Forse neppure la Vergine Maria elaborò il lutto per la morte del figlio, può esserci riuscita la madre di Carlo Acutis?

FORSE NEPPURE LA VERGINE MARIA ELABORÒ IL LUTTO PER LA MORTE DEL FIGLIO, PUÒ ESSERCI RIUSCITA LA MAMMA DI CARLO ACUTIS?

La mamma di Carlo Acutis se ne va girando a fare conferenze sul figlio santo morto a 15 anni nel 2006 per una leucemia fulminante. Siamo alla tragicommedia? Certo che no, siamo solo alla comprensibile tragedia di una madre che ha scelto un modo insolito per cercare di elaborare il lutto del figlio.

—Attualità ecclesiale—

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Debbo eterna riconoscenza ai miei due principali formatori: Peter Gumpel S.J. (Hannover 1923 – †Roma, 2022) e Paolo Molinari, S.J (Torino 1924 – †Roma 2014) che per mezzo secolo diressero la postulazione generale della Compagnia di Gesù e che mi istruirono anche alla postulazione delle cause dei Santi. Non parliamo di tempi remoti, ma di un’epoca in cui non andavano ancóra di moda le cosiddette “postulatrici-vamp” laureate utriusque iuris alla Pontificia Università Lateranense, che cambiano compagni alla stessa maniera in cui cambiano i vestiti griffati e che assieme ai “manager postulatori”, anch’essi laici, sono capaci a spillare cifre da capogiro alle suorine di qualche congregazione in agonia, ma dotata di cospicuo patrimonio, che ignare di essere ormai alla porta d’ingresso del centro di cremazione, che affiderà in breve le loro ceneri alla storia, a tutti i costi vogliono beata o santa la fondatrice.

il teologo e storico del dogma Peter Gumpel, S.J. (1923 – 2022)

Mi trovavo all’indimenticabile terzo piano della curia generalizia della Compagnia di Gesù, al civico 4 di Borgo Santo Spirito, dove credo d’aver preso alcune delle decisioni più fondamentali della mia vita, a partire dalla più importante: diventare prete. Correva il mese di settembre dell’anno 2011, stavo aiutando Padre Peter Gumpel in alcuni lavori legati a certi documenti della causa di beatificazione di Pio XII, quando durante una pausa mi narrò che grandi furono le riserve da parte di diversi esperti per la beatificazione, poi a seguire per la canonizzazione di Maria Goretti, perché erano sempre in vita familiari diretti: fratelli e sorelle, ma soprattutto la madre Assunta. A tal guisa Padre Peter mi narrò:

«Benché la cosa non sia nota, prima di procedere alla beatificazione, avvenuta 45 anni dopo la morte della martire — non sei anni dopo come oggi si usa fare con i Romani Pontefici —, fu richiesta alla madre, ai fratelli e alle sorelle la promessa che avrebbero condotto una vita riservata e non avrebbero mai fatto racconti e rese pubbliche testimonianze sulla figlia e la sorella, perché quanto c’era da dire aveva provveduto a dirlo la Chiesa e se qualcosa fosse stato necessario aggiungere o integrare, avrebbe provveduto sempre la Chiesa stessa».

Mamma Assunta, coi fratelli e le sorelle della famiglia Goretti, si attennero a quanto richiesto dall’Autorità Ecclesiastica e nessuno: giornalista, scrittore, studioso o semplice curioso ha mai carpito loro una parola oltre quanto narrato dalla Chiesa sulla vicenda della martire adolescente.

La mamma di Carlo Acutis se ne va girando a fare conferenze sul figlio santo morto a 15 anni nel 2006 per una leucemia fulminante, senza che nessuna Autorità Ecclesiastica l’abbia invitata alla massima discrezione, tutt’altro, la stimolano in tal senso! Siamo alla tragicommedia? Certo che no, siamo solo alla comprensibile tragedia di una madre che ha scelto un modo insolito per cercare di elaborare il lutto del figlio; un lutto che non potrà mai essere elaborato, soprattutto da parte di una madre, tanto innaturale è la perdita di un figlio per i genitori.

La prova di quanto testé affermato si trova impressa nel vocabolario: un figlio che perde i genitori è un orfano, una moglie che perde un marito è una vedova, un marito che perde la moglie è un vedovo. Un genitore che invece perde un figlio, che cos’è, con quale termine è definito? Sul vocabolario non esiste neppure un termine per definire un genitore che perde un figlio, con buona pace delle correnti di certa psicologia selvaggia che parlano della elaborazione del lutto per la morte del figlio.

Chissà, forse neppure la Beata Vergine Maria elaborò il lutto per la morte del figlio. Comprese i piani divini, acquisì la consapevolezza — non sappiamo quando e attraverso quale processo graduale nel corso del tempo — che il figlio da lei messo al mondo era il Verbo di Dio incarnato «generato non creato della stessa sostanza del Padre», che si offrì come agnello immolato per lavare i peccati del mondo.

L’elaborazione del lutto del figlio è però altra cosa, persino per la Beata Vergine Maria, che pur essendo madre del Dio incarnato morto e risorto, per quanto nata senza peccato originale e assunta in cielo dopo essersi assopita, era comunque una creatura creata, era umana, non divina. Così come creatura creata è la mamma di San Carlo Acutis, che non è l’Immacolata Concezione.  

 

dall’Isola di Patmos, 7 dicembre 2024

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La speranza Cristiana nella giustizia divina in Kafka e Van Tuan

LA SPERANZA CRISTIANA NELLA GIUSTIZIA DIVINA IN KAFKA E VAN THUAN

In un paese sotto una dittatura ― sia essa di un individuo, di un partito, di una religione, della burocrazia o della toga ― il sistema giudiziario non serve alla giustizia, ma al mantenimento del potere. Le leggi sono applicate in modo arbitrario, i processi lunghi e opachi e le decisioni spesso influenzate da interessi politici e personali, senza tenere conto dei desideri della popolazione.

— Riflessioni pastorali —

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Franz Kafka (1883-1924) è stato uno scrittore ceco di lingua tedesca le cui opere sono famose per aver rappresentato l’assurdità e l’alienazione della vita moderna.

Nonostante la sua salute fragile e i continui attacchi di tubercolosi, Kafka ebbe una prolifica produzione letteraria, anche se nel corso della sua vita pubblicò pochi lavori. Il suo amico Max Brod, contrariamente a quanto l’Autore aveva disposto, pubblicò postume le sue opere più importanti: come Il Processo, Il Castello e La Metamorfosi, consolidando Kafka come una delle figure più influenti della letteratura del XX secolo.

Il suo celebre romanzo Il processo è un viaggio nei meandri della burocrazia e l’oppressione di un oscuro sistema giudiziario kafkiano. Pubblicato postumo nel 1925, il libro è una critica rappresentazione dell’arbitrarietà e della disumanizzazione dei sistemi di potere. La storia inizia con Josef K., un rispettabile direttore di banca, che finisce inspiegabilmente arrestato in casa sua da due guardie, Franz e Willem, nel giorno del suo trentesimo compleanno. Nonostante il suo arresto, a Josef K. viene detto che può continuare la sua vita quotidiana ma dovrà comparire in tribunale per affrontare accuse non specificate.

Nel corso del romanzo Josef K. cerca di comprendere la natura delle accuse e il funzionamento del tribunale, ritrovandosi invischiato in un sistema giudiziario labirintico e opaco dove logica e giustizia sembrano assenti. Tutti gli sforzi per comprendere il processo sono costantemente vanificati dalla burocrazia e dalla mancanza di trasparenza. Nonostante tutti i suoi tentativi Josef K. non riesce a ottenere informazioni chiare né un aiuto efficace. Il tribunale resta un’entità lontana e incomprensibile dinanzi alla quale egli si sente sempre più impotente.

Le ultime parole del romanzo fanno eco al sentimento di rassegnazione e smarrimento del Protagonista: «Come un cane!». Queste parole suggeriscono la disumanizzazione e il degrado che ha subito durante tutto il processo. Il processo è un lavoro complesso che affronta temi come l’alienazione, la burocrazia oppressiva e l’impotenza dell’individuo di fronte a sistemi di potere inspiegabili. La narrazione illustra come la mancanza di trasparenza e arbitrarietà possa disumanizzare e distruggere vite umane.

