fedeli all’obbedienza che siamo tenuti a prestare al Romano Pontefice, che può essere oggetto di critiche, anzi deve esserlo, per il bene suo e del suo ministero petrino. Sempre chiarendo che un conto è avanzare critiche a discorsi fatti a braccio in modo colloquiale, oppure durante le fasi di studio di certi problemi, quando si può e si deve disputare di tutto, però, se il Sommo Pontefice pubblica un atto di magistero o dà una disposizione in forma di motu proprio, in quel caso si ubbidisce, si esegue e si ricorda a certi fedeli che sono capaci a porsi come giudici al di sopra della Cattedra di Pietro, che se il Successore del Beato Apostolo Pietro stabilisce e dispone, ogni discorso è chiuso, si deve solo prestargli ossequio nell’obbedienza della fede.
Qualcuno vuol forse negareche nel corso degli anni ho sollevato questioni e proposto soluzioni che tempo dopo sono divenute atti del magistero dati in forma di motu proprio? Ne cito uno tra i tanti: Traditionis Custodes. Due anni prima dell’uscita di questo documento pubblicai un articolo critico dove spiegai che sarebbe stato opportuno revocare, o perlomeno correggere il motu propriodel Sommo Pontefice Benedetto XVI, che nel 2007 concesse l’uso del Messale di San Pio V, presto trasformato in pretesto da molti circoli di cosiddetti “tradizionalisti” che lo hanno usato come una mazza ferrata per attaccare il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica del Santo Pontefice Paolo VI. Nella Chiesa possono esistere e convivere assieme opinioni diverse, che sono sempre di importante e prezioso stimolo, non però due partiti in lotta su una materia delicata come la sacra liturgia, perché l’Eucaristia è il cuore dell’unità della Chiesa e nessuno può usarla per creare divisioni ideologiche.
Ho sempre detto e affermato che il Sommo Pontefice Francescoè un uomo gravato come tutti noi dai propri limiti e difetti, ma ho sempre aggiunto e ripetuto: il Beato Apostolo Pietro rinnegò il Divino Maestro per tre volte, imprecando, giurando il falso e dandosi alla fuga. Nulla di questo ha mai fatto il Santo Padre Francesco eletto da un Conclave di Cardinali, al contrario di Pietro che fu scelto invece da Cristo in persona, chissà, forse proprio perché incarnava tutte le nostre fragilità umane?
Permettetemi comunque di sorridere all’idea che queste critiche mi siano rivolte da certi clericali velenosi, quelli che non esitano a rifiutare ― per dirne solo una ― la nuova versione del Pater Noster. A chi mi ha domandato se la nuova versione mi piaceva non ho esitato a rispondere di no, ma ho subito chiarito: che a me piaccia o no è cosa irrilevante, perché come pregare e insegnare a pregare al Popolo di Dio me lo dice e me lo comanda la Chiesa, mio obbligo e dovere è seguire gli insegnamenti della Chiesa mater et magistra. E quante volte, durante i colloqui e le direzioni spirituali ho ripetuto a molti sacerdoti: «Meglio fare la cosa sbagliata in obbedienza al Sommo Pontefice e al proprio Vescovo, piuttosto che fare la cosa giusta in disobbedienza a quanto il Sommo Pontefice o il Vescovo hanno stabilito e richiesto».
Detto questo torno a ribadire:oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa.
