HO PORTATO L’ISOLA DI PATMOS AI FUNERALI DI BENEDETTO XVI TRA NEBBIA E VECCHI RICORDI INDELEBILI
Non avrei mai immaginato che il pontificato di Benedetto XVI sarebbe stato liquidato con una Santa Messa esequiale della durata di un’ora e un’omelia di cinque minuti nel corso della quale non è stato detto niente. Cosa lamentata da molti preti presenti in piazza al termine della celebrazione. Ma d’altronde è oggi noto e risaputo: a noi preti chi ci ascolta?
Nel 2005, al funerale di Giovanni Paolo II tirava un forte vento che alla fine della celebrazione chiuse il Libro del Santo Vangelo deposto aperto sopra la bara. A quello di Benedetto XVI, celebrato questa mattina c’era una nebbia che impediva di vedere la cupola di San Pietro, mentre in altre zone della Capitale c’era il sole. Al prossimo funerale, quando sarà, quale altro segno ci sarà riservato, anche se oggi pare si sia perduta la capacità di leggere i segni?
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Bene ha fatto Padre Ariel a “riesumare” dall’archivio della nostra Isola di Patmos un vecchio articolo del 2017 in cui parlava con anni di anticipo del funerale di Benedetto XVI [vedere articolo QUI], preceduto da un commento molto profondo e lucido del nostro Padre Ivano [vedere articolo QUI].
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Conobbi nel 1993colui che nel 2005 diverrà il 265° successore del Beato Apostolo Pietro, il Cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Fu invitato a Firenze dall’allora Arcivescovo, il Cardinale Silvano Piovanelli, che lo fece alloggiare in seminario, come si era soliti fare. A me e a un altro confratello il rettore del seminario chiese di occuparci di lui e di servirlo per tutte le sue necessità. Lascio immaginare il nostro timore e tremore, trovandoci dinanzi al Prefetto di quel dicastero, tanto più un teologo come lui. Con nostro stupore incontrammo e ci potemmo intrattenere con una persona molto amabile e gradevole.
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Quando gli dicemmo che eravamo a sua completa disposizione, in modo sornione e simpatico rispose: «Ma se voi non dovevate stare vicino a me, che cosa avreste fatto? Che cosa fate di solito in questi momenti e in queste fasce di orario?». Rispondemmo che in quei momenti eravamo dediti allo studio. Ci rispose: «Allora sarà bene che studiate e che vi prepariate nel migliore dei modi al vostro ministero, anziché stare dietro a me».
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Mostrò molta cura per noi in quei giorni, soprattutto quando celebrò la Santa Messa nella cappella del seminario, manifestando nella sua sobrietà una sacrale profondità liturgica, donandoci delle omelie che furono delle profonde catechesi.
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Altro ricordo fu quando nel 2006 portai i giovani in udienza durante il suo primo anno di pontificato. I ragazzi avevano sempre vivo il ricordo del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, sotto il pontificato del quale erano nati e cresciuti. Una personalità istrionica e avvolgente, dinanzi alla quale Benedetto XVI appariva inizialmente un timido introverso. Per non parlare dell’accanimento scatenato su di lui dai mezzi di comunicazione di massa. Così, colti i loro dubbi e perplessità, rivolsi questo invito: «Fate un minimo sforzo: ascoltate quel che dirà nel corso dell’udienza, poi ne riparleremo». E come suo stile Benedetto XVI riuscì a parlare di temi molto profondi con una semplicità straordinaria, rapendo da subito la loro attenzione e conquistandone l’interesse. Ritornai a Firenze con dei giovani entusiasti per avere partecipato a quell’udienza, che svilupparono da quel giorno a seguire grande affetto e un profondo legame verso la figura di Benedetto XVI.
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Diversi di quei giovani, nei giorni a seguire, mi confidarono che su Benedetto XVI erano stati costruiti degli stereotipi non veri e soprattutto ingenerosi. Come dimenticare il titolo a tutta pagina di un quotidiano che il giorno dopo la sua elezione titolò: Il pastore tedesco?
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Portai nuovamente in udienza i giovani anni dopo, durante il suo ultimo anno di pontificato, poco prima dell’atto di rinuncia all’esercizio del ministero petrino. Anche quella fu una giornata di intense emozioni che li colpì molto. Gli stessi che abbiamo visto in grande numero sfilare dinanzi al feretro di Benedetto XVI esposto ai fedeli nella Papale Arcibasilica di San Pietro, dove sono state calcolate 200.000 persone affluite in tre giorni. Il tutto a conferma di quella verità taciuta per anni dalla stampa nazionale e internazionale che da subito gli ha dichiarato guerra sin dalla sua elezione: Benedetto XVI è stato molto amato dai giovani. Se infatti stiamo assistendo da un decennio a un calo vertiginoso e drammatico delle vocazioni alla vita sacerdotale, nei primi anni di pontificato di Benedetto XVI le vocazioni erano in aumento. E questo non lo dico certo io, ma i numeri, la storia. Soprattutto lo dicono i nostri seminari sempre più vuoti. Anche perché, se il modello di prete oggi proposto è quello dell’attivista, tanto vale iscriversi alla facoltà di sociologia a fare poi l’assistente sociale. E vogliamo parlare degli abbandoni del sacerdozio? Era dagli anni Settanta che non si registravano numeri così elevati di richieste di dispensa dall’esercizio del sacro ministero sacerdotale, molte delle quali avanzate da sacerdoti in crisi profonda, con venti o trent’anni di ministero sulle spalle. Tema questo sul quale alcuni vescovi-sociali dovrebbero chiedere lumi a Padre Ariel, che da 12 anni si dedica alla cura e all’assistenza di sacerdoti in difficoltà.
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L’ultimo ricordo che conservo risale all’11 febbraio del 2017, quando andai con il Cardinale Ernest Simoni in visita privata al monastero Mater Ecclesiae. Il Santo Padre volle incontrarci e intrattenersi con noi prima della Santa Messa, mostrando per tutti lo stesso affetto: per un anziano ed eroico Cardinale come Ernst Simoni, che aveva trascorso 27 anni della sua vita nelle carceri comuniste dell’Albania, ed allo stesso modo per me, che pure non ho vissuto con eroismo certe forme di martirio bianco.
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La cosa che mi colpì e mi commosse, fu che Benedetto XVI riconobbe in questo prete, ormai avanti negli anni di ministero sacerdotale, il seminarista incontrato da Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede nel Seminario Arcivescovile di Firenze. Di quella visita si ricordava veramente tutto.
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Dopo questo incontro privato concelebrammo l’Eucaristia da lui presieduta nella Cappella del Monastero Mater Ecclesiae. Di quella Santa Messa ho già reso testimonianza su queste nostre colonne lo scorso anno [vedere articolo QUI], precisando che nel canone Benedetto XVI pronunciò la frase: «… una cum famulo tuo Papa nostro Francisco». Testimonianza che non è però servita agli ideatori di codici criptici, anfibologie e, soprattutto, a chi purtroppo segue certi squinternati che hanno data vita al mondo dell’irreale [vedere precedenti articoli QUI, QUI].
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Dopo la Santa Messaci fu un incontro fraterno molto prolungato, nel corso del quale gli offrimmo alcuni doni della Chiesa di Firenze. Prima del termine di quell’incontro il Santo Padre mi regalò il suo zucchetto, che chiaramente io conservo come una preziosa memoria di questo Pontefice, che nonostante certi suoi limiti umani e di governo, considero un grande pontefice per il suo magistero, per le sue catechesi e per la sua indimenticabile omiletica.
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Questa mattinaho partecipato alle esequie funebri in una Piazza San Pietro gremita di gente come non si vedeva da molti anni. Piazza che potremmo rischiare ― se Padre Ariel ci avesse azzeccato anche questa volta ― di non rivedere più così. Erano presenti circa centomila persone e quasi 4.000 sacerdoti concelebranti. Ciò che più mi ha colpito è stata la presenza di tanti giovani, come documentano le immagini.
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Non posso omettere una nota finale, triste ma veritiera, sulla quale non intendo però soffermarmi: non avrei mai immaginato che il pontificato di Benedetto XVI sarebbe stato liquidato con una Santa Messa esequiale della durata di un’ora e una omelia di cinque minuti nel corso della quale non è stato detto niente. Cosa lamentata da molti preti presenti in piazza al termine della celebrazione. Ma d’altronde è noto e risaputo: a noi preti chi ci ascolta? Quando si è impegnati ad ascoltare tutto, specie ciò che non è cattolico, si può essere privi del tempo necessario per ascoltare gli operai che lavorano nella vigna del Signore.
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In certe occasionibisogna stendere però un velo pietoso, o forse persino una trapunta di lana pesante con il suono della pietra tombale che cala.
Roma, 5 gennaio 2023
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RICORDI
11 febbraio 2017: il Santo Padre Benedetto XVI con il Cardinale Ernest Simoni e il presbitero fiorentino Simone Pifizzi
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2023-01-04 19:02:442023-01-04 23:18:39Quando nel 2017 scrissi con sei anni di anticipo sulla morte e il funerale del Sommo Pontefice Benedetto XVI
IN MORTE DI BENEDETTO XVI CHE INIZIÒ IL MINISTERO PETRINO DICENDO: «PREGATE PER ME PERCHÉ IO NON FUGGA PER PAURA DAVANTI AI LUPI»
Tra le tante cose che in queste ore si stanno dicendo su Joseph Ratzinger, la più vera e lusinghiera reputo sia questa: «Ha servito la Chiesa ma non si è servito di Essa».
Sui mass mediasi stanno moltiplicando in questi giorni ― e seguiteranno a moltiplicarsi nei prossimi giorni ― commenti di personaggi e personalità, assieme a un esercito di personaggi in cerca d’autore, che non conoscono i fondamenti del Cattolicesimo, la sua ecclesiologia, la sua specifica liturgia e il suo diritto interno. Parlare infatti del «funerale del Papa» è un’espressione per così dire puramente popolare. E questo da sempre, non solo nel caso di Benedetto XVI. Alla morte del Romano Pontefice non si celebra il funerale del Papa ma di colui che lo è stato. In passato, dopo la morte, avveniva il cosiddetto “rito del martello”. Il decano del Collegio Cardinalizio batteva tre colpi sulla fronte del defunto con un martelletto pronunciando la frase «Vere Papa mortuus est» (il Papa è veramente morto). Poi lo chiamava non più con il nome assunto alla sua elezione al sacro soglio, ma con il suo nome di battesimo. Cosa questa che ha un suo significato molto profondo: il pontificato cessa con la morte, non sopravvive a essa.
