Seguite le dirette de L’Isola di Patmos sul canale “Jordanus” del Club Theologicum” condotte dal nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci

SEGUITE LE DIRETTE DE L’ISOLA DI PATMOS SUL CANALE JORDANUS DEL CLUB THEOLOGICUM CONDOTTE DAL NOSTRO REDATTORE DOMENICANO GABRIELE GIORDANO M. SCARDOCCI

I Padri de L’Isola di Patmos sono lieti di mettervi a disposizione delle dirette su importanti e interessanti temi di dottrina e di fede. Iscrivetevi numerosi e soprattutto partecipate, se veramente cercate ciò che a parole sui social media dite di cercare. 

— Le video-dirette de L’Isola di Patmos —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, padre redattore de L’Isola di Patmos

La principale lamentela: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …». Questo è ciò che leggiamo sui Social Media in un susseguirsi di lamentazioni senza fine.

A certi lamentatori possiamo dare anche parzialmente ragione, ma bisogna precisare: e quando i preti si danno da fare per offrirvi sostegno spirituale, catechesi e omelie, la reazione dei “lamentosi” quale è? Purtroppo i fatti dimostrano che invece di cogliere al volo certe opportunità, rimangono sui social media a lamentare: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …».

Padre Gabriele Giordano Maria Scardocci nostro redattore e teologo domenicano offre un prezioso servizio a tutti quelli che — perlomeno a parole — si dichiarano “orfani” delle buone catechesi, della parola di Dio e della sana e profonda predicazione. Intendete iscrivervi, collegarvi e seguire, oppure preferite rimanere sui social media a lamentare: «… i preti non fanno catechesi … i preti non non spiegano più le Sacre Scritture … i preti non predicano bene … i preti, i preti, i preti …».

Dai numeri, a volte soddisfacenti a volte impietosi, ma soprattutto reali, potremo capire quanto e in che misura certi “orfani” sono alla vera ricerca oppure se ciò che ricercano è solo pane, circo e tanto pettegolezzo sensazionalista, complottista e scandalista. Posto che la Parola di Dio non è né sensazionalista, né complottista, né scandalista. Ma soprattutto offre la verità del Mistero della Croce, non offre: Pane&Circo.

Per seguire la diretta potete cliccare sull’immagine sotto domani sera alle ore 21, dove i Padri de L’Isola di Patmos vi aspettano per parlarvi sul tema: «Il ritorno del Re»:

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Tutti gli aggiornamenti e gli avvisi sulle successive dirette potete trovarli sulla destra della home-page de L’Isola di Patmos sotto la voce «Le dirette di Padre Gabriele».

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Vi aspettiamo.

Dall’Isola di Patmos, 15 settembre 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Gesù Cristo era povero? Il problema di una male intesa «Chiesa povera per i poveri» e il grande problema del patrimonio immobiliare ecclesiastico

GESÙ CRISTO ERA POVERO? IL PROBLEMA DI UNA MALE INTESA «CHIESA POVERA PER I POVERI» E IL GRANDE PROBLEMA DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE ECCLESIASTICO

Chi per crassa ignoranza, chi per anticlericalismo becero, chi per ideologia o piacioneria clericale parla di un Gesù povero ridotto a un figlio dei fiori squattrinato, annuncia un falso Cristo mai esistito che non corrisponde alle cronache storiche narrate e trasmesse dagli Evangelisti.

— Attualità ecclesiale —

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I presbiteri partenopei Vincenzo Doriano De Luca (destra) direttore della rivista diocesana Januarius e Franco Cirino (sinistra) economo dell’Arcidiocesi di Napoli – cliccare sull’immagine per aprire il video

Alcuni Lettori hanno fatto notare che scrivo articoli «interessanti e chiari, ma troppo lunghi». Qualcuno ha precisato: «Nell’era dei social media gran parte delle persone non leggono oltre la decima riga». Ebbene vi dico che L’Isola di Patmos è un po’ un miracolo. Dall’ottobre del 2014 a oggi i visitatori sono sempre aumentati senza mai calare. Nel 2016 abbiamo dovuto acquistare un server-dedicato in grado di reggere oltre venti milioni di visite all’anno. Come spiega la nostra webmaster il successo non è dovuto ai numeri di visite ma al tempo medio di permanenza all’interno del sito, che è molto elevato. Pertanto, coloro che non vanno oltre le dieci righe, non costituisco il pubblico al quale i Padri de L’Isola di Patmos intendono rivolgersi.

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Adesso offrirò un lungo articolo a coloro che non intendono spiegare e risolvere temi complessi e articolati sul piano storico, ecclesiale, pastorale, economico e finanziario con tre righe “sparate” su Twitter mentre camminavano per strada o erano in fila alla cassa del supermarket nell’attesa di pagare.

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Nella puntata di Report del 7 novembre in onda su Rai2 è stata realizzata un’intervista a due presbiteri partenopei: Franco Cirino, economo dell’Arcidiocesi di Napoli e Vincenzo Doriano De Luca direttore della rivista diocesana Januarius. L’economo ha dimostrata una preparazione straordinaria sul piano ecclesiale-pastorale ed economico-finanziario. Vi invitiamo ad ascoltare questa intervista, è molto interessante e chiarificatrice per comprendere come funzioni realmente la non facile gestione del patrimonio ecclesiastico. 

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Tratterò questo tema su due diversi versanti illustrando prima, le attuali difficoltà di gestione del patrimonio ecclesiastico, poi il senso vero e autentico di «povertà» e di «Chiesa povera» secondo i Santi Vangeli. Quello della povertà della Chiesa è un concetto caro ai fricchettoni della Sinistra radical chic con i super-attici ai Parioli e le ville a Capalbio, amena località di extra lusso nella bassa Maremma toscana dove, quando si paventò di ospitare un po’ di migranti da distribuire per i vari Comuni d’Italia, i primi a sollevarsi furono proprio i piddini coi conti a sei zeri che in quella amena località esclusiva bivaccano, salvo rivendicare lo ius soli e i porti aperti allo sbarco di chiunque giunga sulle nostre coste, purché non giunga però davanti alle porte delle loro ville [cfr. QUI, QUI, QUI …].

