I colori liturgici non sono giochi di arcobaleni ideologici, ma segni visibili dei sacri misteri che celebriamo

I COLORI LITURGICI NON SONO GIOCHI DI ARCOBALENI IDEOLOGICI, MA SEGNI VISIBILI DEI SACRI MISTERI CHE CELEBRIAMO

La sciatteria, come la vanità, sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.

— Pastorale liturgica —

Autore
Simone Pifizzi

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Quando i presbiteri sono consacrati sacerdoti il Vescovo rivolge un monito che dovrebbe segnare la nostra intera esistenza: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore» [Cfr. Liturgia della sacra ordinazione dei presbiteri, n. 150].

Il sacerdozio è legato a una dimensione di eternità, perché sacerdoti lo saremo in eterno. Il carattere indelebile dell’Ordine Sacro conferisce una dignità che ci rende superiori persino agli Angeli di Dio, che dinanzi ai sacerdoti si pongono di lato. A illustrarlo in modo magistrale è il nostro confratello Marcello Stanzione, considerato uno dei massimi esperti europei di Angeli e al cui articolo vi rimando [vedere QUI].

La sacra liturgia è fatta di segni e simboli che non sono certo fini a sé stessi, perché costituiscono quegli “accidenti esterni” o “segni esteriori” attraverso i quali si concreta e prende forma la sostanza. Un esempio, anzi direi l’esempio più eclatante: la Santissima Eucaristia, mistero del Corpo e Sangue di Cristo e sua presenza reale tra di noi, si realizza attraverso la materia e il segno esterno del pane e del vino che divengono realmente e sostanzialmente Cristo vivo e vero.

Nella sacra liturgia ogni segno e gesto, persino i silenzi hanno un loro significato teologico e mistagogico. Di “silenzi liturgici” ne sono previsti tre dal rito della Santa Messa: durante l’atto penitenziale, dopo che il celebrante ha detto: «Prima di celebrare degnamente questi santi misteri riconosciamo i nostri peccati». Poi dopo la proclamazione del Santo Vangelo, se non c’è l’omelia, oppure dopo l’omelia. Infine, dopo la Santa Comunione. Momenti di silenzio che sarebbe bene rispettare e non omettere, cosa che per inciso i Vescovi farebbero bene a ricordare a quei loro preti che in 15 minuti scarsi celebrano la Santa Messa feriale, forse dimenticando di avere recitato sin dall’inizio la frase «…prima di celebrare degnamente…». Parola, quella di “dignità”, che dovrebbe avere un grande peso, specie nella celebrazione dei «sacri misteri».

Tra questi segni vi sono anche le vesti liturgiche che ― come ogni segno ― talvolta rischiano di oscurare anziché rivelare la realtà a cui sono riferite. Non possiamo infatti nascondere il rischio che nel nostro contesto culturale alcune vesti liturgiche, per la loro leziosità e ricercatezza, possano offuscare la gloria di Dio ed essere semplicemente considerate come l’esibizione di una umana vanità. Ma è deprecabile altresì quella inqualificabile sciatteria ― oggi considerata povertà e semplicità, ma che invece andrebbe chiamata col suo nome: sciatteria! ― che non solo stravolge il segno liturgico (pensiamo alle varie casule e stole arcobaleno) ma addirittura, talvolta, lo rimuove del tutto con un arbitrio che a nessun ministro di Dio è consentito.

La sciatteria, come la vanità, sono entrambe malattie che distruggono il segno liturgico, che per sua natura ― per essere veramente “bello” ― necessita di verità e di semplicità. Non è certo eliminando i segni che si arriva a una liturgia più “bella” e coinvolgente o a una non meglio precisata “liturgia delle origini”, ma spiegandone il loro profondo significato.

La veste liturgica, rispetto ad altri segni, ha un’importanza molto relativa. N’è prova che per almeno i primi quattro secoli della vita della Chiesa le fonti non riportano che i ministri ordinati indossassero vesti particolari durante le celebrazioni, convinti che era essenzialmente importante essere “rivestiti di Cristo” [cfr. Gal 3, 26]. Il Papa Celestino I, nel V secolo, si lamentava con alcuni vescovi della Gallia del Sud perché alcuni preti avevano cominciato a usare vistosi abiti per la liturgia, e così concludeva:

«Dobbiamo distinguerci dagli altri per la dottrina, non per il vestito; per la condotta, non per l’abito; per la purezza della mente, non per l’ornamento esteriore» (cfr. Celestino I, Lettera, PL 50, 431).

Meriterebbe anche spiegare come e perché, durante i primi secoli, simboli e vesti dell’antica paganitas romana confluirono nella primitiva liturgia cristiana a partire dagli inizi del IV secolo. Si tratta di segni esteriori ai quali fu data una profonda valenza cristiana. La struttura di certi riti è più antica ancora, per esempio quelli d’offertorio della Santa Messa affondano le loro radici nelle antiche liturgie offertoriali fatte dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme. Si tratta però di argomenti complessi legati alla storia della liturgia che tratteremo specificamente in altro articolo.