Benedetto XVI, il Sommo Pontefice che amava i gatti
Il rito del martelletto fu compiuto l’ultima volta nel 1922 alla morte di Benedetto XV. In seguito, quando nel 1939 morì Pio XI, l’allora decano del Collegio Cardinalizio Eugenio Pacelli, che diverrà suo successore col nome di Pio XII, non utilizzò il martelletto, rito che da quel momento è caduto in disuso. È comunque bene chiarire in questa occasione che da sempre celebriamo le esequie di colui che è stato Romano Pontefice, che cessa di essere tale al momento della morte per tornare l’uomo che era prima dell’elezione. Mentre infatti un episcopo e un presbitero rimangono tali in eterno, in virtù del Sacramento indelebile che hanno ricevuto e che valica quindi la morte stessa, il Romano Pontefice, che la sua potestas l’ha invece ricevuta per via giuridica e non per via sacramentale [cfr. QUI], cessa di essere tale con la morte, per questo è chiamato con il nome di battesimo. Quello di Benedetto XVI è un caso ancora più particolare, perché ha cessato di essere il Romano Pontefice 10 anni fa, con il suo libero, legittimo e valido atto di rinuncia al ministero petrino.
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Tra le tante coseche in queste ore si stanno dicendo su Joseph Ratzinger, la più vera e lusinghiera reputo sia questa: «Ha servito la Chiesa ma non si è servito di Essa». Ha servito la Chiesa veramente ― «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore» ― come ebbe a dire di sé stesso il 19 aprile 2005 subito dopo la sua elezione al soglio del Principe degli Apostoli. Poi pochi giorni dopo, il 24 aprile, durante la Santa Messa per l’inizio del ministero petrino pronunciò nell’omelia una frase che solo diversi anni dopo abbiamo compreso, anche se tutt’oggi resta da comprenderne il vero significato fino in fondo: «Pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi» [cfr. QUI].
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Questo servizio non ha avuto alternanze ma è stato costante: sia come Pontefice che come cardinale e vescovo e ancor prima come sacerdote; sia come teologo che come studioso del mistero di Dio che ha sempre amato, indagato e difeso nel suo compito di Prefetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il consenso unanime e intellettualmente onesto di coloro che lo hanno conosciuto personalmente ― alcuni dei quali non credenti o smaccatamente non cattolici ― orienta il cuore dei fedeli cristiani verso questa valutazione di merito, lasciando pertanto a Dio le immancabili fragilità di un uomo che ha commesso sì degli errori proprio a causa di quelle altezze di dignità alle quali fu sottoposto, così come già vediamo presenti nella vita del beato apostolo Simon Pietro.
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Dopo il grande e impetuoso Giovanni Paolo II, il Signore ha scelto un pastore mite ― forse troppo mite per il momento storico a cui venne chiamato a ricoprire l’ufficio petrino ― ma che non ha mai abdicato la ricerca della Verità che prima di essere una via speculativa rappresenta una persona vera e concreta, è Gesù Cristo, il Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo, Salvatore del mondo.
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Joseph Ratzinger, Benedetto XVI,è stato il ministro della Verità intesa come persona di Cristo, merce molto rara di questi tempi tra il clero “alto” e “basso”. Una verità che è stata affermata anche quando questa appariva scomoda per la Chiesa Cattolica, detta soprattutto quando poteva scandalizzare qualcuno e si rischiava di perdere seguaci: il «volete andarvene anche voi?» [Gv 6,67] è ancora valido oggi, rispetto al «Todos caballeros»?
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Una verità detta veramentecon parresia anche quando questo avrebbe comportato il martirio e la persecuzione, soprattutto quando era necessario intraprendere una via di guarigione fatta di tanto purgatorio che avrebbe interessato da vicino sia i sacerdoti che i religiosi e gli alti prelati i cui scandali e vite in dissonanza con il Vangelo non potevano più essere tollerati e misericordiati buonisticamente, se non con il fermo proposito di un serio rinnovamento di vita e di ritorno alla conversione, fermo restando la doverosa riparazione davanti al mondo e davanti a Dio.
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Il valore e lo spessore di Benedetto XVIè essenzialmente questo e poco c’è altro da aggiungere: è lo spessore della Verità ed è giusto oggi ricordarlo a tutti, dirlo a noi sacerdoti, scolpirlo nella mente dei fedeli, in un momento ecclesiale di estrema fragilità in cui le febbri ternane della papolatria hanno interessato molti e dove in queste ore si assiste vomitevolmente alla fiera dei selfie con il defunto Pontefice nell’aspettativa di guadagnare ancora qualche punto fedeltà o di carriera.
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I social brulicano di reazioni circa la sua morte, diventando i bacini sociali estremamente rivelativi di quello spessore fatuo e incongruente dell’uomo moderno e del clero moderno. Ci si alterna in lodi sperticate proferite dai personaggi più improbabili che hanno voluto seguire la convenienza del momento abbandonando Joseph Ratzinger quando non era più utile per raggiungere i propri interessi personali. Si è passati dalla cappamagna ai migranti, dalle croci pettorali in oro a quelle in legno dei barconi, dalla nobile semplicità e sobrietà della liturgia alla sciatteria disadorna dei pionieri del nuovo culto inclusivo dimentico di Dio, dall’austero ordine architettonico di Piazza San Pietro alle deiezioni tra le colonne del Bernini di una Chiesa povera e basta.
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Assistiamo al contempo alla danza delle iene, ad alcuni che godono di soddisfazione patologica per la sua morte ― spesso gli stessi che difendono i diritti e l’inclusività ― e che ora si scagliano sulla memoria del Pontefice percepito fin da subito e senza appello come il “nemico numero uno” da abbattere. Da abbattere sì, così come si devono abbattere le verità scomode che ci tengono svegli la notte, così come vediamo fare al demonio con Gesù in quel di Cafarnao: «Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» [cfr. Lc 4,31-37].
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Oggi cancellare sistematicamente la Verità e le verità è divenuto il nuovo mantra della intellighenzia dominante, di coloro che si definiscono custodi della sapienza umana e che con il Papa teologo avrebbero dovuto saper dialogare e cercare affannosamente l’incontro con la Verità ma non l’hanno fatto. Si è preferito in quel giovedì 17 gennaio 2008 rigettare il tutto: «basta! che vuoi da noi, sei venuto a rovinarci?» Un’occasione per poter partorire la Verità nella pluriformità delle posizioni di pensiero, trasformata invece in ideologia al grido di #NOVAT all’Università La Sapienza. A distanza di dodici anni molti di quegli orgogliosi e titolati dissidenti della verità hanno fatto carriera e si godono il prestigioso e glitterato successo umano, cosa che l’umile non desidera e che non cerca perché sa bene che «Vanitas vanitatum et omnia vanitas».
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Misteriosamente Dio rivela e sfida le concezioni dominanti presenti nel mondo attraverso i semplici e gli umili lavoratori della sua vigna. Joseph Ratzinger lo è stato, un Papa che ha incarnato quel «semeion antilegomenon» del Vangelo di Luca, cioè quel segno messo lì da Dio e che molti hanno rifiutato. Solo chi ha avuto la sapienza del cuore ha rettamente inteso, capito e ora vive il tempo del silenzio. Viviamo questi giorni nella preghiera per Papa Benedetto XVI, per la Chiesa, per l’attuale Pontefice Francesco. Fatti come questi sono estremamente rari e sarebbe da stolti etichettarli al di fuori di una visione di Provvidenza divina e di sapienza non immediatamente comprensibile. Lasciamo ad altri la letteratura fantasye le anfibologie su Benedetto XVI. A noi interessa la sua persona, il suo esempio, il suo ministero che oggi è più eloquente da morto che da vivo e che forse avrà ancora il merito di riportare molti cuori dei figli verso i padri. Tutto il resto, in bene e in male, in grandezze e limiti, in pregi e difetti lo giudicherà la storia in modo freddo e imparziale, al momento che sarà e quando sarà, se sarà …
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Laconi, 2 gennaio 2023
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/Padre-Ivano-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Ivanohttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ivano2023-01-02 21:58:372023-01-02 21:58:37In morte di Benedetto XVI che iniziò il ministero petrino dicendo: «Pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi»
QUEL DISASTRO DEL “REDDITO DI CITTADINANZA” VISTO E VISSUTO DA NOI PRETI A GIORNALIERO CONTATTO CON IL MONDO DEL REALE
È pensabile e sostenibile che una parte produttiva del Paese mantenga con la propria contribuzione e il proprio gettito fiscale una parte palesemente parassitaria che dinanzi a forme di esagerato assistenzialismo a puro scopo di serbatoio elettorale, non ti dice neppure grazie, perché agisce e reagisce come se ciò gli fosse dovuto, salvo lamentare che il tutto non è mai abbastanza?
tratta da Salerno Today del 15 ottobre 2018 [vedereQUI]
l’Italia è popolata da un gran numero di vili pronti ad applaudire il potente all’apice del potere, poi ad accanirsi sul suo cadavere. È la italica psicologiadi Piazzale Loreto, angolo di Milano dove la folla si accanì sul cadavere di Benito Mussolini, Clara Petacci, Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini. Dinanzi a quello scempio Sandro Pertini, partigiano socialista e futuro Presidente della Repubblica dichiarò: «Con quel gesto l’insurrezione si è disonorata» [cfr. QUI].
Sorvolo su Carl Gustav Jungche definì la struttura dell’inconscio collettivo, perché complesso sarebbe il discorso e mi limiterò a ricordare l’ovvio: ogni popolazione è condizionata e animata da una propria peculiare psicologia sociale che le deriva dalla sua storia e dal suo vissuto. È in questo senso che possiamo parlare di “carattere sociale” o “socio-psicologia collettiva”.
Il carattere italico è stato raffigurato in modo plastico e realistico nel mondo del giornalismo e in quello della cinematografia da due grandi figure del Novecento italiano: il giornalista Indro Montanelli e l’attore Alberto Sordi che i vizi dell’italiano li tradusse in cinematografia. Tra le sue opere resta memorabile Polvere di stelle, con la straordinaria Monica Vitti.
