Povertà è riconoscere e custodire quanto ricevuto: i piccoli passi di Leone XIV per un pensiero cristiano sulla povertà

POVERTÀ È RICONOSCERE E CUSTODIRE QUANTO RICEVUTO: I PICCOLI PASSI DI LEONE XIV PER UN PENSIERO CRISTIANO SULLA POVERTÀ

Ci piacerebbe assistere ad altri passi concreti nel cammino di una povertà teologica e pastorale che interessi, ad esempio, la dignità del culto e delle chiese, cosa che il Serafico Padre San Francesco curava molto e non disdegnava di togliere qualcosa alla propria mensa per onorare la casa e l’altare del Signore donando la giusta dignità.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Ironizzava Indro Montanelli: «La Sinistra ama talmente i poveri che ogni volta che va al potere li aumenta di numero», così scriveva riferendosi a un concetto ideologico di povertà appartenente ad alcune correnti politiche.

(Gli aforismi di Indro Montanelli)

Questo grande maestro del giornalismo italiano conosceva bene la vita delle persone e la storia d’Italia e si era accorto come taluni paladini sociali non custodiscono e accompagnano la povertà e il povero ma lo utilizzano, spesso creando delle riserve protette in cui i termini di “povero” e di “povertà” vengono innalzati come un paravento per coprire le proprie distorsioni di pensiero o di illeciti.

Questo pericolo di travisamento non appartiene al solo mondo della politica e del sociale ma è anche presente all’interno della fede, in cui una condizione come quella della povertà bene si presta a trasmutare in qualcosa di alienante da Dio e dall’uomo. La storia del francescanesimo, ad esempio, conosce bene il rischio di un uso ideologico della povertà, in nome della quale si sono reclamate riforme, si sono pretese revisioni di stili di vita, si sono sognate nuove fondazioni fino all’imposizione di quella povertà violenta e aggressiva che è sfociata nell’eresia. Ahimè, nulla di tutto questo ha poi portato i frutti sperati, se non quelli della dispersione e dell’ulteriore divisione. La bellezza del francescanesimo più puro — vicino non tanto all’idea del fondatore ma a quella che Cristo ci ha consegnato — sta nello scegliere liberamente con letizia la povertà del Figlio di Dio senza imporla. Senza sognare un’ideologica «Chiesa povera per i poveri» ma arricchendo la Chiesa e gli uomini di quella essenzialità dell’unico necessario che, pur essendo ricco si è fatto per noi povero per arricchirci, proprio in virtù del suo essere l’Eterno presente.

Riguardo poi alla tendenza a trasmutare il significato di un valore e la sua parola corrispondente al fine di colpire i propri nemici, oggi tale uso è piuttosto frequente. Stesso discorso possiamo fare con altre parole come amore, diritti, inclusione e sinodalità. Non si tratta di una sola questione semantica o demagogica ma anzitutto di quel peccato di superbia tutto umano e pagano di chi ha la sicura pretesa e sicurezza di poter eliminare un male oggettivo a prescindere dall’intervento di Dio usando la volontà unità ad accordi e compromessi. Come non ricordare, a tal proposito, quel presunto movimento politico italiano venuto dal basso che aveva la pretesa di aver finalmente abolito la povertà ponendosi come il paradigma del novum in ambito politico. Beh, conosciamo tutti bene l’epilogo, il movimento si è riciclato e la povertà che si era detta abolita è magicamente ricomparsa.

Non dobbiamo farci delle illusioni in fatto di povertà, lo sappiamo bene da Gesù (cfr. Mc 14,7), questa è una tra le tante macchie endemiche della nostra creaturalità peccatrice che ci accompagnerà nel pellegrinaggio terreno fino alla ricapitolazione di questo nostro mondo, fino a quando Colui che deve venire si manifesterà glorioso e avrà posto tutti i nemici sotto i suoi piedi (cfr. Mt 11,2; 1 Cor 15,21). Del resto, Gesù stesso durante il suo ministero pubblico non ha eliminato la povertà materiale e la miseria ma ha insegnato a soccorrerla e intervenire davanti alle innumerevoli tipologie di povertà umana: di cibo, di salute, di senso, di relazioni, di bene, di Dio. I suoi discepoli, nel corso dei secoli successivi, pur santificandosi dentro i diversi contesti di povertà non sono mai riusciti ad abolirla del tutto. E questo vorrà pur dire qualcosa, perché non appaia come una vittoria dell’uomo ma di Dio che nel Figlio sottomette ogni cosa. Gesù non ci ha detto solo che i poveri ci sono e ci saranno sempre, ci ha detto primariamente che Lui c’è e che bisogna necessariamente partire da questa presenza concreta del Risorto per poter portare avanti un pensiero teologico e pastorale che si possa contrapporre anche alla povertà e che realizzi nell’oggi quel già e non ancora escatologico in cui la povertà, la sofferenza, il peccato e la morte saranno definitivamente sconfitti.

Piccoli passi che partono dal Risorto e conducono a incontrare il Risorto, non moti ideologici e rivoluzionari della superbia umana ma strategie di speranza. Credo che possiamo tutti convenire in tal senso vedendo come il Pontefice Leone XIV ha messo in atto i primi segnali di un concetto teologico di povertà inteso come il riconoscimento di quanto ha ricevuto da Dio al fine di custodirlo per poterlo a sua volta tramandare.

La decisione di ritornare ad abitare presso il Palazzo Apostolico (vedi QUI, QUI). Questa decisione segue un concreto percorso di povertà e di valorizzazione di quella residenza che è stata tradizionalmente riservata al Pontefice dal 1870 fino al 2013. Si tratta certamente non solo di una localizzazione concreta all’interno dello Stato della Città del Vaticano ma di una storia che continua e della certezza di una presenza che i fedeli di tutto il mondo hanno imparato a conoscere e ad amare osservando quella finestra aperta alla domenica mattina e illuminata alla sera: stella polare che dona sicurezza e speranza ai tanti naviganti nel mare della fede. Una presenza consolatrice quella dell’appartamento papale, che nel lontano 2005 ha provocato in tutti i fedeli cristiani un tuffo al cuore in quella sera del 2 aprile quando la luce della camera del Papa si spense segno del consummatum est di Papa Giovanni Paolo II.

La scelta di Leone XIV di riprendere ad affacciarsi al balcone del Palazzo Apostolico ridisegna la vita del nuovo Pontefice e gli assicura una maggiore protezione e intimità, conforme al suo ruolo di leader politico e spirituale ma soprattutto perché quel vezzo di risiedere in Domus Sanctae Marthae stava diventando ormai troppo ingombrante anche in termini di costi. Dentro un pontificato appena trascorso che ha imbastito una buona parte della sua visibilità mediatica sulla povertà e sull’uso “altro” del denaro, come conciliare i 200 mila euro al mese necessari per la sicurezza del Pontefice? Come fa notare il vaticanista de Il Tempo in un suo contributo di domenica 25 maggio, i famosi cinquanta metri quadrati si sono dilatati fino ad occupare l’intero secondo piano della Domus (vedi QUI). Questo con un ingente adeguamento strutturale che ha richiesto degli oneri in termini monetari forse non indispensabili se si fosse mantenuto lo storico appartamento papale che adesso dovrà per forza essere ristrutturato dopo dodici anni di inutilizzo e con conseguenti spese aggiuntive. A essere rispettosi del defunto Pontefice e del suo entourage dirigenziale non possiamo non notare un palese corto circuito in tutto ciò o piuttosto un rigurgito di quella vecchia tentazione prometeica di chi vuole abolire la povertà per finire poi col cadere nell’eccesso opposto. Queste cose purtroppo si pagano doppiamente: anzitutto in senso monetario e poi come accuse pronte per essere scagliate addosso alla Chiesa e al suo Vicario.

Oltre alla ingente somma mensile di denaro per garantire la doverosa sicurezza alla persona del Papa, a ben rifletterci volendo c’è dell’altro. La Domus si affaccia su via Gregorio VII, di fronte a diversi palazzi in territorio italiano che potrebbero essere potenziali postazioni da cui far partire un’offensiva terroristica contro il Santo Padre. Non è pretestuoso pensare che il Governo italiano si sia da tempo affrettato — dal 2013 a oggi — a sventare questa possibilità non remota, pensando a un piano di sicurezza ben strutturato, magari facendo evacuare gli stabili interessati e piazzando reparti specializzati attorno alle zone più sensibili con ulteriore dispendio di denaro? E tutto questo in nome di cosa, forse della povertà? Da francescano e da parroco che ha dovuto amministrare e continua ad amministrare beni non suoi, sono certo che la vera povertà risieda nella gestione intelligente delle cose e delle strutture che già si hanno. Saper salvaguardare e mantenere efficienti le cose, non aggiungere spese non necessarie ma potenziare e migliorare quelle già esistenti: insomma partire dal minimo necessario piuttosto che dal massimo consentito.

Altro piccolo passo verso un cammino di povertà concreta è stato quello che possiamo definire come il Bonus Conclave, cioè la somma di 500 euro elargita ai dipendenti del Vaticano che venne sospesa nel 2013 in occasione dell’atto di rinuncia di Benedetto XVI e dell’elezione di Francesco. Un riconoscimento che premia il lavoro di tutti i dipendenti dello Stato della Città del Vaticano per le ulteriori fatiche in vista del Conclave e dell’elezione del nuovo Romano Pontefice. Cinquecento euro non sono molti, ma possono fare la differenza all’interno di una famiglia che può permettersi di affrontare il mese successivo con più serenità; ma più di tutto, quel che conta e viene apprezzato, è il gesto sensibile in sé verso i dipendenti. Anche in questo caso la povertà esercitata consiste nel riconoscere e premiare chi lavora per il Papa e per la Chiesa e che merita di avere una retribuzione equa e dignitosa, perché il cibo, le medicine e le varie utenze domestiche non possono essere pagate con i Pater Noster.

Concludendo, ci piacerebbe assistere ad altri passi concreti nel cammino di una povertà teologica e pastorale che interessi, ad esempio, la dignità del culto e delle chiese, cosa che il Serafico Padre San Francesco curava molto e non disdegnava di togliere qualcosa alla propria mensa per onorare la casa e l’altare del Signore donando la giusta dignità. Ci piacerebbe assistere a una carezza autentica di povertà verso i diseredati che vivono attorno al colonnato della Basilica di San Pietro che, bontà loro, ancora non sono capaci di usare i servizi igienici messi a loro disposizione e rendono via della Conciliazione con le immediate adiacenze dei veri e propri vespasiani a cielo aperto. Tante cose si potrebbero in verità fare, ma nutriamo la segreta speranza che il Sommo Pontefice Leone XIV le sappia già, perché il guaio di una povertà ideologica e gridata consiste nel rendersi conto degli immancabili disastri che qualcun altro dovrà riparare.

Sanluri, 7 giugno 2025

 

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Da Francesco a Leone XIV. Che cosa ci riserverà il futuro

DA FRANCESCO A LEONE XIV. CHE COSA CI RISERVERÀ IL FUTURO?

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Ad appena due settimane dall’elezione del Romano Pontefice Leone XIV non possiamo non notare nella Chiesa un clima di euforia generalizzata unita a quella sensazione di sollievo simile a colui che a fine giornata dismette le scarpe strette per mettersi comodamente in pantofole. Basta ripercorrere le immagini della Santa Messa di inizio pontificato per notare una piazza San Pietro molto affollata fino a tutta Via della Conciliazione, cosa che non accadeva da almeno un decennio a questa parte.

Erano presenti in molti. Non solo la gente comune ha voluto essere presente all’evento dell’inizio del ministero del nuovo Romano Pontefice ma anche diverse personalità di spicco provenienti da tutto il mondo hanno reso il loro omaggio, nutrendo in cuor loro la segreta speranza che il nuovo Capo della Chiesa potesse costituire un valido alleato politico e sociale nella scacchiera geopolitica attuale.

L’elezione di un Papa è qualcosa di straordinario, senza dubbio è un evento unico al mondo, che con una facile ironia avviene appunto a ogni morte di Papa”. Eppure, questa elezione in modo particolare si è caricata di numerose speranze e aspettative proprio per la singolarità del pontificato di Papa Francesco e di quella oggettiva eccentricità dell’uomo Jorge Mario Bergoglio di cui, all’occorrenza, abbiamo parlato con dispiacere e talora imbarazzo su questa nostra rivista, sempre con rispetto ma soprattutto a “papa vivo”, al contrario degli “eroi” che solo oggi, a “papa morto”, sollevano perplessità, critiche e persino ironie. Da qui il realistico commento del nostro redattore canonista Padre Teodoro Beccia:

«A noi che dinanzi a certe sue innegabili stravaganze, all’occorrenza abbiamo criticato il Santo Padre Francesco a viso aperto, con garbo e rispetto, adesso toccherà il compito di difenderlo da morto da coloro che in vita lo hanno esaltato, sino a sprofondare in forme di vera e propria papolatria, ovviamente tutt’altro che disinteressata, avendo poi ottenuto quanto sperato in benefici, nomine e cariche ecclesiastiche».

