La necessaria cura pastorale delle esequie cristiane apre alla speranza della risurrezione non all’estemporanea bizzarria del sacerdote celebrante anche quando a presiedere è un vescovo

LA NECESSARIA CURA PASTORALE DELLE ESEQUIE CRISTIANE APRE ALLA SPERANZA DELLE RISURREZIONE NON ALL’ESTERMPORANEA BIZZARRIA DEL SACERDOTE CELEBRANTE ANCHE QUANDO A PRESIEDERE È UN VESCOVO

[…] nella stessa Roma fummo costretti ad assistere nel 2012 al funerale del più celebre regista di film porno, durante il quale celebri porno-attori e porno-attrici tutt’altro che pentiti, dopo avere ricevuto in modo sacrilego la Santissima Eucaristia, non contenti salirono all’ambone durante l’azione liturgica per fare un vero e proprio elogio orgoglioso alla pornografia prima del termine della Santa Messa.

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

 

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Chi come me è parroco ― ancor prima sono stato cappellano di un grande polo ospedaliero cittadino ― saprà comprendermi quando dico che una delle difficoltà maggiori per un sacerdote è quella di far comprendere ai fedeli ― ma anche a quelli che lo sono un po’ meno ― che con i Sacramenti non è proprio il caso di scherzare. I Sacramenti non sono assimilabili a una duttile pasta da modellismo, utile da plasmare a seconda dei tempi e delle circostanze, favolosa quando si tratta di sopperire alle esigenze artistiche, tanto da esprimere l’estro del creatore, ma senza pretendere di più di quanto realmente questo umile materiale possa dare al di fuori di quello per cui è stato creato dalla mente dell’uomo.

 

Con i Sacramenti alcuni pensano invece di poter fare di tutto, ma proprio tutto. E se qualcosa non si può fare la si inventa di sana pianta: trovare l’anima gemella, risollevare l’economia, rinsaldare legami spezzati o stringerne di nuovi, accorpare ritardi cronici e rimettere il termometro della fede in pari. Oppure utilizzare il Sacramento come podio politico o musicale dove veicolare determinati messaggi o amarcord, organizzare kermesse di potentati vari in cui immancabilmente ci scappa la profanazione, fino alla richiesta tardiva di perdono con tanto di lacrima finta davanti al feretro di quello che fino a poco tempo fa non si degnava minimamente di uno sguardo. Per questo ripeto: con i Sacramenti non si può e non si deve scherzare perché attraverso la giusta comprensione e celebrazione di questi segni sacri noi riveliamo pubblicamente la nostra fede e così facendo esprimiamo il nostro credo e la grandezza della nostra dignità di cristiani all’interno della Chiesa Cattolica che ne è la custode fedele per conto del Cristo Signore.  

Sia la teologia liturgica che quella sacramentale partono da un assioma fondamentale che dice che la Lex orandi è Lex credendi (la legge della preghiera è la legge del credere). Ciò significa che il mio modo di pregare o di celebrare rende manifesta la mia fede. Ovviamente questo assioma è vero anche se formulato al contrario, la Lex credendi è Lex orandi e la mia fede mi rende possibile il pregare e il celebrare bene. Lascio però questo tipo di approfondimento al nostro confratello liturgista Simone Pifizzi che meglio di me sarà in grado di spiegare la questione. A me interessa chiarire anzitutto l’aspetto dogmatico e successivamente pastorale. Perché è da quello in cui crediamo e che difendiamo all’interno della Tradizione della Chiesa che nasce una buona pastorale che i più perfettini chiamerebbero Teologia Pratica.

L’aspetto pratico della nostra pastorale riflette l’aspetto più intimo della relazione con Dio, quello che il Catechismo della Chiesa Cattolica [cfr. nn. 2095-ss] chiama virtù di religione e che ci dispone al riconoscimento adorante del Signore, prima realtà e comandamento sancito dal Decalogo e verità messianica che Gesù rigetta fortemente davanti al demonio nel deserto quando dice: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» [Mt 4,10]. Perciò, se nella mia fede pratica non è presente il riconoscimento di dover rendere culto e adorare il Signore vivente, in Spirito e Verità [cfr. Gv 4,24], farò anche delle cose bellissime ma resteranno sempre limitate alla glorificazione dell’uomo e delle realtà transeunte che non salvano e non giovano per la vita eterna.  

È con il Signore dentro la sua Chiesa che noi intendiamo compromettere la nostra vita, fino alla morte, evento in cui la maggior parte dei paraventi dei mortali si sfaldano per lasciare scoperto il vero nervo dolente della nostra creaturalità malata dal peccato: abbiamo paura di morire perché non crediamo in un Dio vivo e risorto!  

Nell’ipotetica graduatoria dei Sacramenti più strapazzati, non c’è neanche da chiederselo, al primo posto spicca quello dell’Eucaristia, intendendo sia il sacrificio della Santa Messa, la Comunione Eucaristica, il Santo Viatico e l’Adorazione Eucaristica. Complice il fatto che se la maggior parte dei fedeli e dei sacerdoti non crede più nella presenza viva e reale del Signore presente nel suo vero corpo, sangue, anima e divinità di quel pane azzimo consacrato, tutto il resto viene poi di conseguenza. E dico questo non perché voglio lanciare delle accuse infamanti sul Popolo di Dio o su qualche confratello ― cosa che mi farebbe attirare subito le ire di quelle belle anime devote e dai verginali cuori scandalizzati il cui solo peccato dei preti consiste nella parolaccia o in quella zona geografica al di sotto della cintura dei pantaloni ― ma dico questo perché oggi con gli smartphone e i social network tutto viene ripreso, tutto registrato e documentato e riproposto in tempo reale così come è accaduto per la Messa ciclistica Coppa Kobram, la Messa sul materassino in mare e altre ancora di cui si può facilmente ritrovare traccia nello sconfinato archivio del web.  

A questo punto si tratta solo di vedere i documenti video e di fare le debite conclusioni … a questo proposito qualcuno avrebbe a dire «contra factum non valet argumentum». Ma noi, qui da L’Isola di Patmos, vogliamo aggiungere ai fatti anche gli argomenti, non tanto per difendere tali desolate macellerie messicane di indecorosità liturgica e sacramentale ma quei Christi fideles che hanno il diritto di avere dei buoni anticorpi per resistere nella fede a queste stranezze che sembrano ormai costituire la normalità oggettiva in tante comunità.

Prima di passare a esporre i fatti vorrei ricordare che nella stessa Roma fummo costretti ad assistere nel 2012 al funerale del più celebre regista di film porno, durante il quale celebri porno-attori e porno-attrici tutt’altro che pentiti, dopo avere ricevuto in modo sacrilego la Santissima Eucaristia, non contenti salirono all’ambone durante l’azione liturgica per fare un vero e proprio elogio orgoglioso alla pornografia prima del termine della Santa Messa. Episodio riportato in modo dettagliato dal nostro Padre Ariel in un articolo del 2017 al quale vi rimando [vedere articolo QUI].

La Santa Messa è il cuore della Chiesa e spesso capita che alcune celebrazioni eucaristiche divengano la cornice per esprimere altro o tutto il contrario di quello che dovrebbe essere una Santa Messa cattolica. Spesso questo capita in circostanze delicate, come ad esempio alle esequie religiose in cui la norma oramai in voga sembra essere solo quella della ricerca del rispetto umano che si pensa superiore e più urgente di quell’atteggiamento di latria che è dovuto e spetta solo al Signore realmente presente nelle Sacre Specie. E per inciso è bene ricordare che nella fede cattolica siamo soliti indicare con latria il culto riservato a Dio e alle Persone della Santissima Trinità, che è un culto di adorazione; con iperdulia quello dedicato alla Beata Vergina Maria che non è culto di adorazione ma di venerazione, altrettanto quello degli Angeli e dei Santi indicato con il termine di dulia.

Il fatto che si utilizzi la celebrazione eucaristica per “dire o fare altro” è sbagliato già in sé, proprio perché si utilizza la celebrazione della Santa Messa. È evidente il vizio di inappropriatezza di una fede deformata, perché già la Santa Messa con il suo mistero redentivo dice qualcosa di infinitamente più potente e definitivo: «annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta!» (acclamazione dell’assemblea dopo la Preghiera Eucaristica). Cosa che possiamo esprimere anche così: «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!» [dall’inno di lode Victimae Paschalis].

Cosa potremmo mai aggiungere di più e di migliore davanti a questo annuncio che caratterizza la beata speranza a cui tutti gli uomini sono chiamati da Cristo risorto? Eppure, il caso delle messe esequiali rivisitate è molto comune e i confratelli parroci mi capiranno molto bene, alcuni dei quali si saranno ormai già rassegnati a far passare il tempo del funerale vivendolo come un momento penitenziale per evitare di trovarsi i parenti del caro estinto che elencano tutte le litanie più offensive e velenose sui preti e sulla “Chiesa rigida”.

Altri ancora resistono stoicamente e cercano di far comprendere che una celebrazione eucaristica esequiale, come quella celebrata recentemente nella chiesa di Santa Maria Ausiliatrice alla presenza del presule venezuelano S.E. Monsignor Riccardo Lamba vescovo ausiliario di Roma [vedi QUI], può essere tutt’altra cosa, annuncio profetico di speranza e di consolazione davanti alla nullificazione della morte.

Dobbiamo affermare decisamente che il concetto di morte cristiana è diverso da quello di morte pagana. Qui non desideriamo prendere in esame la tragedia gravissima del caso di cronaca di Martina Scialdone uccisa a Roma dall’ex compagno. A noi interessa maggiormente portare dentro questo evento di morte assurda una risposta cristiana di fede che esula dal sentimento messo in risalto da tutta la stampa nazionale e a cui il Vescovo celebrante sembra aver implicitamente acconsentito permettendo che si eseguisse un brano del cantante Irama: «Ovunque sarai: l’addio a Martina Scialdone e quelle parole che spezzano il silenzio della chiesa al funerale» [cfr. QUI].

Siamo o no consapevoli di che cosa significa proporre una canzone del genere in memoria di un defunto che facendo palese richiamo alla reincarnazione dice testualmente: «Ovunque sarai / se tornerai qui / se mai / lo sai che io ti aspetterò»? [cfr. QUI]. Un cristiano non dovrebbe già sapere a quale destino escatologico sono destinati i fratelli defunti? Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1013:

«La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è “finito l’unico corso della nostra vita terrena”, noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. “È stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta” [Eb 9,27]. Non c’è “reincarnazione” dopo la morte».

Capendo anzitutto questo siamo accompagnati anche a vedere la condizione definitiva in cui i nostri morti sono destinati a stare, la visione cristiana della morte è espressa in modo impareggiabile nella liturgia della Chiesa che dice:

«Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo» [Cfr. Prefazio dei defunti I: Messale Romano].

Questa nuova abitazione in cui la vita viene trasformata dopo la morte immette direttamente nella gloria del Paradiso con Dio, in quel mistero chiamato Comunione dei Santi che ci costituisce come Chiesa trionfante, purgante e militante. Non è perciò sensato e utile chiederci, nell’ottica di una fede matura, il «luogo fisico abitato» dai defunti: piuttosto i defunti vanno ritrovati viventi in Dio nell’attesa della resurrezione finale e in quella comunione di amore che noi mortali dobbiamo ricercare con Dio e che ci permette di essere a loro vicini ogni qual volta che preghiamo, partecipiamo alla Santa Messa, compiamo opere di misericordia in loro memoria, ci sforziamo di vivere una vita di conversione e di unione con il Signore in attesa di essere anche noi uniti al loro in Paradiso.

In conclusione, mi soffermo a commentare brevemente le indicazioni liturgiche del rituale delle esequie in uso presso la Chiesa Cattolica che un sacerdote in cura d’anime, e molto di più un vescovo, dovrebbe conoscere e applicare non per senso di freddo formalismo ma per custodire la forza della fede nella Chiesa e alimentare la speranza che non delude nel popolo di Dio.

Dalle precisazioni alle Premesse Generali del Rituale delle Esequie [cfr. pp. 29-30] leggiamo al paragrafo 6:

«dopo la monizione introduttiva all’ultima raccomandazione e commiato, secondo le consuetudini locali approvate dal vescovo diocesano, possono essere aggiunte brevi parole di cristiano ricordo nei riguardi del defunto. Il testo sia precedentemente concordato e non sia pronunciato dall’ambone. Si eviti il ricorso a testi o immagini registrati, come pure l’esecuzione di canti o musiche estranei alla liturgia».