Mentre tutto taceva e nessuno osava sospirare dinanzi ai potenti di maggioranza al potere, dal canto mio non esitai ad affermare, nel 2019 e nel 2020, che il reddito di cittadinanza è stato il più scandaloso acquisto di voti mai verificatosi prima nella storia della Repubblica Italiana [vedere mio articolo QUI]. È un dato storico: tutti i vecchi partiti della cosiddetta prima Repubblica presero per anni e anni finanziamenti illeciti da industrie, aziende e grandi imprese. Il vecchio Partito Comunista Italiano prendeva finanziamenti illeciti persino peggiori, perché il danaro gli giungeva dall’Unione Sovietica, che era un Paese nemico del Patto Atlantico. Nessun Partito era immune da questi finanziamenti. Eppure nessuno di loro si sognò mai di comprarsi i voti usando il danaro dei pubblici contribuenti, come ha fatto invece quel movimento di grandi moralizzatori noto come Cinque Stelle, che da subito non ha mai parlato all’intelligenza degli italiani, o del poco che ne resta, ma alla loro emotività e alla loro pancia. Voti palesemente acquistati con il reddito di cittadinanza, come provano le preferenze elettorali che hanno toccato delle autentiche maggioranze bulgare in quelle circoscrizioni elettorali del Meridione d’Italia dove sono stati erogati i più numerosi sussidi. Due sole regioni, la Campania e la Sicilia, detengono il 48% dei redditi di cittadinanza tra quelli erogati in tutta Italia. La conseguenza è stata che in alcuni collegi elettorali il Movimento Cinque Stelle ha superato il 70% delle preferenze elettorali. Non sono illazioni, ma dati statistici che lo dicono, per quant’è vero che le elezioni si vincono con i numeri di maggioranza, o no? E i numeri parlano.
Tutto questo lo scrivevo anni fa, in pieno potere cinquestellino, al contrario dei tanti, anzi dei troppi che questa realtà l’hanno vista solo quando i grandi moralizzatori del Paese sono caduti in una farsesca riedizione de La Fattoria degli Animalidi George Orwell. E questo dopo averci regalato di tutto e di più: dai monopattini dai quali oggi rischiamo di essere travolti sui marciapiedi, per seguire con i banchi a rotelle che solo una scienziata della caratura di Lucia Azzolina poteva inventare. Su Luigi Di Maio ministro per gli affari esteri stendiamo invece direttamente un velo pietoso.
Chiariamo da subitoa scanso di qualsiasi equivoco: un Paese che sia veramente civile ha il dovere politico, sociale e morale di sostenere tutti quei cittadini che non sono in grado di lavorare o che non riescono a trovare lavoro. Come sempre cerchiamo di chiarire il tutto con alcuni esempi concreti: un lavoratore che ha svolto per venti o trent’anni un lavoro usurante, per esempio un muratore o un manovale, se a cinquant’anni si ritrova senza lavoro e per di più con qualche problema di salute, dove lo trova un altro lavoro? Se un lavoratore di analoga età, ma anche un quarantenne che per quasi vent’anni ha fatto il camionista, non può stare più seduto per dieci ore al giorno alla guida di un camion per il sopraggiungere di problemi fisici che glielo impediscono, ma che al tempo stesso non può essere però considerato invalido, perché non lo è, un altro lavoro dove lo trova? Per l’uno e per l’altro, come per molti altri ancora, trovare un nuovo lavoro può essere anche possibile, ma sicuramente non è facile e meno che mai potranno trovarlo su due piedi. Ovvio che sostenere queste persone è un dovere di civiltà. Ma il reddito di cittadinanza, siamo sicuri che è andato a questo genere di persone e a tutti coloro che si trovano senza lavoro per motivi del tutto indipendenti dalla loro volontà?
Posto che stiamo a parlare degli italiani,non dei tedeschi o dei francesi che, piaccia o meno, sono dei popoli con un profondo senso di nazione e di identità nazionale, il reddito di cittadinanza ha segnato anzitutto, nella nefasta psicologia italica, una corsa immediata alla truffa ai danni dello Stato e dell’intera collettività nazionale dei pubblici contribuenti. Solo a dei politici onirici come i cinquestelle poteva passare per la mente, in un Paese come il nostro, di erogare questo sussidio basando il tutto sulla veridicità e la buonafede della auto-certificazione, senza alcun genere di rigoroso controllo, evitando che il tutto finisse a beneficio di quei furbi di cui l’Italia è madre partoriente a getto continuo. E i furbi truffatori, stando alle indagini che con enorme ritardo sono state fatte dagli organi amministrativi e giudiziari preposti, non sono stati affatto “alcuni casi”, ma decine e decine di migliaia, molti dei quali veramente eclatanti. Perché appena si sono messi a fare i controlli, hanno scoperto in breve l’incredibile e l’inverosimile. Purtroppo, i controlli, sono scattati solo quando è cambiato governo e dopo che il governo precedente aveva potuto lucrare voti sul reddito sia alle elezioni politiche sia alle elezioni amministrative.
Ho parlato a lungoe con numerosi percettori di questo devastante reddito, che non è certo tale in quanto tale ma per il modo in cui è stato congegnato. Dalle loro bocche ho potuto udire solo la parola «io ho il diritto di … ho il diritto di … ho il diritto di …». Dinanzi al quesito se mai si erano posti il problema che percepire un sussidio implica che dall’altra parte ci siano dei pubblici contribuenti che glielo paghino, la risposta data ― e non una volta, ma pressoché di prassi ― è stata a dir poco desolante: «Ah, ma è lo Stato che lo paga …». A seguire la precisazione ulteriore: «… perché lo Stato deve …». Ogni commento, dinanzi a simili convinzioni, sarebbe a dir poco superfluo.
Un amico imprenditore tempo fa mi narrò che aveva versato allo Stato, in suoi contributi personali all’INPS, oltre 400.000 euro in 40 anni di lavoro, ricevendo in cambio, una volta giunto al pensionamento, una pensione di 650 euro mensili. Detto questo si dichiarò scandalizzato ― e vorrei vedere come dargli torto ― all’idea che dei ventenni fisicamente in grado di lavorare non si premurassero neppure di cercare lavoro e che riscuotessero 780 euro mensili di reddito di cittadinanza. Mentre altri riscuotevano da una parte il reddito e dall’altra lavoravano in nero, mettendosi in tasca 1.500 / 1.600 euro al mese. Perché queste sono le persone che pagano il reddito a un esercito di nullafacenti che non ne avrebbero alcun diritto e che, ripeto, non sono affatto casi sporadici e isolati, sempre stando a quanto emerso dai controlli effettuati dopo che le stalle erano state aperte e i buoi fuggiti allo stato brado.
Il celebre giornalista italiano Bruno Vespaha dato di recente questa testimonianza a un programma televisivo Mediaset:
«Ho una masseria in Puglia. Ho trovato una ragazza che lavorava in nero in un locale. Brava, motivata, voleva crescere: le ho offerto 1.300 euro per fare la cameriera. La giovane ha accettato ma poi è tornata a casa e il suo compagno le ha detto: “tu sei pazza, sommando al reddito il lavoro in nero sei molto più libera e fai quello che vuoi”. Di queste situazioni ce n’è un’infinità in Italia» [cfr. QUI].
Presto detto: siamo dinanzi a un numero tanto elevato quanto inquietante di egoisti ignoranti che non hanno neppure la pallida idea di che cosa sia uno Stato. Ma c’è di peggio: in modo più o meno lamentoso o arrogante, antepongono sempre e solo di rigore la parola «io ho il diritto di … ho il diritto di … ho il diritto di …», senza essere mai sfiorati neppure di lontano che i diritti dovuti o acquisiti si basano di necessità sui doveri. Così, ogni volta che ho ricordato a questi soggetti ― molti dei quali purtroppo socialmente irrecuperabili nel loro modo di pensare ― che uno Stato si regge sul rapporto tra doveri e diritti dei cittadini e che dello Stato si beneficia nella misura in cui allo Stato si dà, per tutta risposta mi sono sentito dire: «Ah, ma lo stipendio dei politici …». E questo è l’altro elemento devastante della psicologia italica: «l’altro è peggiore e fa molto peggio di me». Oppure: «… sì, evado il fisco e faccio bene ad evaderlo perché il direttore della Banca d’Italia prende 40.000 euro al mese di stipendio». Da ragionamenti di questo genere può nascere solamente il peggio del peggio. Anche in questo caso diciamolo con degli esempi: ecco allora la mamma napoletana che dinanzi al figlio colto in flagrante mentre stava rapinando un tabaccaio, se la prende con il giudice che lo condanna affermando: «Ci sono politici e industriali che rubano ma non gli fanno niente». Per seguire con la madre dei due criminali che il 6 settembre 2020 uccisero brutalmente a Colleferro il giovane Willy Monteiro Duarte, anch’essi per inciso percettori di reddito di cittadinanza concesso previa auto-certificazione, la quale reagì irridendo il povero giovane ucciso e affermando: «L’hanno messo in prima pagina manco se fosse morta la regina» [cfr. QUI].
La triste verità è che in Italia abbiamo cresciuto e allevato nel corso dell’ultimo mezzo secolo delle generazioni di pigri smidollati, per la gran parte figli unici viziati di mammà e papà, convinti veramente che tutto gli sia dovuto e che la parola “diritto” sia del tutto priva del suffisso “dovere”. E sorvoliamo poi sulla psicologia che segna la generazione ancora peggiore dei figli unici partoriti da madri ultraquarantenni, perché lì siamo veramente nella tragedia …
Per il genere di ministero che svolgo ho rapporti giornalieri con confratelli che vivono sparsi per le diocesi di tutta Italia, a contatto giorno dietro giorno con il materiale umano. In particolare coloro che vivono in Campania, Calabria e Sicilia mi hanno narrato episodi e situazioni di truffe e ruberie fatte in modo sfacciato alla pubblica luce del sole. Diversi presbiteri napoletani mi hanno riferito di non conoscere un solo percettore di reddito di cittadinanza che non lavorasse in nero. Dei presbiteri siciliani mi hanno riferito che erano gli impiegati stessi dei vari uffici della pubblica amministrazione a suggerire come fare cambi di residenza o crearsi residenze fittizie per poter percepire più redditi di cittadinanza all’interno dello stesso nucleo familiare, dopodiché, pochi giorni dopo, giungeva loro su WhatsApp la pubblicità dei candidati dei Cinque Stelle in quel collegio elettorale.
Più parrocidi queste regioni mi hanno narrato casi in cui dei giovani sono andati a chiedere se potevano sposarsi in chiesa senza che però fossero trasmessi gli atti al Comune perché in tal caso avrebbero costituito un nucleo familiare e perduto i loro due rispettivi redditi di cittadinanza che sarebbero stati ridotti a un unico reddito per famiglia. Siccome erano percettori di reddito individuale, intendevano seguitare a percepire ciascuno il proprio reddito e a lavorare tranquillamente in nero alla luce del sole. Alla mia domanda rivolta a questi confratelli: «Sono casi sporadici?». Sia dalla Campania che dalla Sicilia mi è stato risposto: «Sporadici? È la prassi diffusa, ma c’è di peggio: il tutto avviene alla luce del sole e sotto gli occhi degli stessi amministratori che non solo evitano di vigilare, ma che favoriscono proprio questo sistema per loro interessi elettorali. Tutti vedono e sanno, ma per le elezioni politiche prima e quelle amministrative dopo, a nessuno sarebbe passato per la mente di mettersi contro questo appetitoso serbatoio elettorale di percettori di reddito, dietro ai quali non ci sono solo i singoli percettori, perché dietro c’è la “dovuta riconoscenza” di intere famiglie e di numerosi amici».