Facciamo attenzione, dopo ogni elezione papale c’è da parte di molti commentatori e giornalisti l’uso smodato di quel sostantivo femminile che è “continuità”, termine che significa e indica la ripresa di quella linea di governo — fatta di tradizione, idee, orientamenti e stili — che il defunto pontefice ha avuto nel suo governo della Chiesa e che il nuovo dovrebbe proseguire quasi come un lascito testamentario. A conferma del fatto, la maggior parte delle ultime previsioni sui possibili papabili vertevano tutte su profili simili al de cuius, così come insegna quella locuzione latina: Similes cum similibus. Ma la storia del papato e dei Conclavi riserva sempre sorprese e imprevisti.

Ricordo come nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, l’elezione di Benedetto XVI fu salutata come un segno di grande continuità col Predecessore. Il tempo ha poi evidenziato come i due pontificati si sono dimostrati differenti sia per storia personale, sia per stili e temperamenti e che l’unica continuità riscontrabile è stata quella presente nel comando del Signore risorto a Pietro: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17). Questi due Romani Pontefici sono stati accomunati dalla volontà di condurre la navicella della Chiesa e di pascere il popolo santo di Dio con fortezza e non senza i dolorosi calvari.

Questo per dire che regimentare un pontificato dentro aspettative personali ed eredità precedenti porta a delusioni e che la continuità che conta per un Papa è quella con Gesù Cristo e non con il suo predecessore, fosse anche un santo canonizzato. Questo è stato anche il pensiero che molti Cardinali hanno condiviso durante le ultime Congregazioni Generali in vista del Conclave ed è quello che in modo non tanto velato ha potuto esprimere anche il Cardinale Giovanni Battista Re durante la Santa Messa prima dell’ingresso in Conclave.

Tali riflessioni sparse sono positive perché ci aiutano a maturare nella conoscenza che un Papa va amato sia nel suo ministero che come figura ma allo stesso tempo siamo ugualmente convinti che il Papa, qualunque esso sia, nella sua umanità fragile e fallimentare non è un outsider e quindi ha bisogno di tutto il sostegno e il consiglio possibile, perché siamo tutti passibili di quel fallimento che il nostro direttore Padre Ariel ha magistralmente espresso in un suo recente articolo (vedi QUI).

Il Consiglio è un dono dello Spirito Santo e non un compromesso umano, è quel dono che il Salmo 16 descrive così: «Il Signore mi ha dato consiglio, anche di notte il mio cuore mi istruisce» (Sal 16, 7). Il compito di consigliare e istruire il sommo Pontefice spetta primariamente a Dio attraverso il Figlio ma anche attraverso il suggerimento, la saggezza e la mediazione del Sacro Collegio al quale spetta esercitare con generosità il dono del Consiglio verso la persona del Sommo Pontefice.

L’8 maggio, dalla loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro, abbiamo potuto vedere un Pontefice affacciarsi con visibile commozione e consapevolezza del suo ruolo, le immagini televisive non potevano nascondere la commozione degli occhi e il nervosismo che increspava le labbra. Si è presentato al mondo da Pontefice, con l’aspetto proprio di un Pontefice, per chi desiderava vedere un Pontefice e non qualcos’altro. Quel dono del Consiglio avrà lavorato efficacemente nel cuore dei Cardinali in vista dell’elezione? Noi lo speriamo, ma desideriamo augurarci che continui a lavorare negli anni a venire sia nel Collegio Cardinalizio che dentro il Palazzo Apostolico. I presupposti sembrerebbero buoni — il condizionale è d’obbligo — fin dal momento in cui Leone XIV si è affacciato al balcone della loggia della basilica abbiamo potuto percepire la sua intenzionalità di ricentrare la Chiesa sulla persona di Cristo risorto e accompagnare tutti gli uomini all’interno di un cammino di consapevolezza pasquale.

Vogliamo coltivare la virtù teologale della speranza e nutrire una realistica fiducia, senza cadere in facili “anfibologie” complottiste o nella trappola di vedere nella mozzetta, nella stola pontificia e nella croce pettorale d’oro dei segni divisivi o polemici. La presenza di tali segni non è espressione di una farsa carnevalesca o di un retaggio rinascimentale, essi rappresentano gli elementi propri di un Papa e aiutano a delineare la sua figura ben chiara, che rispetta dei canoni che non sono modaioli o politici ma che si radicano dentro un linguaggio ben preciso e che significano realtà precise. A tutta quella gente che piace al mondo che piace, gioverà ricordare che è vero che l’abito non fa il monaco, tuttavia il monaco ha l’abito, che deve indossare e portare con dignità, quale segno visibile dell’ufficio al quale è chiamato a adempiere.

Il mondo della gente che piace, dipendente dai vari look e outfit si è scagliato contro Leone XIV per via del suo apparire smaccatamente come un Papa. Sui social tra i vari commenti, il più lusinghiero, sotto le varie notizie dell’elezione, è stato: «non mi piace», e questo perché? Semplice, da diverso tempo la figura del Papa e del papato è stata destrutturata e mortificata e questo non vuole essere un attacco al predecessore di Papa Leone XVI ma solo una lettura oggettiva. Con Papa Francesco abbiamo visto il successore del Beato Apostolo Pietro presentarsi al capolinea della sua esistenza terrena in carrozzina, con un poncho sdrucito, con dei pantaloni approssimativi (forse anche con il catetere vescicale) così come uno dei tanti anziani della peggiore Residenza Sanitaria Assistita. Che cosa ha detto questo modo di apparire a quel mondo fatto della gente che piace? Nulla, semplicemente nulla, non ci sono state levate di scudi perché l’obiettivo è apparso molto chiaro fin da subito, destrutturare l’anima del papato, normalizzarlo e forse portarlo ai minimi termini e Francesco è stato in questo l’uomo giusto al momento giusto, pedina inconsapevole (forse?) ma anche uomo fragile che non ha avuto la capacità di farsi tutelare, guidare e difendere.

Penso che nessuno di noi gradirebbe portare in giro il proprio genitore anziano in condizioni di trasandatezza e di fragilità. Io che ho servito per diversi anni come cappellano ospedaliero conosco bene la realtà degli ambienti sanitari e assistenziali e posso garantire che l’ammalato, anche se allettato o terminale, non ha piacere di manifestare la sua fragilità fisica agli estranei, spesso anche con alcuni familiari, ma cerca sempre di conservare la propria dignità; eppure, con Francesco è accaduto l’esatto contrario e di questo dobbiamo dispiacerci. 

Altra particolarità di Leone XIV è stato presentarsi al mondo con le parole del Cristo risorto: «La pace sia con tutti voi», è la parola di Cristo che vince il mondo e il Papa non può che appoggiarsi sul Risorto e lasciare a lui la supremazia. Basterebbe questo saluto per poter individuare già un possibile cammino pastorale per il nuovo pontificato di Leone XIV. Un pontificato di rappacificazione che deve toccare diversi fronti: dalla più immediata Curia Romana insieme al presbiterio di Roma — ampiamente bistrattato — fino alle relazioni internazionali tra i popoli in cui la Santa Sede con il suo capo non può che dimostrare quella autorevolezza morale e materna per ricondurre l’uomo alla ragionevolezza.

Una riappacificazione necessaria, dicevo, che non può che partire dal riconoscimento di quelle ferite che sono presenti anche in seno all’immagine del papato attuale. Del resto, lo stesso Beato Apostolo Pietro iniziò il suo ministero con ferite evidenti e un passato personale da ripacificare, questo è bene ricordarlo per sfuggire la mania della papolatria sempre in agguato.

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo. Chissà che la figura della Chiesa come ospedale da campo non si realizzi in pienezza nell’attuale pontificato. C’è chi vuole vedere il novello Pontefice come colui che ricondurrà alla tradizione, c’è chi lo vuole vedere come un continuatore dell’opera di Francesco, chi un conservatore nella forma ma un novello Bergoglio nella sostanza.

Per il momento vogliamo esercitare il dubbio inteso come esercizio della prudenza e sospendere il giudizio dentro la cornice di un sano realismo. Certo di piacerebbe rivivere quello che nel libro apocrifo degli Atti di Pietro è conosciuta come la tradizione del Quo Vadis. Gesù insegna a Pietro che a Roma un Papa ci può stare solo e soltanto se si lascia crocifiggere. E con questa consapevolezza noi vogliamo fin da ora piegare le nostre ginocchia e pregare per il Santo Padre. Viva il Papa!  

Sanluri, 27 maggio 2025

 

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Leone XIV. Un inizio ruggente tra mass media, comunicazione e pace

LEONE XIV. UN INIZIO RUGGENTE TRA MASS MEDIA, COMUNICAZIONE E PACE

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Sembra che, almeno inizialmente, il mondo cattolico abbia accolto con attenzione e speranza le parole del nuovo Romano Pontefice, Leone XIV, specialmente nei suoi primi discorsi.

foto di Domenico Cippitelli European Affairs, edizione del 12.05.2025

Ad esempio, rivolgendosi ai giornalisti convenuti a Roma per il Conclave, il Santo Padre ha lanciato un messaggio di profonda semplicità e straordinaria rilevanza: un invito pressante ad abbracciare una «comunicazione disarmata», autentica e costruttiva, capace di edificare ponti di pace in un’epoca segnata da divisioni e conflitti. Questo appello non è rivolto solamente ai professionisti dell’informazione, ma a ogni uomo e donna, chiamati a riflettere sul potere trasformativo delle parole e sul loro impatto nella creazione di un futuro più sereno per l’intera umanità. Vorrei un po’ parlare di alcuni spunti che il Santo Padre ha avviato nella mia personale riflessione teologica e condividerli con tutti voi.

«Beati gli Operatori di Pace»: Il Fondamento Teologico. L’appello di Papa Leone XIV alla comunicazione di pace affonda le sue radici nel cuore del Vangelo. Il suo discorso si è aperto con una potente citazione della beatitudine: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Questa non è una semplice esortazione, ma una promessa di felicità e una definizione di coloro che sono veramente figli di Dio. Il Successore di Pietro ha chiarito che la pace di Cristo non è un’assenza di conflitto o il risultato della sopraffazione, ma un «dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita». È una pace fatta di riconciliazione, perdono e del coraggio di ricominciare.

In questa luce, la comunicazione disarmata si rivela uno strumento essenziale per costruire attivamente questa pace dinamica e trasformativa. Le nostre parole hanno il potere di sanare ferite, di ricostruire relazioni spezzate e di infondere speranza in coloro che l’hanno perduta. Essere “operatori di pace” nel nostro comunicare quotidiano significa quindi rispondere a una chiamata divina, contribuendo attivamente alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra.

Un Appello Speciale ai Giornalisti: Custodi della Verità e Seminatori di Pace. Il Sommo Pontefice Leone XIV ha rivolto un’attenzione particolare ai giornalisti, agli operatori di Mass Media, riconoscendo il loro ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica e nel raccontare la complessità del nostro tempo. Li ha ringraziati per il loro servizio alla verità, specialmente in momenti delicati come il Conclave. Tuttavia, a questo riconoscimento si accompagna una chiara esortazione alla responsabilità. Egli ha chiesto ai giornalisti di abbracciare una «comunicazione di pace», rifuggendo da un linguaggio aggressivo e dalla logica della «guerra delle parole e delle immagini». Un momento particolarmente toccante del discorso è stato il ricordo dei giornalisti incarcerati per aver cercato e riportato la verità. Papa Leone XIV ha espresso la solidarietà della Chiesa e ha chiesto la loro liberazione, sottolineando come solo un popolo informato possa compiere scelte libere e consapevoli. In questo modo, il Pontefice non solo riconosce il ruolo fondamentale dei media, ma li investe di una missione etica di primaria importanza nella costruzione di una società più giusta e pacifica.

L’Intelligenza Artificiale: potenziale immenso che richiede discernimento. Nel suo sguardo attento alle sfide del mondo contemporaneo, Papa Leone XIV ha posto una particolare ed iniziale attenzione il tema dell’intelligenza artificiale. Ha riconosciuto il suo «potenziale immenso», capace di trasformare la comunicazione e di offrire benefici all’umanità. Tuttavia, ha anche sottolineato la necessità di un «discernimento» e di una «responsabilità» condivisa nel suo utilizzo, affinché questo strumento rimanga al servizio del bene comune e non diventi «disumano».

Questo richiamo evidenzia la consapevolezza della Chiesa di fronte alle rapide evoluzioni tecnologiche e la sua volontà di guidare queste trasformazioni con saggezza e attenzione ai valori fondamentali della dignità umana. La tecnologia, quindi, non è vista come una minaccia, ma come un nuovo «spazio da evangelizzare con intelligenza e amore».