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Per comprendere veramente bisogna fare un passo indietro, sempre rivolgendosi a coloro che desiderano sapere, quindi leggere, non a quelli che al decimo rigo saltano oltre. Partiamo dal 1850, anno in cui furono varate le Leggi Siccardi che sancivano la separazione tra Stato e Chiesa nel Regno di Sardegna, la numero 1013 del 9 aprile e la numero 1037 del 5 giugno, che soppressero i privilegi concessi in precedenza alla Chiesa, come già avvenuto in altri Paesi europei nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Francese. Leggi poi estese agli altri territori italiani conquistati dai piemontesi tra il 1848 e il 1861. Seguirono la Legge Rattazzi n. 878 del 29 maggio 1855 e le Leggi eversive n. 3036 del 7 luglio 1866 e n. 3848 del 15 agosto 1867. Dopo il 20 settembre 1870 che segnò la presa di Roma e la definitiva unità del Regno d’Italia, furono infine estese a tutto il territorio nazionale.

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Inutile a dirsi: il soggetto che passeggiando per strada o in fila alla cassa nell’attesa di pagare, invia twett per pontificare in tre righe sulle più complesse questioni storiche o storico-ecclesiali, del tipo «la Chiesa è ricca e possiede la metà degli immobili italiani» (!?), oppure «il Vaticano possiede i più grandi giacimenti d’oro del mondo» (!?), non può certo seguire questo nostro discorso, perché nel tempo che perderebbe a leggere una sola pagina, avrà già twittato perlomeno dieci sapienti messaggi all’incirca simili per spargere le sue perle di saggezza. E all’uscita dal supermarket, sempre impegnato tra un tweet e l’altro, camminando per strada non si renderà conto né si chiederà come mai certi stabili storici che una volta erano abbazie, certose, monasteri e istituti religiosi, oggi sono caserme, scuole, uffici pubblici. Semplice a spiegare: quelle strutture, tra il 1848 e il 1870 furono confiscate alla Chiesa, sbattuti fuori monaci, monache e preti, poi trasformate in caserme, ospedali, uffici pubblici. Molte piccole chiese di proprietà di istituti religiosi o confraternite, una volta requisite divennero magazzini, garage, officine, pezzi di abitazioni private. E qui è d’obbligo un inciso, uno dei tanti tra quelli che mai troverete sui libri di storia, perché il Risorgimento Italiano è tutt’oggi un mito costruito a tavolino dalla propaganda ideologica. L’opera di confisca per la destinazione di quegli stabili ad altro uso, costituì nel corso di tutto l’Ottocento italiano il più grande e immane scempio del patrimonio artistico nazionale. Presto detto: trasformare una certosa o un monastero del XII o XIII secolo, arricchita nel corso del tempo di opere d’arte, sculture, affreschi, marmi pregiati lavorati, per adibirla a caserma, comporta di necessità la irreparabile distruzione di un patrimonio d’arte. Lo avete trovato mai scritto sui libri di storia a uso scolare in cui si spiegano solo le indiscusse glorie del Risorgimento Italiano? In ogni caso, anche se sui libri non è scritto, l’opera di questi immani scempi è tutt’oggi visibile sotto i nostri occhi, a partire da Roma per seguire con tutte le altre grandi e piccole città italiane, basterebbe distogliere gli occhi dai social media e guardarsi attorno quando si cammina per le strade delle città italiane. Soprattutto, come cittadini, bisognerebbe essere al corrente, non altro per puro senso civico, che la gran parte delle chiese storiche e degli istituti religiosi che oggi vediamo, non sono di proprietà delle diocesi italiane, ma dello Stato. Per la loro gestione esiste anche un apposito ufficio gestito dal Ministero dell’Interno che si chiama FEC (Fondo Edifici di Culto). E qui andrebbe aperta una parentesi su un altro argomento che però non possiamo trattare in questa sede, per spiegare a certi laicisti che tuonano contro L’Otto per Mille alla Chiesa Cattolica che con questa contribuzione, chi veramente ci guadagna, non è la Chiesa ma lo Stato. Si provi a pensare che lo Stato debba gestire, conservare e tutelare certe grandi chiese e basiliche storiche di sua proprietà, restituite dopo la confisca alla Chiesa in comodato d’uso affinché qualcuno provvedesse alla loro tutela e conservazione. Stabili oggi custoditi da Congregazioni Religiose o dal Clero Secolare delle varie diocesi, che si avvalgono dell’aiuto di devoti fedeli cattolici che prestano servizio gratuito come volontari. Domanda: quanto costerebbe allo Stato dover conservare e custodire certi grandi, preziosi e importanti stabili storici di alto valore artistico? Di quanto personale stipendiato avrebbe bisogno, quanti addetti alle pulizie, quanti guardiani? Dunque, alla resa dei conti, sul tanto recriminato Otto per Mille, chi è che veramente ci guadagna? 

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Appena un ventennio dopo, a partire dal 1890, i governi del Regno d’Italia, per quanto ferocemente anticlericali, spedirono i loro funzionari con in mano le chiavi di molti istituti e chiese storiche a supplicare i vescovi diocesani, i monaci e le monache, i religiosi e le religiose alle quali erano stati confiscati pochi decenni prima, affinché se li riprendessero in … comodato d’uso gratuito (!?). Infatti, il buon Stato liberal-risorgimental-anticlericale, presto si trovò a fare i conti con un enorme patrimonio di immobili storico-artistici che non potevano essere trasformati tutti quanti in caserme, scuole, ospedali, uffici pubblici, sedi universitarie … Molte di queste chiese storiche ed ex istituti religiosi si trovavano in zone periferiche, alcune abbazie, certose, monasteri e conventi erano in zone isolate e difficilmente controllabili. Una volta requisiti e chiusi, prima questi furono saccheggiati, poi presero a versare in stato di abbandono. Ovunque, in particolare nel Meridione d’Italia, erano avvenute grandi razzie di opere d’arte. Fittissimo il commercio di ladri e mercanti d’arte con gli Stati Uniti d’America, che in quegli anni acquisirono la gran parte delle opere conservate tutt’oggi nei loro musei. Il tutto sempre a riprova delle grandi glorie storiche taciute del Risorgimento Italiano che deve rimanere mito, leggenda e ideologia.