In un paese sotto una dittatura ― sia essa di un individuo, di un partito, di una religione, della burocrazia o della toga ― il sistema giudiziario non serve alla giustizia, ma al mantenimento del potere. Le leggi sono applicate in modo arbitrario, i processi lunghi e opachi e le decisioni spesso influenzate da interessi politici e personali, senza tenere conto dei desideri della popolazione. Come in Il Processo, gli individui finiscono incolpati e puniti senza una chiara comprensione delle accuse contro di loro. La trasparenza è inesistente e i diritti fondamentali metodicamente violati con un semplice tratto di penna. Questo genere di regime crea un’atmosfera di paranoia e sfiducia, in cui la verità è manipolata e la libertà limitata con il pretesto dell’ordine e della sicurezza.

Tuttavia, in mezzo alla disperazione generata da tali sistemi, la speranza nella giustizia divina emerge come contrappunto. La giustizia divina rappresenta l’idea di un giudizio finale infallibile, dove tutte le ingiustizie terrene saranno corrette. Per coloro che soffrono sotto qualsiasi tipo di dittatura, questa speranza offre conforto e una forma di resistenza spirituale. La convinzione che, al di là dei fallimenti e delle corruzioni umane, esista una giustizia suprema e imparziale fornisce oggi un uno scopo vitale assieme a un senso di umana dignità.

Il cardinale François-Xavier Nguyễn Văn Thuận, nella sua opera Cinque pani e due pesci, offre uno sguardo ispiratore sulla speranza e sulla fede in mezzo alle avversità estreme. Ricordiamo che Van Thuan fu arrestato dal regime comunista in Vietnam e trascorse 13 anni in prigione, nove dei quali in isolamento. Durante questo periodo mantenne la sua fede e trovò modi creativi per continuare il suo ministero, inclusa la celebrazione clandestina dell’Eucaristia e la scrittura di messaggi di speranza.

In Cinque pani e due pesci, Van Thuan riflette sulla sua esperienza di sofferenza e sulla presenza di Dio nella sua vita. Sottolinea l’importanza della fede, della speranza e della carità, anche nelle circostanze più difficili. Sottolineando che la vera giustizia e la pace vengono da Dio e che, nonostante le ingiustizie terrene, la speranza nella giustizia divina offre consolazione e forza. Questa figura eroica ha testimoniato come la fede in Dio gli ha permesso di trovare la pace interiore e di resistere all’oppressione, pur mantenendo la speranza per un futuro migliore.

Pertanto, anche di fronte a situazioni di impotenza, come quella di Josef K. ne Il Processo, non possiamo scoraggiarci. La speranza cristiana della giustizia si realizzerà con l’adempimento delle benedizioni donateci da Dio. Pertanto, la fede nella giustizia divina non solo offre conforto, ma ispira anche una silenziosa resilienza e una speranza incrollabile per il presente:

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6).

 

Jundiaí, 30 novembre 2024

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A ESPERANÇA CRISTÃ NA JUSTIÇA DIVINA EM KAFKA EM VAN THUAN

Em um país sob uma ditadura ― seja de um indivíduo, de um partido, de uma religião, da burocracia ou da toga ― o sistema judicial não serve à justiça, mas à manutenção do poder. As leis são aplicadas de maneira arbitrária, os processos são longos e opacos, e as decisões são frequentemente influenciadas por interesses políticos e pessoais, sem levar em conta o desejo da população.

— Reflexões pastorais —

Autor
Eneas De Camargo Bête

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Franz Kafka (1883-1924) foi um escritor tcheco de língua alemã, cujas obras são célebres por retratar o absurdo e a alienação da vida moderna.

Apesar de sua saúde frágil e das crises constantes de tuberculose, Kafka escreveu intensamente, embora tenha publicado pouco em vida. Seu amigo Max Brod, contrariando a vontade de Kafka, publicou postumamente suas obras mais importantes, como O Processo, O Castelo e A Metamorfose, consolidando Kafka como uma das figuras mais influentes da literatura do século XX.

O Processo de Franz Kafka é um romance que explora a burocracia e a opressão de um sistema judicial obscuro e kafkiano. Publicado postumamente em 1925, o livro é uma crítica incisiva à arbitrariedade e à desumanização nos sistemas de poder. A história começa com Josef K., um respeitável gerente de banco, sendo inexplicavelmente preso em sua própria casa por dois guardas, Franz e Willem, no dia de seu 30º aniversário. Apesar da prisão, Josef K. é informado de que pode continuar sua vida cotidiana, mas deve se apresentar a um tribunal para enfrentar acusações não especificadas.

Ao longo do romance, Josef K. tenta compreender a natureza das acusações e o funcionamento do tribunal. Ele se depara com um sistema judicial labiríntico e opaco, onde a lógica e a justiça parecem ausentes. Seus esforços para entender o processo são constantemente frustrados pela burocracia e pela falta de transparência. Apesar de todas as suas tentativas, Josef K. não consegue obter informações claras ou assistência efetiva. O tribunal permanece uma entidade distante e incompreensível, e K. se sente cada vez mais impotente.

As últimas palavras do romance ecoam o sentimento de resignação e perplexidade de K.: «Como um cão!» Estas palavras sugerem a desumanização e a degradação que ele sofreu ao longo do processo. O Processo é uma obra complexa que aborda temas como a alienação, a burocracia opressiva e a impotência do indivíduo diante de sistemas de poder inexplicáveis. A narrativa ilustra como a falta de transparência e a arbitrariedade podem desumanizar e destruir vidas.

Em um país sob uma ditadura ― seja de um indivíduo, de um partido, de uma religião, da burocracia ou da toga ― o sistema judicial não serve à justiça, mas à manutenção do poder. As leis são aplicadas de maneira arbitrária, os processos são longos e opacos, e as decisões são frequentemente influenciadas por interesses políticos e pessoais, sem levar em conta o desejo da população. Como em O Processo, os indivíduos são culpabilizados e punidos sem um entendimento claro das acusações contra eles. A transparência é inexistente, e os direitos fundamentais são constantemente violados com uma canetada. Este tipo de regime cria uma atmosfera de paranoia e desconfiança, onde a verdade é manipulada e a liberdade é restringida sob o pretexto de ordem e segurança.

No entanto, em meio à desesperança gerada por tais sistemas, a esperança na justiça divina emerge como um contraponto. A justiça divina representa a ideia de um julgamento final e infalível, onde todas as injustiças terrenas serão corrigidas. Para aqueles que sofrem sob qualquer tipo de ditadura, esta esperança oferece um consolo e uma forma de resistência espiritual. A crença de que, além das falhas e corrupções humanas, existe uma justiça suprema e imparcial proporciona um sentido de propósito e dignidade vividos no hoje.

O Cardeal François-Xavier Nguyễn Văn Thuận, em sua obra Cinco Pães e Dois Peixes, oferece uma visão inspiradora sobre a esperança e a fé em meio à adversidade extrema. Van Thuan foi preso pelo regime comunista no Vietnã e passou 13 anos na prisão, sendo nove deles em isolamento. Durante esse tempo, ele manteve sua fé e encontrou maneiras criativas de continuar seu ministério, incluindo a celebração clandestina da Eucaristia e a escrita de mensagens de esperança.

Em Cinco Pães e Dois Peixes, Van Thuan reflete sobre sua experiência de sofrimento e a presença de Deus em sua vida. Ele enfatiza a importância da fé, da esperança e da caridade, mesmo nas circunstâncias mais difíceis. Van Thuan destaca que a verdadeira justiça e paz vêm de Deus e que, apesar das injustiças terrenas, a esperança na justiça divina oferece consolo e força. Ele escreve sobre como a fé em Deus permitiu-lhe encontrar paz interior e resistir à opressão, mantendo sempre a esperança em um futuro melhor.

Portanto, mesmo diante de situações de impotência, como a de Josef K. em O Processo, não podemos desanimar. A esperança cristã de justiça se dará com o cumprimento das bem-aventuranças realizadas por Deus a nós. Assim, a fé na justiça divina não só proporciona consolo, mas também inspira uma resiliência silenciosa e uma esperança inabalável para agora:

«Bem-aventurados aqueles que têm fome e sede de justiça, porque serão saciados» (Mt 5,6).