La tecnologia finalizzata alla carità sfugge alla algocrazia: al potere degli algoritmi di elaborare dati per controllare le menti e gli uomini. Una IA è macchina lavoratrice per l’uomo che in Dio cerca l’amore. Non c’è  logica di controllo e di dominio, ma servizio.

«Noi Siamo i Tempi»: L’Esortazione di Sant’Agostino alla Responsabilità Personale. A conclusione del suo discorso, Papa Leone XIV ha citato una frase di Sant’Agostino di grande profondità: «Viviamo bene, e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». Questa affermazione ci ricorda che non siamo semplici spettatori del nostro tempo, ma protagonisti attivi nella sua costruzione. La qualità del tempo che viviamo è direttamente connessa al modo in cui viviamo, alle nostre scelte, alle nostre parole.

Questo richiamo alla responsabilità individuale è particolarmente significativo nel contesto dell’appello alla comunicazione di pace. Ogni volta che scegliamo di comunicare con verità, amore e rispetto, contribuiamo a rendere i tempi «buoni». Non dobbiamo attendere passivamente un futuro migliore, ma impegnarci nel presente per costruirlo attraverso le nostre azioni e il nostro modo di relazionarci con gli altri.

La Comunicazione come Creazione di Cultura e Atto di Carità. La visione di Papa Leone XIV sulla comunicazione va oltre la semplice trasmissione di informazioni. Egli la considera uno strumento potente per la creazione di una cultura di dialogo, di incontro e di pace.1 Il Pontefice ha affermato che «la comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». In questa prospettiva, l’atto di comunicare diventa quasi una «missione», una «forma di carità».

Questo eco del pensiero del suo predecessore, Papa Francesco, che ha più volte sottolineato l’importanza di «disarmare la comunicazione» e di costruire una «cultura dell’incontro», ci invita a considerare la comunicazione non come un’attività neutrale, ma come un impegno morale e spirituale che ha il potere di edificare ponti di fraternità e di diffondere i valori del Vangelo nel mondo.

Un Cammino Insieme Verso la Pace. Un cammino verso la pace di Cristo ci insegna che anche parlare è una missione, è una forma di carità. E allora, come dice il Papa: disarmiamo la comunicazione… e costruiamo pace. Questo è solo l’inizio di un cammino che Papa Leone XIV ci invita a percorrere insieme: quello della comunicazione disarmata, evangelica, vera.

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri». Questa è una rivoluzione spirituale. Un cambio di sguardo che può trasformare le nostre relazioni, le nostre parrocchie, i nostri ambienti di lavoro. Non si tratta di essere «buonisti», ma di essere «buoni secondo il Vangelo», capaci di uno stile che non urla, non aggredisce, ma semina fiducia.

E allora, quale comunicazione vogliamo costruire? Una comunicazione che difende la verità con amore, che non è ideologica né superficiale, ma profonda e libera. Una comunicazione «che non separa mai la verità dalla carità», come dice san Paolo. Una comunicazione che sa farsi voce di chi non ha voce, che non si lascia sedurre dal potere, ma sceglie la debolezza della Croce come linguaggio di salvezza.

Il Santo Padre Leone XIV ci parla anche della «tecnologia», e in particolare dell’intelligenza artificiale, che definisce uno «strumento immenso». Anche qui, non si tratta di avere paura, ma di esercitare «discernimento». L’evangelizzazione passa anche da questi nuovi spazi: ma deve farlo con sapienza, custodendo la dignità della persona. E poi … quel passaggio finale, così agostiniano: «Noi siamo i tempi». Non dobbiamo aspettare tempi migliori. «Siamo noi a renderli tali», ogni volta che scegliamo la verità, il perdono, la speranza.

Allora domandiamoci, davvero, con sincerità: «quali tempi vogliamo costruire oggi nel mondo?» Un tempo di paura o di fiducia? Un tempo sterile o generativo? Il Papa ci chiede di essere «testimoni di una cultura nuova», di una Chiesa che non si chiude ma dialoga, che non combatte ma accompagna, che non impone ma illumina. Una Chiesa che comunica pace perché vive di pace. E anche noi, vogliamo camminare in questa direzione: offrire contenuti che nutrano la fede, che costruiscano una comunità pensante e orante, capace di abitare il mondo con lo stile del Vangelo.

Ricordiamolo sempre: «per andare in Paradiso, dobbiamo cominciare a costruirlo insieme, qui e ora». Facciamolo insieme a Papa Leone.

Santa Maria Novella in Firenze, 22 maggio 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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L’inizio del ministero petrino di Leone XIV e il disincanto di un vecchio prete che spera ma non s’illude — The beginning of the petrine ministry of Leo XIV and the disenchantment of an old priest who hopes but is not deluded

(English text after the Italian)

L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO DI LEONE XIV E IL DISINCANTO DI UN VECCHIO PRETE CHE SPERA MA NON S’ILLUDE

Dio benedica il Romano Pontefice, visto che in questa condizione di disastro potrebbe fare poco o niente. Però, dinanzi a una situazione disperata come la nostra, averci provato anche senza riuscirci, costituirà già merito di grazia e salvezza, attraverso la gloria del cristologico fallimento, perché il futuro e la lenta e dolorosa rinascita della Chiesa si giocherà tutta sulla ricerca dell’unità. Dunque: buon fallimento, Beatissimo Padre Leone XIV.

— Attualità ecclesiale —

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PDF  articolo formato stampa – PDF article print format

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Davanti a un Romano Pontefice che si presenta dignitoso, a una liturgia pontificale decorosa come non se ne vedevano da un decennio, a una piazza San Pietro gremita, dopo anni di trionfi di piazze e chiese sempre più vuote, tra i tripudi di giubilo dei laicisti delle sinistre internazionali che inneggiavano al “papa rivoluzionario”, all’udire un Romano Pontefice che parla misurando con cura le parole attraverso discorsi elaborati su contenuti dottrinali e teologici, quantomeno, dovrebbe indurmi a gioire con entusiasmo. Sì, posso anche rallegrarmi, ma non riesco a gioire, né ad essere entusiasta.

Il Santo Padre Leone XIV eredita la situazione incancrenita di una Chiesa che ristagna in una condizione di decadenza irreversibile e che da tempo ha superato la soglia del non ritorno, lo vado dicendo e scrivendo da 15 anni (cfr. QUI e QUI). Beninteso, più che poco, le parole mie contano niente. Figurarsi, abbiamo perduto l’abitudine di ascoltare la parola di Dio, dopo averne fatto ciò che volevamo, tra manipolazioni e surreali esegesi di comodo, cosa potrà contar mai il pensiero di un Signor Niente e di un Signor Nessuno come me? A maggior ragione mi sento di dire: se il Santo Padre riuscirà a fare solo qualche cosa, ciò non sarà molto, ma moltissimo.

Un uomo solo non può cambiare le cose, neppure Francesco d’Assisi ci riuscì, anche per questo sul finir della vita andava nascondendosi alla Verna. E poco dopo, Bonaventura da Bagnoregio, eliminate le precedenti cronache e biografie redatte da Tommaso da Celano, provvide a inventare una leggenda aurea a uso ecclesiale, politico e sociale, tanto complicata era la figura del vero Francesco, quello reale (cfr. rimando a questo articolo QUI). Questo a riprova del fatto che non vogliamo i Santi, che sono figure quasi sempre complesse, non facili da leggere, spesso provocanti e persino irritanti; vogliamo i santini da candela a uso del fitto esercito dei fedeli beoti, quelli tutti cuoricini che noi preti ci siamo sempre guardati dall’educare come si converrebbe in virtù della missione a noi affidata da Cristo. Se infatti avessimo educato e formato i fedeli, questi avrebbero finito col vedere anzitutto i nostri difetti, le nostre gravi contraddizioni, comprendendo che noi preti siamo la versione aggiornata e peggiorata degli antichi farisei dinanzi ai quali Cristo esortava i devoti credenti a fare quel che insegnavano, non quel che facevano nel loro vissuto quotidiano (cfr. Mt 23, 1-10), rimproverandoli di caricare sulla spalle delle persone dei pesi insopportabili che non avrebbero mai toccato neppure con un dito (cfr. Lc 11,46).

La macchina della Chiesa non funziona più da decenni, il motore è usurato. Le vipere rimarranno al loro posto, già si sono riciclate saltando nel giro di pochi giorni sul carro del nuovo vincitore. Toccare o rimuovere in tempi brevi eserciti di prelati che hanno mutato la curia romana in una associazione clericale a delinquere di stampo mafioso, sarebbe imprudente e pericoloso. Qualsiasi cambiamento richiede attenta riflessione, prudenza e tempo, soprattutto oggi che il Santo Padre non può fare affidamento su elementi di valore coi quali lavorare. Il suo Predecessore ha piazzato in tutti i posti chiave della curia romana ruffiani e delatori, nell’ipotesi migliore soggetti mediocri, gravati quasi sempre da problematicità morali, tanto da essere per questo ricattabili e controllabili in un sistema ormai perverso e pervertitore, quindi gestibili e all’occorrenza utilizzabili per fare del male al prossimo e diffondere le metastasi del male in tutto il corpo ecclesiale.

Il livello della formazione dei sacerdoti si è abbassato negli ultimi anni a livelli orribili, nei seminari abbiamo cresciuto generazioni di preti svezzati col latte in polvere delle emotività dei cuoricini, nutrendoli poi con gli omogenizzati dei sociologismi. Infimi, i livelli dottrinali, teologici e pastorali. Orami è pressoché prassi udire preti che durante le omelie riescono a mettere in croce tre micidiali eresie nell’arco dei primi minuti, senza neppure rendersene conto.

Cerco di esercitare la virtù teologale della speranza (I Cor 13.13), guardandomi però dal confonderla con l’illusione. Alle soglie dei 62 anni d’età sono un vecchio prete disilluso, sempre più ritirato e distante da tutti i giri e i circoli ecclesiali ed ecclesiastici che nel corso degli anni mi hanno recato il peggior male con diabolica malizia. Più volte ho dovuto difendermi da false accuse legate a fatti mai avvenuti, a gesta mai compiute, a cose mai dette e neppure mai pensate. Seguiterò a difendermi finché ne avrò voglia e forza, soprattutto finché ne varrà la pena, perché a volte non merita neppure difendersi dal falso.

Sono disilluso totalmente, pur seguitando a sperare, perché ho fede. È infatti con la fede e la speranza che si può esercitare la virtù della carità. Non so se sono realista in modo oggettivo o se i miei dolori e le tante umiliazioni patite nel corso dell’intera vita sacerdotale rendono viziata la mia analisi su ciò che pure è reale e incontrovertibile, questo lo dirà il tempo. La disillusione è la malattia più grave che si incontra nella stagione della vecchiaia, è un morbo così grave da essere definito cronico come disturbo, quindi incurabile. Dobbiamo accettare serenamente il tutto prendendo dalla vecchiaia, tra i vari elementi belli che ci può dare, l’accettazione di quei nostri limiti personali che talvolta la vita ci mette dinanzi assieme ai nostri fallimenti. 

Verrebbe da invidiare i cuoricini emotivi palpitanti con la loro “fede” fatta di stelline, di efebici Cristi androgini photoshoppati e di madonnine languide che vagano logorroiche per il mondo a distribuire messaggi e segreti tremebondi ai vari sedicenti veggenti. Invece, io che ho vissuto 38 anni nel mondo secolare prima di iniziare la formazione al sacerdozio e diventare prete a 46 anni, pur avendo viaggiato e incontrato uomini e donne delle più diverse culture e società, non ho memoria d’aver conosciuto in alcun dove dei soggetti cattivi, crudeli e malvagi come quelli che ho conosciuto nella Chiesa all’interno del clero cattolico. Mai, nella mia vita secolare, ho conosciuto esseri umani che fossero cattivi, vigliacchi, bugiardi e traditori come certi preti, che non sono affatto pochi, come qualche scandalizzata anima pia si affretterebbe a ribattere accusandomi di indugiare in tremende generalizzazioni. E più si sale nella scala gerarchica più la cattiveria, la vigliaccheria, la menzogna e il tradimento aumentano di livello quando si giunge a vescovi e cardinali.

Leone XIV non è Mago Merlino, in mano tiene all’occorrenza la ferula, o bastone pastorale, non la bacchetta magica. Cercherà di fare e, sicuramente, farà, ma non potrà fare più di tanto in questa Chiesa non più ridotta neppure a puttana, per usare l’espressione del Santo vescovo e dottore della Chiesa Ambrogio che la definì «casta meretrix», ossia «santa e puttana». Oggi la Chiesa è ridotta a un circolo grottesco di checche acide, cattive e incattivite alla massima potenza, drogate di potere e piazzate in tutte le stanze di comando, a partire dalla curia romana ubicata nella nazione con la più alta percentuale di gay di tutto il mondo: lo Stato della Città del Vaticano.