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L’Ottocento italiano è stato anche il secolo dei grandi Santi della carità, educatori e pedagoghi, di cui sono emblema San Giovanni Bosco con la Congregazione dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Sempre nel Piemonte Maria Enrichetta Dominici dette vita col patrocinio del Marchese di Barolo alle Suore della Provvidenza, che prenderanno poi nome di Suore di Sant’Anna, impegnate nell’assistenza e nell’educazione delle orfanelle. Il romano San Vincenzo Pallotti fondò l’Apostolato Cattolico, dinanzi al quale tutti i nobili romani aprivano i portafogli, non altro per toglierselo di torno, tanto era insistente quando cercava fondi per le opere di carità a beneficio di orfani e anziani. San Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera della Divina Misericordia, si prese cura di bambini e anziani affetti da gravi disabilità fisiche. La fondazione di questi istituti e opere proseguì anche nel corso del Novecento con San Giovanni Calabria che fondò i Poveri Servi e Serve della Divina Provvidenza, al quale si deve la fondazione dell’Ospedale Sacro Cuore di Verona, oggi centro di eccellenza a livello europeo. E molti altri Santi fondatori e fondatrici.

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Tutte queste strutture dedite all’assistenza di orfani, bambini di famiglie povere, anziani ammalati privi di sostentamento e disabili, per seguire con tutta la rete di asili per l’infanzia e di scuole gestite da numerose congregazioni religiose, costituivano anzitutto un servizio non indifferente allo Stato, che requisì perlopiù solo gli istituti di vita contemplativa dopo averli dichiarati «parassitari». Ovviamente nessuno poteva spiegare al legislatore di allora ― forse a quello di oggi ancora di più ― che certe opere apostoliche di vita attiva erano sostenute dalla vita contemplativa dei monaci e delle monache che consumavano le loro esistenze in preghiera e penitenza nelle clausure e che costituivano il carburante per far funzionare i motori dei grandi Santi e delle grandi Sante della carità.

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Tra l’Ottocento e il Novecento, in un’Italia nella quale il tasso di natalità era ben altro e ben più alto, grazie alle donazioni di molti ricchi benefattori furono costruiti istituti enormi, alcuni erano vere e proprie cittadelle. Tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento furono costruite colonie marine e montane in grado di ospitare sino a 3.000 bambini. Strutture faraoniche erette in anni nei quali non tanto la costruzione, ma la manutenzione e la conservazione di certi edifici aveva tutt’altri costi. Numerosi anche gli istituti per l’infanzia abbandonata, i cosiddetti orfanotrofi. Altrettanto numerosi quelli in cui erano accolti e assistiti i bambini disabili. Tutto questo avveniva in anni nei quali non eravamo ancora civili. Quando infatti nel 1978 si ebbe la «grande conquista sociale» della legge sull’aborto legalizzato che dette vita a questo «grande e intangibile diritto civile» [cfr. Ivano Liguori, QUI], le madri potevano andare direttamente negli ospedali a comminare legalmente la pena di morte ai propri figli. E così, a poco a poco, gli orfanotrofi sono stati definitivamente chiusi, in parte per il calo delle natività e in parte per l’aborto legalizzato. Mentre i bimbi affetti da sindrome di Down o da altre forme di disabilità sono sempre più rari a vedersi, perché possono essere ammazzati prima di nascere, in questo nostro Paese che ripudia la guerra e la pena di morte a suon di arcobaleni, salvo però fare guerra alla vita e comminare la pena di morte ai propri figli, a quelli non voluti e a quelli ritenuti non fisicamente perfetti. 

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Grazie all’impulso dato dal Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa aveva già vissuto analoga stagione felice tra fine Cinquecento e inizi Seicento con la nascita di numerosi istituti di cosiddetta vita apostolica. Risale a quell’epoca la nascita di tutte quelle congregazioni religiose maschili e femminili ― poi divenute numerose nei successivi tre secoli ―, impegnate nell’educazione, nell’assistenza dell’infanzia, nella cura degli anziani, degli ammalati e dei disabili. Nuove forme di vita religiosa che andavano dall’Ordine della Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio di Loyola all’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli di San Giovanni di Dio, dalla Congregazione della Compagnia dell’Oratorio di San Filippo Neri alle Dame ospedaliere di San Vicenzo de’ Paoli, le Figlie della Carità.

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Al calo delle nascite si unisce quello delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa. Molte Congregazioni di suore, sino a mezzo secolo fa fiorenti, oggi sono sempre più ridotte in numero e composte da religiose in età sempre più elevata. Le suore stanno ormai scomparendo da molte medie e piccole diocesi italiane, con notevoli riduzioni di numeri anche in quelle grandi e la conseguente progressiva chiusura di asili, scuole e istituti. Presto detto: come impiegare certi stabili storici di pregio nei centri delle città, oppure in luoghi singolari o strategici, per esempio di fronte al mare o in zone turistiche di montagna, o in zone collinari e di campagna divenute ai nostri giorni particolarmente esclusive? Sicuramente vendendole, oppure concedendole in locazione a società alberghiere. Monetizzare o rendere in qualche modo redditizie queste strutture non più utilizzabili agli scopi per i quali furono costruite, vuol dire ricavare il danaro necessario per sostenere altri generi di opere caritative o assistenziali di tutt’altre dimensioni, più necessarie e adeguate alle esigenze della società contemporanea, che di certo non è più quella degli anni Venti o Trenta del Novecento.

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Ci vuole tanto a capire questo, anziché urlare alle «vergognose speculazioni immobiliari della Chiesa», o anziché lanciare in un servizio sul settimanale L’Espresso la notizia totalmente falsa sulla Chiesa che a dire di certi giornalisti di pseudo-inchiesta non pagherebbe le tasse sugli immobili? Falso. La Chiesa paga da sempre le tasse sugli immobili dalle quali sono esentati solo gli edifici di culto e quelli delle istituzioni assistenziali e caritative [cfr. vedere in Avvenire, QUI]. O ignorano forse, i firmatari di queste periodiche inchieste pubblicate una tantum su L’Espresso, che anche i circoli dell’Arcigay non pagano le tasse perché riconosciuti come associazioni di pubblica utilità sociale in quanto preposte a diffondere il gender e le istanze delle lobby LGBT? Se certe Congregazioni di suore non avessero trasformato alcuni loro istituti non più utilizzabili in hotel più o meno di lusso, da dove tirerebbero fuori i soldi per sostenere altri generi di attività caritative e assistenziali in Italia o in vari Paesi poveri in giro per il mondo? Ai redattori de L’Espresso, che nel corso degli anni ci hanno bombardati con articoli rasenti la ferocia anticlericale, oltre alla gratuita menzogna, comprendere questo, è proprio così difficile? 