Anzitutto al termine della Santa Messa esequiale, dopo aver celebrato il sacrificio della passione, morte e risurrezione di Cristo che si innalza vittorioso davanti alla morte e al feretro in chiesa, poco ci sarebbe da aggiungere, se non un solenne: io credo. Ma la Chiesa, nella sua sollecitudine materna, desidera ancora essere balsamo di tenerezza e raccomandare a Dio il defunto e accomiatarsi da lui nella speranza di un nuovo incontro nel Paradiso. Per questo permette che ci sia un congedo affettuoso e familiare purché in spirito cristiano riverberando quel mistero appena concluso nell’eucaristia celebrata.

Questo saluto sia concordato con il sacerdote che ne verifica l’idoneità e l’opportunità di una indebita spettacolarizzazione, affinché non si esprimano valori che stridono con la fede cristiana, così come va abbondantemente di moda oggi l’espressione pagana: «che la terra ti sia lieve». Tutto questo sia fatto non dall’ambone, che è il luogo dove deve risuonare la sola Parola di Dio, ma da un luogo consono.

Esplicita quanto necessaria è la puntualizzazione di evitare canti, musiche o altro che sia estraneo alla liturgia e che possa creare confusione anche se in qualche modo si possa trovare un nesso con la storia del defunto o della sua famiglia. Ripetiamo che i sacramenti non sono pasta da modellismo che posso adattarsi o modificarsi a seconda delle voglie.

Se proprio dobbiamo ricercare parole o canti adatti che possono avere la forza di spezzare il silenzio di un funerale in chiesa, serviamoci di quanto il tesoro della Chiesa già mette nelle nostre mani, in quell’inno pasquale dell’Exultet

«Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro. Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti».

Dimentichiamo troppo spesso che siamo stati chiamati all’esistenza per essere redenti e riscattati da Cristo ed è questo che ci permette di vedere la morte come passaggio e non una fine. In ogni funerale Cristo è lì a ricordarci di avere spezzato la morte e con essa l’assurdo dolore di una vita che può essere violata o insulsa agli occhi dei più, basta solo crederci. E i primi a crederci dovrebbero essere i sacri pastori come celebratori e zelanti custodi dei sacri misteri.  

Laconi, 27 gennaio 2023

 

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I colori liturgici non sono giochi di arcobaleni ideologici, ma segni visibili dei sacri misteri che celebriamo

I COLORI LITURGICI NON SONO GIOCHI DI ARCOBALENI IDEOLOGICI, MA SEGNI VISIBILI DEI SACRI MISTERI CHE CELEBRIAMO

La sciatteria, come la vanità, sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.

— Pastorale liturgica —

Autore
Simone Pifizzi

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Quando i presbiteri sono consacrati sacerdoti il Vescovo rivolge un monito che dovrebbe segnare la nostra intera esistenza: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore» [Cfr. Liturgia della sacra ordinazione dei presbiteri, n. 150].

Il sacerdozio è legato a una dimensione di eternità, perché sacerdoti lo saremo in eterno. Il carattere indelebile dell’Ordine Sacro conferisce una dignità che ci rende superiori persino agli Angeli di Dio, che dinanzi ai sacerdoti si pongono di lato. A illustrarlo in modo magistrale è il nostro confratello Marcello Stanzione, considerato uno dei massimi esperti europei di Angeli e al cui articolo vi rimando [vedere QUI].

La sacra liturgia è fatta di segni e simboli che non sono certo fini a sé stessi, perché costituiscono quegli “accidenti esterni” o “segni esteriori” attraverso i quali si concreta e prende forma la sostanza. Un esempio, anzi direi l’esempio più eclatante: la Santissima Eucaristia, mistero del Corpo e Sangue di Cristo e sua presenza reale tra di noi, si realizza attraverso la materia e il segno esterno del pane e del vino che divengono realmente e sostanzialmente Cristo vivo e vero.

Nella sacra liturgia ogni segno e gesto, persino i silenzi hanno un loro significato teologico e mistagogico. Di “silenzi liturgici” ne sono previsti tre dal rito della Santa Messa: durante l’atto penitenziale, dopo che il celebrante ha detto: «Prima di celebrare degnamente questi santi misteri riconosciamo i nostri peccati». Poi dopo la proclamazione del Santo Vangelo, se non c’è l’omelia, oppure dopo l’omelia. Infine, dopo la Santa Comunione. Momenti di silenzio che sarebbe bene rispettare e non omettere, cosa che per inciso i Vescovi farebbero bene a ricordare a quei loro preti che in 15 minuti scarsi celebrano la Santa Messa feriale, forse dimenticando di avere recitato sin dall’inizio la frase «…prima di celebrare degnamente…». Parola, quella di “dignità”, che dovrebbe avere un grande peso, specie nella celebrazione dei «sacri misteri».

Tra questi segni vi sono anche le vesti liturgiche che ― come ogni segno ― talvolta rischiano di oscurare anziché rivelare la realtà a cui sono riferite. Non possiamo infatti nascondere il rischio che nel nostro contesto culturale alcune vesti liturgiche, per la loro leziosità e ricercatezza, possano offuscare la gloria di Dio ed essere semplicemente considerate come l’esibizione di una umana vanità. Ma è deprecabile altresì quella inqualificabile sciatteria ― oggi considerata povertà e semplicità, ma che invece andrebbe chiamata col suo nome: sciatteria! ― che non solo stravolge il segno liturgico (pensiamo alle varie casule e stole arcobaleno) ma addirittura, talvolta, lo rimuove del tutto con un arbitrio che a nessun ministro di Dio è consentito.

La sciatteria, come la vanità, sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.

La veste liturgica, rispetto ad altri segni, ha un’importanza molto relativa. N’è prova che per almeno i primi quattro secoli della vita della Chiesa le fonti non riportano che i ministri ordinati indossassero vesti particolari durante le celebrazioni, convinti che era essenzialmente importante essere “rivestiti di Cristo” [cfr. Gal 3, 26]. Il Papa Celestino I, nel V secolo, si lamentava con alcuni vescovi della Gallia del Sud perché alcuni preti avevano cominciato a usare vistosi abiti per la liturgia, e così concludeva:

«Dobbiamo distinguerci dagli altri per la dottrina, non per il vestito; per la condotta, non per l’abito; per la purezza della mente, non per l’ornamento esteriore» (cfr. Celestino I, Lettera, PL 50, 431).

Meriterebbe anche spiegare come e perché, durante i primi secoli, simboli e vesti dell’antica paganitas romana confluirono nella primitiva liturgia cristiana a partire dagli inizi del IV secolo. Si tratta di segni esteriori ai quali fu data una profonda valenza cristiana. La struttura di certi riti è più antica ancora, per esempio quelli d’offertorio della Santa Messa affondano le loro radici nelle antiche liturgie offertoriali fatte dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme. Si tratta però di argomenti complessi legati alla storia della liturgia che tratteremo specificamente in altro articolo.

Pur nella consapevolezza ben espressa dall’antico detto popolare “l’abito non fa il monaco”, che la veste liturgica, come tutti i segni esteriori, abbia un’importanza secondaria nel culto cristiano, questo non può certo indurre a ignorare che essa appartiene a quel complesso di segni convenzionali di cui l’umanità fin dal principio ha fatto uso per esprimere il pensiero, lo stile di vita, le idee e il ruolo di una persona. L’abito, che lo si voglia o no, lancia sempre un messaggio ed esprime qualcosa del ruolo, dell’identità e della missione di una persona. E proprio partendo da quest’ultimo concetto possiamo individuare uno dei principali significati delle vesti liturgiche intese come segno di un mandato e di una missione non certo accaparrata, bensì ricevuta dal Signore. E se rimane profondamente vero per ogni battezzato che il Signore Gesù ci invita a un culto in spirito e verità [cfr. Gv 4, 24], lo è altrettanto il fatto che noi ― che viviamo nel regime dei segni e vediamo le realtà invisibili “come in uno specchio” [cfr. ICor 13,12] ― abbiamo bisogno di questi segni per poter esprimere un culto che non sia teorico, disincantato, ma che sappia raccogliere tutto quanto è profondamente umano per esprimere al massimo ciò che intende comunicare.

La veste liturgica, come tutte le espressioni umane non esenti da quella corruzione che affonda le sue radici nel cuore dell’uomo, dovrà sempre “fare i conti” tra il significato “alto” che vuole esprimere e quelle deviazioni rappresentate dalla sciatteria, dalla vanità e dal potere. I paramenti dei ministri ordinati, come tutti gli abiti rituali dei ministeri istituiti e dei laici (e in questo ci metterei anche alcuni abiti per i matrimoni e per le prime Comunioni) hanno il compito simbolico di esprimere una realtà interiore e un servizio ecclesiale in modo semplice e chiaro, e non per questo in contrasto con la bellezza e il decoro, perché la bellezza e la dignità difficilmente non portano anche al vero. Il tutto sempre evitando che si trasformino in elementi che ostacolano la comprensione corretta del messaggio di cui la liturgia è portatrice, o che stravolgano addirittura l’essenza stessa della sacra liturgia.

Nel complesso dei segni e dei simboli di cui la liturgia vive e si nutre, le vesti liturgiche abbiamo detto hanno un valore secondario. A maggior ragione questo discorso vale per i colori che sono entrati nell’uso liturgico sia per le vesti che per gli altri addobbi. Tuttavia essi sono presenti nella liturgia e non di rado suscitano nei fedeli delle curiosità e degli interrogativi a cui occorre dare una risposta seria e precisa, ricordando che nel culto cristiano ― in modo particolare a partire dalla riforma del Concilio Vaticano II ― niente deve risultare semplicemente decorativo o superfluo o peggio ancora relegato a pura forma esteriore, al contrario: tutto deve avere un significato teologico e mistagogico.

Tralasciando i complessi dettagli storici, perlomeno in questo nostro contesto, voglio ricordare che nella liturgia i colori, in quanto simboli, sono entrati piuttosto tardivamente. Per ben sette secoli i colori non hanno avuto una particolare importanza nel culto cristiano. Sicuramente ― e sono le fonti sia scritte che iconografiche che ce lo confermano ― vi era un uso predominante del bianco, considerato sempre nella cultura mediterranea il colore della festa e delle grandi occasioni. Parlando della veste bianca battesimale il Santo dottore della Chiesa Ambrogio da Milano ricordava ai neo battezzati:

«Hai quindi ricevuto delle bianche vesti per dimostrare che tu hai abbandonato l’involucro del peccato e ti sei rivestito dei puri abiti dell’innocenza come ha detto il profeta: purificami con issopo e sarò mondato: lavami e sarò più bianco della neve» [Sant’Ambrogio, Sui misteri, VII, 34].

Nel corso dei secoli si codifica pian piano ciò che riguarda la foggia e la preziosità delle vesti liturgiche, soprattutto nella liturgia bizantina. Ma per trovare un’accentuazione della sensibilità al linguaggio dei colori dobbiamo aspettare il Medioevo, in un contesto in cui, ciò che non viene più compreso dal popolo attraverso la lingua latina e il significato dei riti, è reso attraverso il linguaggio visivo. Non a caso, il Medioevo, ha rappresentato quel felice periodo in cui segni, simboli, gesti o silenzi parlavano in modo eloquente, ma soprattutto erano carichi del tutto di profondi significati teologici e spirituali. Con Papa Innocenzo III [†1216] si hanno ― a proposito dei colori ― le prime direttive comuni che pian piano si impongono ovunque, venendo infine codificate con il Messale di San Pio V nel 1570, dove sono stabilite le vesti bianche, verdi, rosse, viola e nere a seconda delle celebrazioni: appare anche l’uso del colore rosa nella III domenica d’Avvento e nella IV domenica di Quaresima, anche detta Dominica Laetare, quando si interrompeva il rigido digiuno.

La riforma attuata dal Concilio Vaticano II non ha soppresso la normativa riguardo ai colori liturgici, considerandola però nel più vasto contesto di quei segni che devono essere «chiari, adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno di molte spiegazioni» [cfr. Sacrosanctum Concilium, 34]. In base a questo principio è data alle varie conferenze episcopali nazionali la libertà di determinare e usare liberamente i colori liturgici secondo la cultura dei singoli popoli [cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 346].

