Sono un teologo custode della tradizione in linea con il pensiero del teologo Andrea Grillo, me lo impone l’onestà intellettuale

—  Pastorale liturgica —

SONO UN TEOLOGO CUSTODE DELLA TRADIZIONE IN LINEA CON IL PENSIERO DEL TEOLOGO ANDREA GRILLO, ME LO IMPONE L’ONESTÀ INTELLETTUALE

I tradizionalisti onirico-estetici sono di fondo malati patologici dinanzi ai quali si potrebbe prendere un neonato e sgozzarlo nel fonte battesimale durante il santo rito della iniziazione alla vita cristiana, però, se il Santo Battesimo è celebrato in lingua latina con l’antico rito, potete stare certi che ci passeranno sopra, o comunque troveranno in ogni caso sempre delle giustificazioni, per quanto assurde e irrazionali, sempre.  

 

 

PDF   articolo formato stampa

 

.

Un anno e mezzo fa ha creato malumore e sconcerto la Lettera Apostolica Traditionis custodes data in forma di motu proprio dal Sommo Pontefice Francesco il 16 luglio 2021 circa l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, che di fatto crea delle comprensibili e opportune restrizioni al Motu Proprio dato il 7 luglio 2007 dal Sommo Pontefice Benedetto XVI sull’uso del Messale Romano di San Pio V prima della riforma delineata dalla Sacrosanctum Concilium il 4 dicembre 1963.

Su questo tema è intervenuto il teologo sacramentario Andrea Grillo con un suo articolo del 24 febbraio 2022 nel quale si domanda: È legittimo creare stabili riserve indiane dell’anti-concilio? Articolo che per quanto mi riguarda ho accolto e giudicato equilibrato e anche lungimirante.

 

il teologo sacramentario Andrea Grillo

 

Sui cosiddetti e impropriamente detti tradizionalisti preferirei sorvolare, è però necessario rendere l’idea del loro status psicologico con alcuni esempi mirati a chiarire di che cosa si parla, ma soprattutto quanto irrazionale ed emotivo sia il loro approccio con la sacra liturgia. Proviamo quindi a formulare delle precise domande: i membri dei Francescani dell’Immacolata non avevano forse generato, all’interno di quella loro giovane e confusa congregazione religiosa, delle forme di vero e proprio caos giuridico? Non sono forse risultati tutt’altro che sporadici, bensì purtroppo numerosi, i casi registrati di giovani religiosi che dai loro austeri conventi sono usciti per finire sotto cure psichiatriche, dopo essere stati non tanto mal formati, ma proprio deformati sul piano umano e spirituale? Alla prova dei fatti, non hanno forse dimostrato, con inaudita arroganza, di essere una congregazione nata ieri, riconosciuta dalla Santa Sede appena nel 1990, che pur non avendo fatto in tempo a formare nemmeno una generazione di teologi, per non dire una scuola teologica, si sono messi a promuovere convegni internazionali contro i massimi esponenti della Nouvelle Théologie, che possono essere sì criticati, ma dai Domenicani o dai Francescani, che nel corso di otto secoli hanno dato vita a importanti correnti di pensiero teologico e donato alla Chiesa scuole teologiche e diversi grandi Santi e dottori della Chiesa? Con il loro alquanto confuso Padre Serafino Lanzetta, all’epoca poco più che un ragazzino, non si misero forse a battere il chiodo del Vaticano II concilio solo pastorale, quindi di fatto un concilio non dogmatico e come tale una sorta di concilietto di seconda classe? Con il loro arrogantissimo mariologo Padre Alessandro Apollonio, non si misero forse a dare per già dichiarato il dogma mariano di Maria corredentrice, chiamando la Beata Vergine con questo titolo e istituendone persino il culto e la devozione, ignari di quanto il concetto stesso di “corredentrice” crei da sempre problemi enormi nell’ambito della dogmatica e soprattutto della cristologia? Non hanno forse avuto, dulcis in fundo, problemi legati a gestioni finanziarie e patrimoniali? Come non detto, perché potremmo prendere a uno a uno questi dati di fatto e altri ancora a seguire, tutti provati e documentati, senza però riuscire a smuovere minimamente i tradizionalisti onirico-estetici convinti che i poveri Francescani dell’Immacolata siano stati perseguitati perché celebravano la Messa con il vetus ordo e perché muovevano critiche al teologo tedesco Karl Rahner.

I tradizionalisti onirico-estetici sono di fondo malati patologici dinanzi ai quali si potrebbe prendere un neonato e sgozzarlo nel fonte battesimale durante il santo rito della iniziazione alla vita cristiana, però, se il Santo Battesimo è celebrato in lingua latina con l’antico rito, potete stare certi che ci passeranno sopra, o comunque troveranno in ogni caso sempre delle giustificazioni, per quanto assurde e irrazionali, sempre. 

Andrea Grillo appartiene a quella che taluni sono soliti definire “area progressista” o “molto progressista”. Si tratta di definizioni che non mi sono mai piaciute, perché per me esistono solo teologi che discutono e che come unica e sola “etichetta” hanno quella di cattolici. Ho conosciuto Andrea Grillo in anni passati, è un uomo di profonda cultura giuridica, teologica e sacramentaria. Alla domanda se condivido certe sue tesi e posizioni risponderei di no, ma che sia uno studioso di altissimo livello, questo è indubitabile. A questo si aggiunga che è anche amabile come persona e molto talentato come didatta, sempre disponibile e premuroso con gli studenti delle scuole di specializzazione. Se certi tradizionalisti onirico-estetici la cui arroganza è da sempre pari alla loro ignoranza, si mettessero a discutere sulla struttura teologica e pastorale del Messale di San Pio V, per non parlare della sua storia ed evoluzione attraverso i secoli, con un liturgista del genere ― di cui ripeto bisogna riconoscere anzitutto la levatura e la cultura enciclopedica ― penso che dopo tre minuti scarsi non rimarrebbe di loro neppure una piuma.

Ho cercato sempre di essere uno studioso intellettualmente onesto, pertanto non ho mai avuto alcuna difficoltà ad affermare che Hans Küng aveva doti naturali e capacità speculative di gran lunga superiori a quelle di Joseph Ratzinger, perché lo provano i fatti storici e la originalità dei suoi scritti. Diversamente, quelli di Joseph Ratzinger, sono scritti di un teologo molto colto nonché eccellente didatta in grado di esporre in modo magistrale, ma l’originalità del pensiero è però tutt’altra cosa. Il mio confratello e amico Brunero Gherardini (1925-2017), che era la quintessenza dell’ortodossia più ligia e anche rigorosa, non aveva alcuna difficoltà ad ammettere in toni di stima che Leonard Boff era uno tra i più dotati e talentati ecclesiologi degli ultimi 50 anni, o che il commento e l’esegesi più bella alla Lettera ai Romani rimane quella del protestante Karl Barth, al momento insuperabile. Ma c’è di più: forse, se noi possedessimo le opere e gli scritti ― che purtroppo non ci sono invece pervenuti ― potremmo persino scoprire che l’eresiarca Pelagio era più dotato, a livello teologico e speculativo, di quanto lo fosse Agostino vescovo d’Ippona, in seguito Santo e dottore della Chiesa. Purtroppo di Pelagio non abbiamo le opere e di lui conosciamo solo le risposte e le confutazioni di Agostino. Ma se contro Pelagio si mosse un titano come Agostino, già questo dimostra che dall’altra parte, eretico quanto vogliamo, c’era un altro titano e un osso a dir poco duro contro il quale combattere. E vogliamo parlare dell’eresiarca Ario, che con le sue teorie sulla Incarnazione del Verbo riuscì a convincere quasi tutta la cattolicità che il Cristo era una creatura divina creata da Dio? Le sue teorie, molto ben strutturate e avvincenti, costrinsero i Padri della Chiesa a radunarsi nel Concilio Ecumenico di Nicea, nell’anno 325, per definire dogmaticamente che il Cristo non era una creatura bensì «generato non creato della stessa sostanza del Padre» (γεννηθέντα οὐ ποιηθέντα ὁμοούσιον τῷ Πατρί). Lungi dall’essere debellata, l’eresia ariana proseguì a diffondersi per i secoli successivi in intere regioni dell’Europa. I popoli germanici e non solo, furono evangelizzati da vescovi e presbiteri ariani agli inizi del IV secolo. Solo nel VI secolo i popoli germanici furono ri-convertiti dai missionari, dopo due secoli di arianesimo, che seguitò a lasciare comunque il proprio segno.

Questo genere di teologia e di storia della teologia certi poveri tradizionalisti onirico-estetici rinchiusi in quattro formule rancide della neo-scolastica decadente ― che della scolastica classica non è manco lontana parente ― non sanno neppure dove abita, perché come tutti i mediocri devono inventarsi nemici, sguazzare tra millenarismi e profezie catastrofiche, imminenti trionfi magici del Cuore Immacolato di Maria, dando a credere di saperla più lunga di tutti, ma soprattutto tentando di distruggere coloro che decidono di elevare a rango di supremi nemici, perché l’immagine del nemico è un presupposto fondante del loro stesso essere ed esistere. Tipica caratteristica di queste persone è quella di non combattere le idee ma le persone nel tentativo di distruggerle in ogni modo e con qualsiasi mezzo, secondo lo stile consolidato dei peggiori integralismi di matrice pseudo-religiosa.

Sulle colonne di questa nostra rivista il Padre Ivano Liguori e io siamo stati più e più volte severi con certi preti showman, ma non solo: sempre e di prassi abbiamo richiamato alla responsabilità i loro vescovi accusandoli senza mezzi termini di scarsa vigilanza. Non possiamo però dire che la Chiesa sia stata indifferente e silente da questo punto di vista, perché contro gli abusi liturgici hanno parlato e scritto sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI, nel 2004 fu promulgata l’istruzione Redemptionis Sacramentum che è un documento molto chiaro e preciso del quale molti si sono bellamente fregati, in testa a tutti Neocatecumenali e vari gruppi Carismatici.

Ben prima di Traditionis custodes invocai in modo provocatorio che sarebbe stato bene revocare quel motu proprio di Benedetto XVI sulla Missa vetus ordo [vedere mia video-conferenza] visti certi esiti tutt’altro che minoritari o isolati. E per anni, non per giorni o mesi, ma per anni ho ripetuto inutilmente a certi gruppi e fedeli di smetterla con le loro amenità del tipo: «Ah, questa sì che è la sola Messa, la Messa valida, la Messa di sempre, mica quella Messa protestantica di Paolo VI inventata da quel massone di Annibale Bugnini!». E quante volte gli ho ripetuto che non potevano né dovevano usare il Missale vetus ordo per attaccare un intero concilio della Chiesa, o una necessaria riforma liturgica avviata già prima del concilio dal Sommo Pontefice Pio XII e via dicendo a seguire. Altrettanto inutilmente ho ripetuto per anni che se avessero continuato a quel modo, prima o poi quel motu proprio sarebbe stato revocato. Come non detto, questa la risposta: «No, non è possibile, perché la Messa di sempre è irrevocabile, intoccabile!». E ancora, inutilmente, per anni e anni ho ripetuto loro che quel motu proprio non era una definizione dogmatica irrevocabile e che da sempre a Roma si dice che «un Papa bolla e un Papa sbolla».

Tempo perso, parole sprecate, teste ottuse che si sono sempre rifiutate di capire, andando avanti per anni, in modo ostinato e pertinace, a fare uso di un messale per creare due partiti all’interno della Chiesa, usando come elemento di divisione ciò che costituisce il cuore dell’unità: l’Eucaristia.

A mio modesto parere, con tutto il dispiacere per quelli che invece non hanno avuto questi atteggiamenti, ritengo che il Sommo Pontefice abbia fatto bene a promulgare quel motu proprio restrittivo che di fatto è Traditionis custodes, a cui riguardo possiamo dire in legittimo tono critico, ma soprattutto alla luce dei principi di prudenza, equilibrio e soprattutto aequitas, che il suo è stato un agire indubbiamente giusto, ma altrettanto indubbiamente parziale. Per quanto mi riguarda può starmi bene che si stringa la cinghia sull’uso del Messale di San Pio V, visto il modo in cui non alcuni, ma molti lo hanno usato, visti certi esiti infelici e conclamati, però, essendo intellettualmente onesto, non posso omettere di chiedermi e di chiedere: e i gruppi Neocatecumenali che hanno invaso e che hanno in mano quasi la metà delle parrocchie della Diocesi di Roma, che in modo impudente, insolente e arrogante affittano saloni negli alberghi della Capitale o nelle case religiose dell’Urbe, per fare della sacra liturgia ciò che vogliono e come vogliono direttamente sotto le finestre del Santo Padre, qualcuno gli ha forse detto qualche cosa, o intende semmai a breve dirgli qualche cosa? È stato per caso emanato un documento nel quale si proibisce di celebrare le Messe senza autorizzazione dell’Autorità Ecclesiastica fuori dagli spazi consacrati, che né a Roma né in tutto il resto dell’Italia mancano, permettendogli di seguitare a radunarsi in saloni di hotel o di compiacenti case religiose, con il prete “preso a noleggio” che esegue gli ordini dei laici genuflessi alle peggiori direttive bizzarre di Kiko Argüello? Il Sommo Pontefice, che di recente ha messo mano alla propria Diocesi con una riforma radicale, si è mai accorto che il Vicariato è da alcuni decenni in mano ai Neocatecumenali, grazie all’infausta protezione a loro accordata prima dal Cardinale Camillo Ruini e a seguire dal Cardinale Agostino Vallini? Il Sommo Pontefice, è al corrente di che cosa i Neocatecumenali hanno fatto in ostracismi e cattiverie, a quei preti da loro reputati ostili alle loro eccentricità dottrinali e liturgiche, usando il braccio armato dei loro fedeli sodali come l’inamovibile cancelliere del Vicariato di Roma Giuseppe Tonello, in grado di fare il bello e cattivo tempo, o di decidere come e in che modo tagliare le teste di certi preti ostili alla “Chiesa” del Signor Kiko Argüello? Siccome nulla di questo per adesso è stato fatto, ciò mi induce a leggere Traditionis custodes come un provvedimento reso necessario dalla situazione che si è creata, ma che al tempo stesso manifesta ancora una volta la parzialità e gli squilibri di questo Augusto Pontificato, nel quale ci si cura a giusta ragione di coloro che hanno avuto l’aperta indecenza di usare il Missale vetus ordo per attaccare un intero Concilio della Chiesa e una riforma liturgica, senza però curarsi minimamente di coloro che in modo non meno insolente e arrogante fanno della liturgia ciò che vogliono e come vogliono direttamente nella Diocesi di Roma sotto le finestre del Sommo Pontefice.