Dinanzi al mistero di Cristo e della sofferenza umana bisogna interrogarsi a fondo in che cosa consisterebbe la vita eterna, se non nel recupero di tutto ciò che abbiamo dimenticato, considerato inutile o perduto nella nostra vita terrena secondo il principio della ricapitolazione:

«[…] il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1, 1-10).

In poche pagine ho scritto il manifesto del mio fallimento consumato come uomo e come prete, sentendomi in ciò associato a quello di Cristo non accolto (cfr. Gv 1,11) tradito (cfr. Lc 22,48) e abbandonato (cfr. Mt 26,56). E tale sarebbe rimasto il Cristo: un clamoroso fallito, se non fosse intervenuta la sua risurrezione, alla quale tutti noi falliti cristologici siamo stati resi partecipi. È infatti la risurrezione del Cristo e la nostra risurrezione in Cristo a cambiare la prospettiva del fallimento e mutarlo in una tappa di passaggio, in un grande momento di grazia, in una porta di accesso alla vita eterna.

Dio benedica il Romano Pontefice, visto che in questa condizione di disastro potrebbe fare poco o niente. Però, dinanzi a una situazione disperata come la nostra, averci provato anche senza riuscirci, costituirà già merito di grazia e salvezza, attraverso la gloria del cristologico fallimento, perché la lenta e dolorosa rinascita della Chiesa si giocherà tutta sulla ricerca dell’unità (cfr. QUI). Dunque: buon fallimento, Beatissimo Padre Leone XIV.

Dall’Isola di Patmos, 18 maggio 2025

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THE BEGINNING OF THE PETRINE MINISTRY OF LEO XIV AND THE DISENCHANTMENT OF AN OLD PRIEST WHO HOPES BUT IS NOT DELUDED

God bless the Roman Pontiff, since in this condition of disaster he could do little or nothing. However, in the face of a desperate situation like ours, having tried even without succeeding will already constitute a merit of grace and salvation, through the glory of Christological failure, because the slow and painful rebirth of the Church will be played out entirely on the search for unity. Therefore: happy failure, Most Blessed Father Leo XIV.

— Attualità ecclesiale —

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Before a Roman Pontiff who presents himself with dignity, before a decorous pontifical liturgy like we haven’t seen in a decade, before a crowded St. Peter’s Square, after years of triumphs of increasingly empty squares and churches, amid the jubilation of the secularists of the international left who praised the “revolutionary pope,” hearing a Roman Pontiff who speaks carefully measuring his words through speeches elaborated on doctrinal and theological content, at the very least, should induce me to rejoice with enthusiasm. Yes, I can also rejoice, but I cannot rejoice, nor be enthusiastic.

The Holy Father Leo XIV inherits the cancerous situation of a Church that is stagnant in a condition of irreversible decadence that has long since passed the threshold of no return, I have been saying and writing for 15 years (see HERE and HERE). Of course, more than a little, my words count for nothing. Imagine, we have lost the habit of listening to the word of God, after having done what we wanted with it, between manipulations and surreal exegeses of convenience, what could the thought of a Mr. Nothing and a Mr. Nobody like me count for? All the more reason I feel like saying: if the Holy Father manages to do just a little, it will not be much, but a lot.

One man alone cannot change things, not even Francis of Assisi succeeded, which is also why he hid at the end of his life at La Verna. And shortly after, Bonaventura da Bagnoregio, having eliminated the previous chronicles and biographies written by Tommaso da Celano, proceeded to invent a golden legend for ecclesiastical, political and social use, so complicated was the figure of the true Francis, the real one. This proves the fact that we do not want Saints, who are almost always complex figures, not easy to read, often provocative and even irritating; we want candle holy cards for the dense army of the faithful childish, that we priests have always been careful not to educate as would be appropriate by virtue of the mission entrusted to us by Christ. If in fact we had educated and trained the faithful, they would have ended up seeing first of all our defects, our serious contradictions, understanding that we priests are the updated and worsened version of the ancient Pharisees before whom Christ exhorted devout believers to do what they taught, not what they did in their daily lives (see Mt 23:1-10), reproaching them for placing unbearable burdens on people’s shoulders that they would never have touched even with a finger (see Lk 11:46).

The Church machine has not worked for decades, the engine is worn out. The vipers will remain in place, they have already recycled themselves by jumping on the bandwagon of the new winner in a matter of days. Touching or removing in a short time armies of prelates who have transformed the Roman Curia into a mafia-style clerical criminal association would be imprudent and dangerous. Any change requires careful reflection, prudence and time, especially today when the Holy Father cannot rely on valuable elements with which to work. His Predecessor has placed in all the key positions of the Roman Curia sycophants and informers, in the best case mediocre subjects, almost always burdened by moral problems, so much so that they are therefore blackmailable and controllable in a system that is now perverse and perverting, therefore manageable and, if necessary, usable to harm others and spread the metastases of evil throughout the ecclesial body.

The level of priestly training has dropped to horrible levels in recent years, in seminaries we have raised generations of priests weaned on the powdered milk of the emotions of little hearts, then nourished with the homogenized baby food of sociologisms. The doctrinal, theological and pastoral levels are very low. It is now almost common practice to hear priests who during homilies manage to enunciate three heresies in the space of the first few minutes, without even realizing it.

I try to exercise the theological virtue of hope (I Cor 13.13), but I am careful not to confuse it with illusion. On the threshold of 62 years of age I am an old disillusioned priest, increasingly withdrawn and distant from all the ecclesiastical and ecclesiastical circles and circles that over the years have brought me the worst harm with diabolical malice. I have had to defend myself several times from false accusations related to facts that never happened, to deeds never done, to things never said or even thought. I will continue to defend myself as long as I have the will and strength, especially as long as it is worth it, because sometimes it is not even worth defending oneself from falsehood.

I am totally disillusioned, even though I continue to hope, because I have faith. It is in fact with faith and hope that one can exercise the virtue of charity. I do not know if I am objectively realistic or if my pains and the many humiliations suffered throughout my entire priestly life make my analysis of what is real and incontrovertible flawed, time will tell. Disillusionment is the most serious illness encountered in old age, it is such a serious disease that it is defined as chronic disorder, therefore incurable. We must serenely accept everything, taking from old age, among the various beautiful elements that it can give us, the acceptance of our personal limits that life sometimes puts before us together with our failures.

One would envy the emotional hearts and  their “faith” made of little stars, of ephebic androgynous photoshopped Christs and of languid Madonnas who wander chattering around the world distributing messages and secrets to the various self-styled seers. Instead, I who lived 38 years in the secular world before beginning my training for the priesthood and becoming a priest at 46, despite having traveled and met men and women from the most diverse cultures and societies, I have no memory of having met anywhere such bad, cruel and wicked individuals as those I have met in the Church within the Catholic clergy. Never, in my secular life, have I met human beings who were bad, cowardly, liars and traitors like certain priests, who are not at all few, as some scandalized pious soul would hasten to retort accusing me of indulging in terrible generalizations. And the higher you go up the hierarchical ladder, the more wickedness, cowardice, lies and betrayal increase when you reach bishops and cardinals.

Leo XIV is not Merlin Magician, in his hand he holds the “ferula”, or pastoral staff, not the magic wand. He will try to do and, certainly, he will do, but he will not be able to do much in this Church no longer even reduced to a whore, to use the expression of the Holy Bishop and Doctor of the Church Ambrose who defined it as “casta meretrix”, or “holy and whore”. Today the Church is reduced to a gay circle grotesque; an army of evil and vengeful gays to the maximum power, drugged with power and placed in all the rooms of command, starting from the Roman Curia located in the nation with the highest percentage of gays in the world: the Vatican City State.

Faced with the mystery of Christ and human suffering, we must ask ourselves what eternal life would consist of, if not in the recovery of everything we have forgotten, considered useless or lost in our earthly life according to the principle of recapitulation:

«to be put into effect when the times reach their fulfillment to bring unity to all things in heaven and on earth under Christ» (Eph 1, 1-10).

In a few words I have written the manifesto of my failure as a man and as a priest, feeling associated in this with that of Christ who was not welcomed (see Jh 1:11), betrayed (see Lk 22:48) and abandoned (see Mt 26:56). And Christ would have remained such: a resounding failure, if his resurrection had not intervened, in which all of us Christological failures, have been made participants. It is in fact the resurrection of Christ and our resurrection in Christ that changes the perspective of failure and transforms it into a stage of transition, into a great moment of grace, into a door of access to eternal life.

God bless the Roman Pontiff, since in this condition of disaster he could do little or nothing. However, in the face of a desperate situation like ours, having tried even without succeeding will already constitute a merit of grace and salvation, through the glory of Christological failure, because the slow and painful rebirth of the Church will be played out entirely on the search for unity. Therefore: happy failure, Most Blessed Father Leo XIV.

From the Isle of Patmos, May 18, 2025

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Più che «Buonasera» e «Buon pranzo» avevamo bisogno di un leone che ci ricordasse di «Accettare Cristo senza condizioni»

PIÙ CHE «BUONASERA» E «BUON PRANZO» AVEVAMO BISOGNO DI UN LEONE CHE CI RICORDASSE DI «ACCETTARE CRISTO SENZA CONDIZIONI»

Papa Leone nella sua prima omelia ci ha già ricordato che dobbiamo accettare Cristo senza condizioni, sebbene questa verità venga ritenuta dal mondo e dai potenti una cosa assurda, essa resta l’unica maniera per camminare da cristiani e per corrispondere al ministero petrino che da Pietro giunge fino a noi oggi.

— Attualità pastorale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Il Sacro Collegio Cardinalizio ha dato da pochi giorni alla Chiesa un nuovo Pontefice: Leone XIV. Da cattolici e consacrati, vogliamo e speriamo che questa gravosa scelta sia stata — se non proprio guidata — almeno ispirata dallo Spirito Santo in quella maniera misteriosa con cui Dio è capace di orientare il mondo e gli eventi, anche quelli che palesemente sembrano negare la sua azione e presenza.

In un mio recente articolo (cfr. QUI) ho già avuto modo di spiegare il ruolo dello Spirito Santo dentro il grande rito del Conclave, certamente l’azione dello Spirito di Dio resta il più delle volte misteriosa all’uomo e quindi è difficile voler avere la pretesa di un controllo e scandagliare tutte le sottigliezze che lo Spirito Santo intesse nella vita di noi uomini, compresa quella permissione all’errore e finanche al peccato che per l’uomo diventa l’occasione per riscoprire la grazia divina.

Come non ricordare, a questo proposito, proprio l’apostolo Pietro nel momento del suo rinnegamento, un momento di grande tragicità e infedeltà, a fronte di tutte quelle esperienze di fede che Pietro ha avuto modo di vedere stando con Gesù nei tre anni di vita pubblica. In che modo Pietro sa ripagare il Maestro dopo aver spergiurato amore e fedeltà? Con quelle parole pesanti come il piombo: «Non lo conosco». E se Pietro tenta di disconoscere Cristo, Cristo però conosce bene Pietro e il suo cuore e per questo per lui prega e lo invita preventivamente sulla strada del ritorno:

«Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).

Di questi due versetti del Vangelo di Luca l’invito alla conversione e al ritorno dell’apostolo è fondamentale. Gesù sembra quasi dire a Pietro che il suo compito di guida nella fede e di capo del collegio apostolico e della Chiesa non può prescindere dalla capacità di una continua conversione e di un ritorno in sé stesso in cui c’è lo stesso Cristo ad attenderlo. Come non vedere in ciò quello sguardo penetrante di Cristo a Pietro dopo il suo rinnegamento. Quello sguardo pieno di misericordia che penetra nell’anima, «in interiore homine», dove Pietro riconosce finalmente la verità nella Verità. E la verità è che Pietro è tale solo quando sa essere «Kephas» che nel suo significato originale che i nostri fratelli cristiani orientali sanno dare — più di quello che noi occidentali siamo soliti interpretare — significa pietra instabile e traballante. Tu Pietro sei pietra instabile finché non trovi la stabilità in Cristo che è pietra d’angolo, finché non ti fidi del suo comando a gettare le reti quando è giorno pieno e a quello di pascere le sue pecorelle, finché non ti ricordi che Cristo ti chiede di amarlo e tu puoi solo offrirgli il tuo povero bene.

Avendo davanti agli occhi della fede la persona del Beato apostolo Pietro, possiamo lecitamente domandarci che Papa sarà Leone XIV? Personalmente non desidero altro che egli sia un annunciare di Cristo risorto e che riproponga ogni giorno al mondo la fede pasquale. Questa è la cosa più urgente oggi nella Chiesa e nel mondo. I problemi ci sono, le riforme sono necessarie, la pace è un grido da invocare sempre, il dialogo, l’accoglienza e le relazioni politiche e internazionali sono buone cose ma senza la solidità di Cristo pietra d’angolo nulla di tutto questo salva e restituisce all’uomo la speranza. In questa danza della libertà umana, dovrà scomparire l’uomo Robert Francis Prevost, per lasciare finalmente il posto al Pontefice Leone XIV, il quale con fatica e sofferenza dovrà rendersi trasparente affinché in lui Cristo si manifesti.