Pur nella consapevolezza ben espressa dall’antico detto popolare “l’abito non fa il monaco”, che la veste liturgica, come tutti i segni esteriori, abbia un’importanza secondaria nel culto cristiano, questo non può certo indurre a ignorare che essa appartiene a quel complesso di segni convenzionali di cui l’umanità fin dal principio ha fatto uso per esprimere il pensiero, lo stile di vita, le idee e il ruolo di una persona. L’abito, che lo si voglia o no, lancia sempre un messaggio ed esprime qualcosa del ruolo, dell’identità e della missione di una persona. E proprio partendo da quest’ultimo concetto possiamo individuare uno dei principali significati delle vesti liturgiche intese come segno di un mandato e di una missione non certo accaparrata, bensì ricevuta dal Signore. E se rimane profondamente vero per ogni battezzato che il Signore Gesù ci invita a un culto in spirito e verità [cfr. Gv 4, 24], lo è altrettanto il fatto che noi ― che viviamo nel regime dei segni e vediamo le realtà invisibili “come in uno specchio” [cfr. ICor 13,12] ― abbiamo bisogno di questi segni per poter esprimere un culto che non sia teorico, disincantato, ma che sappia raccogliere tutto quanto è profondamente umano per esprimere al massimo ciò che intende comunicare.

La veste liturgica, come tutte le espressioni umane non esenti da quella corruzione che affonda le sue radici nel cuore dell’uomo, dovrà sempre “fare i conti” tra il significato “alto” che vuole esprimere e quelle deviazioni rappresentate dalla sciatteria, dalla vanità e dal potere. I paramenti dei ministri ordinati, come tutti gli abiti rituali dei ministeri istituiti e dei laici (e in questo ci metterei anche alcuni abiti per i matrimoni e per le prime Comunioni) hanno il compito simbolico di esprimere una realtà interiore e un servizio ecclesiale in modo semplice e chiaro, e non per questo in contrasto con la bellezza e il decoro, perché la bellezza e la dignità difficilmente non portano anche al vero. Il tutto sempre evitando che si trasformino in elementi che ostacolano la comprensione corretta del messaggio di cui la liturgia è portatrice, o che stravolgano addirittura l’essenza stessa della sacra liturgia.

Nel complesso dei segni e dei simboli di cui la liturgia vive e si nutre, le vesti liturgiche abbiamo detto hanno un valore secondario. A maggior ragione questo discorso vale per i colori che sono entrati nell’uso liturgico sia per le vesti che per gli altri addobbi. Tuttavia essi sono presenti nella liturgia e non di rado suscitano nei fedeli delle curiosità e degli interrogativi a cui occorre dare una risposta seria e precisa, ricordando che nel culto cristiano ― in modo particolare a partire dalla riforma del Concilio Vaticano II ― niente deve risultare semplicemente decorativo o superfluo o peggio ancora relegato a pura forma esteriore, al contrario: tutto deve avere un significato teologico e mistagogico.

Tralasciando i complessi dettagli storici, perlomeno in questo nostro contesto, voglio ricordare che nella liturgia i colori, in quanto simboli, sono entrati piuttosto tardivamente. Per ben sette secoli i colori non hanno avuto una particolare importanza nel culto cristiano. Sicuramente ― e sono le fonti sia scritte che iconografiche che ce lo confermano ― vi era un uso predominante del bianco, considerato sempre nella cultura mediterranea il colore della festa e delle grandi occasioni. Parlando della veste bianca battesimale il Santo dottore della Chiesa Ambrogio da Milano ricordava ai neo battezzati:

«Hai quindi ricevuto delle bianche vesti per dimostrare che tu hai abbandonato l’involucro del peccato e ti sei rivestito dei puri abiti dell’innocenza come ha detto il profeta: purificami con issopo e sarò mondato: lavami e sarò più bianco della neve» [Sant’Ambrogio, Sui misteri, VII, 34].

Nel corso dei secoli si codifica pian piano ciò che riguarda la foggia e la preziosità delle vesti liturgiche, soprattutto nella liturgia bizantina. Ma per trovare un’accentuazione della sensibilità al linguaggio dei colori dobbiamo aspettare il Medioevo, in un contesto in cui, ciò che non viene più compreso dal popolo attraverso la lingua latina e il significato dei riti, è reso attraverso il linguaggio visivo. Non a caso, il Medioevo, ha rappresentato quel felice periodo in cui segni, simboli, gesti o silenzi parlavano in modo eloquente, ma soprattutto erano carichi del tutto di profondi significati teologici e spirituali. Con Papa Innocenzo III [†1216] si hanno ― a proposito dei colori ― le prime direttive comuni che pian piano si impongono ovunque, venendo infine codificate con il Messale di San Pio V nel 1570, dove sono stabilite le vesti bianche, verdi, rosse, viola e nere a seconda delle celebrazioni: appare anche l’uso del colore rosa nella III domenica d’Avvento e nella IV domenica di Quaresima, anche detta Dominica Laetare, quando si interrompeva il rigido digiuno.