Le norme attuali prevedono per il rito romano e la nostra area occidentale l’uso di questi colori:

BIANCO: è il colore della luce, della purezza e della gioia. Si usa in tutte le Solennità e feste del Signore (eccetto quelle della Passione), per le feste della Vergine Maria, degli Angeli, dei Santi non martiri. È usato anche per amministrare i Sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.

ROSSO: colore del fuoco e del sangue, simbolo dell’Amore/ Carità, del dono, del sacrificio, del martirio. È usato la Settimana Santa per la Domenica delle Palme e per il Venerdì Santo, il giorno di Pentecoste, per le feste degli Apostoli, dei Santi Martiri, per la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, così come nelle Messe votive al Preziosissimo Sangue di Gesù. Può essere usato anche per la Messa del Sacramento della Cresima.

VERDE: nella nostra cultura è un colore riposante che esprime la normalità, cammino tenace e permanente della speranza. È usato nelle celebrazioni feriali e domenicali del Tempo Ordinario.

VIOLA: Inizialmente usato come variante del nero, nel corso del tempo è diventato colore a sé stante. Colore solenne e grave, esprime contemporaneamente la fatica e la speranza. È usato nei tempi di Avvento e Quaresima ed esprime penitenza e preparazione alla venuta di Cristo. Viene usato anche nelle celebrazioni dei defunti al posto del colore nero, il cui uso rimane opzionale, poiché nella nostra cultura esprime meglio la speranza cristiana che pure è presente di fronte al mistero della morte.

ROSACEO: Concepito come una variazione del viola, segna due pause che la Chiesa fa durante i tempi di penitenza. È usato due volte l’anno, la terza domenica di Avvento, detta Dominica Gaudete e la quarta domenica di Quaresima detta Dominica Laetare.

Oltre a questi, nelle diverse “famiglie” liturgiche esistono e vengono usati nelle sacre celebrazioni anche altri colori:

ORO: Simboleggiando la luce divina l’oro o il giallo possono essere utilizzati per sostituire qualsiasi colore tranne il viola.

NERO: Generalmente considerato in rapporto alle celebrazioni dei defunti, nel Medioevo era usato per indicare i tempi penitenziali. Dal Concilio di Trento fu usato anche per il Venerdì Santo.

AZZURRO: è associato al dogma mariano e può quindi essere usato solo durante le celebrazioni legate alla Beata Vergine Maria, come l’Assunzione o l’Immacolata Concezione. Unico colore che rappresenta un vero privilegio liturgico, il suo uso fu autorizzato dal Concilio di Trento solo in Portogallo, in Spagna, negli ex territori di questi due Paesi, nell’ex regno di Baviera, in certe chiese di Napoli e infine nell’Ordine Francescano considerato storicamente e teologicamente meritevole di avere difeso il dogma mariano. Questo privilegio vale ancora oggi.

I colori liturgici, al di là del loro uso e significato, servono a comunicare il messaggio che, secondo le diverse celebrazioni, può essere di festa, di speranza, di conversione, di solidarietà nel dolore… Tutto questo certamente non è sufficiente come elemento fine a sé stesso, se non è accompagnato dallo scopo fondamentale di ogni cristiano ― specialmente se ministro ordinato ― e di ogni comunità di discepoli del Signore, ovvero: vivere il Vangelo!

Per non rendere paramenti, colori o altri simboli e segni liturgici niente più che espressioni di folclore, stranezza o semplice vanità, occorre che essi diventino “epifania” del mistero di salvezza che trova la sua radice unica e profonda nell’incontro vitale e vivificante con Gesù, Verbo incarnato, Eterno Sacerdote della Nuova Alleanza. Perché tutto, nella sacra liturgia, manifesta ed esprime il mistero del Verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo. Per questo l’assemblea liturgica acclama sul vivo corpo e sangue di Cristo: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». Questo è il cuore della sacra liturgia.

 

Firenze, 26 gennaio 2023

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Esistenze parallele: Lady Diana e Georg Gänswein, come avere tutto dalla vita e passare poi il tempo a lamentarsene?

ESISTENZE PARALLELE: LADY DIANA E GEORG GÄNSWEIN, COME AVERE TUTTO DALLA VITA E PASSARE POI IL TEMPO A LAMENTARSENE?

Il libello dell’Arcivescovo Georg Gänswein scritto con l’ausilio del sacrestano Saverio Gaeta è la negazione della storia e della cultura, soprattutto della prudenza e della sapienza che per secoli hanno retto e che tutt’oggi dovrebbero reggere l’intero paradigma della Curia Romana.

Autore
Ipazia gatta romana

 

 

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«Ecce Agnus Dei». Riconoscendo Gesù il Battista apre le porte sul mistero di Dio e il mistero di noi stessi

«ECCE AGNUS DEI». RICONOSCENDO GESÙ IL BATTISTA APRE LE PORTE SUL MISTERO DI DIO E IL MISTERO DI NOI STESSI

Riconoscendo Gesù con questa affermazione, Giovanni il Battista spalanca il mistero di Dio e il mistero di noi stessi e ci guida a scoprire Dio per scoprire gradualmente il mistero dell’uomo racchiuso in noi stessi.

— Le video-dirette de L’Isola di Patmos —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, padre redattore de L’Isola di Patmos

Un passo fondamentale del Vangelo del Beato Evangelista Giovanni narra:

«Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele”. Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio”» [Gv 1, 29-34].

Riconoscendo Gesù con questa affermazione il Battista spalanca il mistero di Dio e il mistero di noi stessi, guidandoci a scoprire Dio per scoprire gradualmente il mistero dell’uomo racchiuso in noi stessi.

Padre Gabriele e Suor Angelika vi attendono per una catechesi interamente dedicata all’Agnello di Dio in onda nella prima live del 2023 il 12 gennaio 2023 alle ore ore 21.00.

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Dal volo del calabrone al volo dello sciacallo: Gianluigi Nuzzi, che con il suo”Quarto Grado svolge funzione di becchino di Rete4, a Papa morto si è già lanciato su Emanuela Orlandi

DAL VOLO DEL CALABRONE AL VOLO DELLO SCIACALLO: GIANLUIGI NUZZI, CHE CON IL SUO QUARTO GRADO SVOLGE FUNZIONE DI BECCHINO DI RETE4, A PAPA MORTO SI È GIÀ LANCIATO SU EMANUELA ORLANDI

Si tratta, in verità, di un caso penoso e pietoso, anzitutto per la scomparsa temporibus illis di questa adolescente, a seguire per tutte le speculazioni più assurde e fantastiche che sopra di esso sono state fatte, ma quel che è peggio: che continuano a essere fatte.

Autore
Ipazia gatta romana

 

 

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Cari gattolici e gattoliche

Laudetur Jesus Christus!

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Il giornalista Gianluigi Nuzzi autore di diversi libri scandalistici su cose vaticane

Era da molto tempo che non tornavo sulle colonne di questa nostra Isola di Patmos, presto spiegato il motivo: come tutte le donne di potere preferisco vivere e operare nell’ombra, dietro le quinte. Non a caso, quando fui raccolta neonata presso le Catacombe di Priscilla quell’eccentrico del Padre Ariel, sulle prime, voleva chiamarmi Marozia, poi optò subito per chiamarmi Ipazia.

Sul caso di Emanuela Orlandi scrissi nel 2019. Si tratta, in verità, di un caso penoso e pietoso, anzitutto per la scomparsa temporibus illis di questa adolescente, a seguire per tutte le speculazioni più assurde e fantastiche che sopra di esso sono state fatte, ma quel che è peggio: che continuano a essere fatte.

Ho detto già tutto quello che c’era da dire, pertanto oggi, all’uscita dell’articolo su La Stampa di Gianluigi Nuzzi che anticipa la sua nuova e sensazionale opera di sciacallaggio, posso solo limitarmi a riproporre questo mio vecchio articolo.

 

dall’Isola di Patmos, 11 gennaio 2023

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— il cogitatorio di Ipazia —

ESCLUSIVA MONDIALE!

EMANUELA ORLANDI È STATA SEPOLTA IN VATICANO NELLE GROTTE DI SAN PIETRO DENTRO IL SARCOFAGO DEL SOMMO PONTEFICE BONIFACIO VIII

La Santa Sede, a qualsiasi richiesta avanzata da Pietro Orlandi, anche e solo in base a un messaggio anonimo ricevuto, non esiterebbe ad acconsentire l’apertura e l’ispezione della qualunque. Sicché, per porre fine al tutto, il Santo Gatto Pio mi ha rivelato che la giovane è stata sepolta nelle grotte sottostanti la Pontificia Arcibasilica di San Pietro, dentro il sarcofago contenente le auguste spoglie del Sommo Pontefice Bonifacio VIII.

Autore
Ipazia gatta romana

 

 

 

 

 

 

 

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Cari gattolici e gattoliche

Laudetur Jesus Christus!

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lo storico e triste manifesto che la povera famiglia Orlandi fece affiggere per Roma dopo la scomparsa della giovane Emanuela

Negli ultimi due giorni di questo torrido mese di luglio il caldo a Roma è un po’ diminuito, ma sabato, quando sono andata al convento dei Padri Domenicani a Santa Maria Sopra Minerva, me pareva d’esse dentro a ‘n forno. Tanto che mi son detta: mo’ me vado ‘n po’ a rinfrescà dentro ar Pantheon, prima de raggiunge l’inquisigatto domenicano Torque ner chiostro.

Nella chiesa del Pantheon facevano entrar di tutto …’nbé: nun m’hanno forse bloccata quelli da ‘a guardia d’onore sabbauda?

Proprio così, mi hanno detto:

«Qua, li gatti, nun ponno entrà».

Poiché ero già sconvolta dal caldo, a quel punto non ci ho visto più ed ho risposto:

«Ma stamo a scherzà? Avete fatto appena entrà ‘na squadretta de mignotte co’ le zinne de fòra, poi ampresso ‘na coppietta de froci manina na ‘a manina co’ li pantaloncini corti attillati ’n mezzo ar culo, e nun fate entrà me che so’ ‘na gattolica apostolica romana? Ma de che c’avete paura, che li gatti ve se magnino dalle tombe le ossa de quelle quattro carogne de li Savoia?».

Detto questo

ueh, ma sapete che si nun m’allontano m’ammollava ‘n carcio, quer gran fijo de ‘na mignotta vestito come ‘n pupazzo dell’ottocento? E s’é messo pure a strillamme:

«Questo è vilipendio ai Padri della Patria!».

Al ché, prima mi sono allontanata ― perché quello altrimenti mi prendeva a calci sul serio ― poi gli ho strillato:

«… seh, li Padri della Patria? Erano solo quattro mercenari massoni, vedi d’emparatte ‘n po’ de storia: a’ stronzo!».

Appena varcato il portone del Convento Domenicano di Santa Maria Sopra Minerva, il caro Torque, inquisigatto maggiore, è venuto ad accogliermi, amabile come sempre. È veramente un gran gatto di fede, solidissimo nella dottrina. Ci siamo scambiati i saluti, poi mi ha aggiornato sulle ultime del tribunale felino della Santa Inquisizione.

«Ipazia cara, che te devo da dì? Ormai nun potemo lavorà più. Appena du’ settimane fa avemo messo sotto processo tre pantegane che bazzicaveno la chiesa de’ Canadesi, accusate tutte e tre de diffonne pensieri ereticali sulla cristologgia e la pneumatologgia. Embé, sai cos’è successo

Volgo gli occhi al cielo e domando lumi a tal proposito, risponde Torque:

«Avemo rischiato noi, de finì sotto processo! E sai perché? Ma perché le tre pantegane eretiche erano tre catechiste der Cammino Neocatecumenale, capito? E te dico che c’è annata de lusso perché, un gatto gay, che margrado li vizzi sua ce vo’ b’bene, ha messo tutto a tacè presso er Tribbunale Supremo da a’ Segnatura Apostolica. Figurete, Ipazia mia, ormai semo ar caos giuridico. Pensa solo che tra le varie b’botte de genio de ‘sti tempi, nun hanno trovato de meijo da fa che abolì er tribbunale diocesano d’appello da ‘a Diocesi de Roma, essenno er Presidente n’omo santo tutto d’un pezzo che jie riggettava le sentenze de primo grado sulle nullità matrimoniali, fatte e date ‘n quattro e quattr’otto, manco fosse stato istituito pe’ davero er divorzio cattolico».  