Jundiaì 30 de novembro de 2024

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Ok Houston, quaggiù nella Chiesa visibile abbiamo avuto dei grossi problemi nella vita religiosa

OK, HOUSTON, QUAGGIÙ NELLA CHIESA VISIBILE ABBIAMO AVUTO DEI GROSSI PROBLEMI NELLA VITA RELIGIOSA Alcuni personaggi che nella vita da laici non avrebbero potuto adire a posti di responsabilità poiché deficitari sotto diversi punti di vista, approfittando della debolezza degli Ordini Religiosi riescono a realizzarsi in essi e acquisire prestigio e credito, mantenendo sotto traccia quelle difficoltà personali che prima o poi ritornano in superficie. Quelli un po’ più dotati, riescono a conseguire qualche titolo accademico in centri di studi ecclesiastici, ormai fin troppo facili da acquisire, vantando competenze e ascendenze sulle persone, quando spesso non servono ad altro che ad ammantare le carenze personali. È la desolazione del nulla compensata con carte accademiche che oggi non valgono niente. —...

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Caro Tucho ti scrivo così mi distraggo un po’

CARO TUCHO TI SCRIVO, COSÌ MI DISTRAGGO UN PO’

Comunque a noi piace un sacco il parlare colloquiale, come fra amici di vecchia data, fa molto Un sacco bello. Anche perché dietro quell’italiano un po’ così, che si ritrova nei documenti ufficiali, percepiamo sempre quelle cadenze sudamericane che fanno subito «fiesta», o come cantava la compianta Raffaella Carrà: «Qué fantastica esta fiesta»

 

 

 

 

 

 

 

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Non ti dispiace, vero, se mi rivolgo a te così? È che avete sdoganato voi ― tu e il Grande Capo ― lo stile colloquiale fuori dagli schemi e dalla precisione a cui ci aveva abituato quell’altro. Quello, come si chiamava? Quello che se ne è andato prima del tempo dovuto. Comunque a noi piace un sacco il parlare colloquiale, come fra amici di vecchia data, anche perché fa molto Un sacco bello. Anche perché dietro quell’italiano un po’ così, che si ritrova nei documenti ufficiali, percepiamo sempre quelle cadenze sudamericane che fanno subito «fiesta», o come cantava la compianta Raffaella Carrà: Qué fantastica esta fiesta.

Ci ricordano anche Speedy Gonzalez quando gridava: «Arriba, Arriba!»; o il canto argentino: Muchachos, esta noche me emborracho.

È che abbiamo letto la tua lettera inviata al Sinodo sul lasciar perdere quella questione dell’ordinazione delle donne diacono. È il Gran Capo che ha detto che la cosa non è matura. Come le pere insomma o i kiwi. Va bene. Se lo dice lui si obbedisce.

Però che bella scusa hai messo all’inizio. Mi ricorda quando mi chiamavano all’interrogazione e non ero preparato. Credo di aver fatto morire mia nonna non so quante volte, povera donna! Però le ha portato bene, perché se ne è andata a una bella età. Come si fa a scrivere in un documento ufficiale diretto proprio a quel “Gruppo 5” che doveva dibattere la questione, che il coordinatore del gruppo, Il Segretario dottrinale del Dicastero per la Dottrina della Fede, era assente perché doveva andare dal medico? E siccome quelli si aspettavano te, allora avete mandato altre due persone ad appuntarsi le proposte. Suvvia. Non era meglio dire, come fai ora: Lasciate perdere. Avvisarli casomai il giorno prima: «Día libre mañana», come disse Ancelotti ai calciatori del Real Madrid il giorno che vinsero la Champion.

Comunque molto fighe anche le motivazioni del perché la cosa non si può fare. La prima. Siccome il ministero delle catechiste, proposto dal Gran Capo, i vescovi non l’hanno recepito, salvo pochissimi, allora le diaconesse non vanno bene. Una logica stringente. Come a dire: Siccome l’aspirina non cura il cancro, allora lasciamo perdere quei farmaci che guariscono questo male. Ottimo. Dici: Ma neanche i vescovi dell’Amazzonia lo han fatto, che si ritrovano donne e catechiste alla guida di comunità senza prete. Grazia al cavolo. Quelli chiedevano l’ordinazione degli sposati, che se ne fanno dell’aspirina, per tornare all’esempio.

La seconda pure è forte. L’accolitato per le donne è stato accolto in piccola misura nelle diocesi e spesso i preti sono i primi a non proporre nessuno. Altra logica che ti mette all’angolo. Quindi siccome un prodotto non si vende, o viene ostacolato da qualcuno, chiudiamo la fabbrica o mandiamo a quel paese un’altra filiera che invece potrebbe portare bei soldoni. Straordinario.

Però il clou si tocca nell’ultima motivazione che è veramente da Brivido felino. Soprattutto se si pensa che viene da uno che presiede un Dicastero della Santa Sede:

«Il diaconato per i maschi: in quante diocesi del mondo è stato accolto. E dove sono stati accolti, quante volte sono solo chierichetti ordinati?».

Ora, se fossi diacono permanente mi sentirei offeso, ma parecchio eh, che venga dal posto che occupi tu una caricatura così becera del diaconato. Allora, senti, posso dire che tutti i preti sono pedofili? Che voi in Vaticano fate la bella vita e che state nello Stato più ricco del mondo, come dicono i diffusori delle leggende nere? Certo che lo posso dire, perché questa è la logica che usi tu, Tucho, analogamente ai diffusori delle leggende nere.

Scusa eh, se te l’ho detta così diretta. Se te la prendi mi dispiace, ritiro tutto. Perché ne avrei anche sul Gran Capo. Eh sì. Tu dici che Lui avrebbe scelto che sulla questione deve continuare a lavorare la Commissione istituita nell’anno 2020. Quattro anni che «trabajan», cavolo. Quanto ci mettono? E sono in dodici, come gli Apostoli. Vabbè, si sa come vanno le cose là da voi. Quarant’anni per dire qualcosa su Medjugorje. A proposito, non è che quella Signora logorroica potrebbe dirci qualcosa di preciso su queste questioni, anche origliando alla porta del Principale? Invece che tutti ‘sti segreti da rivelare?

Comunque, quello che volevo darti è un suggerimento. La prossima volta invece di prenderci per scemi, diteci: «Si fa, oppure, non si fa». Casomai aggiungendo: «Perché è una cosa dura da far digerire a tutti». È meglio. Che non abbiamo tempo da perdere, neanche per illuderci.

Sempre tuo devotissimo, un caro saluto da un eremita preoccupato.

 

Dall’Eremo, 24 ottobre 2024

P.S.

Per coloro che leggeranno: lo scritto non è a favore delle donne diacono, né dei preti sposati. Sono tesi dibattute, no? Si interessa soltanto al modo di comunicare attualmente in vigore da quelle parti, in Vaticano. Vi prego: non fate i Tucho pure voi.

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Medjugorje e Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»

MEDJUGORJE E AGATHA CHRISTIE: «UN INDIZIO È UN INDIZIO, DUE INDIZI SONO UNA COINCIDENZA, MA TRE INDIZI FANNO UNA PROVA»

«I fedeli, per quanto riguarda il culto a Maria “Regina della pace”, sono “autorizzati a osservarlo con prudenza”, sebbene ciò non implichi l’approvazione del carattere soprannaturale del fenomeno in questione, con la nota che i credenti non sono obbligati a credervi. Che i sacerdoti di questa Diocesi, accettando e rispettando la decisione della Chiesa, sono liberi di essere d’accordo o in disaccordo con questa proposta spirituale» (Decreto del Vescovo di Mostar-Duvno, 19 settembre 2024).

 

 

 

 

 

 

 

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Che con l’avvento di Francesco, sia avvenuto nella Chiesa un cambiamento di paradigma, non è più un caso che necessita di prove. Non è ancora possibile, né prudente fare un bilancio del suo pontificato svolto fin qui, ma alcune cose si possono già dire. Che per esempio con l’attuale pontefice sia cambiato il modo di comunicare lo scrive perfino Padre Antonio Spadaro S.J., da subito suo fidato interprete, in un articolo apparso recentemente su La Repubblica:

«Francesco ha compreso che la comprensibilità non è la stessa cosa della chiarezza… L’uomo di oggi, più che di discorsi semplicemente “chiari”… ha bisogno di discorsi che siano credibili, portatori della complessità, delle situazioni, delle esperienze, della vita che a volte non è e non può essere così “chiara”. Il linguaggio chiaro è quello della norma. Se il pastore lo assume come modalità comunicativa finisce per confondersi e vestire i panni del legislatore e del giudice» (La Repubblica, 19.09.24, pg. 39).