Ribadisco: le analisi del Prof. Andrea Grillo, insigne, colto e qualificato teologo sacramentario, sul piano della dottrina, della liturgia, della ecclesiologia e della pastorale non fanno assolutamente una piega. Tesi che per quanto mi riguarda approvo e condivido, mosso da quella onestà intellettuale che anima e sorregge la fede, al contrario di chi cerca di mutare la fede, vuoi col Messale di San Pio V vuoi con le stravaganze liturgiche dei Neocatecumenali e di certe frange dei Carismatici, nel mondo delle soggettive emozioni. E un Sommo Pontefice, per essere veramente giusto quando fa cose giuste, deve essere anzitutto al di sopra delle emozioni e dei partiti in lotta tra di loro. E se il caso gli impone la necessità di bastonare, in quel caso sarebbe bene bastonare in modo equo sia a destra che a sinistra.

Non credo di dovermi giustificare di alcunché, in ogni caso è bene precisare che sono un grande estimatore del Venerabile Messale di San Pio V, di cui credo di conoscere a fondo quella struttura teologica e quell’impianto pastorale del tutto sconosciuto a quegli esotici pretini trentenni che si sono alzati una mattina e improvvisati cosiddetti “tridentini”, ignari anzitutto che un “rito tridentino” non è proprio mai esistito, è solo un modo di dire del tutto improprio. Soprattutto ignari che in quel Messale persino gesti e silenzi hanno un profondo significato mistagogico e spirituale, da loro completamente ignorato per lasciare spazio a forme di estetismi esotici quasi sempre tragicamente fini a se stessi. I tradizionalisti onirico-estetici che citano a sproposito la bolla Quo primum tempore con la quale il Santo Pontefice Pio V promulgò nel 1570 quel Messale definendolo irriformabile con tanto di anathema sit, dimostrano di non conoscere lo stile col quale erano usualmente composti certi documenti pontifici che avevano un loro preciso stile retorico, ma soprattutto ignorano che quel Messale fu revisionano e riformato per un totale di diciotto volte a partire dal 1614, quanto il Sommo Pontefice Urbano VIII ne pubblicò una prima edizione aggiornata e migliorata ad appena 44 anni dalla sua promulgazione, con sostanziali e radicali correzioni. Le ultime importanti riforme furono fatte nel Novecento dal Santo Pontefice Pio X, dal Venerabile Pontefice Pio XII e dal Santo Pontefice Giovanni XXIII nello spazio di neppure cinquant’anni. Aborro gli abusi liturgici, ma proprio per questo, in mia modesta qualità di povero teologo dogmatico e storico del dogma, sono perfettamente consapevole che con quel Venerabile Messale avvenivano abusi liturgici molto peggiori di quelli ai quali assistiamo oggi con il Messale promulgato nel 1969 ed entrato in vigore nel 1970. Sono un cultore della lingua latina e quando posso uso sempre la editio typica latina del Messale di Paolo VI, quello in lingua italiana sempre e di rigore quando celebro per le assemblee dei fedeli. Mal tollero certi ciechi e ottusi anacronismi tipici delle persone che invocano di fatto la riesumazione di un cadavere, per quanto santo, vale a dire il Messale di San Pio V, non più proponibile oggi sia a livello pastorale che a livello di evangelizzazione. Il problema di fondo di queste persone è che prendendo come oggetto di disputa e lotta un Messale tendono a sfogare i disagi di una cristianità immatura o mal vissuta, rigettando l’elemento teologico ed escatologico che la Chiesa inizia il proprio incessante cammino con i discepoli lungo la Via di Emmaus assieme al Signore [cfr. Lc 24, 13-35], mentre alcuni avrebbero voluto paralizzarla, come Pietro, in modo statico sul Monte Tabor, dinanzi alla trasfigurazione del Cristo [cfr. Mc 9, 2-10]. La Chiesa è per propria natura costitutiva Popolorum progressio, chiunque tenti di mutarla in Populorum regressio rivendica il diritto insolito, ma soprattutto inaccettabile, a tradire la missione che il Cristo le ha affidato, in un cammino incessante, sempre proteso in avanti, sino al suo ritorno alla fine dei tempi.

dall’Isola di Patmos, 27 febbraio 2023

 

Il problema della aequitas e l’antico gioco dei punibili e degli impunibili, dei bastonabili e degli accarezzabili …

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

Una Suora Cavaliere della Repubblica Italiana al merito dell’istruzione scrive alla Preside del Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Firenze

Scuola, società, politica

UNA SUORA CAVALIERE DELLA REPUBBLICA ITALIANA AL MERITO DELL’ISTRUZIONE SCRIVE ALLA PRESIDE DEL LICEO SCIENTIFICO LEONARDO DA VINCI DI FIRENZE 

Quando lei ha deciso di scrivere ai suoi studenti, immagino e spero che intendesse rivolgersi loro senza muovere alcun attacco allo Stato Italiano, al Governo legittimamente eletto, alle persone dei Ministri. Probabilmente il suo scritto è stato frainteso sia da chi si è sentito dare del fascista sia da chi si è sentito assolto in quanto comunista.

.

Autore
Anna Monia Alfieri, I.M.
Cavaliere della Repubblica Italiana

.

 

.

.

 

 

 

 

 

 

.

PDF   articolo formato stampa

 

.

 Il riassunto della vicenda potete trovarlo in questo servizio offerto da   La Nazione di Firenze  

.

Carissima Preside,

innanzitutto un saluto cordiale, sperando che questa mia la trovi bene. Mi permetto di scriverle, perché sono preoccupata da quanto sta accadendo ultimamente in Italia. Sono una religiosa, appartengo ad una Congregazione il cui Fondatore, circa a metà Ottocento, ha pensato di rinnovare la società attraverso l’educazione della donna. Intuizione straordinaria che si concretizza ancora oggi, attraverso scuole e altre realtà educative presenti su tutto il territorio nazionale e non solo.  La mia scelta di vita consacrata mi ha portato, conseguentemente, a dedicarmi ai giovani, agli studenti, ai loro genitori, ai docenti, alla scuola. Ecco perché ho deciso di scriverle, con umiltà e con garbo, proprio come avrei scritto ad uno dei Presidi delle scuole gestite dall’Ente di cui sono la Legale Rappresentante.

 

Come dicevo, scrivo perché mossa da una preoccupazione: le polemiche, la violenza fisica, i tafferugli suscitano in me echi tristi e drammatici di un passato nel quale tanti giovani hanno perso la vita in nome dell’ideologia, anarchica, comunista o fascista.

Quando lei ha deciso di scrivere ai suoi studenti, immagino e spero che intendesse rivolgersi loro senza muovere alcun attacco allo Stato Italiano, al Governo legittimamente eletto, alle persone dei Ministri. Probabilmente il suo scritto è stato frainteso sia da chi si è sentito dare del fascista sia da chi si è sentito assolto in quanto comunista.

Non ho intravisto nel suo scritto una lettura ideologica né tanto meno un invito ai ragazzi che hanno picchiato i loro compagni dei collettivi di destra a fare peggio per scongiurare il pericolo fascista che nessuno di noi intravede. Lei, da Preside esperta, credo intendesse sedare gli animi degli studenti, tutti, insegnando che le idee non si affermano con la violenza, tutt’altro. Ogni forma di ideologia ha procurato morte, distruzione materiale e spirituale. Superfluo ricordare che tutti i nostri politici di destra hanno preso le distanze dal fascismo, come i nostri politici di sinistra hanno preso le distanze dal comunismo. Stesse colpe, stessi torti che occorre riconoscere, deprecare, denunciare. Sono certa che l’intenzione del suo scritto fosse proprio questa, anche se devo riconoscere che non è stato facile comprenderla pienamente e non leggere la lettera come un’accusa al Governo di essere fascista. Non sarebbe un comportamento degno di un Dirigente Scolastico, peraltro un Pubblico ufficiale.

Carissima Preside, davanti a certe immagini di violenza, si radica sempre più in me il sogno di una scuola che sia davvero libera e liberata dalla politica partitica, dall’imposizione di un’ideologia, dai docenti che presentano visioni parziali ai loro allievi. La politica, diceva San Paolo VI, figlio di un deputato antifascista, è la più alta forma della carità: quanto sarebbe bello se i nostri giovani fossero portati a conoscere quei fulgidi esempi di uomini e di donne che si sono dati alla politica per voler dare libertà ai loro concittadini: Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Giuseppe Dossetti, Tina Anselmi, Nilde Iotti. Spesso, Preside carissima, converrà con me che a scuola si parla di politica come contrapposizione, destra e sinistra allo scontro, si compiono azioni di proselitismo, indottrinamento e, chissà, forse si discriminano gli studenti che la pensano in modo diverso. Viene, cosi, svilita la figura del docente che si fa forza del proprio ruolo.

Invito lei e tutti i suoi colleghi Presidi a verificare che la libertà di espressione dei docenti non si tramuti in indirizzi di pensiero imposti agli studenti bensì sia strumento dato loro per aiutarli ad orientarsi. Non so se nella scuola italiana tutto ciò avviene. Mi auguro di sì. Forse i tempi sono cambiati rispetto a quando ero una studentessa. Ricordo le lezioni meravigliose del docente di Lettere, tanto che portai Italiano alla Maturità (allora si chiamava così) ma ricordo anche le sue considerazioni politiche personali di sinistra. E purtroppo, se nei temi, esprimevo considerazioni personali lontane dalla sua visione, ahimè, il voto era gravemente insufficiente. Decisi allora di scegliere tracce meno pericolose: una bella analisi del testo poetico era certamente la via più sicura. Sull’onda di tutto questo, si è radicata in me la convinzione che la scuola italiana deve essere libera, che non può esserci solo la scuola pubblica statale ma anche la scuola pubblica paritaria. Non a caso la Legge 62/2000 che ha istituito il sistema pubblico dell’Istruzione, fatto dalla scuola pubblica statale e dalla scuola pubblica paritaria, porta la firma di Berlinguer, Luigi, non Enrico, certo, ma sempre un comunista, un comunista vero, aggiungo. Il rischio è, infatti, il monopolio educativo anticamera sempre del regime. Mi sono sempre chiesta come possa un docente imporre la propria idea su giovani studenti, ricorrendo ad un vero abuso del proprio potere. Sicuramente Lei, Preside, non avrà mai compiuto simili atti e li avrà prevenuti nel suo corpo docenti. Allo stesso modo curerà che nelle programmazioni di Letteratura italiana autori come Dante, Tasso e Manzoni godano del posto che meritano e non siano considerati dei reietti per far posto a visioni più moderne, al passo con i tempi.

Sono convinta che i fatti accaduti nella sua città possono essere un’occasione d’oro per liberare le nostre Scuole, le nostre Università da letture distorte, ideologiche e del tutto personali. Le chiedo: possiamo noi educatori avvallare l’ideologia, avvallare la visione parziale e non veritiera? Possiamo avallare la violenza e giustificarla? Possiamo fomentarla? La risposta è “no”: non debemus, non possumus, non volumus. Sogno un Paese libero, cittadini capaci di rispettare le Istituzioni, di non servirsi del proprio ruolo, della realtà che dovrebbero servire per alimentare le guerriglie a suono di like o di firme raccolte.

Carissima Preside, abbiamo bisogno di educatori, abbiamo bisogno di docenti in possesso di cultura, quella vera, quella che presenta un periodo storico, il pensiero di un filosofo, un argomento di etica in modo obiettivo, avendo il coraggio di dire la propria opinione senza imporla, senza discriminare, senza dileggiare. Questa è la scuola di cui l’Italia ha bisogno. Diversamente continuerà l’imposizione che genera desiderio di rivalsa, odio, sopraffazione.

Collaboriamo perché la scuola torni ad essere laboratorio e fucina di idee, nel rispetto delle visioni di ciascuno. Questo è il compito della scuola, da sempre. Chi l’ha fatta diventare mezzo di diffusione dell’idea dominante l’ha corrotta e resa meschinamente supina. Evitiamo di ricadere negli stessi errori del passato.

 

Milano, 26 febbraio 2023

.

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

 

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

 

 

.

.

 

.

.

.

.

.