QUEI VESCOVI CHE NON ESITANO A SACRIFICARE I PROPRI PRETI PUR DI PIACERE A TUTTI I COSTI A UN ESERCITO DI LAICI INSOLENTI E ARROGANTI
Quei vescovi che per loro quieto vivere non esiterebbero a sacrificare i propri preti sono dei pastori indegni e pericolosi. I presbiteri devono costituire il primario interesse del vescovo, perché è grazie ad essi che può esercitare la pienezza del proprio sacerdozio apostolico, allo stesso modo in cui i presbiteri esercitano il proprio sacerdozio in virtù del sacerdozio apostolico del vescovo. Il buon vescovo non è colui che dinanzi a un prete afflitto e smarrito lo mette subito in guardia dicendogli «non voglio problemi!», ma colui che lo accoglie dicendogli l’esatto contrario: «Il mio compito primario di padre e pastore è quello di aiutarti a risolvere i tuoi problemi e restituirti serenità». Il buon vescovo non è quello che passa sopra a tutto, a partire dai peggiori capricci dei fedeli, nel tentativo di piacere a tutti e di non scontentare nessuno, ma colui che all’occorrenza cerca proprio di non piacere, perché chi piace a tutti rischia alla fine di non piacere a Dio.
Due le figure degli Apostoli che venero particolarmente,ai quali mi ispiro e coi quali in un certo senso mi identifico caratterialmente: Giovanni e Paolo. Spesso mi chiedo: in quanti conoscono veramente il Beato Apostolo Paolo? Se analizziamo in profondità le Lettere Apostoliche e gli Atti degli Apostoli non emerge un carattere facile, bensì un soggetto che non ne lasciava passare una. Lo provano i suoi disaccordi con il Beato Evangelista Marco (cfr. At 13,13; At 15,37-38), verso il quale in seguito si tranquillizza (cfr. Col 4,10). Ebbe accesi disaccordi con il suo discepolo Barnaba (At 15,39-40; Gal 2,13). Per non parlare dell’accesa disputa con il Beato Apostolo Pietro (Gal 2,11-16), con il Beato Apostolo Giacomo che capeggiava la corrente giudaico-cristiana (cfr. At 15; Gal 2). Quando si afferma che alla partenza di Paolo «la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (cfr. At 9,30-31) temo proprio che molti non riescano a cogliere quanto questa frase suoni ironica, perché tradotta in altri termini equivale a dire … «Meno male che si è tolto di torno!». Come però già detto in precedenza, queste sfumature sfuggono agli ideatori e diffusori del Vangelo surreale e sentimentale dei pensierini impressi sulle carte dei Baci Perugina.
Il Beato Apostolo Paoloscrive al proprio discepolo Timoteo: «Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro» (I Tm 3,1). Non ho mai aspirato all’episcopato e non intendo aspirarci, ma nei termini paolini e in un contesto storico analogo vi aspirerei anch’io. Ma vediamo cosa intende il Beato Apostolo con questa frase scritta in un’epoca nella quale i vescovi e i presbiteri rischiavano seriamente la vita, perché durante le prime grandi persecuzioni erano considerati i principali sobillatori di un gruppo di fuorilegge noto come cristiani o come seguaci del Nazareno. Non a caso gli Apostoli, primi vescovi creati da Cristo Signore, fecero questa fine: Giacomo ucciso con la spada per ordine di Erode Agrippa in Giudea. Pietro crocifisso a Roma durante le persecuzioni di Nerone. Matteo ucciso a colpi di ascia. Bartolomeo detto Natanaele ucciso in Armenia a colpi di frusta. Andrea crocifisso in Grecia su una croce a forma di “X”. Mattia, che sostituì Giuda nel Collegio Apostolico, si presume sia morto martire. Tommaso ucciso a colpi di frecce nell’attuale Kerala. Luca impiccato a un albero dai sacerdoti greci. Giuda Taddeo ucciso a Odessa. Simone lo Zelota crocifisso in Britannia. Giacomo il Minore lapidato nella Giudea. Filippo morì nella Frigia inchiodato a un albero. Giovanni, morto secondo la tradizione quasi centenario, fu l’unico degli apostoli a non essere martirizzato. Questo ciò che comportava all’epoca in rischi l’episcopato indicato come meritevole aspirazione dall’Apostolo Paolo, anch’esso martirizzato alle Acque Salvie in Roma. Il giorno in cui torneremo a situazione diverse, ma comunque analoghe, vedrete bene con quale fretta ci libereremo all’istante dalla piaga dei carrieristi!