Cosa c’è di peggio rispetto al mentire e ingannare il Popolo di Dio? La consapevolezza che si sta mentendo e ingannando il Popolo di Dio

Diceva la celebre scrittrice di libri gialli Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Quindi non più le idee chiare e distinte, così care al suo ultimo predecessore, ma uno stile nuovo che sia attento alle complessità, alle situazioni e alle esperienze, dei singoli come delle comunità. Probabilmente è per questo che il Papa si è scelto come stretto collaboratore a capo del Dicastero per la Dottrina della Fede il Cardinale Victor Manuel Fernandez. Il quale in occasione dell’incarico ricevette dal Pontefice queste raccomandazioni, in una lettera che qui riportiamo nella versione spagnola perché non esiste una traduzione ufficiale della Santa Sede:

«El Dicasterio que presidirás, en otras épocas llegó a utilizar métodos inmorales. Fueron tiempos donde más que promover el saber teológico se perseguían posibles errores doctrinales. Lo que espero de vos es sin duda algo muy diferente… Es más, sabés que la Iglesia «necesita crecer en su interpretación de la Palabra revelada y en su comprensión de la verdad» sin que esto implique imponer un único modo de expresarla. Porque «las distintas líneas de pensamiento filosófico, teológico y pastoral, si se dejan armonizar por el Espíritu en el respeto y el amor, también pueden hacer crecer a la Iglesia». Este crecimiento armonioso preservará la doctrina cristiana más eficazmente que cualquier mecanismo de control. Es bueno que tu tarea exprese que la Iglesia «alienta el carisma de los teólogos y su esfuerzo por la investigación teológica” con tal que «no se contenten con una teología de escritorio», con «una lógica fría y dura que busca dominarlo todo». Siempre será cierto que la realidad es superior a la idea. En ese sentido, necesitamos que la Teología esté atenta a un criterio fundamental: considerar «inadecuada cualquier concepción teológica que en último término ponga en duda la omnipotencia de Dios y, en especial, su misericordia». Nos hace falta un pensamiento que sepa presentar de modo convincente un Dios que ama, que perdona, que salva, que libera, que promueve a las personas y las convoca al servicio fraterno» (cfr. testo QUI, corsivi e sottolineature mie).

Vaticano, 1 Julio 2023

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Da quel giorno il Cardinale non è venuto meno a questo affidamento e ciò si può facilmente riscontrare nelle note o nelle risposte date dal Dicastero presieduto. Fra queste ha fatto tanto scalpore la Nota sulla benedizione da potersi dare, a determinate condizioni, alle coppie irregolari o omosessuali e quella recentissima circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje, che ha creato un ampio dibattito nella comunità ecclesiale. Non si può tacciare il Cardinale Prefetto di esser venuto meno al suo mandato, del resto il suo orientamento è chiaro ed esplicitato in più occasioni, come quando ha affermato, in un incontro presso l’Università Lateranense nel febbraio di quest’anno:

«Una teologia per il Popolo di Dio è una teologia attenta alle dinamiche che questo popolo sta vivendo in questo momento storico, per aiutarlo ad interpretarle alla luce della fede, sia per purificarle sia per favorire tutto ciò che è positivo. Questo è tipico di ogni processo di inculturazione che includa entrambi gli aspetti. Si auspica, pertanto, che i teologi possano essere all’altezza di questa missione. Non si tratta certo di inventare una nuova Rivelazione, ma di far scaturire dalla sorgente inesauribile del Vangelo quello che meglio possa illuminare la vita del Popolo di Dio, quello che possa aiutare questo Popolo a vivere felice in mezzo ai limiti e alle difficoltà della vita. Infatti, nella lettera che il Papa mi ha scritto quando mi ha nominato Prefetto, ha detto che in fondo oggi si ha “bisogno di una teologia che sappia presentare in modo convincente un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le chiama al servizio fraterno”» (QUI).

Sessant’anni fa e più si celebrava il Concilio Vaticano II. Come ebbe a dire il decano dei teologi italiani, Severino Dianich, esso rimise al centro della vita della Chiesa il tema dell’ermeneutica della fede. Da allora molte cose sono cambiate e le società e le culture profondamente trasformate. Le grandi spinte sociali, culturali e ideologiche che animavano il periodo del Concilio sono tramontate, alcune tragicamente, altre mutate e frazionate in mille rivoli. Soprattutto la perdita di grandi ideali e punti di riferimento comuni alle masse ha portato a una rivalutazione del sentimento religioso, del resto mai sopito o cancellato, come alcuni auspicavano. Ma anche all’interno di esso le medesime dinamiche che attraversano la società si sono riprodotte; tanto la perdita dell’identità comune, quanto il soggetto lasciato solo di fronte ai grandi problemi che affliggono l’esistenza e il mondo post moderno, hanno fatto risaltare le stesse nevrosi che si riscontrano altrove: angosce, spaesamento, depressioni, perdita del senso della propria vita. Così la ricerca di luoghi di apparizioni che diano conferme, di messaggi provenienti dall’alto che offrano rassicurazioni si sono moltiplicati, tanto da diventare un serio problema per la Chiesa. Il segnale più eclatante è il fenomeno religioso di Medjugorje sul quale la Chiesa non ha potuto più non intervenire con una parola autorevole, favorendo il cammino spirituale che lì si porta avanti, ma mettendo seri paletti sia ai messaggi che ai «presunti» veggenti, entrambi non riconosciuti in maniera palese e chiara. Ma se guardiamo gli ultimi documenti del Dicastero per la Dottrina della Fede prima della recente Nota sul fenomeno di Medjugorje, sono ben nove i testi che la precedono, per lo più risposte ai vescovi circa asserite apparizioni e messaggi provenienti dalla Vergine Maria, in diverse parti del mondo. Queste risposte sono state possibili dopo l’emanazione da parte dello stesso Dicastero delle «Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali» (QUI).

Ci vollero dodici anni per una prima dichiarazione per i fatti riferiti da Bernardette che permetteva l’afflusso di fedeli e la venerazione a Lourdes. Fatima ebbe una rilevanza quasi immediata; a soli due anni dagli eventi dichiarati dai pastorelli il vescovo locale, col beneplacito della Santa Sede, dichiarava:

«Degne di credenza, le visioni dei bambini pastori della Cova da Iria, avvenute nella parrocchia di Fátima, in questa diocesi, dal 13 maggio al 13 ottobre 1917».

Ma erano anche altri tempi e altri contesti. In Francia, al tempo dei fatti di Lourdes, l’imperatore Luigi Napoleone bloccava ogni accordo con la Chiesa oltre il concordato del 1801. In Portogallo i pastorelli furono incarcerati per due giorni per ordine dell’allora sindaco di Vila Nova. Al di là del contesto storico, potremo dire che le dichiarazioni della Santa Sede sui fatti di Lourdes e Fatima furono tempestive e riguardavano «fatti ritenuti straordinari».

Per i fatti di Medjugorje ci sono voluti oltre quarant’anni per la pubblicazione di una Nota che ha valorizzato più l’esperienza religiosa che i dati dei messaggi, definiti con estrema chiarezza “presunti”, come “presunte” sono state definite le apparizioni ma, soprattutto, “presunti” i sedicenti veggenti. Ora è proprio questo, l’esperienza religiosa, il dato che più risalta agli occhi di chi legge la Nota del Dicastero. Certo, i partigiani, talvolta dei veri e propri talebani, della vicenda religiosa e spirituale scaturite dalla località della Bosnia-Erzegovina, non se ne avvedranno e hanno già salutato la Nota come una vittoria, come un grande riconoscimento. Ma bisogna pur dirlo. Quello che la Nota introduce, come pure nei nove documenti che la precedono, sono due aspetti: quello della percezione personale di un fenomeno da una parte, e dall’altra del riconoscimento di un’esperienza religiosa anche se non pienamente fondata e chiara in tutti i suoi aspetti. È questo il nuovo paradigma che risalta. L’importanza data alla percezione del singolo, molto in sintonia con quello che la società moderna auspica, anche in più ambiti; e il valore dato all’esperienza che può addirittura condurre a buoni frutti al di là di una dottrina ambigua presente in taluni gruppi. La Nota chiede ai vari vescovi di vigilare sulle esperienze religiose dei singoli e dei gruppi; al tempo stesso, richiamando le norme, chiede di «apprezzare il valore pastorale e di promuovere pure la diffusione di questa proposta spirituale».