Ma c’è di peggio ancora: confratelli che vivono a giornaliero contatto col disagio sociale mi hanno lamentato ripetutamente di toccare ogni giorno con mano la realtà dei redditi distribuiti a pioggia a un esercito di furbi che non ne avevano di per sé diritto, mentre diverse persone veramente bisognose non erano riuscite a ottenere questo sussidio. Mi hanno raccontato, ma io stesso ho visto con i miei occhi artigiani, idraulici, elettricisti, antennisti, muratori che incassano di media 3.000/4.000 euro al mese in nero totale al quale hanno aggiunto la percezione del reddito di cittadinanza senza alcun pudore e vergogna. E non sono casi isolati sporadici, perché in certe zone del nostro Paese risultano essere invece la prassi. Il tutto, ripeto, alla pubblica luce del sole.
È pensabile e sostenibile che una parte produttiva del Paese mantenga con la propria contribuzione e il proprio gettito fiscale una parte palesemente parassitaria che dinanzi a forme di esagerato assistenzialismo a puro scopo di serbatoio elettorale, non ti dice neppure grazie, perché agisce e reagisce come se ciò gli fosse dovuto, salvo lamentare che il tutto non è mai abbastanza? Si può pensare, specie nell’attuale situazione geopolitica ed economica, di poter seguitare a mantenere buono e caro questo gran portafoglio di voti a spese del Paese che lavora, produce e paga tasse? Non è assolutamente vero che certe cose accadono in tutta Italia, falso! In varie zone del Meridione d’Italia ho visto persone lavorare in nero in bar e ristoranti, dove si recano a prendere il caffè o a cenare anche le Forze dell’Ordine, i militi della Guardia di Finanza, gli ispettori dell’Ufficio del Lavoro. E quando a questi ultimi ho fatto presente che in nessun’altra parte d’Italia è possibile vedere in certi locali una media di otto persone su dieci che lavorano in nero, per tutta risposta hanno fatto mezzo sorriso malinconico e mi hanno detto: «Meglio il lavoro nero della disoccupazione». A chi non fosse chiaro ripeto: risposta data da ispettori dell’Ufficio del Lavoro, non so se mi spiego.
A dei percettori palermitanidi reddito furono proposti lavori in altre zone del Paese, dove c’è penuria di manodopera in molti settori. Le migliori giustificazioni date ai vari talk showtelevisivi non si sono fatte attendere: «Non posso lasciare la famiglia … con lo stipendio che mi darebbero la metà andrebbe per pagare l’affitto …». Infine la perla più splendida del percettore che per più sere, da un talk showtelevisivo all’altro ha detto: «Perché gli imprenditori del Nord non vengono qua a Palermo a creare lavoro?». E di talk show in talk show tutti hanno taciuto. Peccato che tra gli ospiti in quei parterrenon c’ero anch’io, perché gli avrei ricordato all’istante che in passato, con tanto di incentivi da parte dello Stato e dell’Unione Europea, più imprese ci provarono eccome, ad andare a creare posti di lavoro. Il problema fu che appena cercarono di impiantare delle aziende si ritrovarono con tre diverse realtà: con una burocrazia spaventosa, con degli amministratori corrotti che se non pretendevano tangenti in danaro pretendevano l’assunzione di loro protetti, infine e non ultimo con i mafiosi che pretendevano il pizzo. Perché in città come Palermo e Catania, il pizzo, lo pagano anche quelli che vendono le panelle e i bruscolini al mercato. Ma forse, a questo percettore invitato a dire idiozie da un talk show televisivo all’altro, è stata data la possibilità di presentare la realtà complessa e delicata di Palermo ― senza pena alcuna di ridicolo ― come se il Capoluogo della Sicilia fosse un cantone della Confederazione Elvetica, abitato, come notoriamente risaputo, da soggetti zelanti e precisi come gli svizzeri. O ignora forse, questo soggetto e soprattutto chi lo ha invitato a pontificare, che quando ad Agrigento decisero infine di abbattere a scopo dimostrativo alcune ville abusive costruite dentro la Valle dei Templi, le demolizioni furono effettuate da ditte del Triveneto controllate e scortate da Polizia di Stato, Esercito e Carabinieri? Chissà perché nessuna ditta del luogo si presentò ai bandi d’asta andati più volte deserti … ma chissà perché?
I dati statistici confermano che con il reddito di cittadinanza la disoccupazione, dal 2019 alla fine del 2022 è aumentata e le aziende e le piccole imprese, specie quelle che operano nel settore turistico italiano, hanno avuto enormi difficoltà a trovare personale. Amici che gestiscono alberghi, ristoranti e stabilimenti balneari mi hanno riferito e dimostrato che in piena stagione hanno pagato tra i 1.800 sino ai 2.200 euro mensili dei lavoratori del Bangladesh e dello Sri Lanka perché non trovavano nessun piangente disoccupato italiano disposto a fare il lavapiatti. A partire soprattutto dai giovani, l’aspirazione di molti dei quali spazia tra il desiderio di diventare influencerpieni di followersa quella di poter entrare in un reality show. Perché queste, sono le generazioni di disadattati che abbiamo creato, il conceder loro anche il reddito di cittadinanza, è stata la ciliegina messa sulla panna sopra la torta.
Vogliamo parlare poi delle mamme,specie di quelle meridionali ipertrofico-protettive, che non vogliono proprio, che i loro figli facciano certi mestieri, anche se qualcuno di loro sarebbe semmai disposto a farli? Le ho sentite con le mie orecchie dire: «… mio figlio lavapiatti … mi figlio raccoglitore di pomodori …? No, mio figlio non lo deve fare!».
Quando ero bimbo di dieci anni ― quindi stiamo parlando ormai di cinque decenni fa ― ho visto lavorare giovani ventenni, perlopiù studenti universitari, nelle strutture turistiche dei miei familiari materni. Nei decenni successivi sono divenuti liberi professionisti, alti funzionari nella amministrazione dello Stato, medici specialisti, alcuni sono divenuti a loro volta imprenditori dopo avere imparato dai miei zii l’arte dell’imprenditoria. Uno di questi, divenuto poi medico specialista, fu particolarmente vicino a mio padre durante la malattia che lo portò alla morte ad appena 56 anni. Durante il corso dei suoi studi universitari in medicina, d’estate, per tutta la stagione, faceva il cameriere per pagarsi gli studi, perché la sua famiglia non poteva permettersi di sostenerlo più di tanto a studiare fuori sede.
Il mio amico Paolo Del Debbio,al talk showda lui condotto stroncò un Tizio dicendo: «… guardi, che lei sta parlando con un ex cameriere. Perché quando studiavo mi mantenevo facendo il cameriere». Se però diamo ai nostri giovani un divano, una playstatione un reddito di cittadinanza, semmai facendogli anche credere che possa durare per tutta la vita e che tanto a pagarlo è quella non meglio precisata entità astratta chiamata Stato, non ne potremo tirare fuori né un medico specialista né un Paolo Del Debbio, né un bravo e ordinario cittadino della Repubblica Italiana. Il tutto sempre ribadendo che un Paese veramente democratico, liberale e civile, ha il dovere di aiutare e sostenere tutte le persone che non hanno lavoro o che hanno perduto il lavoro. Non però coloro che non vogliono trovare lavoro o che lavorano in nero per avere uno stipendio doppio, mentre chi ha lavorato per una vita intera e contribuito con il proprio gettito al nostro Stato sociale, oggi prende 680 euro al mese di pensione e, oltre alla beffa deve sentire anche non poche persone, che di lavorare non hanno voglia e di trovare lavoro meno ancora, strepitare: «… io ho il diritto di … ho il diritto di … ho il diritto di …».
Dall’Isola di Patmos, 18 dicembre 2022
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2022-12-18 20:33:002022-12-18 21:33:38Quel disastro del “reddito di cittadinanza” visto e vissuto da noi preti a giornaliero contatto con il mondo del reale
DI CHI ERA INCINTA MARIA? IL SOGNO DI GIUSEPPE. APPUNTAMENTO DA NON PERDERE CON IL CLUB THELOGICUM
Giuseppe voleva lasciare Maria perché si accorse della sua gravidanza e pensava che l’avesse tradito con qualcun altro. Mentre stava rimuginando sulla situazione e quindi di lasciarla segretamente, un angelo del Signore gli apparve in sogno
— Le video-dirette de L’Isola di Patmos —
Autore: Jorge Facio Lince Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos
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il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, padre redattore de L’Isola di Patmos
Cosa fare con Maria?Di chi è incinta? Come evitare lo scandalo? Nel bel mezzo della notte, un Angelo irrompe nel suo sogno, affinché Giuseppe entri nel Sogno di Dio:
«Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un Angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati […]» [Mt 1, 20-23]
Su questo tema riflettono insieme questa sera, 15 dicembre, il nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci assieme a Suor Angelika.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/12/Jorge-Isola-piccola2.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Jorge Facio Lincehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngJorge Facio Lince2022-12-15 13:38:222022-12-15 13:38:22Di chi era incinta Maria? Il sogno di Giuseppe. Appuntamento da non perdere con il Club Theologicum
COMUNICATO DEL VESCOVO DI PADOVA CIRCA LA PRESENZA DEL SIG. ALESSANDRO MINUTELLA NEL TERRITORIO DELLA SUA DIOCESI
Questa mattina l’eretico scismatico ha vomitato veleno contro il Vescovo di Padova [cfr. QUI] che adempiendo ai propri doveri di pastore ha messo in guardia il clero e i fedeli dal partecipare ai suoi “riti sciamanico-madonnolatrici”
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Autore Redazione de L’Isola di Patmos
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Più volteabbiamo dimostrato attraverso suoi video e discorsi [cfr. QUI, QUI, QUI] che il Sig. Minutella è un narcisista aggressivo-violento, affetto da esaltazioni pseudo-mistiche, nonché dissociato dal reale, che crea nelle persone fragili rapporti di profonda dipendenza e altrettanta dissociazione dal reale. Non sono opinioni azzardate nostre, ma analisi fatte da più psichiatri che hanno esaminato i suoi materiali video. Soprattutto il Sig. Minutella istiga le persone all’odio mutandole in macchine che diffondono a loro volta odio in modo aggressivo e violento contro «La falsa chiesa del falso papa emissario dell’Anticristo».