A quel punto ho esposto al caro Torque il problema, quindi il motivo della mia visita. Il giorno 11 luglio, su richiesta del fratello Pietro Orlandi, sono state aperte due tombe in Vaticano presso il cimitero teutonico, per verificare se al loro interno si fossero trovati i resti mortali della giovane Emanuela Orlandi, scomparsa nel 1983 all’età di sedici anni [cf. QUI, QUI].

Il giorno prima ero stata raggiunta dalla nostra amata sorella gattolica Tac, che come forse i Lettori ricordano vive a Cagliari, presso la cappellania dell’Ospedale Brotzu, dov’è dedita al volontariato. Una vera e propria Madre Teresa di Calcutta in dimensione gatta. La cara Tac è una mistica con particolari doni taumaturgici. L’unico problema è che parla e comunica solo nella lingua della Barbagia, che non è un dialetto, ma una vera e propria lingua. Ciò mi obbliga a rivolgermi a Torque, perché è uno specialista in filologia delle antiche lingue italiche. Letto il testo, il buon Torque mi ha fatta la fedele traduzione, che è la seguente:

«Durante un momento di estasi, mi è apparso in visione il Santo Gatto Pio, il quale mi ha detto: bisogna porre fine, una volta per tutte, alla penosa vicenda della giovane Emanuela Orlandi. Anche perché, in caso contrario, suo fratello Pietro, finché vivrà, non si darà pace. Affinché questa pace giunga è bene sia rivelato una volta per tutte il luogo della sepoltura delle spoglie della povera giovane. In caso contrario si continuerà periodicamente a fare scavi, buchi, ispezioni di tombe e via dicendo. La Santa Sede, a qualsiasi richiesta avanzata da Pietro Orlandi, anche e solo in base a un messaggio anonimo ricevuto, non esiterebbe ad acconsentire l’apertura e l’ispezione della qualunque. Sicché, per porre fine al tutto, il Santo Gatto Pio mi ha rivelato che la giovane è stata sepolta nelle grotte sottostanti la Pontificia Arcibasilica di San Pietro, dentro il sarcofago contenente le auguste spoglie del Sommo Pontefice Bonifacio VIII» [Cf. Trascrizione tradotta in italiano della visione di gatta Tac, mistica della Barbagia Sarda].

Fatta la traduzione Torque e io ci siamo guardati sbalorditi. Finché, ripreso fiato, l’insigne Inquisigatto Maggiore mi ha domandato:

Sentime b’bene Ipazia, tu sai che io so’ ‘n gatto de fede, però, con tutto er rispetto pe’ ‘sta nostra stimata mistica, nun è che na’ ‘a Sardegna, de questi tempi, c’è sta uno de quei càrdi afosi che farebbe sbarellà cor cervello pure li santi?

Mentre valutavamo questa ipotesi ci siamo scambiati varie opinioni sulla dolorosa storia della giovane Emanuela Orlandi, il caso della quale è stato da tempo chiuso dalla magistratura romana. Ma soprattutto c’è una domanda di rigore da farsi: durante le lunghe e accurate indagini portate avanti per anni e anni, è emersa forse la figura di una adolescente sul modello di Sant’Agnese vergine e martire? Non è che forse, nei verbali delle indagini e degli interrogatori, risulta agli atti che questa giovane frequentava soggetti, semmai anche più grandi di lei, che non erano propriamente né il giovane San Luigi Gonzaga né quel grande pedagogo di San Filippo Neri? [cf. QUI, QUI …]. E in quegli anni Ottanta e non solo, quante furono le ragazze in fascia d’età compresa tra i 15 e i 18 anni, sparite e mai più ritrovate? I vari inquirenti, nel corso di quegli anni, quante volte si sono messi sulle tracce della cosiddetta tratta delle bianche?

Presso la Procura della Repubblica di Roma, esistono fascicoli e fascicoli di inchieste aperte, infine chiuse dopo anni senza esito, riguardanti adolescenti e giovanissime sparite e mai più ritrovate. Si vada presso gli archivi storici della Procura della Repubblica di Roma, per averne conferma, ma soprattutto ampia prova. La prima che forse dovrebbe andarci sarebbe la avvocato che assiste il fratello, che pur non avendo il talento giuridico della avvocato Giulia Bongiorno, ha avuto comunque a più riprese il proprio bagnetto di telecamere sulla triste vicenda di Emanuela Orlandi, nonché sulla pelle della Santa Sede esposta ciclicamente alla gogna mediatica.

Perché nessuna di queste ragazze sparite e mai più ritrovate ha fatto la notizia che a distanza di oltre tre decenni seguita a fare invece il caso di Emanuela Orlandi? Ma per il semplice fatto che la giovane faceva parte della ristrettissima cerchia di quei pochissimi laici che risultano cittadini dello Stato della Città del Vaticano, ovvero poche decine di persone, su circa mille che per l’ottanta per cento sono tutti ecclesiastici. O qualcuno pensa che se la giovane fosse stata una cittadina svizzera, francese, tedesca o italiana, il suo caso sarebbe stato portato avanti per tre decenni e tirato fuori ogni volta che in qualche angolo d’Italia viene rinvenuto un cadavere sepolto da qualche parte al di fuori di un cimitero?

È questo che scatena da sempre morbosi pruriti ai quali purtroppo rischia di dare adito e fiato il fratello stesso, sul cui sensus fidei cattolico ci sarebbe molto da discutere, visto il modo in cui, alla prima soffiata anonima, egli pretende e ottiene scoperchiamenti di tombe e analisi di resti di cadaveri, come avvenuto nel recente caso dei ritrovamenti presso il palazzo della Nunziatura Apostolica in Italia [cf. QUI]. E dinanzi a ciascuna di queste situazioni, il buon fratello Pietro ― che come già detto non è obbligato affatto a essere un devoto cattolico ―, favorisce la esposizione della Chiesa a forme di ripetute gogne mediatiche.

Si pensi solo, a livello di letteratura giornalistica e di bieco gossip editoriale, cos’è stato pubblicato nel corso di tre decenni, non di rado con accuse davvero infamanti rivolte agli stessi Sommi Pontefici, seguiti da un considerevole numero di prelati defunti che non si sono mai potuti difendere, ma delle cui memorie si è fatto scempio in nome di una non meglio precisata “verità su Emanuela Orlandi”. Proprio come se la “verità su Emanuela Orlandi” giustificasse qualsiasi illazione e qualsiasi palata di fango gettata sulle memorie di altre persone. Un nome a caso tra i tanti? Si pensi solo a che cosa è stato scritto nel corso del tempo sul Cardinale Ugo Poletti [1914-1997], Vicario generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma [1973-1991], che si è giunti persino ad accusare di avere tramato con i criminali della Banda della Magliana e il suo capo Robertino De Pedis, per non parlare delle illazioni fantascientifiche sull’allora Segretario di Stato, Cardinale Agostino Casaroli [1914-1998] [cf. QUI]. Pertanto, se Pietro Orlandi, come battezzato e come persona nata, cresciuta e vissuta dentro lo Stato della Città del Vaticano, non intende avere rispetto verso la Chiesa Cattolica e la Santa Sede, abbia perlomeno rispetto per sé stesso e per la memoria della sorella, esposta da decenni al gossip morboso dei giornalisti, soprattutto per causa sua che non manca mai di fornire ad essi generose cascate d’acqua per i loro mulini.

Se nessuno ha avuto mai il coraggio di dirlo al diretto interessato, sarà bene che qualcuno informi il buon fratello che a giornalisti, tele-giornalisti e autori di libri scandalistici che mirano a vendere il maggior numero di copie possibile, di sua sorella Emanuela Orlandi non interessa proprio niente. Possibile che tutti lo sappiamo all’infuori di lui, che a questo genere di persone senza cuore e con dieci centimetri di pelo di cinghiale sullo stomaco seguita imperterrito a dare lavoro e guadagni editoriali?

Ormai la Santa Sede, dinanzi a qualsiasi irragionevole e irrazionale richiesta che giunge da Pietro Orlandi, non esita a far correre la polizia scientifica, a far analizzare resti di cadaveri, a procedere allo svellimento di pavimenti, all’apertura di tombe e via dicendo a seguire, nel disperato tentativo di dimostrare all’opinione pubblica che il Vaticano non ha nulla da nascondere sulla vicenda di questa adolescente, già avvezza a frequentare a sedici anni delle compagnie non molto consigliabili, come emerge dagli atti e dalle lunghe e approfondite inchieste investigative, o no? Una giovane che è stata rapita per le strade della Capitale d’Italia, non nei giardini vaticani o mentre passeggiava per il cortile di San Damaso sotto le finestre della Segreteria di Stato suonando il suo flauto.

Darle vinte a Pietro Orlandi, qualunque cosa egli chieda e pretenda, non è né giusto né pedagogico. Pertanto, a questo Gentile Signore che sta proprio superando tutti i limiti, andrebbe anzitutto detto qualche no, poi adeguatamente consigliato a rivolgersi a un bravo psicologo clinico, nel caso in cui non fosse riuscito, nell’arco di questi decenni, ad elaborare il dolore o il trauma del lutto.

Il gatto Torque e io ci siamo infine detti che su certe cose non si scherza, né mai si deve scherzare. Però … perché non taroccare il messaggio scritto dalla nostra mistica della Barbagia dopo la sua visione? In fondo, alcuni dicono e sostengono che abbiano taroccato persino il terzo segreto di Fatima.

«Torque, te lancio ‘n’idea. Se poi fosse molto sbajiata, chiederò perdono a Dio con tutto er core mio».

«Dimme, Ipazia cara, qual è ‘st’idea».

«Ecco … potremmo taroccà er messaggio da’ ‘a mistica Tac, facenno giunge un messaggio simile ma diverso. Per esempio potèmo dì che ‘sta pora creatura è stata messa a riposà sotto l’Altare da ‘a Confessione a San Pietro, dentro ‘a tomba der Beato Apostolo Pietro …».

«Ipazia, to ‘o dico con tutto er core: tojiete st’idea de mente. Perché se a Pietro Orlandi giunge un messaggio der genere, entro quarantott’ore ar massimo, mannerebbero li operai sotto le telecamere da ‘a televisione ad aprì er seporcro der Principe delli Apostoli. Nun ce penzà, Ipazia mia, ma nun ce penzà proprio».

Possa l’anima di questa amata creatura godere della pace divina tra gli Angeli e i Santi, ovunque sia sepolto il suo corpo mortale, ma possa soprattutto conceder Dio pace a chi proprio non vuole darsi pace, sino a togliere la pace anche agli altri, a partire dalla pace ripetutamente tolta alla Santa Sede, che di difetti ne ha molti e gravissimi, ma che non merita tutto questo. Giunti infatti al punto in cui siamo, se un anonimo facesse una segnalazione a Pietro Orlandi, rischieremo sul serio di veder aprire anche la tomba del Beato Apostolo Pietro.

dall’Isola di Patmos, 15 luglio 2019

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Quando durante la Santa Messa Padre Ariel fracassò una chitarra sulla colonna della navata di una chiesa parrocchiale

QUANDO DURANTE LA SANTA MESSA PADRE ARIEL FRACASSÒ UNA CHITARRA SULLA COLONNA DELLA NAVATA DI UNA CHIESA PARROCCHIALE

Quando si reca in posti che non conosce, preferisce avere vicino un poliziotto che possa eventualmente bloccarlo, “privilegio” questo concesso di motu proprio a me, povero disgraziato che non sono altro! Semplice il motivo: reggere una tigre del Bengala è più facile e meno pericoloso che reggere lui.

— Storie mai scritte —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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Sono 12 anni che vivo e lavoro a stretto contatto con lui, sono quindi un archivio vivente delle gesta di Padre Ariel S. Levi di Gualdo. Naturalmente, quando si è mansueti, non si narrano le proprie gesta più belle, per questioni di mansuetudine. Temo che un giorno dovrò rendere conto a Dio per avere evitato la realizzazione di varie prodezze non belle, ma bellissime. E chissà che castigo dovrò subire per questo, quando mi troverò dinanzi al giudizio di Dio, avendo impedito la realizzazione di certi colpi di genio.