A mio avviso si tratta di una novità nella Chiesa, che ho definito appunto nuovo paradigma, del resto anticipato dai modi di fare e comunicare dell’attuale Sommo Pontefice e messo in pratica dai suoi più stretti e importanti collaboratori. Dove porterà tutto questo non è dato saperlo. È evidente che la Chiesa, allo stato attuale, è più propensa a governare questi processi affinché non deviino o si deteriorino, piuttosto che fermarli. È questa la raccomandazione data ai vescovi, cioè ai sorveglianti del Popolo di Dio. Il Vescovo di Monstar-Duvno, il diretto interessato ai fatti di Medjugorje, ha infatti emanato una sua nota successiva a quella della Santa Sede nella quale dopo una ripresa della stessa, dice chiaramente testuali parole:

«I fedeli, per quanto riguarda il culto a Maria “Regina della pace”, sono “autorizzati ad osservarlo con prudenza” (Norme, art. 22, §: cfr Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 14), sebbene ciò non implichi l’approvazione del carattere soprannaturale del fenomeno in questione (cfr. Norme, art. 22, §2), con la nota che i credenti non sono obbligati a credervi. Che i sacerdoti di questa Diocesi, accettando e rispettando la decisione della Chiesa, sono liberi di essere d’accordo o in disaccordo con questa proposta spirituale» (QUI).

Come si può salutare un testo di questo genere definendolo una approvazione storica da parte della Santa Sede, come ha esultato, per citarne uno tra i tanti, Padre Livio Fanzaga, che dai microfoni di Radio Maria parla addirittura di «riconoscimento pieno» (cfr. QUI). Come si può? È una domanda.

Per inciso bisogna ricordare che tutti i vescovi che si sono succeduti in quella Diocesi a partire dall’inizio delle presunte apparizioni, non si sono limitati a essere scettici, hanno dichiarato false le apparizioni nel corso della storia e inattendibili i cosiddetti veggenti. Le presunte apparizioni furono dichiarate non autentiche da S.E. Mons. Pavao Zanic, Vescovo di Mostar-Duvno dal 1980 al 1993, cui succedette S.E. Mons. Ratko Peric dal 1983 al 2000, che nel suo libro Il trono della saggezza (Crkva na Kamenu, Mostar 1995), nel capitolo intitolato I criteri per la valutazione delle apparizioni dedica un paragrafo alle apparizioni di Medjugorje dove cerca di dimostrare che le apparizioni della Madonna non sono vere e che i presunti veggenti hanno mentito ripetutamente e da sùbito (cfr. pagg. 266-286).

Oggi siamo certamente in una fase di transizione, ormai lontani, come dicevamo, dai tempi conciliari, ma è anche cambiato rapidamente l’approccio rispetto ai precedenti magisteri dei Papi recenti. Per questo, forse, si deve guardare con qualche benevolenza i tentativi, a volte anche curiosi, eccentrici e goffi usati dal Papa e dai suoi collaboratori per divulgare questo nuovo corso? Solo un esempio. Il Cardinale Victor Manuel Fernandez nella conferenza stampa di presentazione della Nota ha dovuto per forza accennare alle difficoltà che alcuni «messaggi mariani» dati a Medjugorje ponevano. Ma per interpretarli positivamente, nonostante contenessero palesi inesattezze, anche dottrinarie, ha fatto riferimento ai testi di autori mistici come San Giovanni della Croce o Santa Teresa di Lisieux, i quali anch’essi riporterebbero a suo dire imprecisioni. Ora l’esperienza mistica è di per sé indicibile e con fatica si traduce in parole umane anche scritte. Ma si tratta pur sempre di autori umani che adoperano gli strumenti umani disponibili. Si può paragonare ciò ai presunti messaggi che verrebbero dall’alto, dalla Vergine Maria, dei quali i cosiddetti veggenti sono solo tramite? Che messaggi sarebbero se tali non sono e vanno decriptati? Questa è una fra le molte difficoltà sulle quali bisognerebbe interrogarsi seriamente.

La Chiesa ha scelto di operare in questo modo e probabilmente, più che governare i processi in atto, cerca di rincorrerli e arginarli come può, accettando che l’esperienza personale e una proposta religiosa possano diventare occasione di salvezza, per quanto da sorvegliare attentamente. Ma la Chiesa è chiamata anche a confrontarsi con altri aspetti che accompagnano la nostra società contemporanea, fra questi il progressivo allontanamento di essa dalla comunità ecclesiale, la scienza e le conseguenti tecnologie che regolano ormai le vite degli esseri umani, l’incalzare degli algoritmi e della cosiddetta intelligenza artificiale che scandiscono ormai le scelte dei singoli e dei gruppi sociali. Come risponderà la Chiesa a queste istanze, mentre appare ancora troppo ripiegata su sé stessa e i sui propri problemi interni? Forse con un doppio binario, uno per i semplici che ancora cercano visioni e domandano messaggi dall’alto e un altro con il quale cerca di dialogare e interagire con la società e i mondi contemporanei?

Sempre il succitato teologo italiano Severino Dianich recentemente ha strigliato i suoi confratelli e colleghi teologi tacciandoli di tradimento (cfr. QUI), perché incapaci di proferire una parola ficcante sui fatti che accadono nel mondo e sui processi culturali in atto. Le risposte di alcuni teologi che si sono sentiti colti sul vivo sono state o fuori contesto o troppo verbose. È certo che la Chiesa sta vivendo un travaglio, chissà se esso porterà a una trasformazione o a una nuova nascita, certamente diversa dalle precedenti a cui siamo da secoli abituati. Negli anni che seguirono il Concilio, mentre si diffondeva il movimento nato nel Maggio del 1968, il gesuita Michel de Certeaux, molto ascoltato nella laicissima Francia e che arrivò a dirigere gli studi della École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi parlava di «cristianesimo in frantumi» (QUI). Una espressione scomoda che allora non fu accettata, ma di cui oggi sentiamo gli effetti. Come sarà il Cristianesimo di domani? Non è dato sapere, perché è come chiedersi come sarà il mondo nel prossimo futuro, nel quale la Chiesa coi suoi membri sarà inserita. Certo, si spera che il Cristianesimo di domani non sia composto, stando a quanto purtroppo si palesa quello d’oggi, una aggregazione di fedeli fideisti alla morbosa ricerca di Madonne che appaiono in giro per il mondo preannunciando catastrofi e consegnando terrificanti segreti a sedicenti veggenti che spuntano ormai come fiori di campo dopo la pioggia. L’auspicio, almeno mio personale, è che smetta di guardare il proprio ombelico per ricominciare ad annunciare fiduciosa il Vangelo di Gesù Cristo, capace di formare cristiani solidi e tenaci «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

Dall’Eremo, 5 ottobre 2024

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«Vieni Spirito Santo anima dell’anima mia». Il ricorso allo Spirito Santo nella Chiesa deve essere quotidiano, filiale e fiducioso

«VIENI SPIRITO SANTO ANIMA DELL’ANIMA MIA». IL RICORSO ALLO SPIRITO SANTO NELLA CHIESA DEVE ESSERE QUOTIDIANO, FILIALE E FIDUCIOSO

Ogni giorno abbiamo bisogno della dolce presenza dello Spirito Santo, in ogni circostanza della vita, non solo in particolari momenti scelti. Con tristezza bisogna riconoscere che anche nella Chiesa spesso lo si invoca in modo folcloristico, facendo di lui un “fluido” che livella e sistema le storture dell’uomo, anche e soprattutto di quell’uomo che non desidera sottomettersi alla sua azione. Insomma, un vero e proprio “Spirito Santo magico … esoterico” al limite della concezione gnostica.