Fenomeni di questo generenon andrebbero mai presi sotto gamba, perché prima o poi c’è il serio rischio che qualche esaltato possa compiere un atto di violenza fisica a danno di qualche vescovo. Tentativo peraltro già fatto in passato, quando S.E. Mons. Michele Pennisi Arcivescovo di Monreale sconfessò le attività pseudo-mistiche dell’allora Reverendo Alessandro Minutella [vederedocumento QUI]. Con il risultato che un gruppo di suoi invasati tentarono di aggredirlo all’uscita dal palazzo arcivescovile [cfr. QUI]. Precedenti in tal senso, anche recenti, purtroppo non mancano, basti ricordare il caso dell’attentatoal Cardinale Giuseppe Betori Arcivescovo metropolita di Firenze.
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COMUNICATO DI S.E. MONS. CLAUDIO CIPOLLA VESCOVO DI PADOVA
Dicembre, 2022
Il Vescovo di Padova, Mons. Claudio Cipolla, alla luce di alcune informazioni giunte attraverso i canali social utilizzati dal signor Alessandro Minutella, ha appreso della sua imminente presenza nel Padovano – e quindi presumibilmente nel territorio della Diocesi di Padova – nel periodo 15 dicembre 2022 ― 15 gennaio 2023, accompagnato anche da fra Celestino della Croce, al secolo Pietro Follador, attualmente incardinato nella diocesi di Patti (Messina).
A tal proposito il Vescovo, Mons. Claudio Cipolla, segnala a presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate e fedeli tutti che il signor Alessandro Minutella, già presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, è stato scomunicato il 18 agosto 2018 (con Decreto del 15 agosto 2018) per aver commesso il delitto contro la fede e l’unità della Chiesa, in quanto scismatico; ed è stato dimesso dallo stato clericale (ex officio et pro bono ecclesiae) in data 13 gennaio 2022 (con Decreto emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).
Inoltre per quanto riguarda fra Celestino della Croce comunica che ha ricevuto dal suo vescovo la proibizione di svolgere il ministero presbiterale in pubblico per le sue posizioni apertamente in linea con quelle del sig. A. Minutella.
Il Vescovo Claudio per quanto di sua pertinenza nel territorio della Diocesi conferma i provvedimenti presi nei confronti di fra Celestino da parte dell’Ordinario di Patti, a cui aggiunge la revoca della facoltà di udire le Confessioni e impartire l’Assoluzione Sacramentale ai fedeli, nell’ambito del territorio della Diocesi di Padova. Proibisce inoltre ai parroci, ai rettori di chiese, agli amministratori parrocchiali e ai superiori di Istituti religiosi, di concedere ai sopradetti Alessandro Minutella e fra Celestino della Croce luoghi di culto e spazi sia interni che esterni di proprietà di enti ecclesiastici.
Proibizione che assume il valore di accorato invito per qualsiasi fedele cattolico che abbia a cuore la Comunione ecclesiale.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/02/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2022-12-14 11:56:562022-12-14 14:44:48Comunicato del Vescovo di Padova circa la presenza del Sig. Alessandro Minutella nel territorio della sua Diocesi
L’AUTORE DEL “CODICE KATZINGER” E LA RIDICOLA SAGA DEL «NESSUNO RISPONDE NEL MERITO DELLE MIE QUESTIONI»
Essere seriamente preoccupati per tutte le anime dei fragili e dei confusi che costoro si trascinano dietro nel grave errore, recando gravi danni a singoli e nuclei familiari interi, trasformandoli in macchine di odio contro «la falsa chiesa satanica del falso papa usurpatore e apostata Bergoglio», è un dovere al quale nessun pastore in cura d’anime può sottrarsi.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2022-12-12 17:53:182023-04-19 20:10:00Nota circa l’Autore del “Codice Katzinger” e la ridicola saga del «nessuno risponde nel merito delle mie questioni»
L’AUTORE DEL CODICE KATZINGER SI È SCELTO UN BERSAGLIO CHE NON DIMENTICA E CONTRO IL QUALE NELLA STORIA NESSUNO HA MAI VINTO
Con la Chiesa, istituzione divina e umana, con la quale non l’hanno avuta vinta certi personaggi della storia, pensa davvero di farcela l’Autore del Codice Katzinger? In tal caso non resta che porgergli tutti i più sinceri auguri.
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2022-12-02 00:31:122023-04-19 20:13:03L’Autore del Codice Katzinger si è scelto un bersaglio che non dimentica e contro il quale nella storia nessuno ha mai vinto
DALLE “BALLE SPAZIALI” SUL CODICE DI DIRITTO CANONICO A BENEDETTO XVI INDICATO COME UN GRANDE LATINISTA CHE NON PUÒ COMMETTERE ERRORI
Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.
Benedetto XVI annuncia il sua atto di rinuncia. Video con traduzione in italiano (cliccare sull’immagine per aprire il video)
Mai userei questa rivista che alla fine del corrente anno 2022 sta per giungere a oltre venti milioni di visite totalizzate in 11 mesi ― e ancora manca il mese di dicembre ― per dare visibilità a soggetti che sbraitano «… questi nostri sono numeri che fanno tremare!», il tutto dinanzi a poche migliaia di persone che ascoltano un video delirante su YouTube per fare quattro risate con le insulsaggini enunciate da qualche squinternato. Se lo facessi, oltre a ledere la serietà del lavoro che portiamo avanti dal 2014 mancherei di rispetto ai miei confratelli teologi e redattori, che considero preziosi come le pupille dei miei occhi.
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Come risaputo per i social media impazzano soggetti che si sono costruiti il proprio “ghetto telematico” affermando a gruppi di svalvolati ― o peggio dimostrando inconfutabilmente, a loro dire ― che l’atto di rinuncia del Sommo Pontefice Benedetto XVI è invalido per difetto di forma e che quindi non avrebbe fatto formale e valido atto di rinuncia, non avendo rispettato il dettato del Codice di Diritto Canonico che recita:
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«Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti» [cfr. canone 332 §2].
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Gli esotici personaggi in questione evitano sempre di leggere l’intero testo di questo canone che si inserisce integralmente e inscindibilmente nei canoni 330-367 dedicati a «La Suprema Autorità della Chiesa». Non solo, fanno peggio: citano esclusivamente due parole: «debitamente manifestata». Poi, per colpire l’esercito di analfabeti funzionali e di analfabeti digitali che credono alle loro idiozie come i bifolchi del contado credevano alle mirabolanti reliquie esibite dal boccaccesco Frate Cipolla [cfr. QUI], pronunciano come un abracadabrale due stesse parole in latino per produrre effetto misterico: «rite manifestetur». Seguono tutte le loro teorie equiparabili al film comico-fantascientifico Balle spaziali in cui confondono con crassa ignoranza i concetti di munuse ministerium sul piano giuridico e teologico, tirando in ballo codici da decifrare con i quali Benedetto XVI parlerebbe in modo criptico attraverso … anfibologie (!?). Il nostro confratello fiorentino Simone Pifizzi tirerebbe in ballo la toscanissima saga Amici miei: «La supercazzola prematurata con scappellamento a destra». Supercazzola alla quale il nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci ha dedicato più articoli per spiegare che questo termine è stato assunto dal corrente linguaggio filosofico per definire una affermazione totalmente priva di razionalità e senso logico [cfr. QUI].
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La crassa ignoranza dei manipolatoridelle leggi ecclesiastiche gioca da sempre sul concetto di munuseministerium: «… e perché Benedetto XVI ha rinunciato al ministeriume non al munus?». Ergo, «… ciò rende invalido il suo atto di rinuncia». E così, un esercito di fragili analfabeti funzionali e digitali, calandosi nel ruolo dei pappagalli parlanti si mettono a sproloquiare sui social media: «Benedetto XVI non ha rinunciato al munus», salvo non sapere cosa siano, significhino e comportino munuse ministerium. Dopodiché si mutano a loro volta in seminatori di confusione e soprattutto di odio verso la «falsa chiesa anticristica dell’antipapa usurpatore Bergoglio emissario di Satana». Cerchiamo di spiegare il tutto in modo quanto più semplice possibile: il munusè un “dono ricevuto” derivante da Sacramento, il ministeriumè invece l’esercizio di questo ministero legato al munus, ossia al Sacramento. Esempio: con il Sacramento dell’Ordine io ho ricevuto il “munus“, o meglio i tria munera (tre “doni”) che consistono in: insegnare, santificare e guidare/governare il Popolo di Dio. Questi tria munera si concretizzano poi attraverso il ministerium, che è l’esercizio del sacro ministero sacerdotale. Adesso prestate attenzione: per varie ragioni e motivi legati a gravi problemi di salute o a problemi personali altrettanto gravi, potrei chiedere di rinunciare all’esercizio del ministerium. Potrei anche chiedere di essere dispensato da tutti i doveri e dagli obblighi che il ministero sacerdotale comporta e che la Chiesa mi potrebbe concedere sino alla dispensa canonica dagli obblighi del celibato consentendomi di contrarre matrimonio e di avere una famiglia. Però non potrei mai chiedere di rinunciare al munus, perché sarebbe come chiedere di annullare il Sacramento dell’Ordine, cosa impossibile, perché il Sacramento è indelebile e incancellabile. Non solo, il Sacramento mi ha conferito un nuovo carattere che mi ha ontologicamente trasformato, il quale seguirebbe a permanere anche se fossi dispensato da tutti i doveri e gli obblighi derivanti dal ministerium.
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Altra cosa invece il Papato, che non è né l’ottavo Sacramento né il massimo grado del Sacramento dell’Ordine diviso al suo interno in tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato. L’ufficio del Successore di Pietro non è conferito per via sacramentale ma per via puramente giuridica. Non a caso il Romano Pontefice non riceve una consacrazione sacramentale, viene “intronizzato”, o come si dice oggi “inizia il ministero petrino”. Se all’atto della sua elezione l’eletto non fosse rivestito del carattere episcopale, in tal caso si deve procedere a consacrarlo vescovo:
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«Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale» [cfr. Canone 332 – §1].
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La trasmissione della successione petrina è pertanto unicamente giuridica e conferisce quindi sul piano giuridico, non sacramentale, il ministeriumdella pienezza della suprema giurisdizione sulla Chiesa universale. Il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Pertanto, se il Romano Pontefice fa atto di rinuncia, in tal caso rinuncerà al ministerium ricevuto per via giuridica, ma in lui seguiterà a permanere il munusepiscopale ricevuto per via sacramentale. La rinuncia all’ufficio petrino, ossia al ministerium, comporta la perdita della giurisdizione pontificia che per via giuridica è stata conferita e alla quale per via giuridica si può rinunciare. Anche per questo sarebbe molto problematico definire un pontefice rinunciatario come “Vescovo emerito di Roma”, non potendo applicare alla sede petrina, proprio per la sua particolarità, i principi dell’emeritato dei vescovi diocesani, perché come già detto in precedenza: il Vescovo di Roma è il Successore di Pietro e solo il Successore di Pietro può essere Vescovo di Roma. Ma questo sarebbe un ulteriore discorso che non può essere trattato adesso in questa sede.