Basta la cultura per salvare i preti spaesati? forse no, se manca il senso di paternità dei vescovi e una riscoperta della propria identità sacerdotale

BASTA LA CULTURA PER SALVARE I PRETI SPAESATI?  FORSE NO, SE MANCA IL SENSO DI PATERNITÀ DEI VESCOVI E UNA RISCOPERTA DELLA PROPRIA IDENTITÀ SACERDOTALE

La maggior parte delle volte che mi trovo ad incontrare dei sacerdoti, le più comuni sofferenze che si sentono di condividere sono date dall’abbandono e dalla solitudine che sperimentano da parte dei propri pastori, per non parlare poi di alcuni che sperimentano delle vere e proprie derisioni. Questa modalità anaffettiva di relazione tra vescovo e sacerdote dovrebbe farci riflettere molto, perché davanti a un prete incapace di amore pastorale verso i fedeli, a volte, si nasconde un vescovo incapace di amore verso il proprio prete.

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

 

PDF  articolo formato stampa

 

.

Quando ero un giovane chierico del biennio di filosofia, ho avuto la grazia di conoscere e di essere allievo di un santo gesuita il Padre Giuseppe Pirola, uno dei pochi gesuiti che ho conosciuto in vita mia e di cui si può dire con franchezza evangelica che non c’è falsità, così come Cristo disse del Beato Apostolo Natanaele [cfr. Gv 1, 47-51].

 

 

Il buon Padre teneva il corso di fenomenologia della religione e di metafisica ogni giovedì presso il nostro studentato. Già dal mercoledì sera si stabiliva presso il nostro convento di Cremona e normalmente presiedeva la celebrazione della messa vespertina per poi prestarsi ad ascoltare le confessioni di noi giovani frati studenti.

Mi ricordo, durante una di quelle celebrazioni, forse nella memoria liturgica di Sant’Alberto Magno o di qualche altro Dottore della Chiesa, che la sua omelia toccò profondamente il cuore e le menti di noi giovani chierici con queste parole:

«ragazzi lo sapete perché Sant’Alberto, San Tommaso e gli altri che noi oggi riconosciamo come Dottori della Chiesa sono santi? Non pensate che siano santi solo per la loro cultura accademica, perché hanno tanto studiato. Queste persone sono sante perché anzitutto con la loro fede hanno cercato Gesù e hanno desiderato stare con lui. Da questo desiderio è poi scaturito l’approfondimento teologico illuminato dallo Spirito Santo che li ha resi quelli che sono»

e poi concludeva:

«voi non state studiando per la sola cultura, voi state studiando per proseguire un cammino di fede che vi porterà a stare con Gesù e a conoscerlo intimamente».

Ancora oggi queste parole per me rappresentano la bussola del mio ministero sacerdotale, affinché io rammenti che la cultura teologica può divenire facilmente vanità o vuota erudizione se non è accompagnata dal servizio reso alla verità e la carità di Cristo. Ma del resto per che cosa siamo diventati sacerdoti?

Il Beato evangelista Marco è chiaro in proposito quando riporta l’istituzione dei Dodici, egli dice: «Li scelse perché stessero con lui» [Cfr. Mc 3,13-19]. Gesù ci chiama a stare con lui, chiede ai suoi sacerdoti un legame esclusivo di vita, non un rapporto clientelare o meramente intellettuale tra docente e discente, tra rabbi e discepolo.

Stiamo conoscendo tempi in cui un dottorato alla Pontificia Università Gregoriana o alla Lateranense non si nega più a nessuno. Anzi tali traguardi sono finalizzati all’unico scopo del curriculum in vista della scalata carrieristica. Non sono così rari coloro che già dal seminario sono identificati come episcopabili e che durante il loro perfezionamento accademico a Roma sono soliti frequentare gli ambienti giusti come l’Almo Collegio Capranica e altri cerchi magici dove poter conoscere qualche buon diavolo che li porti così da promuovere la caduta di qualche mitria che indegnamente e con sofferenza ricevono sulla testa con tutta l’umiltà del caso.

Siamo di fronte a quel fenomeno dei pretini trendy di cui scrissi tempo addietro [vedi qui] le cui ben note attitudini da arrampicatori si protendono verso l’infinito e oltre, salvo poi cadere rovinosamente da un momento all’altro e concludere il loro successo con un disorientamento che è l’anticamera della crisi. Con tutta onestà, pur riconoscendo in talune menti indubbie qualità, spesso si sperimenta una certa fragilità di fede unita a quella difficoltà a stare con il Signore che è la sola prerogativa essenziale per ogni discepolo ma soprattutto per ogni teologo.

E tutto questo sia detto senza giudizio alcuno ma basandosi esclusivamente su uno stile sacerdotale ampiamente documentato ed esibito via social da coloro che si evidenziano sempre di più come dei veri e propri professionisti del sacro. Se ci soffermiamo poi sulle loro pubblicazioni, che fanno la gioia di una certa editoria cattolica, possiamo notare che la travagliata gestazione editoriale a null’altro serve che a fare bella mostra sugli scaffali delle più rinomate librerie romane di Via della Conciliazione e di Borgo Pio, piazzandosi come sicure opere avanguardiste del pensiero progressista cattolico. Ma quanto di queste opere è espressione di conoscenza intima del Signore Risorto e di quella fatica di permanere con il Maestro? Dobbiamo dirlo con franchezza che anche la cultura religiosa e teologica «deve essere preceduta da un’intensa vita di preghiera, di contemplazione, di ricerca e di ascolto della volontà di Dio» [Cfr. R. Sarah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Siena, 2017, ed. Cantagalli, p. 35].

Non è esagerato considerare certi lavori intellettuali opera di eretici formali e sostanziali se non proprio di atei dichiarati. Spesso leggendo questi libri notiamo una similitudine di pensiero e di intenti presente già in alcuni esponenti della sociologia, dell’antropologia e della psicologia laica che parlano del mondo religioso dal loro osservatorio privilegiato e pretendono di suggerire alla Chiesa il cammino da perseguire per un rinnovamento religioso da una fede considerata obsoleta e che si deve svecchiare scendendo a compromesso con il mondo e le sue logiche.

Tra i tanti dotti di oggi si sente l’esigenza di avere nella Chiesa e nelle fila del clero degli uomini che abbiano una fede forte, che si intrattengano con Dio e che desiderino imparare quella sapientia crucis che non può essere appresa solamente sui libri.

Questa lettura della situazione del clero non è mia, già il Cardinal Robert Sarah esprime questo concetto nel suo ultimo libro quando dice che: «abbiamo già fin troppi eminenti specialisti e dottori in scienze religiose. Ciò che manca oggi alla Chiesa sono uomini di Dio, uomini di fede e sacerdoti che siano adoratori in spirito e verità» [Cfr. R. Sarah, Catechismo della vita spirituale, Siena, 2022, ed. Cantagalli, p. 12]. Affermare questo non significa certamente essere contro la cultura ma collocarla nella giusta prospettiva.

Oggi lo status di adoratore di Dio è una merce rara tra i sacerdoti, già fin dai primi anni del seminario. Esso implica quell’esigenza spirituale a lasciarsi leggere dentro dal Signore così come vediamo fare nel rapporto con la Samaritana [Cfr. Gv 4,1-30], la cui relazione con i diversi mariti non è ascrivibile a una condizione di disordine coniugale o sessuale ma da un rapporto di fedeltà con Dio che è venuto meno a favore della convenienza e che purtroppo costituisce anche la causa di quella sete che non è possibile soddisfare se non tornando al vero Dio. Ecco, cari lettori, quando noi sacerdoti soddisfiamo la nostra sete ad altre fontane che non derivano da Dio e a lui conducono, cadiamo spesso nel rischio di essere spaesati e di essere facili prede di una crisi di senso e di identità.

Perché dico questo? Perché mi è capitato tra le mani un interessante articolo a firma di Ida Bozzi sull’inserto domenicale La Lettura de Il Corriere della Sera dal titolo «Una Rivista esplora il mondo nel tempo dei preti spaesati». In questo articolo leggiamo il punto di vista del direttore della “Rivista del Clero Italiano” il teologo Giuliano Zanchi che affronta il tema della condizione di confusione e di spaesamento dei preti nell’attuale situazione ecclesiale.      

Sono particolarmente sensibile a questo argomento perché più di una volta nel mio ministero di confessore ho toccato con mano il disagio dei confratelli sacerdoti e lo spaesamento intimo che in essi si dibatte. Il disagio oggi è tangibile e si accompagna alle immancabili fragilità umane che conducono alla secolarizzazione e dell’ibridazione del sacerdozio cattolico in quella che sempre più è diventata una libera professione, dove il prete diventa l’assistente sociale di quartiere o il presidente di una ONG [vedi un esempio qui e qui].

Se facciamo attenzione ai casi di sacerdoti in crisi o che abbandonano il sacerdozio, spesso ci troviamo di fronte a soggetti di provata cultura che dovrebbero in qualche modo essere preservati da questo tipo di derive. Eppure, non sempre accade questo e ci rendiamo conto che la sola cultura spesso non basta, se questa cultura non viene subordinata e indirizzata alla familiarità con Cristo. Se il libro non mi conduce al tabernacolo e il tabernacolo al libro avrò sprecato il mio tempo.

Giuliano Zanchi, presbitero e teologo, nella sua analisi, riferisce che oggi il clero subisce un certo disconoscimento sociale del proprio status e una demolizione della propria autorevolezza. Resto perplesso quando si parla solo di autorevolezza e non di autorità perché presentare al clero il modello di autorità sacerdotale di Gesù sulla scorta della pericope di Mc 1,21-28 potrebbe sembrare oggi un po’ troppo di destra, allora bisogna essere prudenti e da bravi accademici differenziare l’autorevolezza dall’autorità.

Così, prosegue l’articolo, a fronte di un comune senso del sacro che non è certo scomparso ma che sicuramente si è degradato, si assiste a una transizione della barca della Chiesa verso altri lidi, verso differenti indirizzi teologici ed ecclesiali rispetto a quelle forme tradizionali e istituzionali che siamo abituati a conoscere.  

La soluzione proposta dal direttore della Rivista del Clero Italiano – che mi sento di condividere fino a un certo punto – consiste nell’investire in cultura, strumento privilegiato con cui il clero può rispondere alle sfide teologiche che i tempi nuovi richiedono e antidoto alla confusione dilagante tra i sacerdoti. Questa proposta culturale si presenta anche portando illustri modelli come i teologi Tomáš Halík e Pierangelo Sequeri.

Sarò franco, parlare di cultura in senso generale serve a poco se poi non si delimitano bene i confini e gli ambiti di intervento e le finalità. Di quale cultura abbiamo bisogno? Quella cultura suggerita dalla sapienza umana o quella insegnata dallo Spirito Santo? [Cfr. Cor 2, 1-16] Che al clero oggi serva una buona formazione è indubbio, per accorgersene basta vedere lo scempio liturgico e canonico che quasi giornalmente si compie a detrimento dei sacramenti della Chiesa [vedi qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui]. Per questo mi chiedo, a una buona cultura corrisponde sempre e automaticamente una buona formazione? Avrei qualche dubbio. I percorsi di formazione teologica per i futuri sacerdoti si sono moltiplicati con l’integrazione di infiniti esami accademici ma mai come in questi tempi la qualità della formazione del clero appare imbarazzante.

Da sacerdote un po’ ingenuo e vintage sono persuaso che la cultura da sola non basti a dare una formazione e una conoscenza di Dio, anzi spesso si corre il rischio di cadere nel compiacimento personale e nel convincersi di essere il solo detentore della verità e di una visione corretta del mondo (la propria!).

Il sacerdote si forma non solo con la mera cultura accademica ma restando in compagnia costante del Maestro che insegna dalla cattedra della croce, è un apprendimento mistico faticoso, che consta di ore davanti al tabernacolo, di ginocchia sbucciate e di martirio. Così è stato per gli Apostoli e così sarà per l’avvenire.

L’articolo prosegue poi dando una punzecchiatura a un certo tipo di stile sacerdotale rigido, verso quella devozione bigotta unita a quella tendenza apologetica intransigente e oscurantista che secondo Giuliano Zanchi è «oggi molto forte». Insomma, tanto per capirci, se il prete insegna ai fedeli a recitare il rosario e a meditarne i misteri con quella stessa purità di intenzione di Santa Bernardetta a Lourdes o dei pastorelli a Fatima si deve considerare forse un bigotto? O quando vuole mantenere la barra diritta con una certa fermezza paterna su posizioni apologetiche in difesa della fede, della dottrina o della morale davanti alle sfide aperturistiche della modernità a cui alcune frange della Chiesa strizzano l’occhio, si deve considerare un rigido oscurantista? Mi piacerebbe conoscere la risposta, ma soprattutto vorrei conoscere i modelli di riferimento che non siano i soliti Maggi, Bianchi, Mancuso e Melloni o coloro che sebbene pastori in cura d’anime sono pressoché introvabili perché troppo impegnati a tenere conferenze e a consumare le predelle della facoltà teologiche.

È quindi la cultura la sola e unica panacea possibile per i mali dei sacerdoti spaesati?  Non sempre. Se per cultura si intende quella che dialoga e fraternizza con l’uomo d’oggi senza pretendere obiettivi audaci e faticosi, senza chiedere la conversione, sicuramente no. Ci chiediamo allora ― prendendo in prestito un pensiero di Benedetto XVI ―, se il dialogo unito alla fraternizzazione culturale possa sostituire veramente la missione, con il reale rischio di oscurarne la verità e corrompere la fede. Perché questo è il punto focale su cui è doveroso insistere, è la fede dei sacerdoti che deve essere tutelata affinché le Verità che essi trasmettono a nome della Chiesa dirigano il dialogo con il mondo e non viceversa. Uomini di Dio che, attraverso una fede illuminata e vissuta, sappiano rendere Dio credibile in questo mondo. Anzitutto uomini di Dio, e solo in seguito dotti cultori di una disciplina teologica.