Da fedeli cristiani siamo chiamati ad abbandonare da subito le colorate tifoserie papolatriche del “mi piace”, “non mi piace” che equiparano il Santo Padre a un leader politico o a un influencer con le proprie ideologie e i propri entourage di potere. Tutte queste cose non possono reggere alla prova della fede dell’apostolo Pietro che confessa:

«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).

Papa Leone nella sua prima omelia (cfr. nostro articolo QUI) ci ha già ricordato che dobbiamo accettare Cristo senza condizioni, sebbene questa verità venga ritenuta dal mondo e dai potenti una cosa assurda, essa resta l’unica maniera per camminare da cristiani e per corrispondere al ministero petrino che da Pietro giunge fino a noi oggi.

Altra cosa da evitare e da non sperare è quella di rendere Papa Leone XIV un emulo dei pontificati precedenti, lui non è un Francesco, un Benedetto, un Giovanni Paolo II: lui è Leone. Vivere di nostalgia, con la testa rivolta al passato, fino a farsi venire il torcicollo non appartiene ai cristiani. La nostalgia è il terreno fertile in cui nascono le divisive fazioni dei tradizionalisti, dei progressisti, dei sedevacantisti e di altri patologici modi di essere e di sentire che si contrappongono e soffocano la vera fede pasquale.

Assistere in questi giorni ai vari tentativi di tirare per la mozzetta il Papa per portarlo dalla propria parte — ecclesiale e politica — è uno spettacolo disdicevole e puerile. Il tempo saprà darci il polso di questo nuovo pontificato in cui lo Spirito Santo — così come quella simpatica famigliola di gabbiani che hanno fatto il nido vicino al comignolo della Sistina — starà a vigilare affinché la barca della Chiesa non venga definitivamente affondata dai marosi.

Sanluri, 12 maggio 2025

 

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La partita fondamentale del futuro e del nuovo papato si gioca sull’unità della Chiesa

LA PARTITA FONDAMENTALE DEL FUTURO E DEL NUOVO PAPATO SI GIOCA SULL’UNITÀ DELLA CHIESA

Significativamente la storica Lucetta Scaraffia rileva l’impossibilità, dopo 12 anni di pontificato, di cogliere un’eredità di Papa Francesco, che non sia quella della mera confusione. 

— Gli Autori ospiti de L’Isola di Patmos —

Autore
Antonio Caragliu
avvocato

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PDF  articolo formato stampa

 

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L’info-intrattenimento dei mass-media, dopo i pronostici del toto-nomine papale, si concentra ora nel determinare i caratteri della personalità vincente: Leone XIV.

il Sommo Pontefice Leone XIV in visita pastorale nella regione delle Ande peruviane all’epoca in cui era Vescovo di Chiclayo

Continuerà le riforme del predecessore? Confermerà le sue aperture? Come porterà a termine il percorso sinodale? É moderato? È progressista? È un po’ l’uno e un po’ l’altro? È misericordioso con i migranti? Andrà d’accordo con Donald Trump? A simili interrogativi seguono per lo più affermazioni che suonano come slogan, funzionali a segnare un’appartenenza di schieramento più che una visione sostanziale, spiritualmente significativa.

In particolare, si perde di vista, a mio avviso, la partita fondamentale che si presenta al Papa: l’unità della Chiesa. La questione esatta è: quale unità? Ovvero, come deve essere concepita questa unità? Come deve essere interpretata? Come deve essere declinata?

Il Cardinale Giovanni Battista Re, nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice del 7 maggio, aveva dichiarato:

«L’unità della Chiesa è voluta da Cristo; un’unità che non significa uniformità, ma salda e profonda comunione nelle diversità, purché si rimanga nella piena fedeltà al Vangelo».

Comunione nelle diversità: ma quando le diversità minacciano la comunione? E quando, invece, è un’indebita uniformità a minacciare la ricchezza delle legittime diversità? Re fa riferimento alla «piena fedeltà al Vangelo»: è questo il criterio dirimente. Ma, in verità, la questione, più che risolversi, sembra spostarsi: come determinare, infatti, la «piena fedeltà al Vangelo»?

Si tratta dello stesso tema che aveva affrontato il Cardinale Ratzinger nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice del 18 aprile 2005. In questa omelia, che segnerà il programma del pontificato di Benedetto XVI, Ratzinger aveva determinato con precisione il criterio dell’unità: la verità, la cui dimensione ultima è lo stesso Figlio di Dio, misura del vero umanesimo. E con coraggio aveva calato il significato di un simile criterio nel contesto ideologico del relativismo dominante. Senza elusioni e infingimenti. Con onestà intellettuale.

Con il pontificato di Francesco, invece, si è imposto un differente paradigma di unità ecclesiale: un paradigma gesuitico.

Ho trovato una significativa illustrazione di questo paradigma in una conversazione del giornalista Ross Douthat con il padre gesuita James Martin S.J. circa l’eredità del papato appena concluso (vedere video-intervista del 26.04.2025 QUI). Douthat evidenzia come il carattere drammatico del pontificato di Francesco sia stato determinato dalla spinta a cambiare l’insegnamento e la pratica della Chiesa su una serie di questioni difficili e controverse, come la possibilità per i cattolici divorziati e risposati di accedere alla comunione eucaristica, la possibilità per le donne di diventare diaconi o addirittura sacerdoti, la possibilità di benedire coppie dello stesso sesso. Fino a che punto Francesco si è spinto su tali questioni? Martin, in prima battuta, afferma che questo genere di temi «scottanti» avevano per il Papa un carattere secondario rispetto alla proclamazione del Vangelo. In seconda battuta, afferma che Francesco «è andato fin dove ha potuto». A tal proposito racconta come il Papa, in un suo incontro personale del 23 ottobre 2024 come delegato del sinodo, fosse preoccupato della «unità della Chiesa» a causa delle «resistenze» provenienti dall’Africa subsahariana, dall’Europa orientale e persino dagli Stati Uniti. «E ha ripetuto più volte che l’unità è più importante di questi conflitti. Quindi penso che abbia cercato di aprire la porta alla discussione su alcuni di questi problemi senza rompere la chiesa».

A ben vedere ciò che caratterizza il resoconto di Martin circa le preoccupazioni di Francesco è il particolare rapporto tra unità ecclesiale e verità. Apparentemente nel suo discorso sembra non operare un concetto vincolante di verità. Ma in realtà una verità viene fatta valere. Una verità che sembra non vincolare, ma che conferisce una direzione. Una verità implicita, data per presupposta, che prende posizione per un’indefinita apertura circa le questioni controverse proposte. Una verità criticamente non tematizzata, teologicamente emancipata, priva cioè di un serio confronto con il dato biblico, ridotto tutt’al più a un generico riferimento alla misericordia. È una verità non vincolante? Non proprio. È una verità criticamente disimpegnata ma politicamente vincolante, che, non a caso, affronta le posizioni diverse (e logicamente incompatibili) come «resistenze».

In una dimensione simile non vi è spazio per un dialogo autentico, ma semmai per una mediazione, per un accomodamento. Come se in gioco ci fossero delle forze e degli interessi. L’unità ecclesiale, quindi, non si fonda sulla verità. Non si fonda, per riprendere le parole di Ratzinger, sul «Figlio di Dio, misura del vero umanesimo». L’unità è una composizione di forze, in ultimo, fondata sul potere supremo del Papa, il cui ruolo vicariale si stempera, per far risaltare invece la sua personalità.

Alla luce di questo paradigma gesuitico dell’unità ecclesiale si spiega il carattere autoritario e contraddittorio del papato gesuita, rilevato sovente dagli osservatori più sensibili. Nella prospettiva di una simile concezione dell’unità ecclesiale, infatti, le contraddizioni non fanno problema: possono convivere. Anche se le contraddizioni provengono dallo stesso Papa: non è la verità a fare l’unità, ma il suo potere supremo. Il prezzo di questa impostazione è stato, tuttavia, molto salato. Significativamente la storica Lucetta Scaraffia rileva l’impossibilità, dopo 12 anni di pontificato, di cogliere un’eredità di Papa Francesco, che non sia quella della mera confusione. O, tutt’al più, della promozione di alcune politiche, molto, troppo dettagliate, in tema di immigrazione di massa e di economia politica che, invece, avrebbero richiesto il riconoscimento di un sano pluralismo di posizioni.

In definitiva, il nuovo corso del papato di Leone XIV sarà determinato dal modo in cui egli interpreterà, alla luce della lezione di questi ultimi 12 anni, l’unità ecclesiale e il suo rapporto con la verità. Il suo motto episcopale «In Illo uno unum» e la sua formazione agostiniana fanno ben sperare. Che Dio ce l’abbia mandata buona.

Trieste, 12 maggio 2025

 

 

 

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La prima omelia di Leone XIV è stata una armonica continuità con la tradizione della Chiesa

LA PRIMA OMELIA DI LEONE XIV È STATA UNA ARMONICA CONTINUITÀ CON LA TRADIZIONE DELLA CHIESA

Urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco. Questo è il mondo che ci è affidato […]

– Attualità ecclesiale –

Autore Teodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

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PDF  articolo formato stampa

 

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Potrebbe apparire presuntuoso mettersi a commentare l’omelia del Sommo Pontefice Leone XIV, pronunciata nella sua prima vera apparizione pubblica, la Santa Messa Pro Ecclesia celebrata con i Cardinali che hanno partecipato al conclave della sua elezione.

il Sommo Pontefice Leone XIV al suo primo affaccio alla loggia centrale della Papale Arcibasilica di San Pietro

Oppure potrebbe essere semplicemente bello valorizzare questo primo atto del nuovo Vescovo di Roma, immaginando, senza scostarci troppo dal vero, che queste parole che egli ha pronunciato a commento del Vangelo siano effettivamente sortite dal suo cuore, siano proprio sue, meditate nel breve spazio di tempo concessogli fra l’impatto dell’elezione, l’emozione della presentazione al pubblico ed al mondo e questo primo impegno pubblico. Esse, come vedremo, sembrano proprio un programma per la Chiesa che ha iniziato a presiedere, la cifra entro la quale vorrà muoversi e anche in che maniera sente di esservi coinvolto.

Rimandando a una lettura personale della bella omelia papale (QUI), voglio solo sottolinearne tre aspetti.

Il primo e più importante è il richiamo al Cristo. Potrebbe sembrare ridondante sottolinearlo: di chi dovrebbe parlare un Pontefice se non di Gesù? Ma il fatto che subito ne abbia accennato, al primo apparire dalla loggia centrale della basilica di San Pietro e ora qui nella sua prima omelia, è significativo. Egli ha affermato che le parole di Pietro ricordate nel Vangelo «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16)  esprimono «in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette. Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre». Leone XIV si pone, così, in continuità con la tradizione della Chiesa, così come hanno fatto i suoi recenti predecessori. Giovanni Paolo II col suo: «Aprite, anzi spalancate le porta e a Cristo»; proferite proprio nella sua prima omelia. Papa Benedetto che ha scandagliato il mistero del Signore con la sua intelligenza e ha insegnato alla Chiesa a riconoscerlo e Papa Francesco che ci ha aiutato a scorgere il suo volto in tutti, soprattutto i più poveri. E di Cristo Papa Leone traccia l’identikit:

«per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità».

Il secondo aspetto che mi preme sottolineare dell’omelia papale è proprio il richiamo alla santità. Egli la vede come un dono, ma anche come cammino di trasformazione personale e comunitaria. Santità che supera meriti e limiti perché anticipa la nostra nascita (cfr. Ger 1,5) e grazie alla rinascita battesimale ci conduce e ci rende partecipi della missione del Cristo. Un compito che coinvolge il Papa in prima persona e poi tutta la Chiesa: «città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni…, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).

Infine, un terzo motivo mi piace appuntare dell’omelia del Santo Padre: il confronto con il mondo, compreso quello ecclesiale dei credenti. Dice il Papa:

«Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni».

Come avvenne ai tempi del Signore le risposte alla sua domanda, «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», apparivano incomplete e monche, così anche oggi il mondo spesso fraintende il messaggio cristiano per eccesso di sufficienza o tracotanza.  Eppure, afferma il Papa:

«proprio per questo… urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco. Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

Come abbiamo letto egli richiama il tema della missione, cosa che aveva fatto anche la sera prima, affacciandosi dalla loggia principale della basilica vaticana (QUI).

Ma la missione si rivolge anche verso i credenti, poiché possono correre il rischio di adattare il Vangelo e l’immagine di Cristo alle proprie personali visioni. Queste le parole del Pontefice: «Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».