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Chiariamo ulteriormente come certi soggetti facciano immane confusione affermando in modo assurdo e ottuso che Benedetto XVI avrebbe rinunciato all’ufficio di Romano Pontefice (ministerium) ma non a essere Romano Pontefice (munus). Tra i vari documenti citati a sproposito per supportare le loro assurde tesi c’è LumenGentium. Anche in questo caso è bene chiarire: all’interno di questo documento del Concilio Vaticano II [cfr. Capitolo III] è operata sì una distinzione tra munused esercizio della potestas, ma riferito all’esercizio del ministero episcopale basato sulla duplice trasmissione del potere, che è sacramentale per quanto riguarda l’ordine sacro e la consacrazione episcopale sorretta sul munus, di tipo giuridico per quanto riguarda invece la missione canonica conferita all’episcopo, ossia il ministeriuminteso come potestas. È su questa distinzione tra potestasordinis e potestasiurisdictionische è stata istituita dal Santo Pontefice Paolo VI la figura del vescovo emerito che giunto a 75 anni rinuncia al governo della diocesi a lui affidata, perdendo quindi la potestasiurisdictionis, ma conservando sempre il munusepiscopale a lui trasmesso per via sacramentale mediante il conferimento della pienezza del sacerdozio apostolico. Il tutto a riprova di come certi personaggi manipolano i documenti della Chiesa e ne tirano fuori ciò che in essi non è scritto. La novità introdotta da Benedetto XVI consiste nel titolo e nello statusdi “papa emerito” da lui creato in modo felice o infelice, con risultati che solo la storia potrà valutare, assumendo questo titolo allo stesso modo in cui è assunto dai vescovi diocesani che rinunciano al ministeriumacquisito per via giuridica ma mantenendo il munus acquisito per via sacramentale. Come già spiegato in precedenza, se Benedetto XVI avesse assunto il titolo di “Vescovo emerito di Roma” sarebbe stato non poco problematico sul piano giuridico e teologico.
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Chiarito il tutto,spero che almeno alcune persone, tra i vari analfabeti funzionali e digitali che in modo superficiale e totalmente a-critico si sono messi al seguito di certi ciarlatani, possano capire in che modo e a quali livelli questi pericolosi manipolatori e falsari li stanno trascinando nel mondo dell’irrazionale per scopi tutt’altro che puliti, perché siamo dinanzi a persone che mentono sapendo di mentire, non dinanzi a soggetti affetti da semplice ignoranza inevitabile o invincibile. Siamo dinanzi a pericolosi soggetti che si sono imprigionati in menzogne che devono sostenere e tenere in piedi in ogni modo, anche negando la più logica e palese realtà dei fatti.
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Prima di commentare con rigore scientificocerti canoni usati e abusati per ciò che al loro interno non contengono, è necessario chiarire che quelle ecclesiastiche sono leggi umane basate sì sulla Rivelazione, ovvio che sia così. Ma sono e restano leggi umane create dagli uomini per dare un ordinamento giuridico e amministrativo alla Chiesa intesa come societas. Il Diritto Canonico non è un dogma di fede e non sta a fondamento del deposito della fede cattolica. Insistere quindi che Benedetto XVI non ha fatto un atto valido perché la sua rinuncia non sarebbe stata «debitamente manifestata» (rite manifestetur), è una oggettiva e clamorosa idiozia. Basterebbe leggere bene il canone 332 che recita:
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«Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».
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A seguire andrebbe letto il Canone 333 §3 che è la prosecuzione logico-giuridica del precedente e che recita:
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«Contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice non si dà appello né ricorso».
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Questo canone chiarisce che il Romano Pontefice non è soggetto alla legge umana perché è al di sopra di qualsiasi legge umana, ciò per un semplice fatto: perché egli è il supremo legislatore [cfr. Canone 331]. Presupposto logico-giuridico, questo, che precede il Canone 332 manipolato e poi mutato in cavallo di battaglia da certi squinternati, al quale fa poi seguito, con altrettanto criterio logico-giuridico, il già citato canone 333. Un impianto giuridico segue nella sua totalità un ordine logico e coerente basato su principi di logica e di non-contraddizione, solo delle menti meschine possono estrapolare e manipolare un frammento per far dire alle leggi canoniche un qualche cosa che contraddice la loro stessa struttura portante.
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Le menti confuse che portano avanti simili teorie seminando confusione e sconcerto nei semplici e nei fragili, stanno scambiando il Romano Pontefice per il Presidente di una repubblica democratica o per il Sovrano di una monarchia costituzionale, che oltre a essere custodi e garanti della Legge sono i primi ad esservi assoggettati. Non è però propriamente così per il Romano Pontefice, che con l’uso di un termine politico improprio potremmo definire il più grande monarca assoluto del mondo, perché la potestà e il potere che ha ricevuto attraverso il ministeriumgli perviene da Dio e da Dio solo può essere giudicato, non esistendo al mondo autorità umana superiore a lui che possa farlo. Il Romano Pontefice non è giudicabile neppure dalle stesse leggi canoniche perché è al di sopra di esse, essendo lui il supremo legislatore, né il Codice di Diritto Canonico prevede e regolamenta l’esercizio di quell’istituto che nei sistemi giuridici retti dalla Common law è definito come impeachment, mentre il nostro ordinamento giuridico italiano prevede all’art. 90 della Costituzione della Repubblica Italiana la messa in stato d’accusa del Capo di Stato per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Un Capo di Stato, che delle leggi è garante e custode, ed alle quali è sottoposto per primo avanti a tutti, non può abrogarle o modificarle di propria iniziativa, perché è al Parlamento che spetta farlo, il Romano Pontefice nell’esercizio delle sue potestà può invece farlo:
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«[…] egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio» [cfr. Canone 333 §2].
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Se il Romano Pontefice volesse domani mattina potrebbe alzarsi e sostituire di motu proprio tutti i canoni che vuole con altri, senza dover rendere conto a nessuno né essere ad alcun titolo tenuto a fornire spiegazioni, meno che mai giustificazioni. Nessun Capo di Stato potrebbe mai dire a un tribunale di sospendere il giudizio su un accusato e disporre la chiusura immediata del processo, il Romano Pontefice sì, potrebbe farlo con qualsiasi tribunale ecclesiastico, senza dover neppure dare spiegazioni a nessuno. Che poi questo non lo faccia, è un altro discorso, però potrebbe farlo in modo del tutto legittimo e soprattutto indiscutibile e insindacabile. Basterebbe solo aggiungere che egli potrebbe respingere persino una proposta avanzata da un concilio ecumenico unanime, perché lo stesso concilio, espressione massima dell’autorità e della collegialità dei Vescovi della Chiesa, non ha una autorità superiore a quella del Romano Pontefice. Ciò malgrado dobbiamo assistere alla semina di confusione da parte di soggetti tragici e ridicoli che insistono a confondere i semplici ponendo in discussione il suo valido atto di rinuncia, perché a loro dire Benedetto XVI non avrebbe recitato una formuletta perfetta, o perché ha fatto qualche errore di grammatica latina nella sua declaratio. Ebbene si sappia che di per sé basterebbe che la rinuncia fosse fatta almeno davanti a due testimoni, per iscritto o oralmente, secondo quanto previsto dal Canone189, § 1. Per quanto riguarda quella di Benedetto XVI la rinuncia è stata fatta pubblicamente nel Concistoro dei Cardinali da lui convocato l’11 febbraio 2013. Vogliamo continuare veramente a giocare e a tentare di spacciare per credibili le stratosferiche idiozie sulla formuletta, o peggio sul fatto che «avesse anche fatto libero atto di rinuncia non sarebbe in ogni caso valido»? È davvero umiliante e degradante dover spiegare delle cose così ovvie a chi non vuole capire a priori, ma per la salvezza delle anime ben venga l’umiliazione intellettuale che di per sé comporta replicare alle idiozie di emeriti idioti che come tali non meriterebbero replica da parte di qualsiasi persona colta e dotata di cultura giuridica e teologica.
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Sui social media impazzano però questi soggetti che attaccandosi alla parolina della «libera rinuncia» scissa dal loro pluri-citato Canone 332, affermano con inquietante leggerezza che «Benedetto XVI non era libero» ma che «è stato costretto con la coercizione a rinunciare» (!?) Chiariamo: per poter dichiarare e dimostrare una cosa del genere bisognerebbe che gli estensori di cotanto asserto demenziale avessero il potere di leggere la più intima e profonda coscienza del Pontefice rinunciatario. E qui passiamo dal diritto canonico alla teologia dogmatica. Solo Dio può scrutare e leggere le più intime sfere profonde della coscienza umana:
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«La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» [cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 16: AAS 58 (1966) 1037].
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Anche in questo caso la risposta è presto data,perché uno di questi soggetti non esita ad affermare che a svelargli quanto racchiuso nella coscienza di Benedetto XVI è stata la Madonna che gli avrebbe affidata la missione di lottare contro «la falsa chiesa e il falso papa usurpatore» (!?).
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È noto però quanto l’idiozia si compiaccia di sé stessa: «… siccome Benedetto XVI non può dichiarare di essere stato costretto a rinunciare, allora trasmette messaggi in codice criptico dopo essersi auto-esiliato in sede impedita».
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Come già detto in precedenza: non immaginate neppure quanto sia umiliante per un presbitero e un teologo dover scrivere su certi temi per rispondere a simili idiozie. Ma ripeto: dinanzi alle anime a noi affidate spinte da altri in grave errore, il buon pastore in cura d’anime accetta anche l’umiliazione intellettuale, che tra tutte potrebbe essere anche una delle peggiori. Se quindi andiamo a leggere i canoni 412-415 in cui si enunciano casi e situazioni che determinano la sede impedita episcopale, chiunque dovrebbe capire all’istante che non possono ricorrere nel caso di Benedetto XVI, salvo totale stravolgimento e grottesche manipolazioni di quanto racchiuso all’interno di questi canoni. Ricordo infatti che la legge si interpreta, non si manipola. La manipolazione e lo stravolgimento dei testi non ha niente a che fare con l’interpretazione, anche con quella cosiddetta estensiva. Ricordiamo per inciso che la Legge può essere interpretata o applicata in modo restrittivo o estensivo.