 

Caratteristica di Padre Ariel è di spiazzarti con cose che non ti aspetteresti mai. Per questo, quando esordisce con certe perfomance, sempre e di rigore improvvise e inaspettate, le persone non riescono neppure a reagire sul momento, perché hanno bisogno di entrare nell’ordine di idee che quanto accaduto è vero, che è proprio accaduto realmente.

 

Mese di maggio 2010, un confratello di Padre Ariel, colombiano, mentre stava facendo il dottorato in sacra liturgia in una pontificia università romana svolgeva il ministero di secondo vice-parroco in una parrocchia che non nomino, presso una diocesi suburbicaria di Roma che non nomino. Avendo deciso di recarsi in pellegrinaggio a Fatima e soggiornare in Portogallo alcuni giorni, chiama Padre Ariel e gli chiede se può sostituirlo per la Santa Messa vespertina del sabato e per quella della domenica mattina. Lui accetta subito, anche per il profondo legame fraterno e affettivo che nutre verso quel sacerdote, che fu cerimoniere alla sua ordinazione sacerdotale.

 

Come solitamente fa, mi chiede se posso accompagnarlo e svolgere il servizio di accolito, non potendo ammettere che quando si reca in posti che non conosce, preferisce avere vicino un poliziotto che possa eventualmente bloccarlo, “privilegio” questo concesso di motu proprio a me, povero disgraziato che non sono altro! Semplice il motivo: reggere una tigre del Bengala è più facile e meno pericoloso che reggere lui.

 

Contro le chitarre Padre Ariel non ha niente, perché la chitarra, se suonata bene, da professionisti e musicisti, può essere uno splendido strumento liturgico. Più volte abbiamo udito chitarristi eseguire con la chitarra arie di J.S. Bach, in altre occasioni accompagnare in sottofondo persino i canti gregoriani. Una autentica meraviglia.

Quando però sente dei sessantenni post-sessantottini suonare le chitarre che non sanno suonare, semmai sulla melodia di When the Saints Go Marching In, Padre Ariel potrebbe persino farti pentire di non avere incontrato al posto suo Jack lo Squartatore, con il quale tutto sommato potrebbe andare meglio.

 

Lo ammetto: la domenica mattina quel coretto toccò il fondo. Durante la Comunione si misero a eseguire una canzone tratta dalla celebre opera Jesus Christ Superstar. E qui va premesso: Padre Ariel apprezza molto sia quell’opera che il balletto del Martha Graham Dance Company, che considera una tra le più grandi opere rock nel Novecento. Però, al tempo stesso, è un presbitero e un teologo di solida dottrina e sa che quell’opera e i testi delle sue canzoni negano in modo deciso la divinità di Cristo. Ecco allora che sulle parole tradotte in italiano della Maddalena innamorata del Cristo il coretto si mette a cantare: «… è un uomo, è solo un uomo». Padre Ariel cessa di distribuire la Comunione, sale all’altare, vi depone la pisside sopra, si genuflette reverente, ridiscende sotto il presbiterio, toglie la chitarra di mano al chitarrista e la fracassa sulla colonna di una navata. Lascia la chitarra in pezzi a terra e dice: «Alla fine dei veri concerti rock si fa così».

 

Nella chiesa calò un silenzio tombale. E come nulla fosse, composto e gelido come un pezzo di ghiaccio, proseguì e terminò la celebrazione eucaristica.

 

Il parroco non osò dire niente, presumo temendo di ritrovarsi con un candeliere di bronzo stampato sulla schiena. Ma il giorno dopo sostenne lui per primo la protesta di quei coristi presso il Vescovo, dicendo che non conosceva quel prete e incolpando il secondo vice-parroco che lo aveva chiamato in sua sostituzione. Ovviamente Padre Ariel si era già premurato di chiamare il suo Vescovo, che all’epoca era Mons. Luigi Negri, e di narrargli il fatto.

 

Non più tardi del lunedì pomeriggio il Vescovo di quella Diocesi chiama Mons. Luigi Negri, che di fondo era forse persino più indisposto del Padre Ariel stesso dinanzi a certe stramberie liturgiche, e che lo tranquillizza così: «Ti rassicuro e ti prego di rassicurare anche il chitarrista che tutto sommato gli è andata veramente bene, anzi ringrazi Dio, perché per il tipo che è, mi stupisco che la chitarra l’abbia spaccata sulla colonna e non sulla sua testa».

 

Trascorso un anno, mentre il sacerdote colombiano stava per lasciare Roma al termine degli studi e rientrare nella sua diocesi, pochi giorni prima di prendere l’aereo confidò a Padre Ariel di averlo invitato apposta per sostituirlo, immaginando che dinanzi a cose simili avrebbe reagito, dopo che lui aveva dovuto sopportare per due anni quel coretto e quel parroco ignorante in materia di dottrina e di fede, che nemmeno si rendeva conto delle eresie che quelle persone cantavano durante la Messa.

 

Però ripeto: essendo Padre Ariel mansueto, profondamente mansueto, evita di narrare alcune delle sue gesta più belle, sicuramente per un discorso di profonda umiltà.

 

dall’Isola di Patmos, 9 gennaio 2023

 

 

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Gli aspetti giuridici civili della Comunione sulle mani dinanzi alle assurde azioni legali intraprese da preti e vescovi che meriterebbero di essere fustigati a sangue

GLI ASPETTI GIURIDICI CIVILI DELLA COMUNIONE SULLE MANI DINANZI ALLE ASSURDE AZIONI LEGALI INTRAPRESE DA PRETI E VESCOVI CHE MERITEREBBERO DI ESSERE FUSTIGATI A SANGUE

Pagheremo tanto, pagheremo tutto, con tanti e tali interessi inflitti dal castigo di Dio che saranno così elevati da lasciare senza parole persino i peggiori prestatori di soldi a strozzo. Perché noi abbiamo strozzato Dio che al momento opportuno ci farà sperimentare sulla nostra pelle di che cosa è capace un divino strozzino.

 

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

 

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.https://youtu.be/-qAakg7hvLM

Se l’ideologia supera il valore trascendentale, metafisico e mistagogico dell’ineffabile Mistero Eucaristico, i nostri Venerati Vescovi potrebbero anche chiudere la gran bottega della Conferenza Episcopale Italiana, mandare a spasso i suoi 400 e inutili dipendenti stipendiati, gran parte dei quali assunti perché amici degli amici degli amici di quello o di quell’altro monsignore, dopodiché fondare un’Organizzazione Non Governativa per dedicarsi a profughi, migranti ed extracomunitari che oggi vanno tanto di moda, perché pare che solo “loro sono Chiesa”.

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È un discorso di coerenza, sin da quando il Sommo Pontefice gloriosamente regnante, nel giorno del Giovedì Santo in cui si celebra la istituzione del Sacerdozio ministeriale e della Santissima Eucaristia, non trovò di meglio da fare che sciacquare e baciare i piedi a carcerati e puttane, diversi dei quali non cattolici e neppure cristiani battezzati. Infatti, è notoriamente risaputo che Gesù Cristo, come apostoli, si scelse un gruppetto di carcerati e di puttane. E ripeto la parola magica: coerenza! A meno che, a qualcuno dei nostri vescovi, non risulti che Nostro Signore Gesù Cristo prese durante l’ultima cena un povero, lo esibì agli apostoli e disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». Dando poi il comando: «Fate questo in memoria di me». E fatto questo, lungi dal consacrarli Sacerdoti della Nuova Alleanza, prese un gruppo di puttane pagane e disse loro di andare a evangelizzare i popoli [cfr. Mt 10, 5-8; Mc 16, 15-20], a battezzare [cfr. Mt 28, 19-20] e a rimettere i peccati [cfr. Gv 20, 22-23].

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Alle soglie dei sessant’anni, non dovendo diventare vescovo e cardinale, né mai avendo avuto alcuna velleità di carriera, posso beneficiare di quella libertà dei figli di Dio che mi consente di dire ai cattivi maestri e ai cattivi pastori che sono tali, in grave danno alla Chiesa e al Popolo di Dio, semmai pure con l’aggravante della vigliaccheria di chi sa perfettamente cosa è sbagliato, se non peggio sacrilego. Ma per quieto vivere tacciono, perché non vogliono problemi, o perché il vescovo della diocesi suffraganea punta alla vicina sede arcivescovile metropolitana, o perché l’arcivescovo metropolita di quell’arcidiocesi scalpita per il cardinalato, per questo sfoggia una croce pettorale ricavata dal pezzo di legno di una barca di migranti affondata al largo di Lampedusa, procedendo in processione con un bastone pastorale ligneo che pare uscito dalla bottega di Mastro Geppetto, il cui figlio Pinocchio, come risaputo, nacque per opera di una sega. Se poi un soggetto come me osa indicarli per ciò che sono, ossia dei clamorosi leccaculo, rischia persino di fare la figura del prete volgare. Perché è bene chiarire: volgare non è chi lecca il culo al potente prepotente piegandosi ai suoi capricci peggiori e più dannosi, ma chi lo indica come tale usando una parola che sconvolge le tenere e delicate orecchie dei figli della novella e pudibonda Inghilterra vittoriana di fine Ottocento, con tutti i suoi vizi privati e pubbliche virtù. Una Pudibonda Inghilterra dove era possibile incularsi allegramente in privato, purché non si usasse in pubblico la parola “culo”, Oscar Wilde docet!

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Sappiamo perfettamente che dare la Santa Comunione sulle mani oggi è molto pericoloso, specie in certe zone e località del nostro Paese, nelle quali sono molto diffuse pratiche magiche ed esoteriche, in aumento comunque in tutto il nostro territorio nazionale. Come infatti risaputo, quando non si crede più in Dio e nei misteri della fede, si finisce sempre per credere in tutto.

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Sul modo disinvolto nel quale è amministrata la Santa Comunione ha appena scritto il nostro Padre Ivano Liguori [vedere QUI]. Questo mio articolo non è altro che una sorta di appendice di prosecuzione al suo. Ovviamente con una differenza sostanziale: lui si esprime in modo serafico, anche quando è severo, io no. Quando sono severo talvolta divento molto duro e non mi sgomento a fare ricorso persino a espressioni triviali.

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All’interno della Chiesa, grazie alle influenze di matrice calvinista che ammorbano le comunità ecclesiali cattoliche del Nord dell’Europa, la Comunione data sulle mani è divenuta sin dagli anni Settanta una vera e propria rivendicazione ideologica, un segno di distinzione, un marchio di riconoscimento di certo cosiddetto progressismo catto-protestante. E quando con l’epidemia da Covid è stato proprio imposto di darla sulle mani per ragionevoli questioni di sicurezza, i pochi argini che rimanevano sono totalmente decaduti. Ecco allora che oggi, non pochi preti ideologici, si permettono impudentemente di negarla a chi osa volerla ricevere in bocca o peggio che mai in ginocchio. Proprio come prova questo pietoso video, dove a distribuire la Santa Comunione sono un Arcivescovo metropolita e il suo Vescovo ausiliare.

Lo abbiamo segnalato anche di recente, con tanto di documento filmato, il vergognoso caso del sacerdote che alle esequie funebri di Benedetto XVI negava in Piazza San Pietro la Comunione e respingeva un fedele che compiendo un intollerabile affronto ha osato persino inginocchiarsi [vedere QUI]. Non scherziamo, inginocchiarsi dinanzi a Cristo Dio presente vivo e vero in anima corpo e divinità rasenta oggi la bestemmia. Solo dinanzi alle puttane nigeriane invitate come protagoniste d’onore alla papale Missa in Coena Domini ci si inginocchia, con tanto di sciacquo e bacio dei piedi [cfr. mio libro QUI]. Volendo poi essere buoni fino in fondo potremmo applicargli anche creme ammorbidenti per i talloni induriti dai tacchi e passargli un po’ di smalto sulle unghie, infine esortarle dicendo: “… figliola, adesso torna pure a fare la puttana, perché Dio ti ama così come sei e per il mestiere che fai”.

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Sono spariti da anni i piattelli usati per alcuni secoli durante la distribuzione della Santa Comunione, casomai un’Ostia Santa fosse inavvertitamente caduta. In compenso sono stati però istituiti da certe sculettanti cerimoniere estetiche i piattelli d’argento per deporvi sopra il ben più santo e prezioso zucchetto rosso del vescovo, dinanzi al quale il Corpo di Cristo è ben poca cosa.