— Attualità pastorale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Tra tutte le preghiere allo Spirito Santo che la Chiesa conosce, alcune delle quali famosissime e recitate puntualmente e solennemente nei momenti particolari della vita ecclesiale come ad esempio come il Veni Creator, c’è la preghiera del cardinale Désiré Joseph Mercier (1851-1926).

Questa preghiera dice così:

«O Spirito Santo, anima della mia anima, Io ti adoro! Illuminami, guidami, fortificami, consolami, dimmi quello che devo fare, dammi i tuoi ordini. Ti prometto di sottomettermi in tutto al tuo desiderio ed accettare quanto vuoi inviarmi! Insegnami solamente la tua volontà. Amen».

Il saggio cardinale belga esortava continuamente i fedeli alla recita fiduciosa di questa preghiera, spronando i cattolici alla familiarità e alla devozione verso lo Spirito Santo, spesso considerato da noi occidentali come “il grande sconosciuto”, egli diceva:

«Voglio rivelarvi il segreto della santità e della gioia, se tutti i giorni, per cinque minuti, sapete imporre il silenzio alla vostra immaginazione e chiudete gli occhi a tutte le cose esterne e gli orecchi a tutti i rumori della terra per entrare dentro voi stessi, e lì, nel santuario della vostra anima battezzata, che è il tempio dello Spirito Santo, parlate a questo divino ospite e gli dite […] Se fate questo, ripeto, la vostra vita scorrerà via felice, serena e consolata, pur se nelle tribolazioni, perché la grazia sarà proporzionata alla prova e vi darà la forza per sopportarla e arriverete al cielo carichi di meriti. Questa sottomissione allo Spirito Santo è il segreto della santità».

La particolarità di questa preghiera sta nel fatto di esprimere una grande verità, quella di considerare lo Spirito Santo come «l’anima dell’anima mia», cioè come la parte più intima e sacra dell’anima dell’uomo. Lo Spirito Santo, quindi, non parla solo all’anima ma parla dell’anima, ci dice chi ne è l’autore e l’interlocutore privilegiato, per poi donarle quella forma divina in cui Dio si rende presente, quel sigillo che segna indelebilmente l’appartenenza al Signore (σφραγίς) e lo configura più perfettamente a Cristo dandogli la grazia di spandere tra gli uomini il suo buon profumo (cfr 2 Cor2,15).

La fatica dell’uomo credente consiste proprio nel conoscere e custodire la propria anima in amicizia e comunione con Dio attraverso quella docilità allo Spirito Santo che non può che essere diuturna. Ogni giorno abbiamo bisogno della dolce presenza dello Spirito Santo, in ogni circostanza della vita, non solo in particolari momenti scelti. Con tristezza bisogna riconoscere che anche nella Chiesa spesso lo si invoca in modo folcloristico, facendo di lui un “fluido” che livella e sistema le storture dell’uomo, anche e soprattutto di quell’uomo che non desidera sottomettersi alla sua azione. Insomma, un vero e proprio “Spirito Santo magico … esoterico” al limite della concezione gnostica.

Invocare lo Spirito Santo all’inizio di un incontro, di un Capitolo, di un sinodo, di un concilio o di un conclave significa alzare le mani davanti all’opera di Dio e alla sua volontà, che quasi sempre contrasta con quella dell’uomo e i suoi progetti. Significa dire a Dio con il suo Spirito: «agisci tu!» ma spesso dobbiamo riconoscere che usiamo chiamare in causa lo Spirito Santo per ratificare decisioni già prese, quando l’uomo ha già agito con orientamenti programmati in precedenza e cammini già pensati.

Così facendo lo Spirito Santo – ospite dolce e discreto dell’anima – non parla più all’anima dell’uomo e non è più capace di animarla come ci insegna il buon cardinale Désiré Joseph Mercier. Dire questo oggi, anche dentro la Chiesa, potrebbe sembrare al limite della scorrettezza, potrebbe voler dire apparire come un negazionista di alcune “realtà ispirate”. Ci potrebbe anche essere il rischio di venire etichettati come personalità problematica e facili al brontolio e alla scontentezza. Ma tutto sommato potrebbe anche valerne la pena, se tutto questo è fatto per ritornare a lasciarsi guidare dallo Spirito del Signore e a correre il serio rischio di essere messi in crisi laddove abbiamo la presunzione di avere già capito tutto.

Nei miei venticinque anni di vita religiosa e quindici di vita sacerdotale ho sempre tenuto a mente questi due passi della Sacra Scrittura come bussola personale nel mio rapporto con Dio e quindi come metodologia di discernimento davanti all’opera dello Spirito Santo:

«Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri». (cfr. Is 55, 8 – 9).

«Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode». (cfr. Sal 127, 1)

Porto questa mia esperienza personale per condividere con i lettori e i confratelli il desiderio di sapere che, sebbene sacerdoti e consacrati, la nostra guida quotidiana non è rappresentata dai titoli accademici conseguiti nella scienza teologica, nemmeno dagli addentellati e dalle entrature in strutture di potere e prestigio. Men che meno i nostri desideri di bene o il voler operare cose grandi, spesso umane, troppo umane. Tutto in noi si deve muovere nell’armonia dello Spirito Santo, è lui il direttore d’orchestra, la partitura e la musica.

Riguardo lo Spirito Santo potrei citare molti passi biblici, fra i tanti mi sovviene questo del Vangelo secondo Giovanni: «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (Gv 14, 16-17) .

Gesù promette il dono dello Spirito/Paraclito che rimane non solo con noi ma, dice espressamente il Signore: «Sarà in voi». È il tema dell’inabitazione dello Spirito Santo, come Ospite divino, nell’anima del giusto, di cui parlava già il cardinale più sopra citato. Lo ricorda anche l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: «Non sapete che . . . lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3, 16). Lo Spirito Santo che è presente e opera in tutta la Chiesa, mostra l’attuazione concreta della sua presenza e azione nel rapporto con la persona umana, con l’anima del battezzato in cui Egli stabilisce la sua dimora ed effonde il dono ottenuto da Cristo con la Redenzione. L’azione dello Spirito Santo penetra nell’intimo dell’uomo, nel cuore dei fedeli, e vi riversa la luce e la grazia che dà vita. È ciò che chiediamo nella Sequenza della Messa di Pentecoste: «O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli».

Dio è presente in mezzo agli uomini nel Figlio, mediante l’umanità da Lui assunta in unità di persona con la sua natura divina. Con questa visibile presenza in Cristo, Dio prepara per mezzo di Lui una nuova presenza, invisibile, che si attua con la venuta dello Spirito Santo. La presenza di Cristo «in mezzo» agli uomini apre la strada alla presenza dello Spirito Santo, che è una presenza interiore, una presenza nei cuori umani. Così si compie la profezia di Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo . . . Porrò il mio spirito dentro di voi» (Ez 36, 26-27).

Grazie a questa inabitazione gli uomini diventano «tempio di Dio», del Dio Trinità, perché «lo spirito di Dio abita in voi», come abbiamo ricordato nelle parole di San Paolo. Lo stesso Apostolo specifica poco dopo: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?» (1 Cor 6, 19). Dunque, l’inabitazione dello Spirito Santo comporta una particolare consacrazione dell’intera persona umana, anche la dimensione corporea è coinvolta, a somiglianza del tempio. Questa consacrazione è santificatrice. Essa costituisce l’essenza stessa della grazia salvifica, mediante la quale l’uomo accede alla partecipazione della vita trinitaria di Dio. Si apre così nell’uomo una fonte interiore di santità, dalla quale deriva la vita «secondo lo Spirito». Gesù Signore è questa fonte da cui scaturisce il dono dell’acqua viva dello Spirito. A tal proposito sempre San Giovanni ricorda il grido di Gesù: «Il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». E l’evangelista commenta: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7, 37-39). Giovanni ci prepara così all’ultima aspirazione del Signore che dalla croce disse: «Ho sete». Sete di donare alla Chiesa quell’acqua dello Spirito che poco dopo la sua morte defluisce dal costato e che l’anima credente contempla: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Invocare lo Spirito Santo significa, dunque ritornare dentro quell’eremo che è l’anima nostra, in quel territorio delicato e segreto in cui non possiamo entrarci se non con il vivo desiderio mistico di fare esperienza di Dio, di essere da Lui tratti e poterlo godere in pienezza. E per questo dobbiamo chiamare lo Spirito di Dio che tutto conosce anche le profondità stesse di Dio (cfr. 1 Cor 2,10 – 16).