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Altro punto in cui si insisteè che «nella declaratiodi rinuncia ci sono errori formali che la rendono in ogni caso invalida a prescindere che Benedetto XVI abbia anche fatto un atto libero di rinuncia». E con questa asserzione si dichiara e si ripete pubblicamente ― come fa da tempo un oscuro personaggio ― che la forma è superiore all’intenzione sostanziale. In questo modo la mera forma viene elevata al di sopra della volontà e del deliberato consenso. Una idiozia clamorosa! Qualsiasi persona che avesse un solo barlume di ragione dovrebbe comprendere all’istante che siamo dinanzi a espressioni che spaziano tra follia e magia, dove ciò che solo conta non è la volontà sostanziale, ma la corretta pronuncia formale di una “formula magica”. Perché a questo certi soggetti giungono: alla magia delle formule.
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Passiamo all’ultimo punto: gli errori latini.Questi soggetti affermano che a rendere invalida la rinuncia in modo inconfutabile sarebbe «la presenza di numerosi errori di sintassi latina, perché la declaratiodeve essere “debitamente manifestata”» (rite manifestetur) ai sensi del pluri-citato Canone 332. Dopo avere affermato questo proseguono dicendo che «Benedetto XVI è sempre stato un fine e grande latinista e che come tale e in quanto tale non poteva fare questi errori, alcuni persino grossolani. Se però li ha fatti è stato per rendere volutamente invalida la rinuncia e ritirarsi in sede impedita». Riflettiamo: se Benedetto XVI avesse fatto una cosa del genere saremmo di fronte al Sommo Pontefice più vigliacco e bugiardo dell’intera storia del Papato.
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Il latino è una lingua insidiosa,sotto vari aspetti più del greco antico. Anzitutto è una lingua morta non più parlata da secoli. Poi bisognerebbe tener presente che esistono vari latini: il latino di Marco Tullio Cicerone o di Tito Lucrezio Caro, quello di Seneca o di Catullo non è quello in cui scriveva e si esprimeva tra il IV e il V secolo Sant’Agostino vescovo di Ippona, né quello in cui scriveva e si esprimeva tra l’XI e il XII secolo Sant’Anselmo d’Aosta. Altro ancora quello in cui si esprimeva e scriveva San Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, a sua volta del tutto diverso da quello del XVI secolo, un latino ormai relegato a precisi ambiti di persone colte, essendosi sviluppata e diffusa a cavallo tra XIII e XIV secolo, tra la Scuola di Federico II di Svevia a Palermo e di Dante Alighieri a Firenze la cosiddetta lingua volgare, che aveva non poco imbastardito lo stesso latino per i secoli a seguire, facendo confluire al suo interno neologismi che nulla avevano da spartire con l’antico latino classico. Il latino di fine Settecento inizi Ottocento era un latino ormai molto “imbastardito”. Infine quello usato in ambito scientifico, giuridico ed ecclesiastico tra fine Ottocento inizi Novecento, più che un latino era un latinetto. Non a caso esiste il preciso termine di “latino ecclesiastico”.
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Taluni ricordano che la lingua usata per tenere le lezioni nelle università ecclesiastiche sino a inizi anni Settanta era il latino. Permettetemi di sorridere e narrare che ex studenti, divenuti poi a seguire teologi di fama della Scuola Romana e professori ordinari in quelle stesse università ecclesiastiche, ultimi in ordine di serie Brunero Gherardini e Antonio Livi, mi hanno narrato in modo divertito molti gustosi aneddoti, spiegando che si trattava, più che di latino, di un latino maccheronico. O come mi disse Antonio Livi, che del latino era un cultore: «Tanto valeva usare l’italiano, o altre eventuali lingue nazionali moderne, smettendola con la pagliacciata di quello pseudo-latino che faceva fuoriuscire asinate grammaticali dalle bocche dei docenti e inducendo gli studenti a capire meno ancora di ciò che avrebbero potuto capire». Ricordo che Antonio Livi fu decano di filosofia alla Pontificia Università Lateranense, dopo avere concorso in precedenza alla istituzione della Pontificia Università della Santa Croce.
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Un conto è leggere, capire e tradurrequesta lingua morta, un conto scriverla o peggio parlarla. Affermare che il giovane Joseph Ratzinger perito al concilio «parlava in latino, lui come gli altri partecipanti» è una colossale bufala, una pura leggenda metropolitana messa in circolazione da chi, non conoscendo la storia della Chiesa, non trova di meglio da fare che inventare a posteriori storie e fatti che nel passato recente, antico e remoto non sono mai esistite. Sono stato allievo di due maestri che furono entrambi periti al concilio, uno dei quali morto alle soglie dei 100 anni poche settimane fa. Durante le varie fasi del concilio, uno dei suoi compiti fu anche quello di riassumere in lingua inglese, spagnola e francese ― le tre lingue che meglio conosceva oltre alla sua madrelingua tedesca ― le varie relazioni redatte nella lingua ufficiale della Chiesa: il latino. Perché a inizi anni Sessanta molti vescovi non erano in grado di comprendere e tradurre il latino, specie quelli provenienti dai cosiddetti Paesi del Terzo Mondo e dalle varie terre di missione del continente latino americano.
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Benedetto XVI non è mai stato e non è un «raffinato latinista»ma solo un buon conoscitore del latino come lo sono molti di noi, ed è per questo più che comprensibile che abbia fatto errori nel redigere la sua declaratiodi rinuncia. Qualsiasi buon conoscitore del latino li avrebbe fatti. Cercherò di chiarire meglio con un esempio personale: una volta tradussi dall’italiano al latino una mia lettera di una pagina. Dopodiché la inviai non a uno e neppure a due, ma a cinque esperti latinisti, due dei quali addetti alla traduzione dei testi ufficiali latini presso la Santa Sede. Tutti e cinque mi dissero che il testo andava quasi bene, facendomi varie correzioni grammaticali. Ebbene, ciascuno mi apportò correzioni diverse, tutte rigorosamente giuste, ma una dissimile dall’altra. Perché questo è il latino: una lingua morta dove oltre alla grammatica giocano molto sia l’interpretazione che la costruzione della struttura del testo, che può essere corretta per un latinista ma non corretta per un altro, pur avendo entrambi ragione.
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La declaratio di rinuncia di Benedetto XVI è un testo molto intimo e personale che il diretto interessato ha redatto da sé stesso dopo lunga riflessione e preghiera, facendo i conti con la propria coscienza, con la propria anima e anche con la futura storia della Chiesa alla quale l’avrebbe consegnata per i secoli avvenire come evento del tutto straordinario. Non ha sottoposto il testo della sua declaratioa quei bravi ed esperti latinisti di cui la Santa Sede dispone proprio per la delicata e intima natura di quell’atto personalissimo che è tale e che tale rimane e deve rimanere. Atto nel quale Benedetto XVI ha fatto diversi errori grammaticali, sbagliando nella forma lessicale come avrebbe fatto qualsiasi buon conoscitore che il latino è in grado di leggerlo, tradurlo e usarlo in forma privata, ma comporre in lingua latina è cosa che solo i latinisti più esperti possono fare, talvolta commettendo qualche errore anche loro. Benedetto XVI non è affatto «un fine e grande latinista», come possono esserlo quegli studiosi che allo studio di questa non facile lingua morta hanno dedicato la propria intera vita. E sono proprio i più bravi latinisti ad affermare che fare errori in una redazione latina è cosa facile per tutti coloro che il latino lo conoscono bene, senza nulla togliere alla loro conoscenza del latino. Pertanto, con buona pace delle follie e delle leggende metropolitane messe in giro da certi complottardi, ribadisco che scrivere e comporre in latino è difficile persino per gli esperti latinisti, mentre parlarlo correttamente rasenta quasi l’impossibile. A meno che non si voglia confondere il latino con il latinetto dei chierici d’inizi Novecento o con i brocardi giuridici latini, che ricordiamo sono delle brevi massime ricavate dalle leggi e per questo indicati anche come principia generalia.
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Lascio valutare a tutte le persone ragionevolise degli errori di grammatica latina possano invalidare — in nome del «rite manifestetur» estrapolato da un canone 332 e citato in modo ossessivo-compulsivo — un libero e personalissimo atto di rinuncia come quello espresso da Benedetto XVI dinanzi al Collegio dei Cardinali, che a seguire ha ribadito in tutti i discorsi pronunciati pubblicamente prima della convocazione del nuovo conclave quanto quella sua decisione sia stata ponderata e libera.
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Se fossero vere le teorie di certi circoli complottardi, noi saremmo di fronte a un vile bugiardo di tal portata che dopo la sua morte il feretro di Benedetto XVI meriterebbe di essere gettato nel Tevere anziché sepolto nelle Grotte Vaticane vicino a gran parte dei suoi Sommi Predecessori.
Dall’Isola di Patmos, 30 novembre 2022
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I Padri dell’Isola di Patmos
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2022-11-30 15:16:152022-12-02 02:02:13Dalle “balle spaziali” sul Codice di Diritto Canonico a Benedetto XVI indicato come un grande latinista che non può commettere errori
SIGNORA CAPALBIO, NEGRO NON È SINONIMO DI BUONO E DI VITTIMA SENZA MACCHIA E PECCATO, MA SEMPLICEMENTE SINONIMO DI ESSERE UMANO
La vicenda dell’Onorevole Aboubakar Soumahoro, che oggi si trova coinvolto in vicende legate a cooperative in cui sono implicate sua moglie e sua suocera, non è legata al negro, ma a qualche cosa strettamente connessa a l’homo, a prescindere dal niger o dall’albus.
L’Onorevole Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nelle liste del Partito Democratico
In estate o primavera, quando soggiorno nella Ortigia di Siracusa, dove prima di diventare prete comprai una casa nel cuore dell’antica Città Greca, vado a fare la spesa al mercato e con l’occasione dispenso i miei show, ovviamente gratis, intrisi di invereconde prese di giro sulle quali le persone del luogo ridono divertite, perché sfottere i siciliani è un dovere civico. Poi ci sono le mie “teorie scientifiche” sulle possessive e protettive mamme dei maschi, a cui riguardo sostengo che se una madre siciliana partorisce una femmina, non c’è problema. Però, se partorisce un maschio, in quel caso va soppressa appena terminato l’allattamento, evitando in tal modo che rovini il figlio per tutta la vita seguitando a trattarlo da tenera creatura anche da cinquantenne. E quando dopo qualche mese o settimana ritorno in loco mi dicono persino che gli sono mancati i miei sfottò.