La riforma attuata dal Concilio Vaticano II non ha soppresso la normativa riguardo ai colori liturgici, considerandola però nel più vasto contesto di quei segni che devono essere «chiari, adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno di molte spiegazioni» [cfr. Sacrosanctum Concilium, 34]. In base a questo principio è data alle varie conferenze episcopali nazionali la libertà di determinare e usare liberamente i colori liturgici secondo la cultura dei singoli popoli [cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 346].

Le norme attuali prevedono per il rito romano e la nostra area occidentale l’uso di questi colori:

BIANCO: è il colore della luce, della purezza e della gioia. Si usa in tutte le Solennità e feste del Signore (eccetto quelle della Passione), per le feste della Vergine Maria, degli Angeli, dei Santi non martiri. È usato anche per amministrare i Sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.

ROSSO: colore del fuoco e del sangue, simbolo dell’Amore/ Carità, del dono, del sacrificio, del martirio. È usato la Settimana Santa per la Domenica delle Palme e per il Venerdì Santo, il giorno di Pentecoste, per le feste degli Apostoli, dei Santi Martiri, per la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, così come nelle Messe votive al Preziosissimo Sangue di Gesù. Può essere usato anche per la Messa del Sacramento della Cresima.

VERDE: nella nostra cultura è un colore riposante che esprime la normalità, cammino tenace e permanente della speranza. È usato nelle celebrazioni feriali e domenicali del Tempo Ordinario.

VIOLA: Inizialmente usato come variante del nero, nel corso del tempo è diventato colore a sé stante. Colore solenne e grave, esprime contemporaneamente la fatica e la speranza. È usato nei tempi di Avvento e Quaresima ed esprime penitenza e preparazione alla venuta di Cristo. Viene usato anche nelle celebrazioni dei defunti al posto del colore nero, il cui uso rimane opzionale, poiché nella nostra cultura esprime meglio la speranza cristiana che pure è presente di fronte al mistero della morte.

ROSACEO: Concepito come una variazione del viola, segna due pause che la Chiesa fa durante i tempi di penitenza. È usato due volte l’anno, la terza domenica di Avvento, detta Dominica Gaudete e la quarta domenica di Quaresima detta Dominica Laetare.

Oltre a questi, nelle diverse “famiglie” liturgiche esistono e vengono usati nelle sacre celebrazioni anche altri colori:

ORO: Simboleggiando la luce divina l’oro o il giallo possono essere utilizzati per sostituire qualsiasi colore tranne il viola.

NERO: Generalmente considerato in rapporto alle celebrazioni dei defunti, nel Medioevo era usato per indicare i tempi penitenziali. Dal Concilio di Trento fu usato anche per il Venerdì Santo.

AZZURRO: è associato al dogma mariano e può quindi essere usato solo durante le celebrazioni legate alla Beata Vergine Maria, come l’Assunzione o l’Immacolata Concezione. Unico colore che rappresenta un vero privilegio liturgico, il suo uso fu autorizzato dal Concilio di Trento solo in Portogallo, in Spagna, negli ex territori di questi due Paesi, nell’ex regno di Baviera, in certe chiese di Napoli e infine nell’Ordine Francescano considerato storicamente e teologicamente meritevole di avere difeso il dogma mariano. Questo privilegio vale ancora oggi.

I colori liturgici, al di là del loro uso e significato, servono a comunicare il messaggio che, secondo le diverse celebrazioni, può essere di festa, di speranza, di conversione, di solidarietà nel dolore… Tutto questo certamente non è sufficiente come elemento fine a sé stesso, se non è accompagnato dallo scopo fondamentale di ogni cristiano ― specialmente se ministro ordinato ― e di ogni comunità di discepoli del Signore, ovvero: vivere il Vangelo!

Per non rendere paramenti, colori o altri simboli e segni liturgici niente più che espressioni di folclore, stranezza o semplice vanità, occorre che essi diventino “epifania” del mistero di salvezza che trova la sua radice unica e profonda nell’incontro vitale e vivificante con Gesù, Verbo incarnato, Eterno Sacerdote della Nuova Alleanza. Perché tutto, nella sacra liturgia, manifesta ed esprime il mistero del Verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo. Per questo l’assemblea liturgica acclama sul vivo corpo e sangue di Cristo: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». Questo è il cuore della sacra liturgia.

 

Firenze, 26 gennaio 2023

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