Il Beato Apostolo Paolo munito della sola sapientia crucis presso l’Areòpago di Atene, tempio della cultura e del dialogo del mondo antico, non ha lesinato ad affermare la verità della Resurrezione a costo di essere compatito e deriso da coloro che detenevano le chiavi della cultura greca. La rinuncia alla Verità oggi sembra quanto mai realistica e forse opportuna, anche davanti a un possibile dialogo pacificatore con la cultura moderna o con le altre fedi religiose ma può essere letale per la fede che rischia di perdere il suo carattere vincolante e la sua serietà [Cfr. Benedetto XVI, Che cosa è il cristianesimo, Milano, 2023, ed. Mondadori, pp. 9-11].

Per questo motivo davanti ai sacerdoti spaesati è importante riproporre una terapia spirituale di ritorno a Cristo, a quello spirito di orazione e di devozione che il Serafico Padre Francesco raccomandò al sapiente dottore Antonio di Padova in una sua lettera:

«A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola» [Cfr. Fonti Francescane nn. 251-252].

Perciò insieme alla cultura è necessario ripartire dall’orazione e dalla devozione, elementi che favoriscono l’adorazione di Dio in Spirito e Verità e che a mio modesto parere formano gli anticorpi per una sana e sapiente cultura. La vita reale ci pone innanzi un’evidenza: quando un sacerdote entra in crisi o è spaesato le motivazioni sono quasi sempre da ricercare nel fatto che si sente solo e che ha smarrito i punti di riferimento che un tempo aveva chiari. La crisi negli uomini di Dio non è mai primariamente culturale ma di senso e di identità. Fondamentale, in questi casi, è saper contare sul cuore paterno del proprio vescovo o del proprio Ordinario il cui primo dovere è l’accompagnamento e la tutela del proprio sacerdote. Nella Presbiterorum Ordinis di Paolo VI, il Pontefice spiega che un sacerdote è intimamente e inscindibilmente legato al proprio vescovo e alla sua Chiesa particolare in comunione con la Chiesa universale. Questo legame non è soltanto un carattere giuridico ma anzitutto spirituale e umano. Il vescovo è colui che possiede la pienezza del sacerdozio di Cristo, e come tale esprime Cristo nel suo stesso essere e operare. Egli, come Cristo, è chiamato a esprimere quella premura verso i Dodici e i discepoli non facendo mai mancare loro la sua presenza nei momenti di prova e di smarrimento.  La maggior parte delle volte che mi trovo ad incontrare dei sacerdoti, le più comuni sofferenze che si sentono di condividere sono date dall’abbandono e dalla solitudine che sperimentano da parte dei propri pastori, per non parlare poi di alcuni che sperimentano delle vere e proprie derisioni. Questa modalità anaffettiva di relazione tra vescovo e sacerdote dovrebbe farci riflettere molto, perché davanti a un prete incapace di amore pastorale verso i fedeli, a volte, si nasconde un vescovo incapace di amore verso il proprio prete. Ma non era l’amore il segno che avrebbe dovuto contraddistinguere la vita degli Apostoli e dei discepoli di Cristo? [Cfr. Gv 13,1-15; 13, 34-35].  

Tutti conosciamo vescovi ligi nell’organizzare puntualmente i ritiri e la formazione permanente del proprio clero, anche con invidiabili profili culturali ma che poi sono terribilmente distanti da coloro su cui dovrebbero esercitare quella custodia paterna da cui deriva il termine episkopos che anticamente faceva riferimento a un patronato divino di custodia.

Vescovi che non trovano il tempo da dedicare ai propri sacerdoti anziani, ammalati o in difficoltà e che attingono informazioni da altre fonti: «Mi hanno detto che…», anziché esporsi in prima persona con una telefonata e dire: «Sono preoccupato per te, come stai? Posso fare qualche cosa? Voglio venire a pranzo da te». Se il prete va in crisi, e ne ha ben donde, è perché sperimenta tutto questo e molto altro ancora, non solo perché è carente culturalmente.

La solitudine del clero oggi sta diventando sempre di più la prima emergenza patologica da risanare che si unisce alla seconda emergenza patologica più marcatamente spirituale che è data dalla mancata familiarità con Cristo. Mi chiedo, che cosa è possibile fare davanti a queste emergenze? Può bastare il suggerimento ad ampliare la propria cultura? Ironia della sorte, i sacerdoti che vanno più spesso in crisi sono quelli più titolati e culturalmente più preparati, che sembrano bastare a sé stessi. Dove risiede l’identità di questi fratelli sacerdoti? Non certo nella sola cultura, ma in un rapporto mistico con Cristo che è venuto meno. Il proprium sacerdotale, spiega Benedetto XVI, non consiste in altro se non nell’essere sacerdos nel senso definito da Gesù Cristo sulla croce. Questo significa che la crisi sacerdotale non è essenzialmente una crisi culturale ma l’incapacità a stare ― nel senso di prendere dimora ― insieme con il Signore sulla croce.

Questo discorso ci porta a constatare impietosamente che stiamo assistendo, molto più oggi che nel passato, a una crisi che riguarda l’identità sacerdotale che non viene più radicata e compresa in coloro che scelgono di rispondere alla vocazione. Allora cerchiamo di capire anzitutto che il sacerdote non vive di luce propria e che il suo essere sacerdote è vero solo in relazione all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo che chiama l’uomo a essere unito con lui nel ministero di mediatore.

In questa dinamica di unione mistica e sacramentale all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo l’uomo è chiamato a una progressiva spogliazione di sé ― non solo dai beni ma anzitutto dal proprio io ― che richiama quella necessaria ricerca di perfezione che è stata proposta al Giovane Ricco e che gli Apostoli hanno intrapreso nella sequela del Maestro, abbandonando ogni cosa [Cfr. Mc 10,17-22; 28-31]. Per i sacerdoti questa spogliazione rappresenta l’unico fondamento valido che informa la «necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali» [Cfr. R. Sarah con Benedetto XVI, Dal profondo del nostro cuore, Siena, 2020, ed. Cantagalli, p.26]. Più sappiamo spogliarci e decentrarci e più Cristo, la sua Parola, la sua preghiera e la sua essenzialità di vita andranno a rivestire la nostra identità sacerdotale e umana.  

Questi elementi essenziali ci aiutano a comprendere in che cosa consista la crisi dell’identità sacerdotale e dove è necessario intervenire per un risanamento. Un sacerdote spaesato è quello che non considera più il suo ministero come opera esclusiva di Cristo ma anzitutto opera personale. Questa sostituzione del proprium sacerdotale è molto subdola e si rivela nella smania dell’attivismo e del narcisismo. Nel momento in cui il sacerdote presume di essere indispensabile, assecondando la smania di apparire sempre e in ogni circostanza, rifuggendo quel salutare nascondimento che permette a Cristo di agire in lui, si cade in quella tentazione diabolica che elimina l’opera di Dio privilegiando l’opera dell’uomo così come vediamo accadere in coloro che desiderarono farsi un nome durante la costruzione della Torre di Babele [Cfr. Gn 11,4].  

Allo stesso modo l’attivismo manageriale, diventa la nuova Liturgia delle Ore che è necessario celebrare, rifuggendo la staticità della contemplazione ai piedi del Maestro ― considerata ormai una perdita di tempo ― per preferire l’impegno in diversi ambiti, anche in quelli che propriamente non attengono al ministero sacerdotale. Oggi non è raro vedere sacerdoti nei panni di politici, di influencer, di TikToker, di assistenti sociali, di psicologi, di opinionisti televisivi, di manager di imprese commerciali o assistenziali, di insegnanti e via dicendo a seguire. Con la presunzione che l’operare bene e per il bene equivalga ad essere ugualmente un buon sacerdote, finendo per eliminare lo specifico della vocazione sacerdotale così come Cristo l’ha pensata e intesa per la Chiesa.

Nella smania di farsi un nome ed esercitare un potere con il fare, il sacerdote si spersonalizza, la sua giornata non è più scandita dalla preghiera, diventa sempre più difficile assolvere a tutte le ore del breviario, e la Santa Messa è solo una parentesi da celebrarsi in fretta, preferendo il II Canone del messale e in non più di quindici minuti. La sosta al confessionale è sempre più rara perché una non meglio definita teologia della misericordia ha portato a intendere ― sia nei laici che nel clero ― che non esiste più la realtà del peccato e se esiste c’è il perdono d’ufficio senza bisogno di pentimento e di conversione di vita.

La visita ai malati e la comunione nel primo venerdì del mese sono cose sempre più rare, così come la pastorale dei sofferenti che è lasciata a pochi specialisti del settore così come quella delle famiglie e dei fidanzati.

Altri esempi si potrebbero fare ma già questi sono più che sufficienti a tracciare un profilo aggiornato di quello che il sacerdote oggi sperimenta. Vogliamo investire in cultura? Una posizione lodevole ma primariamente cerchiamo di rafforzarne l’identità sacerdotale. Richiamiamo il sacerdote alla preghiera fervorosa e costante, alla valorizzazione e al risanamento di quella fraternità con il proprio vescovo e con i propri confratelli, aiutiamolo a non scendere dalla croce di Cristo. Soprattutto, instilliamo nel cuore dei giovani chierici il dovere di carità unito a quell’amore vicendevole che arriva al perdono e che non rivaleggia e non si dibatte nel narcisismo egocentrico del freddo carrierista del sacro.  

Voler bene ai sacerdoti è un compito grande e impegnativo, una responsabilità di tutta la Chiesa che non è più possibile procrastinare senza indebolire la santificazione del popolo di Dio e tradire quell’istituzione del sacro ministero che il Signore ha voluto nel suo Giovedì Santo.

Laconi, 24 febbraio 2023

 

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

Il naufragato “Polo Mariano” di Verona. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che Alessandro Minutella dica la verità

IL NAUFRAGATO POLO MARIANO DI VERONA. È PIÙ FACILE CHE UN CAMMELLO PASSI PER LA CRUNA DI UN AGO CHE ALESSANDRO MINUTELLA DICA LA VERITÀ  

Le nostre sono domande nello stretto merito, basate sui fatti e sulle somme di danaro offerte e transitate su precisi conti correnti. Attendiamo risposta da parte del Sig. Minutella, non interpretazioni o manipolazioni della realtà come in altri numerosi casi ha fatto. Sappiamo che ciò gli riesce particolarmente difficile e faticoso, ma per una volta speriamo provi a dire le cose come realmente sono andate, ossia: che per una volta provi a dire la verità.

— Attualità ecclesiale —

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

 

 

 

 

 

 

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

.

Cari Padri,

laudetur Jesus Christus!

Desideriamo ringraziarVi per la disponibilità e per lo spazio che avete accettato di riservarci nella Vostra rivista L’Isola di Patmos.

Siamo una coppia veneta che abita sulle colline veronesi, sposati da 27 anni. Abbiamo ricevuto la grande grazia della ri-conversione recandoci nel marzo 2011 in un centro europeo di spiritualità mariana. Da allora il nostro unico desiderio è stato quello di consacrare la nostra vita e il nostro matrimonio a Gesù e a Maria. Desiderio che andato sempre più rafforzandosi e consolidandosi, anche se in seguito cademmo, in totale buona fede, nelle spirali del “Piccolo Resto” del presbitero scomunicato e dimesso dallo stato clericale Alessandro Minutella.

La mattina del 23 febbraio il Sig. Minutella, nella diretta della rubrica Santi e Caffè sul canale Radio Domina Nostra, al minuto 07:10 si è lanciato in una dichiarazione menzognera, a cui riguardo vorremmo dare la nostra versione dei fatti affinché le anime che seguono questo personaggio inizino seriamente a considerare quale infausta e funesta via stanno percorrendo. Questo è quanto il Sig. Minutella ha dichiarato:

«[…] vorrei dire una cosa che non ho mai detta per una questione di pudore, chiamiamola così, di rispetto delle situazioni. Ad ogni modo, siccome mi è stato chiesto da più parti che fine ha fatto il Polo Mariano. Il Polo Mariano non è strutturalmente legato a un luogo, per cui, se si è spostato dai Colli Veronesi a Trebaseleghe (Padova) non cambia nulla. Ci sono stati dei problemi gestionali, in ragione anche della mia prolungata assenza che non mi sono piaciuti. E fino a prova contraria sono io che devo prendere le decisioni. Ci ho pregato, ci ho riflettuto e ho capito che non era più possibile proseguire da quelle parti li. Ma così, serenamente, avevo dato delle indicazioni che non sono state evidentemente rispettate, poi ognuno dica quel che vuole, abbiamo la coscienza personale e questo era quanto, l’opera prosegue altrove […]» [vedere video QUI].  

Questa dichiarazione basata totalmente sulla alterazione e la manipolazione ci obbliga a porre in evidenza alcuni dati di fatto, spiegando perché abbiamo deciso di dare pubblica testimonianza, mossi da quella carità che come cardine principale ha la salvezza delle anime, ovvero di tutte quelle persone che è necessario conoscano il vero svolgersi dei fatti per trarre poi le proprie conclusioni. Scelta, questa nostra, conseguente a un periodo privato di ampio confronto con una delle persone interessate nella vicenda, secondo il dettame evangelico della correzione fraterna «Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo» (Mt 18,15).