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Il tema trattato nella puntata di Report, resa ottima dai nostri confratelli partenopei Franco Cirino e Vincenzo Doriano De Luca, oltre a un meraviglioso Cardinale Crescenzio Sepe che incalzato in modo insistente da un pruriginoso giornalista lo ha mandato bellamente a farsi fottere [cfr. QUI] ― e ha fatto benissimo a farlo ― , verteva in parte sul numero di chiese storiche presenti nel centro storico di Napoli, circa mille, di cui solo il 15% di proprietà dell’Arcidiocesi di Napoli, in parte sul caso della Cittadella Apostolica fondata nel dopoguerra dal presbitero Gaetano Cascella con le donazioni di vari benefattori e lasciata in eredità all’Arcidiocesi di Napoli nel 1979. Una enorme struttura caritativa eretta a Pozzuoli di fronte al golfo e mutata in struttura alberghiera. Presto detto: quanto basta a far urlare i soliti noti assieme al coro dei disinformati totali contro la sporca Chiesa speculatrice: «La Chiesa deve essere povera perché Gesù era povero!».

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E adesso passiamo alla seconda parte: siamo sicuri che «Gesù era povero», come tuonano quelli che in chiesa non ci mettono piede neppure per Pasqua e per Natale e che quando per dovere sociale devono partecipare a qualche matrimonio o funerale, durante le liturgie non sanno che cosa rispondere, né quando sedere o alzarsi in piedi? E alle parole «Padre nostro che sei nei cieli …», scena muta totale della quasi totalità di certe assemblee convenute per dovere verso il caro estinto e i suoi familiari, mentre il sacerdote celebrante si risponde da sé stesso, o se è presente un ministrante o il sacrestano, a quel punto le loro saranno le sole voci a recitare assieme a lui «… sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno …». Eppure, sono proprio queste persone che non sanno distinguere il libro dei Santi Vangeli da un manuale di ricette per la cucina, ad alzare il dito ― ovviamente soprattutto sui social media ― per tuonare e ricordare in tono minaccioso: «Gesù era povero!».

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Mi dispiace disilludere questi assetati di povertà sulla pelle degli altri e della Chiesa in particolare, salvo cercare ed esigere per sé stessi tutti i lussi più costosi e persino inutili. Gesù non era affatto povero. Sia il Divino Maestro sia i suoi Apostoli avevano di che mangiare e vivere, pur avendo lasciato lavoro e case. Simone detto Pietro era quello che oggi potremmo definire un benestante imprenditore della pesca. Come lo erano Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo, sicuramente molto più benestante dello stesso Simone detto Pietro, basterebbe uscire dal club degli ignoranti dei social media e leggere le cronache dei Santi Vangeli:

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«Passando lungo il mare della Galilea vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» [Mc 1, 16-20].

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Capisco che oggi siamo all’analfabetismo sia funzionale che digitale, al punto da non capire persino ciò ch’è impresso nelle Sacre Scritture. Cerchiamo allora di capire questo passo. Anzitutto, i personaggi di questo racconto sulla chiamata degli Apostoli, possedevano non solo “una barca”, ma “delle barche”, che all’epoca non era poca cosa, specie in quella zona considerata una delle province più povere dell’Impero Romano. Esattamente come oggi è cosa del tutto diversa essere un camionista proprietario di un camion per grandi trasporti il cui costo può giungere sino a un milione di euro, ed essere un camionista che guida come dipendente stipendiato un camion per grandi trasporti di proprietà altrui. La stessa cosa si applica tutt’oggi nella pesca, sia ai pescatori sia ai pescherecci, che non sempre sono di proprietà di chi si dedica alla pesca. Gli apostoli erano degli imprenditori proprietari delle loro barche.

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Il Santo Vangelo qui richiamato specifica nel racconto che il padre di Giacomo e Giovanni avevano alle proprie dipendenze anche degli operai salariati: «Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» [Mc 1, 16-20].

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Il giovane Giovanni e suo fratello Giacomo provenivano quindi da una famiglia d’imprenditori benestanti, tanto che la madre, in un impeto di ingenuità nato dalla sua non comprensione della missione del Verbo di Dio, chiese a Cristo Signore: «Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno» [Mt 20, 21]. Ci si domandi chi, se non la madre di due figli appartenenti a quella che oggi chiameremmo borghesia mercantile, avrebbe osato avanzare una richiesta del genere a un Maestro di simile prestigio? Poteva farlo solo una donna appartenente a un preciso ceto sociale che desiderava per i propri rampolli un dovuto posto di riguardo.

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I dodici apostoli ricevevano aiuti dai benefattori e quando giungevano ospiti nelle case si provvedeva offrendo a loro il meglio che si potesse offrire, avevano devote donne che si occupavano delle loro cure e delle loro necessità.

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Il Beato Patriarca Giuseppe non era un operaio salariato ma un imprenditore che svolgeva un mestiere signorile, quello di ebanista; professione di riguardo e molto redditizia. Pertanto, chiunque dica «San Giuseppe operaio», o chiunque affermi che «San Giuseppe era un operaio», mistifica la figura del Beato sposo della Vergine Maria, perché Giuseppe non era un operaio come oggi lo si intende, perché era sicuramente lui che presso la sua azienda dava lavoro a degli operai salariati.

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La Beata Vergine Maria proveniva da una famiglia più benestante ancora di quella di Giuseppe, lo si evince sempre dai Santi Vangeli, per esempio nel racconto della sua visita alla cugina Elisabetta, madre di Giovanni detto il Battista e moglie di Zaccaria, che era un membro dell’antica casta sacerdotale e persona molto colta e abbiente. Non solo Zaccaria era un sacerdote, perché come tale apparteneva a un livello molto alto: era membro della classe di Abìa, che rappresentava l’VIII° delle XXIV classi in cui erano ripartiti i sacerdoti in servizio nel Tempio di Gerusalemme.