Nelle ultime battute dell’omelia il Santo Padre ricorda l’importanza del rapporto personale col Cristo, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione e richiama tutta la Chiesa a vivere l’appartenenza al Signore portandone a tutti la Buona Notizia.

Da ultimo il Santo Padre parla di sé. Lo fa citando la Lettera ai Romani del Padre apostolico Ignazio di Antiochia, per definire il suo compito e ruolo di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamato a presiedere nella carità la chiesa universale. E sempre riportando le parole di Sant’Ignazio:

«Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1).

Conclude il suo intervento omiletico così:  

«Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo — e così avvenne —, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa».

L’omelia termina così come era iniziata, col rimando a Cristo. Vale la pena ricordare le citazioni usate da Papa Leone in questo suo intervento liturgico. La Lettera di Sant’Ignazio di Antiochia ai Romani, sopra rammentata, nove rimandi a brani del Nuovo Testamento e a uno solo del Vecchio. Ci sono poi due citazioni del Concilio, tratte dai due documenti che parlano della Chiesa: la Lumen Gentium e la Gaudium et Spes.

Un intervento, si diceva all’inizio, che parrebbe programmatico, lasciando dunque sperare in un proseguo che potrebbe essere proficuo per la Chiesa. Credo che il Papa non si aspetti solo l’attesa, ma anche il sostengo della preghiera e la fattiva collaborazione dei credenti.

Velletri di Roma, 11 maggio 2025

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«Noi in Vaticano, qua in Vaticano…». Gli asini sileriani in cattedra e le ragadi anali

«NOI IN VATICANO, QUA IN VATICANO…». GLI ASINI SILERIANI IN CATTEDRA E LE RAGADI ANALI

Mister Silere non Possum è come una maestrina con la bacchetta in mano a caccia del minimo errore altrui, che si siede su vaso e, sebbene seduta, sbaglia mira e la fa fuori, salvo dar poi degli ignoranti e degli incompetenti agli altri […]

— Attualità —

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Più molesto delle lacerazioni alla mucosa anale causata dalle ragadi, Mister Silere non Possum e i suoi anonimi blogghettari, alias «noi in Vaticano, qua in Vaticano…», nelle ultime settimane hanno dato il meglio di loro stessi nel distribuire patenti di «incompetenti, ignoranti, analfabeti, ladri di stipendi…» e via a seguire [cfr. QUI].

Bersagli privilegiati dei loro incessanti attacchi sono Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per le comunicazioni, Andrea Tornielli, direttore dei media vaticani, Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede.

Non è la prima volta che la maestrina dispensatrice d’insulti si siede poi sul water, sbaglia mira e la fa tutta fuori, come in questo caso:

«Robert Francis Prevost, ora Papa Leone XIV, ha compiuto un gesto che esprime la sua devozione al santo Vescovo di Ippona, Agostino, fondatore dell’ordine al quale si era consacrato» [cfr. QUI].

Sant’Agostino, al secolo Aurelio di Tagaste, vissuto tra 354 e il 430, come vescovo favorì la fraternità e forme di vita comune tra i membri del clero in quanto servi di Dio, ma non fondò mai alcun ordine religioso. Agli inizi dell’anno Mille circolavano già da tempo tre regole attribuite a Sant’Agostino: la Regula consensoria, la Regula ante omnia fratres carissimi, la Regula ad servos Dei, nessuna delle quali è stata riconosciuta autentica, piuttosto ricavate da vari scritti e sermoni dell’Ipponate. Queste “antiche regole” sono dunque autentiche quanto possono esserlo le opere dello pseudo-Dionigi areopagita o la Donazione Costantiniana. Gli agostiniani, denominatisi tali in quanto ispirati alla spiritualità e alla teologia agostiniana e non certo perché Sant’Agostino fondò un ordine, nascono canonicamente nel 1244, otto secoli dopo la morte del Santo vescovo e dottore della Chiesa, in seguito all’unione in un’unica fraternitas di Eremiti sparsi per la Tuscia; unione promossa dal Cardinale Riccardo Annibaldi della Molara, con approvazione del Sommo Pontefice Innocenzo IV sancita con la bolla Incumbit nobis del 16 dicembre 1243. Solo allora si comincerà a parlare di Ordine Agostiniano, nel 1244.

La pia leggenda — ma di pia leggenda appunto si tratta — che fa risalire le origini dell’Ordine a Sant’Agostino, è quindi attendibile quanto la tesi peregrina dei fautori della neoscolastica decadente che per giustificare la filosofia di Aristotele posta da San Tommaso d’Aquino alla base speculativa del suo pensiero, giunsero a inventarsi che il filosofo di Stagira non era pagano come si pensava, perché aveva percepito e intuito Cristo quattro secoli prima l’incarnazione del Verbo di Dio (!?).

All’amico di vecchia data Andrea Tornielli, a Paolo Ruffini e a Matteo Bruni, ho rivolto una domanda molto personale: in che modo orinate? Hanno risposto di farlo in piedi davanti al water. In tal posizione può essere che, malgrado la migliore attenzione, qualche piccola goccia esca fuori senza volere, quando si gestisce una macchina mediatica internazionale complessa che con tempi frenetici pubblica in decine di lingue notizie che si susseguono veloci, rendendo talora inevitabile l’errore umano, la svista, o la notizia stessa che, una volta data, può richiedere di essere integrata o corretta. Invece, una maestrina con la bacchetta in mano a caccia del minimo errore altrui, che si siede sul water e, sebbene seduta, sbaglia mira e la fa fuori, salvo dar poi agli altri degli ignoranti, degli incompetenti e persino dei soggetti che abusano del titolo di teologi senza a suo dire esserlo, difficilmente è giustificabile; non lo è lei e non lo sono gli avvelenati che insultano a raffica sul suo blog senza metterci la propria faccia e il proprio nome, nascosti, come tutti i vigliacchi, dietro l’anonimato.

Dall’Isola di Patmos, 10 maggio 2025

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I nostri precedenti articoli:

–  31 marzo 2025  — L’ULTIMA PERLA DI SILERE NON POSSUM: «LA RESPONSABILITÀ DELL’ORDINARIO SUI PRETI INCARDINATI»? ALLORA FATE CACCIARE FUORI I SOLDI A CARDINALI E VESCOVI: DA ANGELO SCOLA A SEGUIRE ... (per aprire l’articolo cliccare QUI)

–  29 marzo 2025  — SEMPRE A PROPOSITO DI SILERE NON POSSUM: DAL “HOMBRE VERTICAL” AI “PIGLIANCULO” E “QUAQUARAQUÀ” DI LEONARDO SCIASCIA (per aprire l’articolo cliccare QUI)

–  21 marzo 2025  — SILERE NON POSSUM E LA STORIA DI QUELLA SARTINA CONVINTA DI POTER DARE LEZIONI DI ALTA MODA A GIORGIO ARMANI (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 12 febbraio 2025 — L’OPOSSUM STA ALLA CONOSCENZA DEL VATICANO COME ÉVA HENGER STA ALLA CASTITÀ E COME IL SUO DEFUNTO MARITO RICCARDO SCHICCHI STA ALL’OPERA  CONFESSIONES DI SANT’AGOSTINO (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 15 gennaio 2025 — AI CONFINI CLERICALI CON LA REALTÀ: LA DONNA SOFFRE DELL’INVIDIA FREUDIANA DEL PENE, L’OPOSSUM DELL’INVIDIA DI MATTEO BRUNI DIRETTORE DELLA SALA STAMPA DELLA SANTA SEDE (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 20 gennaio 2025 — L’OPOSSUM IGNORA CHE UNA SUORA PUÒ DIVENTARE TRANQUILLAMENTE GOVERNATORE DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO, COME GIÀ LO FU GIULIO SACCHETTI (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 22 novembre 2024 — LA NOMINA EPISCOPALE DI RENATO TARANTELLI BACCARI. QUANDO GLI AFFETTI DA CARCINOMA AL FEGATO, CARICANO ALL’ATTACCO CHI TACER NON PUÒ (per aprire l’articolo cliccare QUI

– 31 maggio 2024 — UNA NOTA DI PADRE ARIEL SUL SITO SILERE NON POSSUM: «MOLESTO COME UN RICCIO DI MARE DENTRO LE MUTANDE» (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 8 dicembre 2023 — A CHI SI RIFERISCE MARCO FELIPE PERFETTI AFFERMANDO DAL SITO SILERE NON POSSUM «QUA IN VATICANO … NOI IN VATICANO …», SE IN VATICANO NON CI PUÒ METTERE NEMMENO PIEDE? (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 14 ottobre 2023 — È MORTO L’ARCIABATE EMERITO DI MONTECASSINO PIETRO VITTORELLI: LA PIETÀ CRISTIANA PUÒ CANCELLARE LA TRISTE VERITÀ? (per aprire l’articolo cliccare QUI)

 

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Se a qualcuno prude, che si gratti e taccia, anziché fare pruriginosi gossip sul Conclave —  If anyone itches, let him scratch himself and keep quiet, rather than gossip about the Conclave

(English text after the Italian)

SE A QUALCUNO PRUDE, CHE SI GRATTI E TACCIA, ANZICHÈ FARE PRURIGINOSI GOSSIP SUL CONCLAVE

La Chiesa, disorientata e smarrita, vive in uno stato di decadenza irreversibile, da tempo abbiamo superata la soglia del non-ritorno. La Chiesa di oggi non è più nel Getsemani, neppure in croce sul Calvario, sta vivendo il momento a suo modo più drammatico: quel silenzio che pare quasi una assenza totale di Dio.

— Attualità ecclesiale —

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Diversi Lettori hanno scritto alla nostra redazione per chiedere come mai non abbiamo scritto niente sulla Sede Vacante e sul Conclave ormai alle porte. 

 

La Chiesa, disorientata e smarrita, vive in uno stato di decadenza irreversibile, da tempo abbiamo superata la soglia del non-ritorno. La Chiesa di oggi non è più nel Getsemani, neppure in croce sul Calvario, sta vivendo il momento a suo modo più drammatico: quel silenzio che pare quasi una assenza totale di Dio. Uno spazio di tempo che va dal calar del sole del Venerdì Santo alla Domenica di Risurrezione. Tra la chiusura del sepolcro e il sepolcro vuoto del Risorto si sperimenta una sorta di divino vuoto, dinanzi al quale l’unica cosa opportuna è quel silenzio che non può essere compreso e vissuto se non attraverso la fede, la speranza e la carità.

Tutti sanno parlare, specie a sproposito, pochi tacere e vivere quel grande silenzio che ci conduce alla risurrezione. C’è chi non può tacere e gioca al gossip del toto-papa in una dimensione tutta quanta mondana, chi invece comprende l’importanza del tacere, in una dimensione tutta quanta mistagogica.

Posso quindi solo riproporre, a seguire, quanto già scritto nella seconda parte di un mio articolo pubblicato il 2 marzo, mentre l’Augusto Pontefice defunto era ricoverato al Policlinico Agostino Gemelli di Roma tra la vita e la morte: «E se al prossimo conclave tornasse in voga la simonia?» (cfr. QUI).

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Ognuno ha il proprio stile, singolo o collettivo. Nel primo, come nel secondo caso, può essere spontaneo, oppure studiato a tavolino. I Padri de L’Isola di Patmos, nel corso dei loro dieci anni di attività pubblicistica, a partire dall’ottobre 2014, più volte per opportunità, altre per virtù di prudenza, hanno rinunciato a trattare certi temi emergenti legati alla Chiesa e al Papato, essendo anzitutto presbiteri; redattori e pubblicisti a seguire, ma avanti a tutto presbiteri. Certi temi possono richiedere di essere non tanto taciuti, o peggio nascosti, ma trattati quando si hanno maggiori elementi conoscitivi che possano portare a un veritiero, equo ed equilibrato giudizio.

