Quale è la vera visibilità dell’autentico cristiano? Le imitazioni di Cristo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUALE È LA VERA VISIBILITÀ DELL’AUTENTICO CRISTIANO? LE IMITAZIONI DI CRISTO

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Una certa umiltà ecclesiastica dal sapore di naftalina ci ha purtroppo abituati a ostentare una finta umiltà che – nel momento in cui cerca strategicamente l’ultimo posto – si aspetta la glorificazione e il prestigio tanto agognato. Con questa falsa umiltà, che purtroppo oggi nella Chiesa risparmia veramente pochi, c’è il serio rischio che si snaturi anche la virtù della carità. Infatti, quando la carità viene fatta per ostentare potenza e prestigio, ottenere favori, recepire guadagni fino ad arrivare alla speculazione si può star pur certi che non esiste più carità.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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portare la croce di Cristo

Questa XXII Domenica del tempo ordinario, ci riporta alla mente uno dei classici della spiritualità cristiana, L’imitazione di Cristo, in particolare nella parte in cui si ammonisce: «Ama nesciri et pro nihilo reputari» [ama essere non conosciuto e ritenuto niente (cfr. lib. I, cap. 2, v. 15)].

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Se pensiamo allo stile di vita che conduciamo oggi, anche come credenti, questo monito risuona del tutto irrazionale e anche un po’ offensivo. Nessuno ama infatti essere dimenticato, viviamo all’interno di un’epoca che pretende la visibilità insieme alla sottolineatura del proprio egocentrismo e della propria persona. Ormai, abbiamo valicato i limiti del narcisismo, ci siamo spinti oltre, forse verso un punto di non ritorno. 

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La liturgia di questa domenica ci soccorre in questa deriva dell’ego, attraverso l’insegnamento che Cristo impartisce ai farisei durante un pranzo [vedere Liturgia della Parola, QUI]. Il brano lucano interroga il credente proprio sulla tematica dell’umiltà fino a introdurre una bella riflessione sul modo di operare attivamente la carità senza nascondere secondi fini.

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L’umiltà è la virtù cristiana che più ci rende simili a Cristo, il quale «umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Purtroppo, questa virtù non è di facile conquista se non diventiamo capaci di chiederla con forza allo Spirito Santo e se non adeguiamo i nostri i sentimenti, ai sentimenti che furono di Cristo Gesù durante la sua vita terrena.

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L’umiltà è una grazia che è necessario richiedere tutti i giorni poiché nessuno di noi può reputarsi immune dalla superbia, in virtù del fatto che il peccato originale è esplicitamente un peccato di superbia. Benché redenti da Cristo con il battesimo nella sua morte e risurrezione, la ferita del peccato originale ancora ci disturba proprio attraverso il nefasto vizio della superbia. E dalla superbia derivano a cascata tutti gli altri vizi e peccati.

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Lo stesso Demonio – personaggio ormai negato da una certa schiera di cristiani emancipati, nonché teologi adulti [vedere precedente articolo, QUI] – è il padre della superbia e la sua ribellione è originata dalla volontà di superare Dio e di prenderne il posto. Gesù nel Vangelo ci raccomanda di desiderare l’ultimo posto in quanto il nostro valore consiste non nella manifestazione di una potenza o di un prestigio mondano ma nel rapporto esclusivo con il Padre.

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Ricorda il Beato Padre Francesco nelle sue Ammonizioni:

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«Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più» [cfr. Ammonizioni XIX, FF 169]

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Per questo l’uomo è chiamato a farsi piccolo e ad amare sommamente questa piccolezza perché è lì che si nasconde il suo tesoro.

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Una certa umiltà ecclesiastica dal sapore di naftalina ci ha purtroppo abituati a ostentare una finta umiltà che – nel momento in cui cerca strategicamente l’ultimo posto – si aspetta la glorificazione e il prestigio tanto agognato. Con questa falsa umiltà, che purtroppo oggi nella Chiesa risparmia veramente pochi, c’è il serio rischio che si snaturi anche la virtù della carità. Infatti, quando la carità viene fatta per ostentare potenza e prestigio, ottenere favori, recepire guadagni fino ad arrivare alla speculazione si può star pur certi che non esiste più carità.

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Il contraccambio, secondo l’insegnamento del Regno, non è la moneta di scambio del discepolo e questo vale sia nelle realtà profane che in quelle sacre: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» [cfr. Mt 10,8].

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La carità che si concretizza nella cura del disagiato, del malato, del carcerato, del lontano, dello smarrito di fede, del confuso, del peccatore, dell’eretico, dell’apostata e via dicendo a seguire, sia gratuita e sollecita, priva di tanti ragionamenti che la tramutano in disciplina socio-psicologica. La carità cristiana parla solo di Dio, e Dio attraverso suo Figlio si è annientato sulla croce per insegnarci ad amare fino al dono totale di noi stessi. La teologia dell’umiltà e dell’ultimo posto coincide con il Calvario, una lezione difficile da mandare giù.