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In varie località è accaduto più volte che delle persone, ricevuta la Santa Comunione, se la siano messa in tasca. In altre alcuni giovani, ricevuta l’Ostia Santa, sono scappati via di corsa, sicuramente per farne uso nei vari circoli satanisti. Una volta, i satanisti, per rubare l’Eucaristia dovevano entrare nelle chiese, semmai di notte, o comunque scassinare i tabernacoli. Oggi siamo andati loro incontro rendendogli il lavoro parecchio più facile: gliela mettiamo direttamente in mano.

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Dinanzi a simili casi concreti e affatto rari veniamo adesso all’idiozia di quei vescovi e presbiteri che hanno creduto bene di reagire sporgendo persino denunce. È a dir poco ovvio che denunce del genere siano finite immediatamente archiviate. E vi dirò: plaudo e mi complimento con i Pubblici Ministeri che hanno predisposta l’archiviazione non potendo ravvisare nel fatto esposto degli elementi di reato per poter dare avvio a una azione penale. O qualcuno pretende che un Pubblico Ministero tenga in considerazione il mistero della transustanziazione delle specie eucaristiche e la presenza reale di Cristo nella Santissima Eucaristia? Sono cose che riguardano i misteri della fede, non le aule giudiziarie dei tribunali di qualsiasi Paese non confessionale, compreso grazie a Dio il nostro. Quale giudice potrebbe condannare a dura pena una persona che se ne è andata dopo che un prete gli ha messo in mano un’Ostia? E per cosa lo dovrebbe condannare, forse per avere sottratto e profanato il Corpo di Cristo? Se esiste un giudice che applicando le leggi penali del nostro ordinamento può scrivere in una sentenza di condanna che in quel pezzo di pane azzimo c’è realmente e sostanzialmente Cristo presente, vivo e vero, che per cortesia me lo indichi, sarei oltremodo felice di poterlo conoscere, prima che il tribunale d’appello annulli la sua sentenza e il Consiglio Superiore della Magistratura apra su di lui un procedimento disciplinare per palese e manifesta incapacità di giudicare in modo razionale e dare di conseguenza equa sentenza.

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“opera d’arte” realizzata con 242 Ostie Sante messe in mano a questo “artista” da sacerdoti celebranti molto attenti e ripieni di fede e sacra cura del prezioso Corpo di Cristo

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Quando lo pseudo artista Abel Azcona ha ricevuto per decine di volte la Santa Comunione sino a sottrarre 242 Ostie Sante, dopo che le ebbe usate per comporre a terra una sua “opera d’arte” che consisteva nella composizione della parola “pedofilia” scritta con i pezzi profanati del vivo Corpo di Cristo, poco dopo fu denunciato dalla Associazione degli Avvocati Cattolici della Spagna, in virtù del fatto che il codice penale di quel Paese sanziona con una pena tra gli otto e i dodici mesi di reclusione le offese «ai sentimenti di una confessione religiosa» tramite dileggio «dei suoi dogmi, credenze, riti e cerimonie». Il cosiddetto artista spiegò in modo impeccabile, razionale e incontestabile: «Non ho commesso alcun reato se ho deciso di mettermele in tasca e di uscire dalla chiesa, sono stati loro che me le hanno consegnate in mano, quindi è tutto legale».

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Ritengo che pessima figura l’abbia fatta l’Associazione degli Avvocati Cattolici di Spagna, che si sarebbero dovuti sì irritare e protestare, ma verso la superficialità, la mancanza di controllo e forse la scarsa considerazione di certi vescovi e preti sulla sacralità del Corpo di Cristo. Sempre ammesso che credano veramente che quell’Ostia Santa è il Corpo di Cristo, perché molti vescovi e preti proprio non ci credono, lo prova il modo in cui celebrano la Santa Messa e l’incuria totale con la quale amministrano la Santa Comunione, salvo veder sculettare attorno a loro la cerimoniera estetica che con gran classe e sfarfallio depone il loro zucchetto santissimo sul piattino d’argento.

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Durante la celebrazione della mia prima Santa Messa fui costretto a rincorrere con la pisside in mano una signora che ricevuta la Santa Comunione se la mise dentro la borsetta. Io che mai, sin da diacono, davo volentieri la Comunione sulle mani e che per questo nel darla ero particolarmente attento, la vidi e subito la rincorsi, tirandogliela fuori dalla borsa e consumandola. Era presente tra i fedeli un anziano magistrato in pensione, che pochi giorni dopo commentò quel fatto dicendomi: «L’unico che in quel contesto poteva essere perseguito eri tu, che di fatto hai fermato una persona, tanto più una donna, le hai tolto la borsa da sotto il braccio, gliel’hai aperta ed hai sottratto una cosa al suo interno. In pratica l’hai perquisita senza averne alcuna autorità. Per non parlare del danno di immagine che le hai recato davanti a tutti. Un qualsiasi giudice si sarebbe trovato costretto a fare queste valutazioni, persino un magistrato cattolico e credente come me che nutro da sempre particolare devozione per il Santissimo Sacramento».

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Non ho più dato la Comunione sulle mani a nessuno, avvalendomi sempre della concessa facoltà di darla sotto le due specie, intingendo la Sacra Ostia nel calice del Sangue di Cristo e porgendola ai fedeli dicendo: «Il Corpo e il Sangue di Cristo», obbligandoli in tal modo a riceverla in bocca.

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Quando durante l’emergenza da Covid era opportuno e prudente non dare la Comunione in bocca ma solo sulle mani, l’ho sempre distribuita con due persone accanto, una alla mia destra e una alla mia sinistra, oltre a me che non toglievo mai gli occhi di dosso ai fedeli finché non l’avevano consumata alla mia presenza senza allontanarsi. E più volte ho richiamato le persone che hanno tentato di allontanarsi senza avere consumato l’Eucaristia davanti a me.

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La gran parte dei miei confratelli non fanno questo, perché dopo avere straziato le palle ai fedeli con lunghe prediche logorroiche su poveri e migranti, giunti alla Preghiera Eucaristica hanno più fretta del mitico Dottor Terzilli medico della mutua, per questo sempre e di rigore solo la Seconda, che è la più breve. Giunti poi alla Comunione più frettolosi che mai, eccoli “sbattere” velocemente sulle mani dei fedeli la Santissima Eucaristia tipo lancio di fiches fatte con pane azzimo, anche perché poi ci sono dieci minuti di annunci parrocchiali che vanno dagli incontri dei giovani sino alla sagra della porchetta, più o meno come gli annunci che dette Nostro Signore Gesù Cristo prima del termine dell’Ultima Cena e poi sul Monte Calvario prima di spirare in croce.

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Numerosi confratelli, che la pensano tal quale a me e che sono allo stesso modo molto attenti, mi hanno chiesto più volte se qualche vescovo mi avesse mai richiamato in giro per l’Italia, dato che, fatta eccezione per il periodo del Covid, non do mai la Comunione sulle mani a nessuno. In modo scherzoso, ma parecchio serio, ho risposto: «Se c’è una cosa alla quale i nostri vescovi tengono è la loro pelle. Amano parlare dei martiri all’occasione propizia, ma non hanno alcuna predisposizione al martirio, specie per difendere le verità supreme e assolute della nostra fede». Quanto basta per capire che dinanzi a me, che per il Corpo di Cristo sacrificherei la mia vita all’istante, è meglio abbozzare e stare zitti.

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È vero, sono un prete che ogni tanto dice parolacce e quel che è peggio le dico pure di proposito in modo calcolato e scientifico, però, quando a un anziano morente detti il viatico e lui rimase con l’Ostia sulla lingua a bocca aperta perché non riusciva a deglutirla, gliela tolsi e la consumai io. E chi mi conosce sa a quali livelli sia un igienista schizzinoso. È vero, sono un prete che ogni tanto dice parolacce e quel che è peggio le dico pure di proposito in modo calcolato e scientifico, però, quando un anziano diacono mi dette inavvertitamente una gomitata mentre avevo in mano il calice col Sangue di Cristo e una parte di liquido cadde, io mi inginocchiai e pulii il pavimento con la mia lingua sino all’ultima goccia. Pertanto ritengo di potermi permettere di dare all’occorrenza dei coglioni a quei vescovi che se lo meritano a pieno titolo per il modo in cui trattano e consentono che sia trattata la Santissima Eucaristia da certi loro preti, mostrando più attenzione a non urtare le ideologie anziché tutelare il Corpo di Cristo. Perché se decido di fare questo, o volendo persino peggio, tutta la Conferenza Episcopale Italiana può solo tacere, alla luce del mio vivere e agire sacerdotale frutto di una vocazione marcatamente e profondamente eucaristica. Perché il Preziosissimo Sangue di Cristo caduto sul pavimento io l’ho leccato all’istante con la mia lingua genuflesso a terra, ma il culo di un potente prepotente non l’ho mai leccato in vita mia, fosse persino l’augusto culo del Romano Pontefice, al quale sono tenuto a prestare filiale rispetto e devota obbedienza, ma non certo servizio di bidet, a quello ci pensa un fitto esercito di leccaculo in carriera con i pastorali di Mastro Geppetto in mano e la croce pettorale ricavata dal legno di una barca affondata al largo di Lampedusa.

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Pagheremo tanto, pagheremo tutto, con tanti e tali interessi inflitti dal castigo di Dio che saranno a tal punto elevati da lasciare senza parole persino i peggiori prestatori di soldi a strozzo. Perché noi abbiamo strozzato Dio che al momento opportuno ci farà sperimentare sulla nostra pelle di che cosa è capace un divino strozzino il giorno che a noi preti dirà:

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«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» [Lc 12, 48].

 

dall’Isola di Patmos, 8 gennaio 2023

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CASI RARI O CASI LIMITE? NO, CASI SEMPRE PIÙ FREQUENTI NELLE NOSTRE CHIESE

Non importa quel che accade dando la Comunione sulle mani senza attenzione a chiunque ci si ritrova davanti, l’importante è tutelare l’ideologia della Comunione in mano anziché il Corpo di Cristo. Soprattutto bisognerebbe chiedersi: quando questo evidente squinternato si è presentato dinanzi al prete, il buon pastore che gli ha messo in mano la Santissima Eucaristia, dove aveva gli occhi e l’attenzione? O doveva forse sbrigarsi a “tirare” velocemente  la Comunione in tutta fretta per dare poi 10 minuti di annunci parrocchiali, che come risaputo sono il fondamento primario dei misteri della nostra fede? Poco dopo il prete ha pure sporto denuncia. Domanda di rigore: e il prete, per la sua incuria e imprudenza verso la Santissima Eucaristia, a quale tribunale ecclesiastico è stato denunciato, dopo avere dato la Santa Comunione a un evidente provocatore e avergli pure detto «... magna … magna …»?

Pagheremo tanto, pagheremo tutto, i nostri vescovi in testa!  

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La Comunione di Giorgia Meloni e quell’ideologismo clericale sulla Comunione in mano anche nelle situazioni ad alto rischio che supera il valore stesso della tutela del Corpo di Cristo

LA COMUNIONE DI GIORGIA MELONI E QUELL’IDEOLOGISMO CLERICALE SULLA COMUNIONE IN MANO ANCHE NELLE SITUAZIONE AD ALTO RISCHIO CHE SUPERA IL VALORE STESSO DELLA TUTELA DEL CORPO DI CRISTO

È necessario che in certe grandi celebrazioni pontificie e non solo, sia amministrata la Santa Comunione a migliaia di persone, per di più sulle mani, là dove esercitare il controllo è impossibile e dove possono verificarsi veri e propri sacrilegi, che puntualmente si sono verificati e seguitano a verificarsi? 

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

 

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Tra le tante, durante la celebrazione esequiale di Benedetto XVI, non è passata inosservata la foto del nostro Primo ministro Giorgia Meloni che riceve la Santa Comunione dalle mani di un sacerdote. Qualcuno ha maliziosamente fatto notale che le simpatie politiche rischiano di mettere in secondo piano il Catechismo della Chiesa Cattolica, ma noi, qui su L’Isola di Patmos non abbiamo simpatie politiche perché teniamo alle persone e alla loro anima e sappiamo che per Dio non esistono anime di serie “a” o di serie “b”, tanto meno anime di destra o di sinistra ma tutte sono chiamate alla salvezza in Gesù Cristo, perché è per questo che Dio ha chiamato la Chiesa e un sacerdote dovrebbe preoccuparsi quotidianamente e primariamente di salvezza e di salute delle anime che gli sono state affidate, non di “altro”, ed è meglio stendere un velo pietoso e non aggiungere altro sulla natura e la modalità di questo “altro”.