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Una volta un tale aveva sulla bancarella una cesta piena di lumache che cominciai a guardare con ostentata attenzione, finché giunse la domanda che attendevo: «Padre, le piacciono?». Risposi: «Mai mangiate in vita mia. Però sono certo che queste lumache saranno di grande consolazione per i siciliani, perché finalmente avete trovato qualcuno che sulla testa ha più corna di voi». Mi fu poi raccontato che aveva fatto il giro di tutto il mercato a ridere e raccontare la sparata del prete a tutti i venditori delle altre bancarelle. Un’altra volta stavo camminando in mezzo al mercato col sole di mezzogiorno sparato sul viso, a poco servono in quel caso anche gli occhiali scuri. Non vidi una cassetta della frutta e ci inciampai cadendo a terra, tra l’altro avevo la talare bianca addosso, che grazie a Dio non danneggiai. A due metri da me un pescivendolo saltò in avanti facendo il gentile gesto di aiutarmi a rialzarmi dicendo: «Padre, si tiri su che distesi a terra si sta male». Ribatto: «Ha ragione, distesi su sua moglie si starebbe molto meglio». E appena rientrò a casa la prima persona alla quale narrò il fatto fu sua moglie.
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Infine il mio negro di fiducia dove compro le verdure: «Padre, è tornato da Roma?». Lo saluto: «Sono tanto contento di rivedere il mio negro splendido». E splendido lo è per davvero, ha una risata così acuta e divertente che se fossi uno psichiatra lo prescriverei come terapia al posto degli anti-depressivi. Disgrazia vuole che si trovava alla bancarella la classica fighetta― come ormai si dice nel nostro gergo italico parlato ― stile Signora Capalbio targata sinistra radical chic, col capello bianco corto in gran voga negli attici dei Parioli e nelle ville dell’Olgiata. Fa una smorfia e sbotta: «Mi stupisco di lei che dovrebbe essere una persona colta, si dice … uomo di colore». La ignoro totalmente e mi rivolgo al mio negretto: «Senti un po’, Ousman, spiegami una cosa: tu sei negro o di colore? Perché a me nei paesi africani i tuoi connazionali mi chiamavano “bianco”, non “uomo senza colore”». E lui, con una risata assordante con i suoi acuti risponde: «Io sono negrissimo!».
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Passando per il politicamente corretto siamo giunti così al negro, tale in quanto negro e non certo perché “uomo di colore”. Almeno per me che sono un cultore della mia madre lingua di derivazione latina: homo nigervuol dire uomo nero. Mentre homo albus vuol dire uomo bianco, ossia il sottoscritto. Il termine “negro” deriva dal latino nigrum, che vuol dire nero. Noi preti, a eccezione del bianco usato alle alte temperature, ordinariamente vestiamo in nigris, di nero, non vestiamo … “di colore”. Da sempre ai confratelli africani coi quali ho vissuto a Roma sin dalla formazione al sacerdozio, poi da presbitero, li ho sempre indicati e chiamati negri. Esempio: «Siamo in ritardo, date una voce ai nostri confratelli negri che si sbrighino, altrimenti arriviamo tardi a San Paolo Fuori le Mura». Mi sarei sentito quantomeno ridicolo a esordire: « … i nostri confratelli di colore». Loro ci chiamano bianchi, non ci chiamano “uomini scoloriti” o “senza colore”. E tutt’oggi in molti Paesi di quel Continente ricordano con gratitudine la meritoria opera di evangelizzazione portata avanti dai cosiddetti Padri Bianchi, non certo dai Padri senza colore.
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Il politicamente corretto non è solo linguistico, ma è sociale e ormai ideologico. Tanto che molti nutrono verso il negro non solo sensi di colpa, ma peggio: si sono formati la convinzione che negro equivale a buono, a candida vittima, a perseguitato. Perlomeno finché non si ritrovano ad avere a che fare con qualche banda di nigeriani, la violenza dei quali farebbe impallidire gli esecutori al soldo della ‘ndrangheta, che tra le mafie presenti nel nostro Paese è la più violenta. Nonostante ciò, dinanzi alla crudeltà di un nigeriano, i killersdella ‘ndrangheta farebbero la figura della pietosa dama di carità della San Vincenzo de’ Paoli. Altrettanto i camerunensi, Paese dove la criminalità è diffusa a livelli incontrollabili e dove per uno straniero essere sequestrato da una delle loro bande non è come essere rapiti da quelli che furono i rapitori dell’Anonima Sarda Sequestri, perché questi secondi, se proprio non sono dei cherubini, a loro confronto possono figurare come dei cuori teneri.
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Partiamo quindi da un principio basilareche sfugge alle “candide anime belle”: si tratti di un homo niger o di un homo albus, ciò che connota l’uno e l’altro, a prescindere dalla colorazione, è l’essere homo. E questo homonon è buono o cattivo, vittima o carnefice sulla base della sua particolarità di nigero albus, ma in quanto uomo.
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Il caso dell’Onorevole Aboubakar Soumahoro,che oggi si trova coinvolto in vicende legate a cooperative in cui sono implicate sua moglie e sua suocera, non è legata al negro, ma a qualche cosa strettamente connessa a l’homo, a prescindere dal nigero dall’albus. Vicenda nel merito della quale non entro. Ciò non solo perché non voglio, ma proprio perché non posso. La competenza è della magistratura italiana alla quale spetta indagare, giudicare e se necessario infine condannare, mentre alla politica compete valutare e decidere nel merito della questione, trattandosi di un parlamentare della Repubblica Italiana.
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Alle “candide anime belle”vorrei ribadire che negro è lungi dall’essere sinonimo di buono in quanto negro e solo perché negro, tutt’altra è la realtà: la corruzione che vige nei vari Paesi del Continente Africano è tanta e tale, ma soprattutto a livelli talmente gravi e incancreniti, che a confronto quei Paesi europei solitamente indicati come particolarmente corrotti sono abitati da una schiera di San Luigi Gonzaga e di Santa Maria Goretti. Tra i Paesi indicati come particolarmente corrotti c’è l’Italia, ossia noi italiani, detti anche “maestri della truffa”. Cosa che può essere espressa e sostenuta senza problemi di sorta, in particolare dalle caste e candide bocche di francesi e tedeschi, capaci però ad auto-censurare il loro senso critico e a calarsi le brache col buco del culo al vento solo quando si trovano dinanzi al negro, i francesi in modo del tutto particolare, visti i servizi che hanno fatto nel corso degli ultimi due secoli a vari Paesi del Continente Nero. Gli italiani sono invece bianchi, quindi possono essere accusati come tali di essere dei corrotti e dei notori truffatori sulle prime pagine dei loro giornali.
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A Roma,sul finire della formazione sacerdotale e a seguire per un po’ come presbitero, ho abitato in una casa internazionale per sacerdoti che si trova all’Aventino. A poca distanza sul Viale Aventino, all’angolo con il Viale delle Terme di Caracalla c’è la grande sede della FAO, che ricordiamo è la Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Per mesi, transitando in quelle zone, mi è capitato di vedere negri e negre provenienti dai vari Paesi del Continente Africano, semmai dai più poveri e disastrati in assoluto, salire su Mercedes che fanno servizio di noleggio con conducente per essere portati a fare shoppingin Via Condotti e in Via Vittorio Veneto. È cosa altresì nota e risaputa, nonché confermabile dai titolari dei negozi extra lusso, che a spendere di più, senza misura e ritegno, erano i negri e le negre, noti per la ricerca dei beni superflui più costosi in assoluto e per il loro bivaccare negli hotel più lussuosi della Capitale. I funzionari africani della FAO.
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Lascio quindi la Signora Capalbioinorridire dinanzi alla parola “negro” e con lei tutte le altre “candide anime belle” che si gongolano in surreali fantasie sul povero negro buono e vittima del bianco variamente sporco e spregiudicato colonizzatore. Per me esiste invece l’uomo nato con la corruzione del peccato originale, che non ha risparmiato né i bianchi né i negri. E contrariamente alle anime belle so, come lo sanno politici, storici, sociologi e anche ecclesiastici che, uno dei peggiori mali endemici dell’Africa è una corruzione senza eguali al mondo, per non parlare della delinquenza senza scrupoli e limiti che imperversa in certe loro città. Anche per questo la nostra Congregazione de Propaganda Fide si guarda bene dal mandare soldi a occhi chiusi, persino alle nostre stesse istituzioni ecclesiastiche locali gestite dai negri. Preferiscono gestire con attenzione certi flussi di danaro affinché finiscano realmente in opere religiose, caritative e sanitarie. Evitando in tal modo, come più volte accaduto in passato, che dei soldi partiti per la costruzione di un ospedale finissero incamerati da politici corrotti e investiti nel mercato delle armi per le peggiori guerre tribali, dove le persone sono capaci a scannare senza pietà donne e bambini a colpi di machete fabbricati in Cina.
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Però, per la Signora Capalbio, negro equivale a buono e vittima. Soprattutto non si deve dire negro, ma uomo di colore. Ebbene sappia la Signora Capalbio che il mio illuminato venditore di verdura, negro ghanese scuro come un tizzone di carbone, non la pensa come lei, sa perfettamente di essere negro, ne è contento e all’occorrenza se ne vanta, togliendo persino la depressione con una risata a tutte le depresse Signore Capalbio della sinistra radical chic, oggi più che mai depresse dopo avere favorito in ogni modo, con tutti i loro snobismi alto borghesi, un Primo Ministro donna della destra, che è figlia del popolo e che proviene dai quartieri ultra popolari di Roma. Quelli dove una volta, il vecchio e anche glorioso Partito Comunista Italiano, raggiungeva maggioranze elettorali da fare invidia alle elezioni della Bulgaria. Forse per questo, ritrovandosi nei ristoranti gourmetdi Capalbio, il gothadella sinistra radical chic cerca di annegare la depressione politica dentro costosi calici di Sassicaia e di Brunello di Montalcino d’annata.
Dall’Isola di Patmos, 27 novembre 2022
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2022-11-27 17:20:102022-11-27 17:56:15Signora Capalbio, negro non è sinonimo di buono e di vittima senza macchia e peccato, ma semplicemente sinonimo di essere umano
Babamın ikinci evliliğini yapmasıyla birlikte üvey kız kardeşe sahip oldum porno indir Yeni kız kardeşim tembelin teki porno izle ne okula gidiyor ne ders çalışıyor seks hikaye Bulduğu her fırsatta okulu ekiyor bedava porno aile bireyleri bu yüzden ona çok kızıyor brazzers porno Bugün evde kimsecikler yokken bahçede biraz spor yapayım dedim sex hikayeleri Şans eseri kız kardeşimi gördüm okula gitmemiş odasında saklanıyor rokettube Ona bağırdım ve zorla okula gitmesini sağladım türk porno Evden çıktığı vakit bahçede sporuma başladım porno Kısa bir süre sonra telefonuma evdeki alarmın devre dışı kaldığına dair bildirim geldi ensest hikayeler Karşımda çıplak durması ve tahrik edici konuşmalarıyla beni sekse ikna etti.
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