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All’epoca la cultura era strettamente legata al benessere economico. Anche in questo caso i Santi Vangeli ci dettagliano quale fosse il livello culturale di Zaccaria narrando di come, non avendo in quel momento l’uso della parola, ad esso tolta dall’Arcangelo Gabriele per non avere creduto all’annuncio che sua moglie avrebbe dato alla luce un figlio in età avanzata [cfr. Lc 1, 5-25], chiese una tavoletta per confermare il proprio assenso al nome che Elisabetta intendeva dare al nascituro, scrivendo: «Giovanni è il suo nome». [Lc 1, 63]. Dinanzi a questi racconti, gli storici e gli antropologi, ma soprattutto i teologi, dovrebbero spiegare quante all’epoca fossero le persone nell’antica Giudea che sapevano leggere e persino scrivere. Non per nulla, quando i giovani maschi ebrei celebravano il passaggio nell’età adulta attraverso il bar mtzvà e dovevano leggere e commentare pubblicamente un passo della Torah, come fece Gesù all’età di dodici anni durante l’episodio narrato dai Santi Vangeli come la sua disputa con i Dottori del Tempio [cfr. Lc 2, 41-50], per la gran parte erano dolori, perché la maggioranza degli adolescenti ebrei non sapeva leggere né scrivere. Così imparavano a memoria un versetto e poi, con il Sefer Torah aperto [il rotolo della Santa Legge], lo recitavano. Un po’ come accade oggi alla gran parte degli ebrei più o meno osservanti, molti dei quali non conosce l’ebraico, diversi riescono a leggerlo, ma non ne capiscono il significato. E così il rabbino provvede a scrivere un versetto traslitterato dall’ebraico, lo mette sul Sefer Torah e l’adolescente lo legge, qualche volta senza neppure sapere che cosa significa.

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Ma ecco la pronta replica di quanti vogliono un Gesù a tutti i costi povero e di rigore figlio di poveracci: «Gesù è nato in una povera stalla». Anche in questo caso le cose stanno però in modo diverso, narra infatti il Beato Evangelista Luca:

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«[…] al tempo in cui un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.  Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazareth, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» [Lc 2, 1-20]. 

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La realtà storica è che il potere allora vigente aveva comandato un censimento per ragioni amministrative, obbligando così Giuseppe e Maria, allora prossima al parto, a recarsi presso la città di Davide, Betlemme. E qui è interessante notare che Betlemme, in ebraico, significa “Casa del Pane”. E proprio in quella Città, non certo per puro caso, nacque colui che poi diverrà il Pane Vivo disceso dal cielo [cfr. Gv 6, 35-59], che non è «come quello che mangiarono i padri vostri e morirono» perché «chi mangia questo pane vivrà in eterno» [Gv. 6, 58].

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Dimenticando tutte le tenere letture con le quali la pietà popolare ha colorato il testo del Vangelo lucano, esso narra che la nascita di Gesù avviene in uno spazio che si poteva trovare nelle abitazioni del tempo, quelle scavate all’interno, presumibilmente una stanza scavata nella roccia. Come quel genere di abitazioni che tutt’oggi sono visibili in certi siti archeologici, quelli ubicati in Sicilia presso la Necropoli di Pantalica nel siracusano [cfr. QUI], o nella Basilicata presso i cosiddetti Sassi di Matera [cfr. QUI], o nella bassa Maremma toscana nella Città di Pitigliano scavata nel tufo sul confine tra Toscana e Lazio [cfr. QUI]. 

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Nei Vangeli non c’è alcun riferimento al bue, all’asino e alla presenza di animali vari attorno alla Beata Vergine Maria. Soprattutto, questa nascita in un luogo non previsto, non è avvenuta perché Giuseppe era un sottoproletario squattrinato, ma perché ― come narrano i Vangeli ― sia per il censimento, sia per il grande afflusso di pellegrini a Gerusalemme, non c’era proprio nemmeno un buco libero.

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Faccio uso di un esempio che mi ha sempre fatto sorridere: la mamma del mio allievo e collaboratore, oggi presidente delle nostre Edizioni, Jorge Facio Lince, stava per partorirlo mentre si trovava all’interno di un taxi. Prontamente il tassista dirottò la corsa verso l’ospedale. Nessuno avrebbe però mai sostenuto, nel caso in cui quest’altra Maria ― Maria Ines, la mamma di Jorge ―, lo avesse partorito in un taxi, che la poverina era così povera e squattrinata da non potersi neppure permettere di partorire il figlio in una clinica di ostetricia-ginecologia.

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Gesù Cristo era povero allo stesso modo in cui è nato con la pelle bianchissima, i capelli biondi e gli occhi azzurri, in una città della Svezia ― come ovviamente leggiamo sui Santi Vangeli ― chiamata Betlemme, a poche decine di chilometri dalla capitale di Stoccolma. Tra i vari episodi che danno la corretta e reale percezione di quanto il Beato Giuseppe e la Vergine Maria non fossero dei poveri sottoproletari spiantati, è di certo esaustivo il racconto della strage degli innocenti. Il temibile Erode, avendo saputo che dei maghi astronomi si erano recati nella Giudea dove sarebbe nato un re, dopo avere tentato di trarli in inganno ordinò successivamente di far uccidere tutti i neonati maschi dai due anni in giù. Il Beato Giuseppe, avvisato in sogno da un Angelo, prende il bambino e la madre e fugge in Egitto, dove la famiglia rimase sino alla morte di Erode [cfr. Mt 2, 1-16]. Riguardo questo racconto bisogna precisare che sulla scia del protestante Rudolph Bultmann, maestro della demitologizzazione dei Santi Vangeli ― al quale molti nostri teologi ed esegeti si rifanno in modo impudente, trasmettendone teorie e insegnamenti direttamente dentro le nostre odierne università ecclesiastiche ―, molti sono gli studiosi che mettono in dubbio la storicità della fuga in Egitto. A dar loro man forte sono intervenuti certi nostri biblisti sostenendo che la fuga in Egitto del racconto del Beato Evangelista Matteo sarebbe stata costruita per dare un fondamento teologico a questo Vangelo diretto principalmente agli ebrei, ai quali era così esposto che Gesù Cristo era il nuovo Mosè e che attraverso di lui si era quindi realizzata la profezia del Profeta Osea: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» [Os 11,1]. Secondo altri il racconto del Beato Evangelista Matteo sarebbe null’altro che un plagio della Aggadah ebraica che narra come il Patriarca Mosè si fosse salvato dalla morte, dopo che il faraone aveva decretata la soppressione dei bambini. In verità, le similitudini tra il Patriarca Mosè e Cristo Dio, non rappresentano affatto un elemento solido per negare la storicità di quanto narrato dal Beato Evangelista Matteo.