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L’ultimo posto è certamente un posto scomodo ma è il più sicuro avamposto del paradiso che l’uomo possa desiderare su questa terra.

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Cagliari, 31 agosto 2019

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I giocatori di rugby in corsa verso la porta stretta della salvezza

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

I GIOCATORI DI RUGBY IN CORSA VERSO LA PORTA STRETTA DELLA SALVEZZA 

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In questo sport, giocato da quindici atleti, a un certo punto accade che otto rugbisti si abbracciano tutti insieme e uniti cominciano a muoversi per il campo, portando avanti il pallone. È la cosiddetta mischia. Pian piano, muovendosi compatti, questi otto, aiutati dagli altri sette compagni, superano gli avversari e portando avanti il pallone giungono a segnare un punto e vincere la partita. E con questo esempio concreto possiamo introdurre le letture di oggi …

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Danza Maori dei giocatori di rugby della Nuova Zelanda [cliccare sul video]

c’è uno sport praticato molto nel Regno Unito e in Francia, ma anche in Italia: il rugby. In questo sport, giocato da quindici atleti, a un certo punto accade che otto rugbisti si abbracciano tutti insieme e uniti cominciano a muoversi per il campo, portando avanti il pallone: la cosiddetta mischia.

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muovendosi compatti, questi otto, aiutati dagli altri sette compagni, pian piano superano gli avversari e portando avanti il pallone giungono a segnare un punto e vincere la partita. E con questo esempio concreto possiamo introdurre le letture di oggi [vedere Liturgia della Parola di questa XXII domenica del Tempo Ordinario, QUI]. In particolare mi riferisco al brano vetero testamentario:

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«Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria» [Is 66, 18]. 

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Il profeta Isaia parla in nome di Dio al popolo d’Israele. Profetizza che, non solo le popolazioni semitiche, ma tutto il mondo sarà radunato. Nell’originale testo ebraico, il termine «radunato» suona come: congregato, assemblato e compattato per cercare la gloria di Dio. Tutti i credenti saranno uniti in un solo popolo: la Chiesa. Come unico e comune fine avranno quello di glorificare Dio, ossia mostrarne la bellezza e verità dei suoi misteri.

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Per noi un cammino di fede è quindi sempre comunitario, mai esplicitamente in solitudine o peggio in isolamento: solo se siamo sempre più uniti alla Chiesa, alla nostra parrocchia e comunità di riferimento, pian piano possiamo veramente camminare verso Dio e gioire delle grazie che Lui ci dona. Certo, questo incedere verso Dio, sebbene comunitario, certo non è esente da ostacoli. Come infatti scrive la lettera agli Ebrei:

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«È per la vostra correzione che voi soffrite!» [Eb 2, 5].

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Tramite le correzioni di fronte ad errori e peccati, ma anche attraverso l’esperienza della sofferenza, il nostro cammino di fede matura e pian piano cresce. Nelle correzioni, dunque, noi impariamo sempre ad affidarci al Signore che corregge le nostre storture mediante i pastori che Lui ha voluto. Questo cammino insieme, difficile e al tempo stesso bello, richiede inoltre uno sforzo particolare. Gesù ci chiede infatti: 

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«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» [Lc 13, 28].

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L’immagine della porta stretta, indica che essa è una porta più piccola, più difficile da prendere e da oltrepassare. Perché per passare questo tipo di porte occorre farsi piccoli. Ecco allora che nel brano di oggi, il richiamo all’essere piccoli, è anche un invito da parte di Gesù alla adesione intima al messaggio che Lui stesso ci ha insegnato:

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«In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli [Mt 18, 3]. 

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L’entrata nella porta gesuana, implica dunque una continuità fra fede e vita, non semplice un’accoglienza formale e superficiale alla fede cattolica. Se invece vivremo in questo modo, davvero Gesù potrà dire ad ognuno di noi «Non vi conosco». Perché innanzitutto saremo stati noi a misconoscere Lui, nonostante gli inviti ad essere obbedienti alla Sua Parola. Al tempo stesso, però, è Gesù che ci aiuta e entrare in questa porta stretta: non siamo soli, perché Lui che è via e al tempo stesso porta della Vita Eterna, ci offre la grazia come aiuto fondamentale in questo cammino.

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Scriveva Gustave Flaubert nell’opera Madame Bovary:

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«L’avvenire era un corridoio tutto nero, che aveva in fondo la sua porta ben chiusa».

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Mai, chiudere nel buio la porta verso la salvezza. Chiediamo quindi al Signore la grazia di spalancare le porte del nostro cuore, perché il nostro avvenire sia sempre più spalancato all’Infinito Amore Trinitario.

Così sia!