Passiamo adesso ai fatti: la nostra conoscenza del sacerdote palermitano Alessandro Minutella risale al Giugno 2018, inizialmente tramite il social network Facebook. Dopo tre mesi decidemmo di andarlo a conoscere di persona in Sicilia presso il Centro di spiritualità mariana “Piccola Nazaret” da lui fondato a Carini. In quell’occasione fummo invitati a cena e rimanemmo con loro per un po’ di giorni. Impossibile negare e rinnegare i sentimenti di stima e di simpatia che ci mossero nel conoscere questa realtà, infatti decidemmo sempre di più col passare del tempo di collaborare all’opera e alla “missione” di questo sacerdote. Successivamente, poiché si iniziava a cercare uno spazio disponibile per fondare un altro centro di spiritualità nel Nord Italia, precisamente nella zona di Verona, essendo noi della zona ci siamo messi a disposizione per aiutare nella ricerca di un luogo idoneo. Dopo varie ricerche proponemmo al Minutella un luogo in collina con casale di oltre 400mq e terreni adiacenti per oltre 35.000 mq, dov’era nato un nostro parente.

Di ritorno da un suo tour in Spagna, il Minutella venne a visitare il posto e ne rimase entusiasta, tanto da voler subito chiamare “Polo Mariano” e fondare quel giorno stesso un’Associazione che decise di chiamare “San Michele Arcangelo”. Fu a quel punto che noi acquistammo il posto e lo donammo all’Associazione. Il Minutella chiese a noi di divenire i Presidenti, ma noi fidandoci ciecamente facemmo un passo indietro, essendo anche incompetenti in materia. Fu così decisa un’altra persona, lì presente, come Presidente di questa neonata Associazione. Dopo alcune problematiche legate a certi ostacoli frapposti da persone terze, noi e la Presidente in questione decidemmo di continuare a portare avanti l’Associazione, sul conto bancario della quale cominciarono ad arrivare anche offerte cospicue per i lavori di realizzazione del Polo Mariano. Tutto questo con il benestare del Minutella e delle persone a lui vicine.

Verso la fine dell’anno 2021 la Presidente ci comunica l’intenzione di voler lasciare la Presidenza dell’Associazione, salvo però rimanere in carica in accordo con lo Staff del Minutella. Si continuò così ad andare avanti, malgrado i momenti di prova, finché arrivò la comunicazione, giustificata a nostro avviso da sterili motivazioni, secondo cui le offerte dei fedeli destinate alla realizzazione del Polo Mariano non dovevano più arrivare sul conto IBAN dell’Associazione “San Michele Arcangelo”, come fino a quel momento era avvenuto, bensì sull’unico conto IBAN della “Piccola Nazaret” di Carini. A quel punto ci fu chiaro che qualche cosa non andava e ci domandammo il perché di quella decisione.

A questo e a altri interrogativi simili, incoraggiati dalle tante persone che ci invitavano a non mollare, pro bono pacis e per “non disobbedire al padre” ― classico leitmotiv che purtroppo continua ancora oggi a condizionare le menti di tanti poveri fedeli ―, decidemmo di non dare risposte, ma di fidarci e di accettare questa decisione.

Questi furono gli esiti: dal 1° gennaio 2022 al 16 dicembre 2022 (giorno in cui la Presidente dette le sue dimissioni dall’Associazione “San Michele Arcangelo”), non sono più arrivate le offerte mensili dei fedeli per il Polo Mariano. I poveri fedeli offerenti che hanno creduto in quest’opera e per la quale versarono i propri contributi, iniziarono a chiedersi e informarsi su come mai il Polo non andasse avanti. Riferimmo tutto ciò al Minutella che ci rispose: «Dite per problemi tecnici oppure del Comune» (!?). Stufi di mentire iniziammo a dire alle persone di chiamare giù in Sicilia e di informarsi direttamente con le persone interessate.

Da lì in poi fu tutto un susseguirsi di registrazioni nascoste, che a quanto pare è per loro una cosa abbastanza usuale, di sospetti e umiliazioni davanti ad altre persone, senza alcuna possibilità di difendersi da accuse infondate, ma anche questo sembra essere molto usuale in quell’ambiente. Il tutto da parte dello staff del Minutella e del Minutella stesso.

Dato che è stato più volte fatto presente in privata sede senza alcun risultato, ci teniamo a sottolineare che sarebbe doveroso da parte del Presidente dell’Associazione “San Michele Arcangelo” di far sapere ai fedeli che generosamente hanno dato i propri contributi in danaro dove sono andate a finire le loro offerte, posto che furono raccolte per uno scopo preciso e dietro precisi progetti. Ci auguriamo che adesso, dopo questa testimonianza pubblica, i fedeli vengano informati su tutto ciò proprio in virtù di quella parresia evangelica, da loro tanto decantata.

Desideriamo soprattutto ringraziare Iddio per averci portati via da questa realtà settaria in cui eravamo finiti soprattutto per ignoranza e approssimazione in materia di dottrina e di fede, riaccolti oggi in seno alla Sua Santa e unica Chiesa Cattolica. Dopo esserci dissociati totalmente e definitivamente da questa pericolosa setta, desideriamo ringraziarVi per aver permesso alle nostre anime ― adesso consapevoli dell’errore commesso e di aver gravemente ferito Nostro Signore ―, di ritornare con più slancio, ardore e zelo tra le braccia di quella Madre, la Chiesa, che malgrado ferita e umiliata dai Suoi nemici, è Madre e Madre rimane, continuando ad allattare i suoi figli col puro latte spirituale dei Santi Sacramenti.

In conclusione desideriamo far giungere al Sig. Minutella questo messaggio da parte di un esteso gruppo di veronesi, invitandolo a rispondere “sui contenuti” e non lanciando anatemi a destra e a manca, o creando le sue solite fanta-storie e presentandosi infine come vittima contro la quale tutti si accaniscono. Queste le domande nel merito:

 

  1. A Verona molte persone, dopo aver fatto scelte di vita in cui ci si è staccati dalle proprie case e in cui ci si è adoperati nel lavoro con le risorse possibili nella costruzione del Polo Mariano, si chiedono che fine abbia fatto questo progetto e il danaro offerto per la realizzazione dello stesso. Vuole fornire risposta?
  1. A fronte delle molte offerte devolute, ritiene serio liquidare il tutto in meno di un minuto durante una diretta sul Canale Domina Nostra di YouTube?
  1. È possibile avere chiarimenti precisi riguardo il silenzio fin qui esteso sul Polo Mariano e che solo stamani abbiamo appreso non «essere strutturalmente legato a un luogo», ma un qualcosa che si «sposta» da una parte all’altra del Veneto secondo le sue personali e indiscutibili decisioni?
  1. Come può una persona seria e matura liquidare in 40 secondi un’opera in cui tanta gente ha investito, creduto e dato fiducia, lasciando chiaramente intendere che quando una cosa non gli va più bene o quando le sue indicazioni «non vengono più rispettate» è pronto a sostituirla senza avere nemmeno l’onestà intellettuale di dire cosa realmente è accaduto?
  1. A Verona, a suo dire almeno fino a qualche tempo fa unico posto che “la Madonna” aveva scelto prima di cambiare idea e di volersi traferire a Padova, iniziano a sorgere dubbi molto seri a riguardo di questo progetto in generale, intende chiarire il tutto sia sul piano spirituale che su quello materiale e finanziario?

Le nostre sono domande nello stretto merito, basate sui fatti e sulle somme di danaro offerte e transitate su precisi conti correnti. Attendiamo risposta da parte del Sig. Minutella, non interpretazioni o manipolazioni della realtà come in altri numerosi casi ha fatto. Sappiamo che ciò gli riesce particolarmente difficile e faticoso, ma per una volta speriamo provi a dire le cose come realmente sono andate, ossia: che per una volta provi a dire la verità.

Grazie ancora cari Padri de L’Isola di Patmos, ci raccomandiamo alle Vostre preghiere con un augurio sincero per il Vostro apostolato.

Giannantonio e Barbara (Verona)

.

.

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

Il libro del Cardinale Gerhard Ludwig Müller contiene realtà e verità, però ci fa rimpiangere tutti gli uomini della vecchia scuola come il Cardinale Angelo Sodano

—  Attualità ecclesiale —

IL LIBRO DEL CARDINALE GERHARD LUDWIG MÜLLER CONTIENE REALTÀ E VERITÀ, PERÒ CI FA RIMPIANGERE TUTTI GLI UOMINI DELLA VECCHIA SCUOLA COME IL CARDINALE ANGELO SODANO

bisogna baciare la mano che ci schiaffeggia, se quella mano è la mano del Sommo Pontefice o del nostro Vescovo. Peccato che questa lezione l’abbia imparata un povero prete come me, ma non l’abbia imparata un grande teologo come il Cardinale Gerhard Ludwig Müller, che ha persino intitolato il proprio libro: In buona fede.

Autore Ipazia Gatta Romana

Autore
Ipazia Gatta Romana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per entrare nel negozio-librario cliccare sulla copertina

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

La sinistra radicale di Micromega fa resistenza alla “violenza” del Battesimo. Ovvero: il ridicolo paradosso degli atei ossessionati da Dio

LA SINISTRA RADICALE DI MICROMEGA FA RESISTENZA ALLA “VIOLENZA” DEL BATTESIMO. OVVERO: IL RIDICOLO PARADOSSO DEGLI ATEI OSSESSIONATI DA DIO 

I circoli di atei anticlericali potrebbero correre il serio rischio di sentirsi porgere una domanda ben più drammatica e realistica: se un padre e una madre che portano un neonato a battezzare commetterebbero a loro dire una violenza mediante il battesimo, quei padri e quelle madri che decidono invece di impedire ai figli di venire al mondo mediante la pratica dell’aborto, quale genere di violenza commettono, sui figli?

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

 

PDF  articolo formato stampa

 

.

“Perché bisognerebbe vietare il battesimo ai minori” è un articolo comparso su Micromega a firma di Alessandro Giacomoni, nel quale l’editorialista arriva a sostenere che la Chiesa Cattolica in modo subdolo costringerebbe a battezzare i propri figli per evitare di essere discriminati nel contesto della propria comunità sociale [vedere articolo: QUI]. Secondo questo pensiero, i genitori sarebbero perciò ricattati a portare i propri figli al fonte battesimale, pena l’essere visti come “animali rari” da evitare, compatire e quindi discriminare.

Queste affermazioni del giornalista denotano solo una visibile ignoranza arricchita di luoghi comuni sulle realtà sacramentali e pastorali della Chiesa. Oltretutto, al giorno d’oggi, tra la maggioranza di coloro che si definiscono “cristiani non praticanti” questo problema non è minimamente contemplato, men che meno si pongono il problema di venire rimproverati dal proprio sacerdote. Come i confratelli parroci sanno bene, è più facile che avvenga il contrario e che un “cristiano non praticante” si metta a biasimare il prete e dire quello che è giusto fare, alle volte anche sfiorando l’offesa personale o l’atteggiamento verbale aggressivo.

Ci chiediamo: non sarà, forse, che questo editorialista di Micromega si stia riferendo ai soliti volti noti dell’anticlericalismo? L’elenco è presto fatto: iniziamo dagli sparuti circoletti italiani dell’associazione UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti), per passare poi ad alcuni nostalgici del Comunismo e del Socialismo più becero, terminando con quelle figure mitologiche degli attivisti che nel fine settimana montano un gazebo in Piazza del Popolo reputando possibile decretare democraticamente la fine della Chiesa Cattolica e del messaggio cristiano attraverso una raccolta di firme.

Se questo è il livello della contestazione, allora siamo davvero alla farsa tragicomica. Sicché, giusto per sdrammatizzare un po’, si potrebbe parafrasare quella espressione del simpatico Obelix ― l’amico di Asterix ― che reinventò l’acrostico S.P.Q.R. dal noto significato «il senato e il popolo romano» traducendolo in «sono pazzi questi romani». Proprio così: «sono pazzi questi atei» che parlano di Dio e delle cose di Dio più di quanto ne parlino gli stessi preti. I loro “dogmatismi laicisti” sono spassosissimi ma puzzano di naftalina come i vecchi pizzi di nonna Abelarda, per citare un’altra mitica figura dei fumetti classici. Urgono perciò robusti infermieri per accompagnare le ossessioni compulsive dell’ateismo che ha la pretesa di confutare un’entità, quella divina, che non dovrebbe esistere e che quindi non dovrebbe neanche creare alcun problema alle persone sane di mente: «sono pazzi questi atei».

Ma andiamo avanti, il buon editorialista inizia con lo spulciare il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Codice di Diritto Canonico con la stessa attenzione e consapevolezza con cui si sfogliano i giornali sul tavolino del barbiere per poi estrapolare alcune definizioni operando un mash-up di esegesi laica che si conclude con questa rara perla di “saggezza”:

«Ne consegue che anche ad oggi, ogni prelato può tranquillamente permettersi esternazioni denigratorie nei confronti dei battezzati».

La domanda sorge spontanea: ma quale film di fantascienza ha visto il buon editorialista? In quante chiese è entrato, a quante Messe o omelie ha assistito, quanti battesimi ha visto per poter dire queste cose con tanta sicumera? Non ci è dato di saperlo, ma presumiamo nessuna di tutte queste cose, quello però che sappiamo è che davanti a una certa spocchiosa superiorità morale non è possibile fare nulla, se non riconoscere che in alcuni individui il pensiero critico è clinicamente morto.