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Dopo questa doverosa divagazione torniamo al problema, che è il seguente: come potevano permettersi due poveracci di trasferirsi a tempo indeterminato in Egitto? I cultori della odierna poverolatria gesuana, si sono mai domandati quanto costasse, all’epoca, soggiornare in Egitto? Ecco, facendo sia un parallelo sia una conversione socio-finanziaria, possiamo sostenere che all’epoca, soggiornare in Egitto, costava quanto oggi costerebbe soggiornare a Dubai, notoria meta dei più grandi morti di fame di questo mondo.

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Più volte Gesù venne onorato con omaggi preziosi, come il costoso olio di nardo col quale Maria gli cosparse i piedi a Betania [cfr. Mc 14, 3-9]. Tra gli spettatori presenti al fatto c’era Giuda Iscariota, che criticò con parole dure quel gesto di amorevole devozione lamentando cotanto spreco. Quell’olio era infatti molto prezioso e costoso, valeva trecento danari, come dettaglia lo stesso racconto evangelico. E qui, per spiegare a che cosa corrispondesse un simile importo nella Giudea dell’epoca, basta dire che un danaro era la paga giornaliera di un soldato romano e che quell’olio, più costoso dell’oro, corrispondeva a quasi un anno di paga. Dinanzi all’episodio di Giuda che afferma che quel danaro si sarebbe potuto dare ai poveri, l’Evangelista Giovanni ci narra che l’Iscariota non aveva alcuna preoccupazione per i poveri, ma che era un ladro. La comunità degli apostoli aveva infatti una cassa dalla quale egli rubava denaro [cfr. Gv 12, 1-8]. Un giudizio duro, quello racchiuso in questo racconto col quale Giovanni condanna Giuda, non condanna la preoccupazione per i poveri, ma quella ipocrisia che ieri come oggi si serve all’occorrenza dei poveri e dinanzi alla quale il Signore risponde a Giuda fugando ogni dubbio per il presente e per il futuro: «I poveri li avrete sempre tra di voi, ma non sempre avrete me» [Gv. 12, 1-11].

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Gesù vestiva pure elegante, diremmo oggi d’alta sartoria. Infatti indossava una tunica preziosa, tessuta per intero e senza cuciture, tanto che sotto la croce i soldati non la fecero a pezzi com’eran soliti fare con gli stracci dei poveretti, coi quali ripulivano poi le lance e le spade e lustravano le proprie armature, ma se la giocarono a dadi. I Vangeli sinottici si limitano a narrare che i soldati tirarono a sorte la sua veste [cfr. Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34], mentre il Beato Evangelista Giovanni indugia a spiegare il pregio e il valore di quel capo di vestiario: «Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”» [Gv 19, 23-24]. Il tutto perché un pezzo di tale pregio e valore, non poteva certo essere rovinato.

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Tra i dodici apostoli — come dicevamo poc’anzi — c’era anche un cassiere, una specie di antesignano del presidente della APSA (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Questo primitivo amministratore non era però un galantuomo, si chiamava Giuda Iscariota ed era un soggetto dal quale guardarsi bene, non tanto quando parlava dei poveri, fingendo che gli stessero tanto a cuore; da lui bisognava guardarsi soprattutto quando dava i baci [cfr. Mt 26,47-56; Mc 14,43-52; Lc 22,47-53].

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Il corpo del Signore morto fu avvolto in un lino prezioso e deposto in un pregevole sepolcro nuovo fornito da un uomo ricco divenuto seguace del Cristo: Giuseppe di Arimatea [cfr. Mt. 27, 57-60]. Quindi Gesù, per rendere l’idea, non fu sepolto in una fossa comune o in un modesto loculo a spese del comune di Gerusalemme, ma in quella che oggi sarebbe in tutto e per tutto l’elegante cappella sepolcrale di una famiglia molto altolocata.

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Una spiegazione a parte meriterebbe la stessa pena della crocifissione e le modalità adottate. Accadeva infatti di frequente, per non dire di prassi, che i carnefici, per alleviare le sofferenze del condannato e affrettarne la morte spezzassero loro le gambe e le braccia per accelerarne il decesso che in tal modo avveniva per soffocamento. Una volta deposti i cadaveri dalle croci i corpi seguivano questa sorte: o venivano presi e gettati in una grande fossa comune, oppure erano fatti in pezzi a colpi di scure.

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Come mai, il Santo corpo di Cristo Signore non seguì questa sorte, o meglio questa prassi, dopo la sua crocifissione sul Golgota? Lo stesso nome di quel lugubre colle, racchiude sia la sua storia sia il suo significato. Parola di derivazione aramaica, il luogo è chiamato in greco ολγοϑᾶ e in latino Golgotha, alla lettera significa “luogo del cranio”, o del “teschio”, per la presenza di crani ossificati e di ossa sparse per il terreno. I cadaveri erano infatti gettati, interi o a pezzi, in fosse non sempre profonde, con la conseguenza che i diversi animali presenti sul territorio spesso dissotterravano e poi seminavano in giro i resti dei corpi umani. Ma questa sorte, che era l’ordinaria prassi, non toccò invece a Cristo Signore, il cui corpo fu deposto dalla croce, raccolto, lavato, unto con oli ed essenze preziose, infine avvolto in altrettanto prezioso sudario. Evidentemente Gesù di Nazareth, per quanto condannato a quell’orrenda pena, non era propriamente uno dei vari ordinari condannati, quindi il suo corpo e la cura dello stesso seguì tutt’altre sorti. E queste sorti diverse denotano che non era propriamente un poveraccio, né un ordinario condannato circondato da altrettanti poveracci, come i numerosi condannati per i quali gli stessi familiari non osavano neppure andare a richiedere i corpi per una degna sepoltura, anche perché avrebbero dovuto dare una lauta mancia ai soldati romani. Alcuni poveri familiari dei morti crocifissi tentavano semmai di rubare i loro corpi di notte, col rischio di finire sottoposti a dure pene se scoperti. Detto questo non voglio avanzare ipotesi che potrebbero suscitare in alcuni persino scandalo. Però, poste queste premesse, avanzo una semplice domanda dubitativa: non è che Giuseppe di Arimatea, indicato dagli stessi Santi Vangeli come «ricco» [cfr. Mt 27, 57-61] recandosi in pieno giorno a richiedere il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, dai soldati romani non si presentò propriamente a mani vuote per prendere il corpo e porgendo loro tante grazie per la sensibilità e la comprensione?