Quando le porte della Cappella Sistina si chiuderanno, la Chiesa dovrà fare i conti coi vari problemi lasciati in eredità da questo pontificato, che rimane giudicabile nel complesso solo dalla storia, forse anche tra molti anni. Il Sommo Pontefice Francesco è stato eletto dopo un atto di rinuncia da parte del suo predecessore, evento raro risultato per tutti noi traumatico, soprattutto per le infelici modalità scelte a suo tempo da Benedetto XVI, con tanto di stravagante invenzione del «papato emerito», o di termini svianti come «papato allargato», «papato attivo e papato contemplativo» …

Quello del Santo Padre Francesco è un pontificato che si colloca in un contesto sociale e geopolitico di grande decadenza a livello planetario, con una scristianizzazione dell’Europa che ha raggiunto già da un ventennio livelli irreversibili. Altrove si è invece consumata una emorragia di fedeli in quelli che una volta erano i due polmoni coi quali il Cattolicesimo respirava: l’America Latina e l’Africa. Quello di Francesco è stato un pontificato carico di problematicità, fatto di ambiguità e mancanza di chiarezza, non sono neppure mancate forme di dispotismo messe in atto nel disprezzo totale delle leggi e delle regole ecclesiastiche. Negare che questo Pontefice lascerà una Chiesa confusa, divisa e litigiosa a causa di processi aperti su tutti i fronti, basati sull’insolito principio che «l’importante è aprire i processi» senza però concluderli e portarli a pieno compimento, vuol dire negare la più palese evidenza dei fatti. Però, Chi ci dice che tra svariati anni non si dovrà rendere grazie al pontificato di Francesco per aver preservata e salvata la Chiesa da problemi e danni che senza il suo agire, non comprensibile sul momento, sarebbero stati maggiori, o persino irreparabili? Francesco è un uomo complicato che si inserisce come tale in un momento storico molto complicato, qualsiasi giudizio dato al presente su di lui e sul suo pontificato potrebbe risultare del tutto sbagliato domani. Certe espressioni o decisioni giudicate come eccentriche ― e di fatto lo sono ―, in che modo del tutto diverso potrebbero apparire domani? Non sarebbe la prima volta che certi uomini, non compresi sul momento nel loro agire, sono stati celebrati successivamente come personalità che erano avanti di decenni rispetto al tempo presente in cui vissero. Ecco perché talvolta, proprio quando si è perplessi, disorientati e sofferenti per certi atteggiamenti ambigui e non facili neppure da decifrare, pur esercitando il legittimo senso critico merita sospendere prudenzialmente il giudizio.

Uno dei gravi problemi che questo pontificato lascerà al prossimo conclave è dato dal fatto che i Cardinali elettori non si conoscono tra di loro. L’ultimo concistoro segreto si svolse nel 2015. Chiariamo: il concistoro è l’assemblea dei cardinali convocata dal Romano Pontefice e può essere segreto, pubblico, semi-pubblico (vedere QUI). Viene chiamato “segreto” quello al quale partecipano solo i cardinali riuniti per discutere in forma privata, ossia segreta, con il Sommo Pontefice, riguardo le varie problematiche della Chiesa e del suo governo. Oggi, al grave problema dei cardinali che non si conoscono tra loro, se ne aggiunge un altro ignoto ai laicisti della sinistra internazionale che magnificano la Chiesa povera per i poveri, tanto li eccita la povertà nelle case e sulla pelle degli altri, elogiando questo pontificato che avrebbe nominato decine di cardinali «provenienti dalle periferie del mondo» e «dai paesi più poveri». Sorvoliamo sulla scarsa formazione dottrinale e teologica da parte di svariati di questi sant’uomini provenienti da quelle situazioni privilegiate per le quali oggi si può meritare una porpora cardinalizia: «le periferie» … «i paesi poveri»… Diversi di questi cardinali sono vescovi di Paesi dove la presenza dei cattolici non può essere definita neppure una piccola minoranza: nell’Isola di Tonga, di cui è vescovo il Cardinale Soane Patita Paini Mafi, i cattolici battezzati sono circa 10.000. Fu creato cardinale nel 2020, all’età di appena 46 anni, Giorgio Marengo, vicario apostolico della Mongolia, dove i cattolici contano 1.200 battezzati su 3.300.000 abitanti. Questi cardinali elettori, emblema della «Chiesa povera per i poveri» delle varie «periferie esistenziali», governano chiese locali che possono sopravvivere e vivere in contesti di grande disagio e autentica povertà grazie alle donazioni che pervengono loro da ricche Chiese locali, o da grandi fondazioni dipendenti o legate alle stesse. Per intendersi: una singola parrocchia austriaca, tedesca, australiana, canadese, nordamericana … può mantenere da sola una diocesi intera in certi Paesi poveri del Latino America, dell’Asia e dell’Africa, dove il rapporto tra l’Euro e il Dollaro e la loro moneta nazionale è totalmente sproporzionato in valore di acquisto.

Domani, nella Cappella Sistina, un gruppo di cardinali provenienti da questi Paesi, rigorosamente scelti tra gli esponenti del cosiddetto progressismo più avanzato, con delicata disinvoltura faranno capire che i cordoni della borsa li reggono loro, lasciando a decine di cardinali “povero-periferico-esistenziali” la scelta obbligata giocata sulla sopravvivenza di Chiese locali che possono vivere solo grazie ad aiuti esterni. Certo, una volta questa si chiamava simonia, oggi si chiama invece «Chiesa povera per i poveri».

Allo stato attuale i poveri tanto esaltati in questo pontificato sono stati lasciati ostaggio dei capricci dei ricchi come mai lo erano stati prima, dopo aver dato vita a un Collegio di cardinali elettori che non rappresentano le varie voci, le opinioni e le posizioni più diverse che hanno sempre arricchito la Chiesa al proprio interno, ma una voce univoca, monocorde e, non ultimo: ruffiana. E tra i vari danni perpetrati, questo risulterà forse il peggiore, perché grava come una ipoteca pesante come il piombo sul prossimo conclave. Ciò con buona pace della Chiesa povera, che dentro la Cappella Sistina strozzerà i poveri coi cordoni della borsa dei ricchi più progressisti e più ideologizzati. E qualcuno l’ha persino chiamata «Chiesa povera per i poveri».

Dall’Isola di Patmos, 5 maggio 2025

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IF ANYONE ITCHES, LET HIM SCRATCH HIMSELF AND KEEP QUIET, RATHER THAN GOSSIP ABOUT THE CONCLAVE

The Church, disoriented and lost, lives in a state of irreversible decadence, we have long since passed the threshold of no return. The Church of today is no longer in Gethsemane, not even on the cross on Calvary, it is living the most dramatic moment in its way: that silence that seems almost a total absence of God.

— Ecclesial actuality —

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Several Readers have written to our editorial staff asking why we have not written anything about the Sede Vacante and the Conclave now upon us.

The Church, disoriented and lost, lives in a state of irreversible decadence, we have long since passed the threshold of no return. The Church of today is no longer in Gethsemane, not even on the cross on Calvary, it is living the most dramatic moment in its way: that silence that seems almost a total absence of God. A space of time that goes from sunset on Good Friday to Easter Sunday. Between the closing of the tomb and the empty tomb of the Risen One, a sort of divine emptiness is experienced, before which the only appropriate thing is that silence that cannot be understood and lived except through faith, hope and charity.

Everyone knows how to speak, especially inappropriately, few know how to keep quiet and live that great silence that leads us to the resurrection. There are those who cannot remain silent and gossip by playing predictions about the future pope, in a completely worldly dimension, and those who understand the importance of remaining silent, in a completely mystagogical dimension.

I can therefore only repeat, below, what I have already written in the second part of an article of mine published on March 2, while the deceased August Pontiff was hospitalized at the Policlinico Agostino Gemelli in Rome between life and death: «And if simony were to come back into fashion at the next conclave?» (See HERE)

Everyone has their own style, individual or collective. In the first, as in the second case, it can be spontaneous, or studied on the table. The Fathers of this magazine The Island of Patmos , during ten years of journalistic activity, starting from October 2014, several times due to opportunity, other times due to the virtue of prudence, have renounced dealing with emerging themes linked to the Church and the Papacy, being first and foremost presbyters ; editors and publicists to follow, but presbyters ahead of everything. Certain topics may require to be dealt with when there is greater knowledge that can lead to a truthful, fair and balanced judgement.

 

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When the doors of the Sistine Chapel close, the Church will have to deal with the various problems left as a legacy by this pontificate, which remains judgeable, overall, only by history, perhaps even many years from now. The Supreme Pontiff Francis was elected after an act of renunciation by his predecessor, a rare event and a traumatic for all of us, especially due to the unfortunate methods chosen at the time by Benedict XVI, complete with the extravagant invention of the «emeritus papacy», or misleading terms such as «enlarged papacy», «active papacy and contemplative papacy» (!?)…

That of the Holy Father Francis is a pontificate that takes place in a social and geopolitical context of great decadence on a global level, with a de-Christianization of Europe that has already reached irreversible levels for twenty years. Elsewhere a hemorrhage of faithful has taken place in what were once the two lungs with which Catholicism breathed: Latin America and Africa.

Francis’ pontificate was full of problems, ambiguities and lack of clarity, there were also forms of despotism in total contempt of ecclesiastical laws and rules. To deny that this Pontiff will leave a confused, divided and quarrelsome Church due to trials open on all fronts, based on the unusual principle that «the important thing is to open the trials», without however concluding them and bringing them to full completion, is to deny the clearest evidence of the facts. However, who tells us that in several years we will not have to thank the pontificate of Francis for having preserved and saved the Church from problems and damage which without his actions, not understandable at the time, would have been greater, or even irreparable? Francis is a complicated man who fits into a very complicated historical moment, any judgment given in the present about him and his pontificate, could be completely wrong tomorrow.

It would not be the first time that certain men, not understood at the time in their actions, were later celebrated as extraordinary personalities who were decades ahead of the present time in which they lived. This is why sometimes, precisely when one is perplexed, disoriented and grieve for certain ambiguous attitudes and not even easy to decipher, despite exercising legitimate critical sense, is necessary and prudently suspending judgement..

One of the serious problems this pontificate will leave for the next conclave is this: tthe cardinal electors do not know each other. The last secret consistory took place in 2015. Let’s clarify: the consistory is the assembly of cardinals convened by the Roman Pontiff and can be secret, public, semi-public. What is called “secret” is that in which only the cardinals gathered to discuss in a private, i.e. secret, form with the Supreme Pontiff participate, regarding the various problems of the Church and its government. Today, to the serious problem of the cardinals who do not know each other, there is another one unknown to the secularists of the international left who glorify «the poor Church for the poor», so much does poverty in the homes and on the lives of others excites them, praising this pontificate which has appointed dozens of cardinals «coming from the peripheries of the world» and «from the poorest countries».

Let us not dwell the poor doctrinal and theological training of several of these holy men coming from those privileged situations for which today they can deserve a cardinal’s purple: «the suburbs» … «the poor countries». Several of these cardinals are bishops of countries where the presence of Catholics cannot be defined as even a small minority: on the island of Tonga, of which Cardinal Soane Patita Paini Mafi is bishop, there are around 10,000 baptized Catholics. Giorgio Marengo, apostolic vicar of Mongolia, where Catholics number 1,200 baptized out of 3,300,000 inhabitants, was created cardinal in 2020, at the age of just 46. These cardinal electors, emblem of the «poor Church for the poor» of the various «existential peripheries», govern local churches that can survive and live in contexts of great hardship and authentic poverty thanks to the donations that come to them from rich local churches, or from large foundations on linked to them. To be clear: a single Austrian, German, Australian, Canadian or North American parish can maintain an entire diocese in certain poor countries in Latin America, Asia and Africa, where the relationship between the Euro and the Dollar and their national currency is totally disproportionate in terms of purchase value.

Tomorrow, in the Sistine Chapel, a group of cardinals from these countries, rigorously chosen by Holy Father among the exponents of the so-called most advanced progressivism, will with delicate ease make it clear that they hold the purse strings, leaving dozens of “poor-peripheral-existential” cardinals the forced choice based on the survival of their local churches that can only live thanks to external aid. Of course, once this was called simony, today it is instead called «poor church for the poor».

At present the poor so exalted in this pontificate have been left hostage to the whims of the rich as they had never been before, after having given life to a College of cardinal electors who do not represent the various and noumerous voices, opinions and positions that have always enriched the Church internally, but a single, monotonous voice. And among the various damages perpetrated, this will perhaps be the worst, because it weighs like a lead-heavy mortgage on the next conclave. With all due respect to the poor Church, which inside the Sistine Chapel will strangle the poor, with the purse strings by rich most progressive and ideologicalized.

From The Island of Patmos, May 5, 2025

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Lo Spirito Santo, il conclave e l’elezione del Romano Pontefice Vescovo di Roma – The Holy Spirit, the conclave and the election of the Roman Pontiff Bishop of Rome

(English text after the Italian)

 

LO SPIRITO SANTO, IL CONCLAVE E L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE VESCOVO DI ROMA

Un animale da soma non può ambire a diventare un cavallo da corsa. La grazia perfeziona la natura che sussiste nell’uomo, ma non può snaturarla, perché non va oltre la natura che non c’è, così insegna la sapienza di San Tommaso d’Aquino.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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PDF articolo formato stampa – PDF article print format 

 

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In tempo di Sede Vacante, la febbre del Conclave contagia un po’ tutti: sia credenti che non credenti si guardano bene dal seguire il prudente protocollo di una “vigile attesa” e tutti si lanciano in pronostici che rispecchiano per lo più i propri desideri personali per tratteggiare il profilo del prossimo Vicario di Cristo.