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i sacrileghi risultati visibili della Comunione data in mano senza controllo per compiacere la clericale ideologia

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Visto il caso pubblico della Comunione alla Meloni, ci sarebbe tanto da dire e da obiettare da un punto di vista della dottrina e dell’insegnamento della Chiesa Cattolica ma credo che il punto ora non sia questo, se non per accendere sterili polemiche del tutto inutili e da evitare. A mio personale parere sarebbe certo opportuno dare una bella tirata d’orecchie alla Giorgia nazionale ― cosa pastoralmente doverosa per il bene della sua anima e per la tutela di molti cristiani che alle ultime elezioni hanno votato per lei ― che non ha avuto il minimo tentennamento a ricevere l’Eucaristia pur non potendola fare perché a tutt’oggi legata attraverso una convivenza a Andrea Giambruno. Ricordiamo che la convivenza è un legame affettivo non riconosciuto dalla Chiesa per due battezzati, il cui solo vincolo valido di unione è quello sacramentale del matrimonio, in cui Cristo stesso unisce i coniugi in uno. Al caso specifico del nostro Primo ministro si aggiunge purtroppo un’aggravante di non poco conto: entrambi, lei e il suo compagno, sono totalmente liberi da pregressi vincoli. Nessuno di loro ha contratto in precedenza un matrimonio che costituirebbe impedimento alla loro unione. Pertanto c’è proprio la manifesta volontà a non sposarsi e a vivere in uno stato di convivenza. Una situazione che merita tutto il dovuto rispetto per le libere e insindacabili scelte altrui, ma che niente ha però da spartire con quelle delle tante persone animate da profondi sentimenti cristiani, divorziati e in seguito sposati civilmente, che pur volendo vivere una situazione regolare non sono in grado di farlo, a meno che non vi siamo elementi tali da consentire al tribunale ecclesiastico di dichiarare invalido, quindi nullo, il loro precedente matrimonio.

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Mi auguro che qualche confratello sacerdote, magari amico della Meloni, le abbia fatto capire la responsabilità del proprio gesto pubblico, non tanto come rappresentante civile e laico dello Stato Italiano lì presente a rendere omaggio a un Pontefice defunto, ma soprattutto come persona che si definisce cristiana cattolica e che in più di una occasione ha voluto proporsi come custode dei valori tradizionali della fede. Salvo dare ripetute garanzie in campagna elettorale che nessuno avrebbe toccato in alcun modo la Legge sull’aborto, cosa ulteriormente garantita dalla cattolica Elisabetta Gardini a vari programmi televisivi nel periodo pre-elettorale [cfr. Vedere QUI, QUI]

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Nel passato recente, abbiamo avuto altri politici che hanno brandito rosari e immagini sacre a fini propagandistici e siamo sempre giunti alla farsa, con gran detrimento per la fede dei semplici e degli sprovveduti. Questo non perché a un politico sia vietato di testimoniare la propria fede e appartenenza religiosa in pubblico, ma perché quando lo si fa si deve tenere ben distinto il proprio ruolo di funzionario di uno Stato laico che ha determinati obblighi così come quello di persona di fede che ne ha altri e forse più gravosi e vincolanti perché rivolti a Dio e alla Chiesa che non sono certamente elettori.

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Ecco dunque il punto focale della questione: ma è mai possibile che nell’organizzazione delle celebrazioni della Santa Sede non sia previsto di limitare questi abusi e questi slanci di sentimentale trasporto, soprattutto nella sezione riservata ai politici e alle pubbliche autorità di cui è facile risalire alla condizione di vita e conoscerne il pensiero pubblico così da valutare l’opportunità o meno di far accedere queste persone ai Sacramenti? Se questo è possibile farlo in contesti più piccoli e meno organizzati, dobbiamo forse pensare che il braccio organizzativo e diplomatico della Santa Sede si sia così accorciato da essere a tal punto miope e non vedere certe situazioni? Non vogliamo e non possiamo crederlo.

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La realtà che più colpisce è quella di una organizzazione del cerimoniale fallace e dissipata. Se una reprimenda è necessaria, bisogna farla al cerimoniere di Sua Santità e agli altri cerimonieri preposti all’ordine e al decoro della celebrazione, che non si sono organizzati per prevenire certi illeciti che, sebbene non devono essere usati per formulare un giudizio sprezzante e offensivo sulla persona, devono essere assolutamente e con tutti i mezzi evitati in virtù della loro sacralità che può portare facilmente allo scandalo — nel senso di inciampo per la fede — e alla mortificazione dei misteri celebrati.

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Ricordo molto bene che ai funerali di Giovanni Paolo II, al momento della Comunione, venne dato chiaro l’avviso ― doveroso visto l’affluire di persone di diverse derivazioni da tutte le parti del mondo ― che all’Eucaristia si accostava solo chi era nelle condizioni richieste dalla Chiesa per poterla ricevere, così da evitare l’equivalenza che il Corpo del Signore ha lo stesso valore e importanza di un abbraccio consolatorio, di un gesto di solidarietà nel momento del bisogno o peggio di un trasporto sentimental-passionale in cui io “mi sento di fare la Comunione” per un non meglio precisato motivo.

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Il problema da sempre discusso è anche un altro: è necessario che in certe grandi celebrazioni pontificie e non solo, sia amministrata la Santa Comunione a migliaia di persone, per di più sulle mani, là dove esercitare il controllo è impossibile e dove possono verificarsi veri e propri sacrilegi, che puntualmente si sono verificati e seguitano a verificarsi? A certe grandi e affollate celebrazioni, non sarebbe meglio selezionare un gruppetto di fedeli che ricevono la Santa Comunione, per esempio dal Sommo Pontefice o dal Vescovo, mentre altre migliaia di fedeli si uniscono a loro in comunione spirituale? O vogliamo dimenticare quando nel 2005, poco dopo la morte di Giovanni Paolo II, fu messa all’asta su EBay un’Ostia ricevuta da un partecipante non cattolico a una Santa Messa da lui celebrata nel 1988? Il problema fu risolto dalla Diocesi Statunitense di Sioux City che riuscì a ritirarla. Ma c’è di molto peggio: il cosiddetto “artista” spagnolo Abel Azcona sottrasse 242 Ostie presentandosi a ricevere la Santa Comunione, ovviamente data sulle mani, usandole poi per comporre a terra la parola «pederastia» che in lingua spagnola significa pedofilia. Eppure nemmeno casi di questo genere hanno mai dissuaso gli ideologi clericali della Comunione in mano a tutti i costi, in qualsiasi situazione anche ad alto rischio. Per intima conoscenza del soggetto in questione aggiungo: è ragionevole dare torto al nostro confratello Ariel S. Levi di Gualdo che da sempre si rifiuta di dare la comunione sulle mani a chicchessia, dopo essere incorso in un tentativo di sottrazione proprio durante la celebrazione della sua prima Santa Messa? C’è un filmato che lo documenta nel quale si vede Padre Ariel che con la pisside in mano rincorre una donna e le toglie l’Ostia dalla borsa nella quale l’aveva riposta. Qualcuno ha idea del trauma incancellabile che comporta per un sacerdote avere dato l’Eucaristia a una persona che ha tentato di sottrarla, per di più durante la celebrazione della sua prima Santa Messa? Vogliamo dare la Comunione sulle mani? Bene, ma che almeno si imponga di controllare con estrema attenzione. Non è possibile che molti sacerdoti mettano la Santissima Eucaristia sulle mani di persone sconosciute senza esercitare alcun controllo. Quante persone, anziché consumarla dinanzi al sacerdote come si dovrebbe, voltano le spalle o se ne vanno nella totale incuria del celebrante, o la consumano passeggiando per chiesa senza che alcuno le richiami? Sono scene all’ordine del giorno. Però è risaputo quanto l’ideologia clericale superi di gran lunga il valore stesso del Corpo di Cristo e la massima tutela che esso dovrebbe richiedere.

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Se queste cose non si bonificano alla fonte, difficilmente a valle ci sarà qualcuno che ne custodirà e apprezzerà il valore così da farle rispettare. E tra le febbri politiche che attendono di cogliere in fallo il piede dell’avversario che sbaglia e i tradizionalisti puritani d’assalto che gridano al peccato e minacciano l’inferno, in mezzo ci sarà sempre lo scappato di casa che seraficamente ci ricorderà: «chi sono io per giudicare?». Forse noi non siamo nessuno, ma da sacerdoti e custodi dei misteri di Dio che ci sono stati affidati con l’imposizione delle mani, vogliamo con tutto noi stessi evitare che le cose sante vengano date ai cani, così come le perle ai porci [Cfr. Mt 7,6]. Non si tratta di razzismo spirituale ma di carità pastorale che desidera tutelare primariamente coloro che ancora devono crescere nella conoscenza di Dio e nell’annuncio di salvezza dentro un cammino di fede ecclesiale graduale e maturo. Non possiamo permetterci di sprecare le grazie di Dio, e questo vale anche per coloro che ancora non sono in grado di apprezzarle per crescere nella giusta conoscenza di Lui e non già per aumentare il proprio narcisistico e patologico senso religioso. Forse sprechiamo tempo ma è utile richiamare la prima lettera ai Corinzi del Beato Apostolo Paolo [Cfr. 1Cor 11,17-34] in cui si sottolinea la modalità corretta con cui il fedele è chiamato ad accostarsi al Corpo del Signore, non solo inteso nella sua componente sacramentale ma ecclesiale, perché è l’Eucaristia che fa la Chiesa, Corpo del Signore. In poche righe «Paolo ci educa ad avere questo sguardo di responsabilità su ambedue questi “Corpi” comunicando al rito instaurato da Cristo, si dà forma e coesione anche alla comunione ecclesiale» [Cfr. B. Standaert, Lettere di San Paolo, introduzione, traduzione e commento, San Paolo, 2021].  

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Non pretendiamo che in Vaticano capiscano questo concetto teologico paolino ma almeno non sarebbe male avere un po’ di rispettosa decenza verso tutti quei fratelli che per la loro condizione irregolare non possono ancora accedere pienamente alla Santa Comunione e che osservano rispettosi il digiuno verso le sacre specie del Signore manifestando così una testimonianza eroica di amore alla Chiesa Corpo di Cristo.

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Queste Comunioni non fatte, più di tutte quelle fatte con l’inganno o con il sentimentale trasporto occasionale, oggi più che mai sono come un dito puntato verso noi sacerdoti che da tempo abbiamo abdicato al ruolo di padri nella fede per diventare amici che tutto permettono, scusano e concedono. Anche a noi sacerdoti, che ci comunichiamo a ogni Santa Messa, qualcuno dovrebbe farci riflettere, sapere se siamo veramente in grazia per poter ricevere quel Corpo sacramentale che consacriamo quotidianamente quando forse siamo ancora totalmente incapaci di custodire, far crescere e difendere quel Corpo ecclesiale che è ugualmente segno di Cristo nel mondo e comunione con Lui.

Laconi, 8 gennaio 2023

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Quando Gesù fu battezzato da suo cugino sulle rive del fiume Giordano

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUANDO GESÙ FU BATTEZZATO DA SUO CUGINO SULLE RIVE DEL FIUME GIORDANO

Quel battesimo non è quello sacramentale che noi abbiamo ricevuto. Quello del Battista era un bagno rituale di purificazione in uso tutt’oggi nella tradizione ebraica.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari fratelli e sorelle,

nella nostra vita tutti quanti siamo in cerca di giustizia. Una giustizia per un torto subìto, per una persona che amiamo rimasta colpita da un’ingiustizia, per varie situazioni sociali e via dicendo. Cercare giustizia implica cercare che ognuno abbia ciò che gli è dovuto, secondo la classica definizione di giustizia offerta dal giurista Ulpiano nel Digesto. La festa del battesimo del Signore è la festa della giustizia dell’uomo che riceve l’amore di Dio. Una volta ricevuto questo amore, lo porta agli altri.

Nel brano del Vangelo di oggi Gesù si avvicina al Battista per essere battezzato. Giovanni rifiuta. Gesù allora risponde con quello che è il centro di questa solennità:

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«”Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. Allora egli lo lasciò fare».