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Pochi giorni dopo, dinanzi alla pietra rovesciata del sepolcro del Cristo Risorto, i Capi del Popolo invitarono i soldati romani posti di guardia della tomba a mentire. Per indurli a ciò dettero ad essi una buona somma di danaro [cfr. Mt 28, 12-14]. Tema questo a cui ho dedicata una video-lezione alla quale rimando [vedere video QUI]. Come mai, i Capi del Popolo, non dissero semplicemente ai romani: “Cari Soldati, siate gentili e fateci questo favore, dite che …”? Non fecero nulla di questo per il semplice fatto che nell’antica Giudea dove tutto si vendeva, si comprava e si commerciava, i romani che si erano perfettamente ambientati e integrati alla cultura e ai modi di fare del luogo, gratis non facevano niente, neanche uccidere velocemente, perché persino un “misericordioso” colpo di lancia per alleviare le sofferenze di un condannato aveva un prezzo da pagare.

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Il Santo Vangelo della Natività e quello della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo non narrano affatto la nascita di un poveraccio né la morte e la sepoltura di un altrettanto poveraccio. E tutti noi, sia devoti fedeli, sia persone anche non fedeli e non credenti, sulle basi di quella che si chiama onestà intellettuale dobbiamo stare ai racconti storici dei Santi Vangeli, che nulla hanno da spartire con le esegesi ideologiche più o meno ardite. 

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Se non entriamo in questo stile di pensiero non possiamo capire certi passi dei Santi Vangeli, ma possiamo solo stravolgerli, di conseguenza sporcarli e falsarli. Quando infatti nel Discorso della Montagna, Cristo Signore enuncia le Beatitudini [cfr. Mt 5, 1-16], il suo riferimento ai poveri non è un secco e lapidario «Beati i poveri», come mormorava durante l’ultimo conclave il Cardinale Claudio Hummes, o come da nove anni a questa parte si sente purtroppo enunciare dai pulpiti sempre più poveri di fede delle nostre chiese, con sproloqui omiletici incentrati in modo ossessivo su immigrati e profughi. Il Verbo di Dio non ha mai pronunciato questa frase lapidaria, ma ha enunciato una espressione molto più articolata: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Egli non fa alcun riferimento alla povertà materiale, tanto meno indicandola come virtù, posto che la povertà, la miseria, non sono virtù cardinali, sono disgrazie dalle quali uscire e aiutare gli altri a uscire. Noi siamo invitati a essere poveri «in spirito», ossia a entrare in una precisa disposizione interiore. Essere interiormente poveri vuol dire infatti essere anzitutto coscienti dei nostri limiti e delle nostre miserie di uomini nati con la corruzione del peccato originale. Essere poveri in spirito vuol dire riconoscere la nostra libera e vitale esigenza di dipendere dalla grazia di Dio Padre. E il modello per antonomasia di quella povertà sinonimo di umiltà e donazione incondizionata d’amore è Cristo Dio che, come ci istruisce il Beato Apostolo Paolo, pur essendo ricco si è fatto povero per noi:

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«Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» [Fil 2, 6-11].

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Nei Santi Vangeli il Signore non ci dice “dovete essere poveri”, tutt’altro: ci esorta dicendo in modo chiaro «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» [cfr. Lc 12, 13-21]. L’intimo senso delle parole del Signore è: non affannarti per niente, perché vale sì la pena affannarsi, ma è bene affannarsi per quel tutto inteso come cristocentrismo cosmico, per l’essere presente proiettato verso un divenire futuro eterno, non certo per il nulla.

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I beni materiali sono necessari e possono essere molto utili per trasformarli in vario modo in un bene collettivo. Investire sugli studi, per esempio, o in certi studi in modo particolare, è molto costoso, ma grazie all’impiego di importanti somme di danaro alcuni uomini di talento sono divenuti dei chirurghi che hanno poi inventato nuove tecniche operatorie, altri degli scienziati che hanno scoperto nuove molecole o creato nuovi vaccini. E tutto questo è stato possibile tramite quello strumento chiamato danaro, attraverso il quale — dicono taluni — si muove il mondo. Ammettiamo anche che il danaro muova il mondo, l’importante è che il suo movimento non renda l’uomo schiavo intrappolato e incapace a vedere al di là della materia, cosa inaccettabile per noi cristiani che nella professione di fede proclamiamo il nostro credo trinitario nell’eternità: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

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Nelle pagine dei Santi Vangeli, più che l’invito a una surreale povertà, o peggio a una povertà ideologica, il Signore invita a fare un uso sano e generoso delle ricchezze, usandole per il migliore sviluppo di noi stessi e per il bene degli altri, per esempio attraverso quei meccanismi di flusso di danaro che creano posti di lavoro e benessere collettivo. Tutto questo con buona pace dei grandi squali del peggiore capitalismo selvaggio liberalista, i quali affermano che «la Chiesa deve essere povera», mentre il povero africano extracomunitario gli serve un Cuba libre sul bordo della loro piscina in memoria di Fidel Castro, nel dolce ricordo di Ernesto Guevara detto El Che, anche noto come El Cerdo, ossia il Maiale, tanto era notoriamente sporco sia fuori sia dentro. In caso contrario, a chi animato da egoismo pensa solo a riempire i propri granai per poi dire a se stesso: «Riposati, mangia, bevi e divertiti e datti alla gioia» [Lc 12, 19]. Il Signore ricorda: «Attento, tu che accumuli tesori solo per te stesso e non ti preoccupi di arricchirti al cospetto di Dio» [Lc 12, 21].