L’apice dell’articolo, come non aspettarcelo, arriva a chiedere l’abolizione del battesimo e l’inserimento del battesimo laico in quanto quello confessionale violerebbe la «convenzione sui diritti dei bambini, ratificata dall’Italia nel 1991», e ancora «ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata deve salvaguardare l’interesse superiore del bambino» cosa che evidentemente per il nostro, il battesimo non fa. Quindi il battesimo per un bambino sarebbe un’occasione per subire un danno? Di quale entità? Quali lesioni aggravanti devono essere impedite? Sarebbe interessante e avremmo gioco facile nell’invitare il giornalista a fare altrettanto con altre fedi religiose, ad esempio quelle abramitiche, che prevedono la pratica della circoncisione come segno nella carne, cosa decisamente più invasiva rispetto al gesto di versare un po’ d’acqua tiepida sul capo di un neonato, non vi pare? E se per caso, una volta divenuto adulto, il giovane ebreo o il giovane musulmano rivolesse il prepuzio, che cosa pensa di dirgli, il sapiente editorialista di Micromega così sconvolto per un po’ d’acqua tiepida versata sulla testa di un neonato? Perché qualche goccia di acqua tiepida non lascia alcun segno visibile, mentre l’asportazione di un prepuzio dall’organo genitale maschile ti lascia un segno indelebile per tutta la vita. Non a caso, gli ebrei, definiscono la circoncisione con una bellissima espressione densa di significati spirituali: בְּרִית מִילָה (Brit milah), che significa alla lettera “patto dell’alleanza”.  Ma sappiamo già che a determinati indirizzi è meglio non bussare, perché si trova pane per i propri denti e alle volte anche altro. Quindi meglio attaccare i cristiani, in modo particolare i cattolici, perché tanto non dicono nulla e non si difendono, per prendersi poi il plauso e i likes del pensiero dominante moderno con le sue icone pop che spadroneggiano in tv, sul web e nel parterre del festival sanremese.

La teoria che da sempre va per la maggiore è che dovrà decidere il bambino una volta diventato adulto, se essere battezzato o no. Teoria che vorrebbe essere presentata come logica, ma che di fatto non lo è, come non lo sono tutte quelle affermazioni basate sul puro e malcelato pregiudizio. Presto detto: applicando questa pseudo-logica i genitori non dovrebbero prendere alcuna iniziativa mirata alla crescita, alla formazione e persino alle cure fisiche del figlio, che una volta divenuto adulto potrebbe reputare opportuno tutt’altro, rispetto a ciò che i genitori hanno scelto per lui. Cosa questa che vale per tutto, dalla scelta della scuola sino alla ortodonzia attraverso la quale il dentista applica un apposito apparecchio per correggere i denti storti, o per allargare una apertura dentale stretta. E se una volta divenuto adulto il figlio dicesse che avrebbe preferito andare a un’altra scuola, o avere i denti storti e un’arcata dentale stretta, piuttosto che portare un apparecchio ortodontico per diversi anni? Come può, un genitore, scegliere e decidere di sottoporre un bambino a un intervento di chirurgia ortopedica per correggere il piede piatto, o fargli portare per alcuni anni un busto nella fase della crescita per correggere una forma di scoliosi? Come possono osare, i genitori, scegliere per lui ciò che loro reputano opportuno, migliore e più salutare? Non è forse una violenza? E se una volta giunto alla maggiore età il figlio avesse preferito il piede piatto e la scoliosi, anziché essere operato da un ortopedico o anziché portare per anni un busto? Perché, questi atei-agnostici-razionalisti non provano a lasciare i loro bambini liberi di scegliere ciò che istintivamente reputano opportuno fare? Sarebbe molto interessante vedere cosa sceglierebbe di fare un bambino di pochi anni che non ha ancora acquistato il senso del pericolo.

Desidero ricordare ai nostri Lettori che le obiezioni al battesimo dei bambini non sono una scoperta recente, ma già nei primi secoli del cristianesimo si era posto questo problema e le argomentazioni dei contrari non erano molto diverse da quelle di oggi. Mi sembra utile, quindi, ricordare e illuminare i fedeli sull’argomento facendo parlare i Padri della Chiesa che hanno scritto pagine meravigliose sul battesimo, sia per difenderlo dalle opposizioni e sia per illuminare le menti con quel pensiero della Chiesa Apostolica che ha sempre creduto e vissuto il battesimo come la conformazione a Cristo e l’inizio di un cammino serio di conversione al Vangelo e di rinuncia al peccato. Risponde a tal proposito il santo vescovo Agostino da Ippona nella sua Lettera a Bonifacio [Cfr. Lettera 98 di Sant’Agostino a Bonifacio 7-10,11]:

«A causa della solita tua vivissima avversione per la minima bugia, nell’ultimo tuo quesito ti è parso d’aver proposto una questione difficilissima. «Se ― dici ― ti presentassi un bambino e ti domandassi se, da adulto, sarà casto e non sarà un ladro, senza dubbio mi risponderesti: “Non lo so”. Così pure se ti domandassi se il bimbo essendo ancora nella medesima tenera età, pensi qualcosa di bene o di male, diresti: “Non lo so”. Se perciò non osi garantire nulla di sicuro riguardo alla sua condotta futura e al suo pensiero attuale, perché mai quando vengono presentati al battesimo, i genitori rispondono invece di essi come garanti e affermano ch’essi fanno ciò che quell’età non può pensare o, se lo può, rimane a noi ignoto? In realtà, ai padrini che ci offrono un bambino da battezzare, noi domandiamo se crede in Dio e in nome del piccino, che non sa neppure se Dio esiste, essi rispondono: “Crede”. Con la stessa sicurezza si risponde a tutte le altre singole domande loro rivolte. Mi stupisco quindi che i genitori rispondano al posto dei bambini con assoluta sicurezza trattandosi di cose tanto serie e impegnative, affermando che il bambino compie azioni sì importanti su cui vertono le domande rivolte dal ministro del battesimo nel momento che quello è battezzato; mentre nello stesso momento se facessi loro quest’altra domanda: “Questo bimbo, che ora viene battezzato, sarà casto o non sarà piuttosto un ladro?”, non so se alcuno oserebbe affermare: “Sarà o non sarà tale”, come senz’ombra di dubbio mi viene risposto che crede in Dio”. Alla fine, concludi il tuo ragionamento dicendo: ” Usa la cortesia di rispondere brevemente a queste mie domande, non allegando la norma della consuetudine ma adducendone il motivo e la spiegazione».  

In questa risposta si intravede perfettamente il ruolo che il Vescovo di Ippona attribuisce alla fede dei genitori e dei padrini che liberamente e volontariamente accompagnano al battesimo i propri figli. Il bambino battezzato viene reso fedele non da un atto simile a quello dei fedeli adulti, ma dal Sacramento della stessa fede che viene trasmesso come cosa buona da chi ha già fatto esperienza di Cristo e desidera trasmetterla. Allo stesso modo, per Sant’Agostino, sia i genitori che i padrini rispondono al battesimo dei propri figli affermando il proprio credo, volontà libera e non coercitiva, in tempi dove definirsi cristiani era molto più scomodo e pericoloso di oggi. Capiamo che il bambino battezzato si chiama fedele ― nel senso di unito a Cristo ― non semplicemente col dare l’assenso personale della sua intelligenza, ma col ricevere il Sacramento della stessa fede che è stato trasmesso nella propria famiglia. Quando poi il bambino, crescendo, comincerà a capire, non avrà più bisogno di un nuovo battesimo, ma comprenderà il Sacramento ricevuto e si conformerà, col consenso della sua volontà, dalla realtà spirituale rappresentata dal battesimo.

Dopo questa descrizione così chiara, possiamo comprendere che tutte le cose reputate buone vengono trasmesse dai genitori ai figli e che spesso le passioni dei padri diventano quelle dei figli, ma mai nessuno si sognerebbe di dire che il bambino è fatto vittima di violenza.

Nel Rito del Battesimo il sacerdote domanda: «che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?» è una domanda semplice che definisce una volontà ben libera di procedere in un cammino di fede attraverso il battesimo. Ma questo non basta, il sacerdote avverte i genitori del battezzando della responsabilità di questa richiesta: «chiedendo il Battesimo per vostro figlio, voi vi impegnate a educarlo nella fede, perché, nell’osservanza dei comandamenti, impari ad amare Dio e il prossimo, come Cristo ci ha insegnato. Siete consapevoli di questa responsabilità?». Se questa consapevolezza c’è, bene, altrimenti si aspetta, non c’è fretta nelle cose di Dio, è inutile battezzare il proprio figlio per altre ragioni se non perché lo si vuole far vivere della stessa vita di Cristo. Il battesimo è l’inizio di ogni discepolato e di quel cambiamento evangelico ― μετάνοια (metànoia) ― che coinvolge tutta la famiglia, Chiesa domestica, a costituire il fulcro del primo annunzio della fede.

San Fulgenzio di Ruspe nella Regola della vera fede [Cfr. 30,14] afferma:

«[…] nessun uomo può ricevere la salvezza eterna, se non si è convertito quaggiù dai suoi peccati con la penitenza e la fede, e che per mezzo del Sacramento della fede e della penitenza, cioè per mezzo del battesimo, non se n’è liberato»

La “Chiesa istituzionale”, chiamiamola così per i meno scafati in queste faccende, subentra successivamente a questa consapevolezza e accompagna il cammino di fede della famiglia potenziandolo e dirigendolo al meglio con la grazia che viene dallo Spirito Santo. Ma del resto non avviene lo stesso con l’apprendimento? Il bambino di sei anni quando entra in prima elementare non conosce già tante cose ed è capace di parlare. Da chi ha attinto queste informazioni se non dalla casa? La frequenza a scuola e il percorrere l’itinerario di apprendimento è solo il proseguo di quello che la famiglia ha già fatto, strutturandolo in modo robusto e aprendo al piacere e al desiderio della conoscenza le giovani menti che un domani saranno in grado di governarsi nel mondo da persone mature.

Per finire invitiamo fraternamente i giornalisti di Micromega ad esimersi per il futuro da queste esternazioni imbarazzanti che avrebbero fatto impallidire uomini di grande talento e intelletto del calibro di Enrico Berlinguer e Marco Pannella, o che indurrebbero un autentico liberale come Daniele Capezzone a dar loro sbrigativamente degli ignoranti senza alcuna esitazione. Sia infatti chiaro: gli esponenti del vecchio Partito Comunista Italiano, o i Radicali cresciuti alla scuola politica di quella mente brillante di Marco Pannella ― di cui poco o forse niente condividiamo, ma che riconosciamo però dotato di indubbie qualità politiche ―, con certi beceri soggetti non hanno nulla da spartire sia sul piano della idealità che su quello della esposizione delle critiche formulate alla Chiesa Cattolica.

La proposta del battesimo laico? È sicuramente la miglior trovata del “dogmatismo” ateo, dopo quella che li indusse a proporre la figura del … “cappellano ospedaliero laico”. Tutto fatto per inseguire il disperato desiderio di diventare i nuovi preti del laicismo con tutto quel bagaglio liberal-clericale che ne deriva. Il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, che in fatto di critica alla Chiesa non è stato secondo a nessuno, riprendendo l’acrostico S.P.Q.R. lo traduceva in «Solo Preti Qua Regnano». Sì, voi inseguite questo sogno essere il nuovo clero laico regnante della mondanità, ma ricordatevi una cosa, se dopo duemila anni la Chiesa è ancora presente e battezza per mandato di Cristo è perché c’è quel qualche cosa di più ― lo chiediamo agli atei, è forse Dio? ― che la sostiene e la difende. Forse sarebbe meglio da parte vostra un minimo di attenzione in più, almeno un po’ più di prudenza. Anche perché i circoli di atei anticlericali potrebbero correre il serio rischio di sentirsi porgere una domanda ben più drammatica e realistica: se un padre e una madre che portano un neonato a battezzare commetterebbero a loro dire una violenza mediante il battesimo, quei padri e quelle madri che decidono invece di impedire ai figli di venire al mondo mediante la pratica dell’aborto, quale genere di violenza commettono, sui figli?

Laconi, 6 febbraio 2023

 

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

Nel corso dei secoli la confessione sacramentale ha subìto dei mutamenti radicali che i grandi “dottori teologi” di Facebook e Twitter ignorano

—  Attualità ecclesiale —

 NEL CORSO DEI SECOLI LA CONFESSIONE SACRAMENTALE HA SUBÌTO DEI MUTAMENTI RADICALI CHE I GRANDI “DOTTORI TEOLOGI” DI FACEBOOK  E TWITTER IGNORANO

Grazie ai Social Media molti, raggruppati in fitte legioni di stolti sempre più agguerrite, oltre che peggiori della biblica invasione delle cavallette, si auto-formano di regola a questo modo: prima spiluccano da un blog all’altro, poi si cimentano nell’uso di parole di cui non conoscono neppure il significato etimologico ― ma soprattutto il significato che hanno nel linguaggio filosofico, metafisico e teologico-dogmatico ―, infine salgono sulla cattedra di Facebook o di Twitter per dare lezioni di corretta dottrina a noi teologi, sparando una dietro l’altra assurdità a raffica, spesso anche in modo violento e aggressivo.