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Adempiere ogni giustizia vuol dire per Gesù farsi battezzare. Chiariamo: quel battesimo non è quello sacramentale che noi abbiamo ricevuto. Quello del Battista, fratello del Signore (ossia suo cugino, ma in ebraico i cugini sono indicato come fratelli), era un bagno rituale di purificazione, il cosiddetto מקווה (mikveh) in uso tutt’oggi nella tradizione ebraica. Gesù non ha il peccato originale da lavare attraverso quel Sacramento del Battesimo da lui stesso istituito [cfr. Mt 28,19-20]. Quel mikveh lo chiede proprio per rendere giustizia alla volontà di Dio Padre. Perché la missione di salvezza dell’uomo per cui il Padre lo ha mandato sia il centro di tutto.

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Gesù battezzandosi compie un atto di giustizia: dà al Padre ciò che gli è dovuto. Così subito dopo si spalancano i cieli. Ed ecco la voce del Padre e lo Spirito Santo si rendono visibili. Tutta la Trinità è presente. Il Padre dice che Gesù è suo Figlio e in quel Figlio ha posto il suo compiacimento. Da quel momento prendono inizio i tre anni di predicazione di Gesù e i suoi miracoli di guarigione.

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Dalla giustizia del Padre Gesù attinge grazia e forza per esprimere la verità di Dio in parole e segni. Tutto questo lo porterà ad accogliere anche i terribili giorni della Passione e la gloriosa resurrezione. Dio Padre e tutta la Trinità offrono questa possibilità anche a noi.

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Il Battesimo del Signore è una buona occasione per fare memoria anche del nostro Battesimo sacramentale, quando il Signore lavò il peccato originale e il nostro legame col male. Da quel momento noi siamo stati adottati anche dalla Trinità. Siamo diventati figli dell’Eterno Padre in Gesù Cristo. Siamo diventati Figli nel Figlio. Perciò, se responsabilmente e con libertà rispondiamo alla chiamata di essere figli e accettiamo la sua grazia, Dio pone anche su di noi il suo compiacimento.

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Che vuol dire questo in concreto? Anzitutto che da quando siamo stati concepiti Dio ha iniziato ad amarci di un amore viscerale e profondo. Questo amore ci ha accompagnato per tutta la nostra vita fino a oggi. Un amore che è, contemporaneamente, materno e paterno. Perchè Dio è Padre, e in quanto padre ci dona il Figlio e sin dall’inizio ci dona il desiderio di conoscere e cercare la verità, perchè Gesù è la verità. E al contempo ci dona lo Spirito Santo Amore. Che è la parte materna di Dio. Da qui l’espressione del Beato Pontefice Giovanni Paolo I che, lasciando un po’ perplessi alcuni, durante una sua catechesi disse «Dio è padre e madre» [cfr. Angelus, 10.09.1978] sottintendendo a questo modo che nel tutto sono racchiuse sia la paternità sia la maternità.

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Cerchiamo di portare questa conoscenza della verità a tutto il mondo tramite la tenerezza e gentilezza. Così trasformeremo il nostro battesimo da atto sacramentale ad atto di amore concreto per il prossimo. Scriveva lo storico Cesare Cantù: «La carità è il solo tesoro che si aumenta col dividerlo». Chiediamo al Signore, oggi, di fare memoria del nostro battesimo, per riscoprire di essere amati incondizionatamente da sempre e per

sempre.

Così sia.

 

Santa Maria Novella in Firenze, 6 gennaio 2023

Epifania del Signore

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Ho portato L’Isola di Patmos al funerale di Benedetto XVI tra nebbia e vecchi ricordi indelebili

HO PORTATO L’ISOLA DI PATMOS AI FUNERALI DI BENEDETTO XVI TRA NEBBIA E VECCHI RICORDI INDELEBILI

Non avrei mai immaginato che il pontificato di Benedetto XVI sarebbe stato liquidato con una Santa Messa esequiale della durata di un’ora e un’omelia di cinque minuti nel corso della quale non è stato detto niente. Cosa lamentata da molti preti presenti in piazza al termine della celebrazione. Ma d’altronde è oggi noto e risaputo: a noi preti chi ci ascolta?

— Attualità ecclesiale —

Autore
Simone Pifizzi

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Nel 2005, al funerale di Giovanni Paolo II tirava un forte vento che alla fine della celebrazione chiuse il Libro del Santo Vangelo deposto aperto sopra la bara. A quello di Benedetto XVI, celebrato questa mattina c’era una nebbia che impediva di vedere la cupola di San Pietro, mentre in altre zone della Capitale c’era il sole. Al prossimo funerale, quando sarà, quale altro segno ci sarà riservato, anche se oggi pare si sia perduta la capacità di leggere i segni?

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Bene ha fatto Padre Ariel a “riesumare” dall’archivio della nostra Isola di Patmos un vecchio articolo del 2017 in cui parlava con anni di anticipo del funerale di Benedetto XVI [vedere articolo QUI], preceduto da un commento molto profondo e lucido del nostro Padre Ivano [vedere articolo QUI].

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Conobbi nel 1993 colui che nel 2005 diverrà il 265° successore del Beato Apostolo Pietro, il Cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Fu invitato a Firenze dall’allora Arcivescovo, il Cardinale Silvano Piovanelli, che lo fece alloggiare in seminario, come si era soliti fare. A me e a un altro confratello il rettore del seminario chiese di occuparci di lui e di servirlo per tutte le sue necessità. Lascio immaginare il nostro timore e tremore, trovandoci dinanzi al Prefetto di quel dicastero, tanto più un teologo come lui. Con nostro stupore incontrammo e ci potemmo intrattenere con una persona molto amabile e gradevole.

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Quando gli dicemmo che eravamo a sua completa disposizione, in modo sornione e simpatico rispose: «Ma se voi non dovevate stare vicino a me, che cosa avreste fatto? Che cosa fate di solito in questi momenti e in queste fasce di orario?». Rispondemmo che in quei momenti eravamo dediti allo studio. Ci rispose: «Allora sarà bene che studiate e che vi prepariate nel migliore dei modi al vostro ministero, anziché stare dietro a me».

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Mostrò molta cura per noi in quei giorni, soprattutto quando celebrò la Santa Messa nella cappella del seminario, manifestando nella sua sobrietà una sacrale profondità liturgica, donandoci delle omelie che furono delle profonde catechesi.

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Altro ricordo fu quando nel 2006 portai i giovani in udienza durante il suo primo anno di pontificato. I ragazzi avevano sempre vivo il ricordo del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, sotto il pontificato del quale erano nati e cresciuti. Una personalità istrionica e avvolgente, dinanzi alla quale Benedetto XVI appariva inizialmente un timido introverso. Per non parlare dell’accanimento scatenato su di lui dai mezzi di comunicazione di massa. Così, colti i loro dubbi e perplessità, rivolsi questo invito: «Fate un minimo sforzo: ascoltate quel che dirà nel corso dell’udienza, poi ne riparleremo». E come suo stile Benedetto XVI riuscì a parlare di temi molto profondi con una semplicità straordinaria, rapendo da subito la loro attenzione e conquistandone l’interesse. Ritornai a Firenze con dei giovani entusiasti per avere partecipato a quell’udienza, che svilupparono da quel giorno a seguire grande affetto e un profondo legame verso la figura di Benedetto XVI.

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Diversi di quei giovani, nei giorni a seguire, mi confidarono che su Benedetto XVI erano stati costruiti degli stereotipi non veri e soprattutto ingenerosi. Come dimenticare il titolo a tutta pagina di un quotidiano che il giorno dopo la sua elezione titolò: Il pastore tedesco?

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Portai nuovamente in udienza i giovani anni dopo, durante il suo ultimo anno di pontificato, poco prima dell’atto di rinuncia all’esercizio del ministero petrino. Anche quella fu una giornata di intense emozioni che li colpì molto. Gli stessi che abbiamo visto in grande numero sfilare dinanzi al feretro di Benedetto XVI esposto ai fedeli nella Papale Arcibasilica di San Pietro, dove sono state calcolate 200.000 persone affluite in tre giorni. Il tutto a conferma di quella verità taciuta per anni dalla stampa nazionale e internazionale che da subito gli ha dichiarato guerra sin dalla sua elezione: Benedetto XVI è stato molto amato dai giovani. Se infatti stiamo assistendo da un decennio a un calo vertiginoso e drammatico delle vocazioni alla vita sacerdotale, nei primi anni di pontificato di Benedetto XVI le vocazioni erano in aumento. E questo non lo dico certo io, ma i numeri, la storia. Soprattutto lo dicono i nostri seminari sempre più vuoti. Anche perché, se il modello di prete oggi proposto è quello dell’attivista, tanto vale iscriversi alla facoltà di sociologia a fare poi l’assistente sociale. E vogliamo parlare degli abbandoni del sacerdozio? Era dagli anni Settanta che non si registravano numeri così elevati di richieste di dispensa dall’esercizio del sacro ministero sacerdotale, molte delle quali avanzate da sacerdoti in crisi profonda, con venti o trent’anni di ministero sulle spalle. Tema questo sul quale alcuni vescovi-sociali dovrebbero chiedere lumi a Padre Ariel, che da 12 anni si dedica alla cura e all’assistenza di sacerdoti in difficoltà.

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L’ultimo ricordo che conservo risale all’11 febbraio del 2017, quando andai con il Cardinale Ernest Simoni in visita privata al monastero Mater Ecclesiae. Il Santo Padre volle incontrarci e intrattenersi con noi prima della Santa Messa, mostrando per tutti lo stesso affetto: per un anziano ed eroico Cardinale come Ernst Simoni, che aveva trascorso 27 anni della sua vita nelle carceri comuniste dell’Albania, ed allo stesso modo per me, che pure non ho vissuto con eroismo certe forme di martirio bianco.

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La cosa che mi colpì e mi commosse, fu che Benedetto XVI riconobbe in questo prete, ormai avanti negli anni di ministero sacerdotale, il seminarista incontrato da Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede nel Seminario Arcivescovile di Firenze. Di quella visita si ricordava veramente tutto.

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Dopo questo incontro privato concelebrammo l’Eucaristia da lui presieduta nella Cappella del Monastero Mater Ecclesiae. Di quella Santa Messa ho già reso testimonianza su queste nostre colonne lo scorso anno [vedere articolo QUI], precisando che nel canone Benedetto XVI pronunciò la frase: «… una cum famulo tuo Papa nostro Francisco». Testimonianza che non è però servita agli ideatori di codici criptici, anfibologie e, soprattutto, a chi purtroppo segue certi squinternati che hanno data vita al mondo dell’irreale [vedere precedenti articoli QUI, QUI].

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Dopo la Santa Messa ci fu un incontro fraterno molto prolungato, nel corso del quale gli offrimmo alcuni doni della Chiesa di Firenze. Prima del termine di quell’incontro il Santo Padre mi regalò il suo zucchetto, che chiaramente io conservo come una preziosa memoria di questo Pontefice, che nonostante certi suoi limiti umani e di governo, considero un grande pontefice per il suo magistero, per le sue catechesi e per la sua indimenticabile omiletica. 

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Questa mattina ho partecipato alle esequie funebri in una Piazza San Pietro gremita di gente come non si vedeva da molti anni. Piazza che potremmo rischiare ― se Padre Ariel ci avesse azzeccato anche questa volta ― di non rivedere più così. Erano presenti circa centomila persone e quasi 4.000 sacerdoti concelebranti. Ciò che più mi ha colpito è stata la presenza di tanti giovani, come documentano le immagini.

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Non posso omettere una nota finale, triste ma veritiera, sulla quale non intendo però soffermarmi: non avrei mai immaginato che il pontificato di Benedetto XVI sarebbe stato liquidato con una Santa Messa esequiale della durata di un’ora e una omelia di cinque minuti nel corso della quale non è stato detto niente. Cosa lamentata da molti preti presenti in piazza al termine della celebrazione. Ma d’altronde è noto e risaputo: a noi preti chi ci ascolta? Quando si è impegnati ad ascoltare tutto, specie ciò che non è cattolico, si può essere privi del tempo necessario per ascoltare gli operai che lavorano nella vigna del Signore.

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In certe occasioni bisogna stendere però un velo pietoso, o forse persino una trapunta di lana pesante con il suono della pietra tombale che cala.

Roma, 5 gennaio 2023

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RICORDI

11 febbraio 2017: il Santo Padre Benedetto XVI con il Cardinale Ernest Simoni e il presbitero fiorentino Simone Pifizzi

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