Tra le varie tifoserie come non annoverare i romantici, coloro che insistono nel sostenere che il nuovo Papa sarà eletto dallo Spirito Santo in persona. Detta così, questo concetto vuol dire poco o nulla, se non per una certa coloritura fideista. Eppure, se andiamo più nel profondo del pensiero di queste anime semplici scopriremo che questa idea suona come una sorta di polizza assicurativa che dovrebbe mettere in sicurezza i cardinali elettori e il Popolo di Dio da situazioni incresciose o imbarazzanti. Per carità, una posizione legittima che però non tiene affatto conto delle dinamiche con cui realmente lo Spirito Santo agisce nella storia dell’uomo, così come ha agito nella vita del Signore Gesù e della Chiesa nei suoi duemila anni.

Esempio: se prendiamo la Genealogia dei Vangeli, possiamo forse dire che dentro quella storia di quei nomi fatta di vicende specifiche l’azione dello Spirito Santo si è fatta sempre presente? Il mio vecchio professore di morale fondamentale — scaltro gesuita della vecchia Compagnia di Gesù — avrebbe risposto: «Sì e no». Avrebbe detto per il fatto che la risultante della Genealogia e la persona di Gesù nato da Maria, no per il fatto che tra quelle persone citate che hanno costruito l’impalcatura storica, relazionale e familiare che ha permesso l’incarnazione del Verbo dobbiamo rilevare numerose e abbondanti fragilità e resistenze alla grazia che non sono affatto nuove nella storia dell’uomo.

Qualcuno potrebbe obiettare sbrigativamente, «Beh, vabbè, l’importante è il risultato finale», questo è vero finché parliamo di Cristo e finché prendiamo lui come ultimo riferimento, ma quando c’è l’uomo questo è ancora vero? Per scendere ancora più in profondità, dopo l’Ascensione del Signore, termina il tempo terreno del Risorto e inizia il tempo della Chiesa, in cui sono gli uomini, apostoli e discepoli di Cristo, a portare avanti un deposito che gli è stato affidato dal Maestro. Il libro degli Atti degli Apostoli ci mostra più volte che l’andamento della Chiesa non è sempre stato pacifico e privo di problemi, anche dopo la Pentecoste e il dono dello Spirito Santo. E nel tempo, la situazione non è cambiata di molto. Dobbiamo essere onesti nel considerare lo Spirito Santo non come un severo precettore che conduce obtorto collo il proprio discepolo a forza di sberle ma come un saggio e prudente pedagogo che lascia molto spazio e libertà al suo discepolo stando sempre a pochi passi da lui, permettendo anche le salutari e immancabili cadute.

Questo che significa in soldoni? Significa che — come disse il Cardinale Joseph Ratzinger nel 1997 — lo Spirito Santo non interviene con il suo dito di fuoco in Cappella Sistina indicando il candidato per il quale si debba votare, ma interviene nella mente dei cardinali con un discreto discernimento umano e storico orientato a scegliere il candidato che si dibatte tra le sponde del “peggio” e del “leggermente meno peggio”. Al di là della battutaccia, la storia della Chiesa insegna che tra i vari Vicari di Cristo non tutti sono risultati dei fuoriclasse e dei pii, anzi. Alcuni hanno fatto molti danni — è innegabile — ma allo stesso tempo hanno saputo dare alla Chiesa anche qualcosa di buono nei tempi in cui sono vissuti e hanno esercitato il ministero petrino, in questo certamente possiamo vedere l’azione dello Spirito Santo, in quel po’ di bene che non è stato del tutto rovinato da personalità ingombranti e da interferenze sociali e politiche insieme a simpatie e alleanze umane.

Questa è proprio l’elasticità che lo Spirito Santo esercita nella Chiesa senza privare l’uomo della sua libertà e senza coartarlo al bene. Accanto allo Spirito Santo — diciamolo una buona volta — è presente anche l’anti-spirito che fa prendere tante cantonate e risiede nella testardaggine dell’uomo che vuole fare di testa propria relegando lo Spirito Santo al solo momento del canto del Veni Creator Spiritus.

Attribuire allo Spirito Santo tutto quello che accade dentro a un Conclave o durante una celebrazione di un Sinodo o di un Capitolo sarebbe pura superstizione e ingenuità. Dobbiamo osare ed essere sufficientemente smaliziati nel riconoscere che l’anti-spirito lavora mesi prima per orientare le sorti di un evento, poco importa se si tratti di un Conclave o di una riunione di condominio.

La speranza che tutti nutriamo è che lo Spirito Santo possa parlare al cuore dei cardinali facendo risplendere la Verità e insieme infondendo il coraggio di un cambiamento o l’inizio di un nuovo passo di marcia. Un treno ad alta velocità non può essere fermato di botto, ha bisogno di tempo e di spazio di manovra. Così è nella Chiesa, c’è sempre bisogno di una inversione di rotta e di una conversione ma nulla può avvenire all’improvviso o dopo un Conclave. Spesso, è la storia che ce lo dice, i danni fatti da alcuni Papi hanno necessitato anni per essere riparati, altre volte decenni, talora, per porvi rimedio, è stato necessario convocare un concilio ecumenico. O forse vogliamo dimenticare che sia il IV Concilio Lateranense sia il Concilio di Trento, furono anche la conseguenza di diversi Pontefici non particolarmente raccomandabili susseguitisi tra vicende politiche poco edificanti, lotte di potere, intrallazzi finanziari e simonia?

Il 7 maggio il Conclave avrà inizio, la materia umana dentro la quale sarà scelto il prossimo Vicario di Cristo è rappresentata da collegio cardinalizio fatto, come nel caso della Genealogia, di uomini che poco sanno tra di loro, fragili e alcune volte refrattari alla grazia. Questo non deve essere motivo di scoraggiamento, ma solo di sano realismo. Un animale da soma non può ambire a diventare un cavallo da corsa. La grazia perfeziona la natura che sussiste nell’uomo, ma non può snaturarla, perché non va oltre la natura che non c’è, così insegna la sapienza di San Tommaso d’Aquino: «Gratia non tollit naturam sed eam perficit» (Summa Theologiae, I, I, 8 ad 2). Lo Spirito Santo non è la bacchetta magica che detta automaticamente e insindacabilmente le scelte giuste ma è l’osservatore attento del dialogo dell’uomo con Dio, è lì a supportare questo dialogo per il bene della Chiesa e per la salvezza dell’uomo. Ma quando l’uomo si estromette dal suo accompagnamento ecco che sperimentiamo tutti i disagi di scelte destabilizzanti e divisive. In questo caso — come diceva il Cardinale Joseph Ratzinger — l’unica sicurezza che lo Spirito Santo offre è che tra le varie cadute e testardaggini dell’uomo e della Chiesa il tutto non venga totalmente e irreparabilmente rovinato.

Insomma, lo Spirito Santo ci deve ancora mettere na’ pezza, noi confidiamo in questo con la sapienza del popolo romano, col quale concordiamo quando dice che «morto un Papa se ne fa sempre un altro». Questo è incoraggiante, questo desideriamo e insieme speriamo che il prossimo Romano Pontefice Vescovo di Roma sia donato da Dio, non tollerato per accordi umani, né inflitto come il risultato dell’anti-spirito.

Sanluri, 30 aprile 2025

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THE HOLY SPIRIT, THE CONCLAVE AND THE ELECTION OF THE ROMAN PONTIFF BISHOP OF ROME

A pack animal cannot aspire to become a racehorse. Grace perfects the nature that exists in man, but cannot denature it, because it does not go beyond the nature that does not exist, as the wisdom of St. Thomas Aquinas teaches.

— Ecclesial actuality —

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Author
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

 

In times of vacant see, the fever of the Conclave infects everyone: both believers and non-believers are careful not to follow the prudent protocol of “watchful waiting” and everyone launches into predictions that mostly reflect their own personal desires to outline the profile of the next Vicar of Christ.

Among the various fans, how can we not include the romantics, those who insist on maintaining that the new Pope will be elected by the Holy Spirit himself. Said in this way, this concept means little or nothing, if not for a certain fideistic coloration. Yet, if we delve deeper into the thinking of these simple souls, we will discover that this idea sounds like a sort of insurance policy that should protect the cardinal electors and the People of God from unpleasant or embarrassing situations. A legitimate position that however does not take into account the dynamics with which the Holy Spirit actually acts in the history of man, just as he acted in the life of the Lord Jesus and of the Church in its two thousand years.

Example: if we take the Genealogy of the Gospels, can we perhaps say that within that history of those names made up of specific events the action of the Holy Spirit has always been present? My old professor of fundamental morality — a shrewd Jesuit of the old school by Company of Jesus — would have answered: “Yes and no”. He would have said yes because the result of the Genealogy is the person of Jesus born of Mary, no because among those people cited who built the historical, relational and family scaffolding that allowed the incarnation of the Word we must note numerous and abundant fragilities and resistances to grace that are not at all new in the history of man.

Someone might hastily object, «Well, okay, the important thing is the final result», this is true as long as we talk about Christ and as long as we take him as the final reference, but when there is man is this still true? To go even deeper, after the Ascension of the Lord, the earthly time of the Risen One ends and the time of the Church begins, in which it is men, apostles and disciples of Christ, who carry forward a deposit that was entrusted to them by the Master. The book of the Acts of the Apostles shows us several times that the progress of the Church has not always been peaceful and free of problems, even after Pentecost and the gift of the Holy Spirit. And over time, the situation has not changed much. We must be honest in considering the Holy Spirit not as a severe tutor who reluctantly leads his disciple by force of slaps but as a wise and prudent pedagogue who leaves a lot of space and freedom to his disciple by always remaining a few steps away from him, even allowing for healthy and inevitable falls.

What does this mean in a nutshell? It means that — as Cardinal Joseph Ratzinger said in 1997 — the Holy Spirit does not intervene with his fiery finger in the Sistine Chapel indicating the candidate for whom one should vote, but intervenes in the minds of the cardinals with a discreet human and historical discernment aimed at choosing the candidate who is torn between the shores of “worse” and “slightly less worse”. Beyond the bad joke, the history of the Church teaches that among the various Vicars of Christ not all have been champions and pious, on the contrary. Some have done a lot of damage — it is undeniable — but at the same time they have also been able to give the Church something good in the times in which they lived and exercised the Petrine ministry, in this we can certainly see the action of the Holy Spirit, in that little bit of good that has not been completely ruined by cumbersome personalities and by social and political interference together with human sympathies and alliances.

This is the elasticity that the Holy Spirit exercises in the Church without depriving man of his freedom and without forcing him to do good. Alongside the Holy Spirit there is also the anti-spirit that causes so many blunders and resides in the stubbornness of man who wants to do things his own way, relegating the Holy Spirit to the sole moment of singing the Veni Creator Spiritus.

To attribute to the Holy Spirit everything that happens inside a Conclave or during a celebration of a Synod or a Chapter would be pure superstition and naivety. We must dare and be sufficiently shrewd to recognize that the anti-spirit works months in advance to direct the fate of an event, it matters little whether it is a Conclave or a condominium meeting.

The hope we all have is that the Holy Spirit can speak to the hearts of the cardinals, making the Truth shine and at the same time instilling the courage to change or begin a new step. A high-speed train cannot be stopped suddenly, it needs time and room to maneuver. So it is in the Church, there is always a need for a change of direction and a conversion but nothing can happen suddenly or after a Conclave. Often, history tells us, the damage done by some Popes has taken years to repair, other times decades, sometimes, to remedy it, it has been necessary to convene an ecumenical council. Or perhaps we want to forget that both the Fourth Lateran Council and the Council of Trent were also the consequence of several not particularly recommendable Pontiffs who followed one another amidst less than edifying political events, power struggles, financial intrigues and simony?

The Conclave will begin on May 7th. The human matter within which the next Vicar of Christ will be chosen is represented by the College of Cardinals made up, as in the case of the Genealogy, of men who know little about each other, fragile and sometimes refractory to grace. This should not be a reason for discouragement, but only for healthy realism. A pack animal cannot aspire to become a racehorse. Grace perfects the nature that exists in man, but cannot denature it, because it does not go beyond the nature that does not exist, as the wisdom of St. Thomas Aquinas teaches: «Gratia non tollit naturam sed eam perficit» (Summa Theologiae, I, I, 8 ad 2). The Holy Spirit is not the magic wand that automatically and unquestionably dictates the right choices but is the attentive observer of the dialogue of man with God, he is there to support this dialogue for the good of the Church and for the salvation of man. But when man separates himself from his accompaniment, we experience all the discomforts of destabilizing and divisive choices. In this case — as Cardinal Joseph Ratzinger said — the only security that the Holy Spirit offers is that among the various falls and stubbornness of man and the Church, everything will not be totally and irreparably ruined.

The Holy Spirit still has to patch us up, we trust in this with the wisdom of the Roman people, with whom we agree when they say that «when a Pope dies, another is always made». This is encouraging, this is what we desire and together we hope that the next Roman Pontiff Bishop of Rome will be given by God, not tolerated by human agreements, nor inflicted as the result of the anti-spirit.

Sanluri, April 30, 2025

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