 

 

PDF  articolo formato stampa

 

 

Ponendo una domanda un Lettore mi ha ispirato questo articolo che potrebbe risultare utile a molte persone:

 

«Vero che Cristo condanna il peccato e non il peccatore. Vero che il peccatore va perdonato settanta volte sette, quindi sempre. Ma alla centesima volta che una persona viene da lei a confessare lo stesso peccato non pensa mai che forse ci sta “ciucciando” un pochino? Le prime comunità cristiane se ben ricordo non è che andavano poi così leggere nel giudizio sul peccatore e, dopo il peccato, non bastava la contrizione del cuore e prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche. Probabilmente i miei sensi di colpa nascono da qui … masochismo? Ma mi pare che anche nei canoni apostolici si parli di questo percorso».

 

Frate Cappuccino confessore (foto by Aldo Lancioni)

 

Sono domande che offrono l’opportunità di fare un po’ di dogmatica sacramentaria, materia alla quale mi sono molto dedicato assieme alla storia del dogma.

Nei tempi tristi e confusi che stiamo vivendo, noi sacerdoti e teologi dobbiamo fare i conti con la realtà di “cattolici” che spaziano tra il magico-estetico e il fideismo più becero. Grazie ai Social Media molti, raggruppati in fitte legioni di stolti sempre più agguerrite, oltre che peggiori della biblica invasione delle cavallette, si auto-formano di regola a questo modo: prima spiluccano da un blog all’altro, poi si cimentano nell’uso di parole di cui non conoscono neppure il significato etimologico ― ma soprattutto il significato che hanno nel linguaggio filosofico, metafisico e teologico-dogmatico ―, infine salgono sulla cattedra di Facebook o di Twitter per dare lezioni di corretta dottrina a noi teologi, sparando assurdità a raffica, spesso anche in modo violento e aggressivo. E non sempre, purtroppo, si riesce a ridere sulle scempiaggini di questi teologi internetici. Alcune volte sì, altre invece no.

Ecco un tipico esempio di bieco e becero fideismo basato sul magico-estetico, della serie … abracadabra la magia è fatta! Una tale ha scritto sulla mia pagina social che «le preghiere recitate in latino sono potentissime e il Demonio proprio non le sopporta», perché ne è terrorizzato.

Per pedagogia, soprattutto per autentica carità cristiana, persone simili non possono essere prese sul serio, vanno prese solo in giro. Cos’altro si potrebbe fare con soggetti che dalle loro cattedre erette sui social media pensano di poter parlare del mistero della grazia divina, della sacramentaria ― che peraltro è il ramo più complesso della teologia dogmatica ― e della disciplina dei Sacramenti, con la leggera disinvoltura con cui si può discutere con la sciampista nella sala del parrucchiere sull’ultimo articolo  pubblicato su un magazine di gossip?

Ecco allora che la presa di giro rivolta a queste persone diviene un atto opportuno e pedagogico della più autentica carità cristiana. Infatti, ciò che non è serio e che si palesa così grottesco e anti-scientifico, anti-dottrinale e anti-teologico, va destituito di valore. Per fare questo l’arma più efficace è costituita dall’ironia e dalla sapiente e caritatevole presa di giro.

E così, a quella Signora che quasi sicuramente non riuscirebbe a tradurre dal latino all’italiano neppure le prime semplicissime righe del De bello gallico ma che invoca la “lingua magica” del latino per terrorizzare il Demonio, risposi che quando noi celebriamo il Sacrificio Eucaristico in lingua italiana, o quando anziché dire Dominus vobiscum diciamo Il Signore sia con voi, sicuramente il Demonio si scompiscia dalle risate, non sentendosi colpito attraverso il magico latino che lo stende invece a terra all’istante spaventato e tramortito.

Questa articolata premessa per dire che quando mi sono posti quesiti intelligenti come quello inviato da questo nostro Lettore, è come se mi fosse giunto in omaggio un regalo:

«Alla centesima volta che una persona viene da lei a confessare lo stesso peccato non pensa mai che forse ci sta “ciucciando” un pochino?».

Quesito pertinente, perché proprio in questi casi si può vedere quanto uno sia un confessore sapiente e illuminato dalla grazia di Dio. Anzitutto va tenuto conto che Cristo, divina pietra angolare, scelse Pietro per la edificazione e il governo della sua Chiesa (cfr. Mt 13, 16-20). E tra tutti gli Apostoli Pietro era il più fragile e spocchioso, come più volte dimostrò, al tempo stesso si mostrò pure il più codardo. All’occorrenza si mostrò confuso, indeciso e ambiguo in materia di dottrina. Era un pescatore galileo ingenuo, passionale e buono che tale rimase per tutta la vita. Non brillava per intelligenza, meno che mai per cultura. Basti ricordare come fu fatto nero ad Antiochia dal Beato Apostolo Paolo, pur con tutto il rispetto per il suo primato di Capo del Collegio degli Apostoli. Adesso ripercorriamo quella vicenda molto interessante di Antiochia narrata dallo stesso Apostolo Paolo:

«Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”. Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Impossibile! Infatti se torno a costruire quello che ho distrutto, mi denuncio come trasgressore. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano”» (Gal 2, 11-21).

In questo dibattito avvenuto ad Antiochia, il Beato Apostolo Paolo enuncia la teologia e la dottrina della grazia e della giustificazione. Esattamente quella che fraintese un frate agostiniano tedesco notoriamente asino, mi pare si chiamasse Martin Lutero, fucina di immani danni prodotti nella Chiesa attorno al XVI secolo, con buona pace di certa piaggeria cattolica che oggi lo indica come “riformatore” e che chiama la sua eresia scismatica “riforma”. Tra l’altro proveniva da uno storico Ordine che prende nome proprio da Sant’Agostino che fu autore del De natura et gratia.

Sempre restando nell’ordine degli esempi iperbolici: se dopo la morte di Gesù Cristo si fosse tenuto un conclave, quanti avrebbero votato Pietro e quanti Paolo? Quale profonda differenza correva tra Pietro, Giacomo il Maggiore e suo fratello Giovanni, indicati da Cristo Dio col nome aramaico di “figli del tuono” ― boanèrghes ―, riportato poi in caratteri greci come βοανηργες (cfr. Mc 3, 16-18). Se mettiamo a confronto Pietro con figure di apostoli come Giovanni o Paolo, la differenza apparirà all’incirca come quella che potrebbe correre tra Roberto Benigni e Marcello Mastroianni, tra Jerry Lewis e Gregory Peck. Eppure Cristo scelse lui che incarnava tutte le nostre fragilità umane, dando ad esso le chiavi del regno e il potere di legare e di sciogliere (cfr. Mt 16, 13-19), il tutto pur avendo avuto elementi di gran lunga migliori tra i quali scegliere il Capo del Collegio degli Apostoli. Allora proviamo a domandarci: perché scelse Pietro e non altri?

Ad assolvere dai peccati non è un Angelo di Dio, così come a guidare la Chiesa di Cristo non è una schiera di Cherubini e Serafini, ma di sacerdoti, di alteri Christi che agiscono in Persona Christi e che spesso possono essere peccatori peggiori di colui al quale concedono la grazia e il divino perdono attraverso l’assoluzione sacramentale: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi …» (Gv 20, 22-23).

La teologia, la dogmatica sacramentaria in particolare, non può essere scissa dalla storia del dogma, perché nel corso di duemila anni la disciplina dei Sacramenti ha avuto delle mutazioni a volte radicali, frutto di una lunga gestazione intesa come acquisizione della percezione del Sacramento e dei Sacramenti in sé. O forse qualcuno pensa che i primi cristiani avessero della Santissima Eucaristia la percezione che oggi ne abbiamo noi? O che esponessero dentro l’ostensorio il Santissimo Sacramento per l’adorazione eucaristica, pratica di sacra devozione al Santissimo Corpo di Cristo che prenderà vita solamente circa 1300 anni dopo la morte e risurrezione del Verbo di Dio? Quali libri di preghiere usavano i primi cristiani in epoca apostolica e con quale Messale celebravano la Santa Messa, forse con quello che certi ridicoli contemporanei chiamano … il messale della Messa di sempre? I primi cristiani recitavano forse preghiere alla Beata Vergine Maria? I Dodici Apostoli radunati assieme cantavano Salve Regina in gregoriano alla presenza della Mater Dei per renderle onore mentre soggiornava a Efeso o a Gerusalemme? Veneravano le reliquie dei Santi? Andavano in pellegrinaggio per i santuari nei quali si poteva lucrare l’indulgenza, o forse affollavano la collina di Medjugorje dove nel pacchetto viaggio completo si garantisce anche la conversione, oltre — s’intende — all’apparizione assicurata della Madonna? Oppure, dopo l’Editto di Milano del febbraio 313, i cristiani strillavano, stile neocatecumenali invasati: … «siamo stati riconosciuti e approvati … approvati! Non potete quindi dirci e farci niente: siamo stati approvati! Chi è contro di noi è contro gli augusti imperatori Costantino e Licinio che ci hanno approvati … approvati!»? E sempre dopo questo editto, ai cristiani furono forse date le antiche basiliche della romanitas con un posto d’onore nell’antico Senato riservato al Vescovo di Roma? Sinceramente vorrei sapere certa gente che film di fantascienza ha visto, sarebbe interessante conoscerne perlomeno il titolo.

È presto detto: un peccatore potrebbe commettere quel particolare peccato anche una volta ogni 48 ore, andando poi a chiedere la grazia e il perdono di Dio. Ovviamente purché sia pentito e “vittima” di fragilità e debolezze che non riesce sul momento a gestire e superare. Tutt’altro discorso se il peccatore commette in continuazione lo stesso peccato perché per indolenza, pigrizia o egoismo vuole essere debole e fragile e non intende in alcun modo reagire a quelle sue debolezze e fragilità alle quali potrebbe invece reagire, o peggio perché convinto “…. vabbè, tanto poi vado a confessarmi”. In quel caso, per il bene del penitente si può giungere persino a negare l’assoluzione. Posso però garantire che soggetti di questo genere è difficile ― mi verrebbe da dire quasi impossibile ― che vadano avanti e indietro dal confessionale a chiedere perdono per lo stesso peccato.

Il Lettore seguita a chiedere:

«Le prime comunità cristiane se ben ricordo non è che andavano poi così leggere nel giudizio sul peccatore e, dopo il peccato, non bastava la contrizione del cuore e prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche».

È vero, ma siamo ai primordi dell’esperienza cristiana, in un’epoca nella quale a molti non era ancora chiaro che cosa fosse realmente accaduto di grandioso per l’intera umanità dal Calvario al sepolcro vuoto di Cristo risorto e poi asceso al cielo. Diverse erano le correnti dei primi cristiani, due le principali: i giudeo-gesuani, ossia gli ebrei che avevano scelto di seguire il messaggio del Cristo e che risentivano molto della cultura ebraica e della legge rabbinica, in particolare di quella farisaica, dal cui ceppo provenivano lo stesso Apostolo Paolo (cfr. At 23, 6) e i pagani convertiti appartenenti alle popolazioni greche e latine.

Come prova “l’incidente” di Antiochia tra gli Apostoli Pietro e Paolo, molto accesi erano gli scambi tra circoncisi e non circoncisi. E con tutta la confusione che spesso ne seguiva si discuteva se i cristiani dovessero seguitare con la pratica rituale della circoncisione. Molti intendevano l’Eucaristia come una celebrazione di Pesach (la Pasqua ebraica) che anziché una volta all’anno era celebrata una volta alla settimana. Basterebbe poi ricordare che da lì a seguire occorreranno quasi quattro secoli e due grandi concili dogmatici per definire prima a Nicea nel 325, poi a Costantinopoli nel 381, il mistero della Persona e della natura di Cristo. E siccome non esistevano neppure termini lessicali per poterla definire, i Padri della Chiesa furono costretti a prendere a prestito terminologie dal lessico filosofico greco e a modularle per dare una definizione a questo ineffabile mistero.

All’inizio ho fatto richiamo ai “dottori in teologia sacramentaria” specializzati all’accademia di Facebook e di Twitter, quelli da prendere in giro per imperativo di coscienza e soprattutto per carità cristiana, pronti a lanciarsi in temi per i quali spesso, se non quasi di prassi, presbiteri sessantenni con trent’anni di ministero sacerdotale alle spalle domandano spiegazioni a qualche confratello teologo o storico del dogma, semmai di vent’anni più giovane di loro, prima di addentrarsi in certe disquisizioni molto complesse sul piano teologico, che di riflesso comportano tematiche altrettanto complesse sul piano storico. È infatti impossibile comprendere la disciplina dei Sacramenti se non si conosce bene e a fondo la storia.

È vero, le prime comunità cristiane avevano altra concezione del perdono dei peccati, basti dire che il Sacramento della penitenza poteva essere ricevuto una sola volta nella vita, dopo un percorso penitenziale fatto sotto la guida del Vescovo. Una volta ricevuto questo Sacramento il fedele non poteva peccare più, se non a suo rischio e pericolo, perché non avrebbe potuto mai più riceverlo. Per sette secoli l’assoluzione dai peccati fu considerato un Sacramento “non ripetibile”. Per questo i cristiani cercavano di ricevere l’assoluzione prima di morire, o comunque in età elevata. E molti morivano senza riceverla.