Settembre è il mese in cui si ricominciano le attività nelle parrocchie e nelle comunità cristiane più diverse. Sarebbe bello ripartire dallo Spirito Santo per farci insegnare il cammino da prendere e renderci consapevoli dei tanti errori fatti passare per suoi ma che sono nostri. Un cammino condiviso, oggi si direbbe sinodale, in cui volere fortemente la presenza di Dio…e solo quella.

Tra le tante “cose” spirituali che ci possiamo inventare e fare dentro la Chiesa di Dio, sarebbe anche ora di capire che l’aggiunta dell’aggettivo “spirituale” è indicativo di un orientamento ben preciso che ci dice che siamo in attesa del soffio dello Spirito Santo, dell’irrompere di Dio nella storia dell’uomo, nella storia di ciascuno di noi, nella mia storia personale. 

Quanto sarebbe bello indire un sinodo perenne sullo Spirito Santo, sulla Pentecoste! Partire da quel vivo pneuma che tutto trasforma e tutto riempie in un movimento di grazia che salva: dal tempo dell’uomo confuso e caotico [χρόνος (chronos)] si passa al tempo di Dio, ordinato e soave [καιρός (kairos)] per sperimentare quel tempo di grazia dello Spirito[χάρις (cháris)] che si traduce in quell’amore di cui la Chiesa ha disperatamente bisogno e che come diceva il sommo poeta «move il sole e l’altre stelle (cfr. Paradiso, XXXIII, v. 145)».

Sanluri, 2 ottobre 2024

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In morte della madre: la mamma del sacerdote è sempre la mamma di tutti i sacerdoti

IN MORTE DELLA MADRE: LA MAMMA DEL SACERDOTE È SEMPRE LA MAMMA DI TUTTI I SACERDOTI 

Un’antica tradizione cristiana narra che quando la madre di un prete si presenta dinanzi al cospetto dell’Altissimo, Egli le domanderà: «Io ti ho dato la vita, tu che cosa mi hai dato?». La madre risponderà: «Io ti ho donato mio figlio come tuo sacerdote». E l’Altissimo le spalancherà le porte del Paradiso.

 

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Ieri è morta Enrica, madre del nostro confratello Simone Pifizzi, redattore liturgista de L’Isola di Patmos.

La famiglia Pifizzi: a sinistra Claudio, a destra Simone, al centro i due genitori

I funerali si svolgeranno domani nella Chiesa Parrocchiale del Sacro Cuore in Firenze, in via Capo di Mondo 60, alle ore 15:30. Tutti i Padri de L’Isola di Patmos si stringono con fede e affetto al confratello Simone. I Padri Ariel S. Levi di Gualdo, che si trova a Roma, e Gabriele Giordano M. Scardocci, che risiede al Convento di Santa Maria Novella in Firenze, saranno presenti alle esequie anche per i Confratelli redattori Ivano Liguori, Teodoro Beccia, il Monaco Eremita e per il presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos Jorge Facio Lince, ai quali è impossibile raggiungere domani il Capoluogo toscano.

dall’Isola di Patmos, 16 settembre 2024

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È vero che tutti chiedono, ma noi Padri de L’Isola di Patmos siamo fuori dubbio speciali. Sapete che tra poco è il nostro compleanno?

È VERO CHE TUTTI CHIEDONO, MA NOI PADRI DE L’ISOLA DI PATMOS SIAMO FUORI DUBBIO SPECIALI. SAPETE CHE TRA POCO È IL NOSTRO COMPLEANNO?

Il 19 ottobre 2014 la nostra webmaster caricava sulla piattaforma il sito della rivista L’Isola di Patmos che il 20 ottobre era aperto in rete, da allora a seguire non abbiamo mai conosciuto flessione ma solo continua crescita di visite.

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Cari Lettori,

quando il 20 ottobre 2014 esordì in rete L’Isola di Patmos, fondata dal compianto accademico della Scuola Romana Antonio Livi, dall’accademico pontificio Giovanni Cavalcoli e dal teologo Ariel S. Levi di Gualdo, alcuni dissero che non avremmo avuto più di un anno di vita. E infatti così sarebbe stato, se a causa dell’alto numero di visite non avessimo provveduto con la nostra webmaster e il nostro social manager a spostare nemmeno due anni dopo il sito di questa rivista su un server dedicato, che sommato a tutte le altre spese comporta per la nostra Redazione una spesa di 5.200 euro all’anno.

L’Isola di Patmos è portata avanti da una Redazione composta da sei presbiteri specializzati nelle varie scienze teologiche, liturgiche e giuridiche, più quattro collaboratori. Ha pubblicato sino a oggi 948 articoli e totalizzato oltre 500.000.000 di visite. Nel 2018 sono nate le Edizioni L’Isola di Patmos che sino a oggi hanno pubblicato e distribuito 25 libri.

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Il popolo che noi stessi abbiamo rinunciato da tempo a educare con la nostra autorità e autorevolezza dette una lezione dicendo «Basta!» all’Arcivescovo di Brindisi

E IL POPOLO CHE NOI STESSI ABBIAMO RINUNCIATO DA TEMPO A EDUCARE CON LA NOSTRA AUTORITÀ E AUTOREVOLEZZA DETTE UNA LEZIONE DICENDO «BASTA!» ALL’ARCIVESCOVO DI BRINDISI

Sulla durata eccessiva delle omelie si è detto molto e, come sopra ricordato, è intervenuto anche il Papa. A proposito, a sproposito? È una cosa che deve dire il Papa? Personalmente penso di no e otto minuti mi sembrano un letto di Procuste, ma lo sappiamo, Lui è fatto così.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Non tenendo conto o forse non ricordando il suggerimento dato dal Sommo Pontefice circa le omelie che non devono durare più di otto minuti[1] (QUI), l’Arcivescovo di Brindisi-Ostuni, S.E. Mons. Giovanni Intini, nei giorni scorsi ha pensato bene di aggiungere agli otto ben altri dieci minuti, in occasione dei festeggiamenti dei Santi patroni di Brindisi, San Lorenzo e San Teodoro d’Amasea. Erano previsti gli interventi del sindaco, durato guarda caso proprio otto minuti, e dell’arcivescovo. Ma le lamentele per la lunghezza del discorso, circa diciotto minuti, interrompono più volte le parole del presule brindisino. I borbotti della folla, provenienti dalla scalinata Virgilio e dal lungomare di Brindisi, sono diventati dei «Basta!» (QUI). E questi sono stati accompagnati da applausi ironici e qualche altro suono. L’Arcivescovo ha terminato l’intervento senza dare alcun segno di disturbo e, come da programma, è iniziato l’attesissimo spettacolo pirotecnico seguito dalla processione.

Il giorno dopo, in Chiesa durante il solenne Pontificale, il Vescovo, che evidentemente male aveva digerito la cosa ha pensato bene di non tenere l’Omelia, anzi di tenerne una brevissima di questo tenore:

«Per non stancare anche voi stasera come ho stancato gli ascoltatori di ieri sera e non vorrei che qualcun altro gridasse basta, ho pensato stasera di tacere. Accogliamo nel silenzio la parola di Dio che è stata seminata nei nostri cuori» (QUI).

Per la sua silenziosa protesta ha incassato, manco a dirlo, la solidarietà di una frazione politica, però, insomma, Eccellenza, possibile che una notte intera non sia bastata a superare una cosa così modesta? Non era forse l’occasione per riderci sopra e casomai lanciare un breve, incisivo e costruttivo messaggio ai contestatori, visto che la cosa era ormai finita sui giornali e quindi risaputa? È andata così. In fondo all’Arcivescovo di Otranto Stefano Pendinelli andò molto peggio: fu sgozzato dai turchi che attese seduto sulla sua cattedra episcopale assieme ai devoti fedeli radunati attorno a lui nella chiesa cattedrale nel lontano 11 agosto del 1480, trasformata dagli infedeli in un orribile mattatoio (cfr. I Martiri di Otranto).