Il Santo Vangelo che da sempre lascia un segno indelebile nella storia non è tanto quello predicato, ma quello praticato, per quant’è vero che siamo chiamati a essere testimoni viventi del Cristo verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo (cfr. Lc 24,48). Come infatti sta scritto: «Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2, 18). E oggi, la nostra fede, quella di noi sacerdoti avanti a tutti, è messa seriamente alla prova, perché non siamo più protetti e tutelati all’esterno dalla società, ma soprattutto all’interno della Chiesa, ridotta oggi a una struttura che cade a pezzi in stato di decadenza avanzata. Non ci resta dunque che cercare di passare dalla porta stretta, perché, come sta scritto: «[…] molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24). E riuscirci oggi è meno facile di quanto lo fosse ieri. Ecco, la nostra grande prova da superare: la prova della fede.
dall’Isola di Patmos, 7 aprile 2023
Giovedì Santo – Istituzione della SS. Eucaristia e del Sacerdozio Ministeriale
La cd. Missa Sicca era solitamente celebrata nel pomeriggio, in occasione di funerali o matrimoni, dopo che il sacerdote aveva già celebrato nel corso della mattina e non poteva celebrare altre Sante Messe dopo le ore 12. Consisteva nella celebrazione di una Santa Messa in cui erano omessi i riti di offertorio, la Preghiera Eucaristica (consacrazione delle sacre specie) e la Santa Comunione.
[2]Cfr. Giovanni Bona, Rerum liturgicarum, libr. duo, I, xv.
[3]Cfr. Karl Marx nell’opera Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, edito nel 1869. La frase completa è: «Hegel fa notare che tutti i grandi personaggi e i grandi fatti della storia tendono a ripetersi due volte. Si è solo dimenticato di precisare: la prima volta come tragedia la seconda come farsa».
[4]Cfr. Sant’Ambrogio, De dignitate Sacerdotis; Sant’Agostino, in Ps. 37; San Bernardo di Chiaravalle, Sermo ad Pastor. In Syn; San Gregorio Nazanzieno, Sermo 26 de Sanct. Petr.; San Girolamo, Sermo de Corpore Christi; San Pier Damiani, Sermo 28; S.S. Innocenzo III, Nova quaedam de Poen. Rem.; San Bernardino da Siena, om. I, Sermo 20, art. 2, c.7; San Bernardino da Siena, Tom.I, Sermo 20, art. 2, c. 7.
[5]Cfr. Joseph Ratzinger, meditazione alla IX stazione della Via Crucisdel Venerdì Santo 2005: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il Sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore».
[7]Cfr. Bernardo di Chiaravalle, Trattato buono per ogni Papa, adattato a Eugenio III, anno 1145.
[8]Cfr. Caterina Benincasa, Lettera al Sommo Pontefice Urbano VI ad Avignone (1378-1389).
[9]Cfr. Alfonso Maria de’ Liguori, Homo apostolicus, anno 1759.
[10]Cfr. Antonio Rosmini, Sulle cinque piaghe della Chiesa, trattato dedicato al clero cattolico, anno 1848.
[11]S.S. Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 2003.
[12]Cfr. Messale Romano, Sacro rito della ordinazione dei presbiteri.
[13]Cfr. S.S. Paolo VI, omelia pronunciata il 29 giugno 1972 per la festa dei Santi Pietro e Paolo.
[14]Dichiarazione Dominus Jesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000.
[15]S.S. Paolo VI, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteriPresbyterorum Ordinis, 7 dicembre 1965.
[16]S.S. Giovanni paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, 25 marzo 1992.
[17]San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 1, a. 3, ad 3.
[18]Leges Regiae, maximae poenae, in pars Supplicium more maiorum: crucifixio.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2023-04-06 15:35:222023-04-07 19:18:19Venerabili Fratelli Sacerdoti, la Chiesa sta vivendo una crisi senza precedenti e noi stiamo vivendo la più difficile delle prove: la grande prova della fede
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