In questi primi secoli si crea anche il complesso problema dei lapsi. Termine latino che alla lettera significa “scivolati”, usato per indicare i cristiani che durante le persecuzioni del III e IV secolo bruciarono incensi agli dei pagani facendo atto di adorazione verso di essi. Ciò non per convinzione ma perché minacciati di morte, quindi solo per paura di morire. Anche dinanzi al caso dei lapsi fu tenuta ferma la disciplina della irripetibilità della penitenza. Sulla riammissione dei lapsi alla Comunità dei credenti la Chiesa delle origini si trovò divisa tra la corrente di Cornelio, eletto Vescovo di Roma nel 251, propenso al perdono e al loro accoglimento, ed i seguaci del presbitero Novaziano che negava loro qualsiasi forma di accoglienza e che finì poi scomunicato dal sinodo romano. Da lui nacque quella corrente conosciuta oggi come eresia novaziana, che per alcuni secoli seguitò a trovare adepti. Memorabile la battaglia teologica condotta contro i novaziani da Ambrogio vescovo di Mediolanum, che sul finire del IV secolo compose il De poenitentia, opera suddivisa in due libri in cui è sono confutate: nel primo le tesi dei seguaci di Novaziano che consideravano non perdonabili i peccati mortali e la necessità che si procedesse con un nuovo battesimo per i seguaci della loro setta eretica; nel secondo offre una dotta dissertazione sul concetto di penitenza e del modo in cui deve essere amministrata. Il Vescovo Ambrogio confuta i novaziani ricordando loro che la misericordia di Dio offre a tutti i peccatori pentiti la sua grazia. Ribadisce il fondamento analogico tra battesimo e penitenza e infine riafferma anch’esso l’irripetibilità di entrambi questi sacramenti che generano una sostanziale trasformazione di vita in chiunque si penta per i peccati commessi e il male che con essi è stato arrecato ad altri. I novaziani pretendevano di invitare da una parte alla penitenza e al pentimento, dall’altra negavano però il perdono, convinti di rendere lode all’Onnipotente col loro rigore, ma di fatto disprezzando la grazia e il perdono di Dio attraverso la loro cieca durezza di cuore. Lascio adesso valutare, a chiunque abbia letto solo alcuni sproloqui di certi sedicenti teologi internetici fai-da-te, se quella novaziana non è per caso una delle diverse eresie di ritorno della nostra attualità.

Con la discesa dei barbari dal Nord dell’Europa ― che poco dopo si convertirono in massa al Cristianesimo affascinati dalle grandi e virili figure di certi Vescovi e Padri della Chiesa ―, si incominciò a ventilare l’ipotesi di rendere questo Sacramento ripetibile per far sì che il percorso di conversione e di vita cristiana fosse meno impossibile per questi popoli. Ipotesi dinanzi alla quale molti Padri della Chiesa e teologi dell’epoca gridarono all’eresia! Presumibilmente, uno di questi, sarebbe stato lo stesso Ambrogio, poc’anzi citato, che tre secoli prima ribadì la irripetibilità della penitenza in una sua celebre opera teologica.

Perché con i barbari convertiti nasce la necessità pastorale di rendere ripetibile il Sacramento? Perché al di là della loro buona volontà, le loro abitudini e costumi di vita erano quelli che erano … insomma, dobbiamo essere grati ai barbari se questo Sacramento divenne ripetibile. Solo nel VII secolo fu introdotta la pratica privata della Penitenza, cosa che dobbiamo ai monaci irlandesi vissuti ai tempi di San Colombano che fondò il monastero di Bobbio agli inizi del VII secolo e che concorse a ridare vita alla pratica di questo Sacramento mediante una dimensione privata improntata sulla espiazione dei peccati. Così, questi monaci, scendendo dalle regioni del nord Europa in Italia portarono l’abitudine sacramentale del “confessare” a un presbitero i propri peccati in modo tale da ricevere una penitenza, detta penitenza tariffata. E qui bisogna spiegare che per penitenza tariffata si intende la classificazione delle colpe cui corrispondevano le penitenze da imporre. Questo sistema introdotto nel VII secolo cominciò a essere praticato prima in ambito monastico, poi tra il popolo con successiva gran diffusione. Dobbiamo quindi all’irlandese San Colombano e ai suoi monaci la ripetibilità di questo Sacramento, anziché la possibilità di riceverlo una sola volta nella vita. Sempre a lui dobbiamo anche la segretezza del percorso penitenziale al posto della dimensione pubblica.

Nei duecento anni che seguirono tra l’VIII e il IX secolo, i Libri Penitenziali ebbero una gran diffusione e applicazione. Le tariffe racchiuse al loro interno consistevano principalmente in digiuni imposti, che secondo la gravità della colpa commessa potevano durare talora giorni, altre volte anni. Disgrazia volle ― perché tale di fatto fu ―, che i Libri Penitenziali contenessero al loro interno delle commutazioni che permettevano al peccatore di commutare il proprio digiuno in opere espiatorie compiute da lui stesso o effettuate persino da terzi, il tutto in cambio di denaro, celebrazioni di Sante Messe, donazioni di terre, costruzione di chiese e monasteri nei casi di peccatori particolarmente ricchi. Si giunse poi a sfiorare il ridicolo, questo giusto per ricordare con un inciso che a un certo punto della storia, in quel di Certaldo, Giovanni Boccaccio nacque tutt’altro che per caso nel XIV secolo e che certe sue novelle sono tutto fuorché fantasiose invenzioni. Lascio allora intuire a chi legge, senza scendere in particolari inutili e vergognosi, quali abusi originarono certe commutazioni e quanti “santi” monaci ottennero la edificazione di grandi monasteri vendendo nei concreti fatti la espiazione dei peccati, mentre certi sovrani e potenti feudatari sottoposti a dura penitenza giunsero a pagare un proprio fedele servitore affinché facesse penitenza al posto loro (!?). Ci sarà pure un motivo, se diversi concili della Chiesa condannarono duramente il turpe peccato di simonia, il cui etimo nasce dalla vicenda di Simon Mago che cercò di offrire del danaro agli Apostoli per ricevere i doni dello Spirito Santo mediante l’imposizione delle loro mani (cfr. At 8, 18-19).

Successivamente il Sacramento della penitenza conoscerà nuove evoluzioni e innovazioni tra il IX e il X secolo con i teologi carolingi che incominciano a incentrare l’attenzione dall’espiazione dei peccati all’accusa dei peccati, ritenendola il vero cuore dell’intero processo penitenziale. Senza il sincero pentimento non può esservi perdono e la penitenza espiativa può rischiare di essere fine a sé stessa. Sino a giungere al Concilio di Trento che nel 1563 fissa le norme della Confessione con un apposito decreto, strutturando la disciplina sacramentale e canonica di questo Sacramento come la conosciamo oggi. In epoca post-tridentina nacquero anche spazi e luoghi idonei per amministrare questo Sacramento, per esempio le penitenzierie all’interno delle grandi cattedrali e basiliche, quindi l’uso dei confessionali creati tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo per garantire la riservatezza e la separazione tra il confessore e il penitente e favorire la confessione stessa. A nessuno rimarrebbe agevole, agli uomini e forse più ancora alle donne, accusare i propri peccati a un uomo che ti siede di fronte e che mentre parli ti guarda in faccia. Merita ricordare che i confessionali furono inventati dai Gesuiti, proprio gli stessi che tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento furono i primi a toglierli da molte delle loro chiese per metterli negli scantinati, oppure vendendoli agli antiquari, semmai per dare i soldi ai poveri, intendiamoci! Infatti, la ragione casuistica del Gesuita, o è sempre nobile in sé e di per sé, o in ogni caso lo diventa attraverso la manipolazione.

Non è vero che il peccatore «prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche». Però alcuni storici lo scrivono, molti lo leggono in giro e prendono simili asserzioni per vere diffondendole poi come tali. A essere pubblica non era la confessione dei peccati, ma lo stato dei penitenti, quello sì che era reso pubblico. I penitenti, quasi sempre raccolti in gruppi, dovevano fare un preciso percorso penitenziale sotto la guida del Vescovo, non potevano certo essere tenuti nascosti, ma i loro peccati sì, tanto che il Santo Pontefice Leone Magno, il lungo pontificato del quale durò dal 440 al 461, proibì la confessione pubblica e la dichiarò illegittima e contraria alle norme apostoliche:

«Noi proibiamo che in questa occasione venga letto pubblicamente uno scritto nel quale sono elencati nei particolari i loro peccati. È sufficiente infatti che le colpe vengano manifestate al solo Vescovo, in un colloquio privato» (Lettera 168).

Da tutte queste note storiche si dovrebbe comprendere che il Sacramento della penitenza, come altri Sacramenti, ha subito nel corso del tempo grandi mutazioni, a tratti veramente radicali. Sempre con buona pace di chi parla di Messa di sempre o di dottrine, regole e discipline sempre e assolutamente immutabili, con tanto di indiscutibile suggello «si è sempre fatto così nel corso dei secoli!». Espressione tipica dell’imbecille che le mutazioni e gli eventi avvenuti nei secoli le ignora di prassi tutte quante, perché si è creato un passato che non è mai esistito, allo scopo di rendere irreale il presente.

Concludo con un tocco di ironia narrando di quando una mega-catechista de La setta Neocatecumenale fece uno sproloquio kikian-carmeniano sulla necessità del ritorno alla Chiesa delle prime origini apostoliche. E qui è necessario precisare che la mega-catechista faceva i cosiddetti scrutini — vale a dire che indagava le coscienze — non solo dei laici, ma persino dei sacerdoti e, quando si tenevano le loro assemblee nelle chiuse salette, lei parlava e sproloquiava eresie a tutto spiano, mentre il sacerdote presente sedeva in silenzio vicino a lei tacendo, a vergogna di sé stesso e della dignità sacerdotale. A quel punto le citai alcuni passi della Sacra Scrittura in cui il Beato Apostolo Paolo non si limita a esortare, ma rivolge delle vere e proprie severe intimazioni: 

«Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo» (I Tm 2, 12) «Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (I Cor 14, 34-35).

Dinanzi a quei passi così chiari, le dissi che il suo compito era di tacere e basta. E detto questo le domandai se intendeva tornare alla Chiesa delle origini e applicare alla lettera certi comandi e precetti, mostrando così di anelare per davvero e fino in fondo all’auspicato ritorno alle origini. Non sapendo cosa rispondere, la povera ignorante, paradigma di ciò che di fatto sono i mega-catechisti neokatekiki, sbroccò letteralmente affermando: «Beh, si sa da sempre, che San Paolo era un misogino». Ebbene, anche se non è questa la sede, penso sia opportuno chiarire in breve che il Beato Apostolo, lungi dall’essere un misogino, rivolgeva queste parole agli abitanti di Corinto, società tendenzialmente matriarcale nella quale le donne erano solite condizionare gli uomini con forti influenze e pressioni. Quando però cercarono di fare altrettanto nella Comunità Cristiana, tentando di mettere i piedi sulla testa a vescovi e presbiteri, l’Apostolo le richiamò all’ordine. Pertanto, l’ammonimento «Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti», molto probabilmente era rivolto proprio alle mogli dei primi vescovi e presbiteri di quell’area geografica, lo si evince da quest’altro passo dell’Epistola indirizzata al discepolo Timoteo:

«[…] bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (I Tm 3, 2-5).

Il problema è che da una parte abbiamo pseudo cattolici più o meno settaristi che invocano il ritorno a origini che non conoscono e che costituiscono invece solo un nucleo evolutivo di partenza al quale non è certo auspicabile tornare, perché sarebbe come scendere dall’automobile e retrocedere al tempo antecedente l’invenzione della ruota. Dall’altra parte abbiamo pseudo-cattolici di non meglio precisata tradizione che si sono costruiti un passato che non è mai esistito, convinti che il Beato Apostolo Pietro celebrasse la Messa di sempre rivestito di solenni paramenti con assistenti presbiteri rivestiti di piviali e diaconi rivestiti di dalmatiche barocche damascate. Ovviamente celebrando ― va da sé, manco a dirsi! ― in un perfetto e magico latino, quello che spaventa e allontana il Demonio, come scriveva quella certa scienziata sulla mia pagina Social. E di certo a Simone figlio di Giona detto Pietro lo chiamavano anche “Santità” o “Beatissimo Padre”. Quando infatti i soldati romani lo arrestarono sulla Via Appia per portarlo sul Colle Vaticano dove fu crocifisso, gli intimarono: «Altolà, Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, Vostra Santità è in arresto!». E fu trascinato verso il supplizio, dando alla fine della vita la prova della eroicità delle sue virtù e morendo per grazia di Dio martire.

Per morire martire Pietro ci impiegò una vita intera, dopo essersela data a gambe più volte, l’ultima in ordine di serie poco prima di morire, durante le persecuzioni di Nerone, sotto il regno del quale finì catturato assieme ad altri cristiani in fuga e finendo sulla croce in quello che nella prima epoca romana fu un luogo paludoso umido e insalubre al di fuori del nucleo urbano metropolitano: il Colle Vaticano. Nome che alcuni fanno derivare da Vagitano, una divinità pagana che proteggeva i neonati che emettevano il loro primo vagito. Altri lo fanno derivare da vaticinor, che in latino significa “predire”, quindi collegandolo al fatto che in quella zona esercitavano il loro mestiere degli indovini già in antica epoca etrusca. Qualunque sia il vero significato della parola, resta certo che il Vaticano è un luogo dove per l’amore e il rispetto della fede si finisce messi in croce, nell’antichità come nella contemporaneità.

dall’Isola di Patmos, 4 febbraio 2023

.

Il tema trattato in questo articolo si trova approfondito nel mio libro Amoris Tristitia – Cliccare sull’immagine per aprire la pagina 

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.