L’Arcivescovo Giovanni Intini non è stato il primo contestato della storia e neanche il più famoso. Tutti ricordiamo che addirittura l’Apostolo Paolo pensando bene di approfittare delle circostanze e trovandosi in un luogo autorevole come l’Areopago di Atene si lanciò in un discorso con un altisonante incipit: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi». Ma tutti conosciamo come andò a finire appena Paolo introdusse il tema centrale del Cristianesimo, cioè la Risurrezione di Cristo: «Su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17). Un flop diremmo oggi, povero Apostolo. Ma non è che il giorno dopo San Paolo si perse d’animo. Anzi partì e si recò a Corinto senza mai smettere di porgere la parola del suo Vangelo.

Tutti coloro che hanno a che fare con l’annuncio cristiano sanno di dover mettere in conto la contestazione o il fastidio di una parte. In questi tempi nei quali corre l’obbligo di dire la propria sui social, anche e forse soprattutto se non si conosce la materia, è quasi un refrain che appena vengono riportate le parole di qualche ecclesiastico ci sia chi commenta: «ah ma la pedofilia?»; «Le ricchezze del Vaticano?» … O il più classico: «Accoglieteli voi che avete le strutture»; se casomai si parla di migranti. Se vi capita la notizia sui social che ha riguardato l’Arcivescovo di Brindisi vedete che da questa regola non si scantona, alcuni lo difendono, altri lo criticano, molti ridono, fanno battute e non manca qualche bestemmia.

Ma non vuol dire che bisogna prendersela, forse un tantino sul momento, e men che meno tacere. A volte l’arma dell’ironia, a saperla usare, diventa più efficace del silenzio e apre possibilità di dialogo.

Sulla durata eccessiva delle omelie si è detto molto e, come sopra ricordato, è intervenuto anche il Papa. A proposito, a sproposito? È una cosa che deve dire il Papa? Personalmente penso di no e otto minuti mi sembrano un letto di Procuste, ma lo sappiamo, Lui è fatto così.

Ricordo un fatto simpatico a cui ho assistito più di una volta. In una parrocchia di campagna dove sono stato la stima per il «Signor Curato» era radicata: guai a chi toccava il prete. Ma succedeva che anche lui potesse a volte dilungarsi nelle omelie. C’era in parrocchia un coltivatore diretto, non di elevata cultura, ma di solida saggezza, che non perdeva una Messa nonostante gli impegni. Si metteva di lato, lungo la navata e qualche volta, per fortuna rare, se la predica diventava eccessivamente lunga o ripetitiva, lo faceva notare alzandosi in piedi. Nessuna offesa o sgarbo, solo un segnale di amicizia, poiché voleva molto bene al Parroco, e lui, capendo, arrivava velocemente alla conclusione.

Non è che uno vuol insegnare il Credo agli Apostoli, come si suol dire, e ancora meno dare consigli a un Arcivescovo. Ma se proprio dovesse ricapitare e, ahimè, ricapiterà, sarebbe meglio non prendersela più di tanto per una contestazione. Sappiamo bene che ci sono in giro dei cavalieri difensori della fede che in occasioni ghiotte come questa ci si buttano a capofitto. Ma con quale risultato? Di inasprire gli animi e con la scusa di difendere una parte finire per allargare il fossato che divide? È un po’ difficile dire come bisogna comportarsi in tali circostanze, l’episodio dell’Arcivescovo di Brindisi ci insegna che le emozioni son difficili da arginare o tenere a freno. Ricordiamo sempre, però, che ogni occasione, buona o cattiva che sia, avversa o propizia, è buona per offrire la parola del Vangelo, per non tacere il fatto cristiano. Ce lo ricordano ancora dopo tanti secoli proprio i primi Apostoli, San Paolo che abbiamo su ricordato, che non si perse d’animo e Pietro che nella sua lettera scrisse:

«Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,14-15). 

Dall’Eremo, 4 settembre 2024

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[1]  «L’omelia non deve andare oltre gli otto minuti, perché dopo con il tempo si perde l’attenzione e la gente si addormenta, e ha ragione. Un’omelia deve essere così»

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Ai Confratelli Presbiteri: come difendersi da certi Vescovi new generation, specie dall’invasione dei puglièni?

AI CONFRATELLI PRESBITERI: COME DIFENDERSI DA CERTI VESCOVI NEW GENERATION, SPECIE DALL’INVASIONE DEI PUGLIÈNI?

Esiste il senso delle proporzioni che va sempre applicato mediante l’esercizio di quella sapienza che i giuristi romani chiamavano aequitas, poi trasferita di sana pianta nel Diritto Canonico Romano. Cosa vuol dire aequitas e come si applica? Presto detto: se ai membri del Senato Romano è concesso di insultare e di stuprare la moglie di Cesare, senza che Cesare e suoi preposti reagiscano in alcun modo, non si può applicare poi il massimo rigore stroncando le gambe a chi si è permesso di rispondere male a una servetta preposta alle pulizie del calidarium delle Terme di Diocleziano.

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Ormai l’Italia è piena di vescovi ― o per meglio dire di episcopetti ― tutti molto sociali, con un occhio strizzato al PD e l’altro agli attivisti LGBT. E tutti, come dischi rotti, pronunciano precise parole d’ordine: «Chiesa in uscita … rompere gli schemi … sporcarsi le mani …», ma soprattutto «poveri e migranti … migranti e poveri …».

Poi ci sono anche quelli che ti si rivoltano dicendo: «Come osi chiamarmi Eccellenza? Non siamo mica più in epoca rinascimentale, non vedi che porto al collo la crocetta di legno e che sono un oriundo della terra del santissimo Tonino Bello? Chiamami Don Checco, perché forse non lo sai, ma io sono un episcopetto uscito dalla scuola di Checco Zalone. In fondo appartengo alla specie dei puglièni, mezzi apùlei e mezzi alièni, oggi in gran voga. Perché se non sei puglièno, divendare episcopo new generation in Italia non è facile, ma neppure nunzio apostolico, accademico o officiale della Curia Romana». Anche perché i vescovi, sebbene non siano santi, pare che li facciano direttamente presso il Dicastero delle Cause dei Santi, dove oggi alberga un celebre prefetto puglièno, mezzo apùleo e mezzo alièno.

Ebbene, cari Confratelli, tutte queste immagini grottesche che circolano sui social media, raffiguranti preti grotteschi la cui esistenza è dovuta a vescovi più grotteschi di loro, mettetele da parte, in un archivio, tutte quante. Poi, la prima volta che l’episcopetto di turno che in pubblico parla continuamente di «più dialogo, più democrazia nella Chiesa… occorre sinodalità e conversazione nello Spirito …», vi chiamerà a rapporto dentro una chiusa stanza più autoritario e dispotico di Pol Pot e del coreano Kim Jong, semmai per rimproverarvi di essere troppo cattolici, che oggi vuol dire essere “rigidi” e “cupi”, fategliele vedere tutte quante queste immagini e questi filmati: dal prete col baffo, l’orecchino e gli occhiali da sole durante le sacre liturgie, a tutti gli altri che sembrano concorrere tra di loro a chi fa la cazzata più grossa, ma soprattutto la più dissacrante …

Se l’episcopetto oserà fare un sospiro, ricordategli che esiste il senso delle proporzioni che va sempre applicato mediante l’esercizio di quella sapienza che i giuristi romani chiamavano aequitas, poi trasferita di sana pianta nel Diritto Canonico Romano. Cosa vuol dire aequitas e come si applica? Presto detto: se ai membri del Senato Romano è concesso di insultare e di stuprare la moglie di Cesare, senza che Cesare e suoi preposti reagiscano in alcun modo, non si può applicare poi il massimo rigore stroncando le gambe a chi si è permesso di rispondere male a una servetta preposta alle pulizie del calidarium delle Terme di Diocleziano. E se gli episcopetti dovessero insistere, pur contro l’evidenza dei fatti, come sono capaci a fare, avendo ormai perduto assieme al pudore anche il senso della vergogna, sapete bene dove mandarli, perché in discussione non è la loro autorità, che resta indiscussa, ma la loro intelligenza, sulla quale si può e si deve discutere. Anche un vescovo, fatta salva la sua auctoritas apostolica, può essere un perfetto cretino. E oggi, di vescovi cretini, ne abbiamo a un tasso di inflazione da fare invidia alla moneta argentina al massimo storico della sua svalutazione.

dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2024

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