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Ricchezza e benessere non sono male, tutt’altro, possono essere fonti di gran bene e come tali servire per creare ricchezza e benessere superiore. I mezzi materiali, a partire dal danaro, sono strumenti da sempre utili, anzi indispensabili per l’annuncio stesso della Parola di Dio e per l’evangelizzazione. Gli stessi Dodici, che lasciarono famiglia, casa e lavoro per dedicarsi all’apostolato, avevano mezzi di sostentamento. La loro missione apostolica era sostenuta da fedeli benefattori e da vedove molto benestanti. Facciamo dunque sì che la ricchezza possa veramente produrre vera ricchezza, per noi stessi e per il bene degli altri, affinché tutto quanto non sia soltanto «vanità di vanità», come ammonisce Qoelet aprendo il proprio discorso con una invettiva contro la vanità [cfr. Qo 1,3].

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Non dovremmo desiderare né pregare affinché si realizzi una «Chiesa povera per i poveri» [cfr. QUI]. La Chiesa è di tutti, dei poveri e dei ricchi e tutti sono chiamati alla salvezza. Anche perché non è scritto in nessuna pagina dei Santi Vangeli che povero è uguale a buono e che ricco è uguale a cattivo. Ci sono poveri dotati di una cattiveria e di una malvagità spaventosa, come ci sono ricchi che vivono con grande rispetto per il prossimo, soprattutto per i meno abbienti. E spesso solo dopo la morte di diversi di costoro si è venuto a sapere quanta beneficienza hanno fatto e quante famiglie hanno aiutato nel totale nascondimento. Così come ci sono poveri capaci a privarsi del necessario per rendere gloria a Dio, si pensi al racconto evangelico della povera vedova che getta nel tesoro del tempio le due uniche monete che possedeva [cfr. Mt 12, 41-44]. Per questo ho sempre pregato e seguiterò a pregare non per una ideologica «Chiesa povera per i poveri», ma per una Chiesa di uomini e donne ricchi di fede, lasciando ad altri la suprema ideologia del povero, che non ha mai costituito né una verità né tanto meno un dogma della santa fede cattolica. Posto peraltro che il primo a non essere nato da due poveri, a non avere vissuto da povero, a non avere mangiato da povero, a non avere vestito da povero, a non essere stato infine neppure sepolto da povero, è stato proprio Nostro Signore Gesù Cristo. E chi vi dice il contrario vi parla di un Cristo del tutto diverso da quello descritto nei Santi Vangeli, quindi vi annuncia un Cristo storico falso, un Cristo che non è mai esistito e che non poteva neppure esistere. Pertanto, chi per ignoranza dovuta alla totale mancanza di conoscenza dei Santi Vangeli, chi per crassa ignoranza, chi per anticlericalismo becero, chi per ideologia o piacioneria clericale parla di un Gesù povero ridotto a un figlio dei fiori squattrinato, annuncia un falso Cristo mai esistito che non corrisponde alle cronache storiche narrate e trasmesse dagli Evangelisti.

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Cristo è via, verità e vita [Cfr. Gv 14, 6], lo è nella sua assolutezza e totalità. Cristo non può essere ridotto a un pretesto per legittimare la nostra via e le nostre opinabili verità, conducendo infine il gregge a noi affidato da pascere dal Divino Pastore verso una via diversa da quella donata e offerta dal Datore Supremo della vita. Perché in tal caso incomberà su di noi il grido:

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«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo». Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: «Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una» [Ger 23, 1-4].

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E su di noi che le pecore le abbiamo disperse, perché impegnati a imporre le ideologie del nostro “io” anziché le verità di Dio, incomberà come sul «servo fannullone» la condanna, quindi saremo «gettati fuori nelle tenebre, là dove sarà pianto e stridore di denti» [Mt 25, 30].

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Sia per evangelizzare sia per aiutare i poveri la Chiesa ha bisogno dei ricchi, molti dei quali sono stati spesso generosi nella stessa misura in cui hanno percorso in lungo e in largo tutti i peggiori peccati capitali. Senza i soldi dei ricchi la Chiesa non avrebbe mai potuto aiutare i poveri. È per questo che la Chiesa ha accumulato dei beni, cercando nel tempo di aumentarli e di metterli a frutto facendoli rendere. Con buona pace di quelli che potremmo definire i cosiddetti “benefattori immobiliari” che tuonano: «La Chiesa deve vendere i suoi beni e darli ai poveri». Sarebbe una bella idea. Però, viaggiando un giorno per la Sicilia sud orientale e parlando con un saggio contadino che allevava mucche ― e che per inciso guadagnava in una settimana quello che un alto funzionario di banca guadagnava in un mese ―, ho capito dalle sue acute parole che fare una cosa simile sarebbe parecchio dannoso, anzitutto proprio per i poveri. Se infatti prendiamo una mucca e la macelliamo ― disse il saggio contadino ―, dando per una settimana da mangiare le carni arrostite ai poveri, quando poi i poveri verranno a chiedere il latte, noi dovremo rispondere che il latte non c’è perché la mucca se la sono mangiata. Però, macellandola e offrendola in cibo, avremmo compiuto un gesto di straordinaria “generosità” e di “donazione assoluta”. Uno di quei gesti che tanto piacciono ai fricchettoni delle sinistre radical chic. Quindi potremmo mandare i poveri a bussare alle porte dei loro super-attici ai Parioli, o a quelle delle loro ville di Capalbio, dove volendo si possono trovare persino 24.000 euro dentro la cuccia del cane, come accadde al Senatore Monica Cirinnà. Prontamente difesa dal Gruppo Editoriale La Repubblica-L’Espresso [cfr. QUI] che con tanto di decreto di archiviazione del competente tribunale di Grosseto spiega quanto l’interessata fosse estranea. Lo stesso settimanale L’Espresso che nel corso degli anni ha trattato in più servizi la Chiesa Cattolica come una via di mezzo tra una mafia e una associazione a delinquere [cfr. QUI, QUI, QUI, ecc…]. E quando le loro inchieste sono risultate fasulle e i dati falsi o falsati, nessuno ha mai spiegato quanto fossimo estranei a certe accuse, perché non siamo membri della sinistra radical chic e perché non ci chiamiamo Monica Cirinnà. Ecco perché le cucce della Chiesa per L’Espresso puzzano sempre a priori, anche quando odorano di lavanda e zagara e non contengono danaro di misteriosa provenienza lasciato in custodia al cane.

dall’Isola di Patmos, 15 novembre

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