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Roma, 24 agosto 2019

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il 15 agosto non si festeggia “San Ferragosto”, ma la solennità dell’assunzione al cielo di Maria Santissima in anima e corpo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL 15 AGOSTO NON SI FESTEGGIA “SAN FERRAGOSTO”, MA LA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE AL CIELO DI MARIA SANTISSIMA IN ANIMA E CORPO 

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Maria di Nazareth fu una donna con una vocazione speciale: essere madre di Dio. Al tempo stesso perciò ricevette due doni speciali: la perpetua verginità e l’essere immacolata, cioè esente dal peccato originale. Maria dunque ha una chiamata ad elevarsi presso Dio. Seppe cioè rispondere si al progetto del Signore di essere testimone fedele del suo messaggio.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Salvador Dalì, Assunzione al cielo di Maria, 1956

Cari fratelli e sorelle,

la Santa Chiesa il 15 agosto non festeggia affatto un non meglio precisato “San Ferragosto“, ma l’Assunzione al cielo in anima e corpo della Beata Vergine Maria [cf Liturgia della Parola, QUI]. Per entrare in questo mistero, proviamo adesso a pensare a un grattacielo statunitense. Per esempio, la Freedom Tower di New York famosa per aver sostituito le Torri Gemelle dopo gli attentati del 2001. Come ogni struttura architettonica mastodontica, essa svetta verso il cielo. Al tempo stesso ha delle fondamenta solide e inamovibili che resistono a tutti gli urti portati dal vento, i fulmini e anche all’usura del tempo.

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Ecco che questa struttura richiama degli elementi importanti: lo slancio verso il cielo e verso Dio e la solidità della propria chiamata alla vita eterna.

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È in sintesi anche ciò che celebriamo oggi: la solennità dell’Assunzione di Maria. Questo è uno dei quattro dogmi che riguardano la persona di Maria Santissima: sappiamo per fede che lei è Madre di Dio, sempre Vergine, Immacolata Concezione e appunto, Assunta. Il dogma è una verità di fede proclamata dal Papa e dalla Chiesa intera che noi crediamo come vera, anche se non immediatamente evidente. Il dogma venne proclamato da Papa Pio XII, il 1 novembre 1950, con la bolla Munificentissimus Deus.

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Cosa insegna questo dogma? Maria di Nazareth fu una donna con una vocazione speciale: essere madre di Dio. Al tempo stesso perciò ricevette due doni speciali: la perpetua verginità e l’essere immacolata, cioè esente dal peccato originale. Maria dunque ha una chiamata ad elevarsi presso Dio. Seppe cioè rispondere si al progetto del Signore di essere testimone fedele del suo messaggio. Lo fu innanzitutto perché essendo Madre Vergine Immacolata si fece Arca di Dio. Come leggiamo nella prima lettura:  [1 Cr 15:  «I figli dei leviti sollevarono l’arca di Dio sulle loro spalle»]. In questo testo, si parla dell’Arca: cioè un luogo in cui gli ebrei potevano incontrare Dio per pregarlo, glorificarlo ed essere insieme a Lui. Anche Maria, accogliendo dentro di sé Gesù, si fece arca di Dio e permise a tutti gli uomini di poter incontrare Gesù più da vicino. Ancora oggi, quando noi diciamo il rosario, insieme alle Ave Maria ricordiamo i misteri di Cristo: di nuovo Maria si porge come luogo dove incontrare Dio.

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Questo mistero riguarda non solo Maria ma anche noi: anche noi siamo chiamati ad elevarci, in un cammino di santità verso il Signore. Con la nostra testimonianza di fede, possiamo noi stessi essere arca e luogo di incontro con Dio. E la solidità di questa chiamata viene offerta in due momenti. Come scrive Luca: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano». Maria ascoltò assiduamente Dio in almeno tre momenti; all’annuncio dell’Angelo, alla crocifissione quando fu affidata a Giovanni, e al mandato di Gesù Risorto di annunciare la gioia grande della Pasqua. Ascoltò e mise in pratica: proprio per questo venne Assunta in cielo e in anima corpo. Cioè si addormentò e, immediatamente, fu inviata al cospetto dell’Eternità di Dio. Tuttora è nell’Eternità di Dio e prega per noi.

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Questo deve essere per noi un invito all’ascolto e alla osservanza del messaggio di Gesù che prosegue nella Chiesa. Proprio questa fedeltà e obbedienza, come fu Maria fedele a Gesù, ci porterà ad essere anche noi nell’Eternità di Dio cioè in Paradiso. Scriveva Johan Wolfgang Goethe:

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«La fedeltà è lo sforzo di un’anima nobile per eguagliarsi a un’altra anima più grande di lei». 

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Il Signore ci doni il coraggio della perseveranza di Maria l’Assunta, e il suo amore materno sia anche segno di speranza di trovarci un giorno tutti insieme davanti a Dio.

Così sia.

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Roma, 14 agosto 2019

Nella Vigilia della solennità dell’Assunta

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Il Piccolo Principe e il Re dei re: Cristo e la parte migliore

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL PICCOLO PRINCIPE E IL RE DEI RE: CRISTO E LA PARTE MIGLIORE

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«Ecco il mio segreto. è molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Maria e Marta, icona bizantina

Cari fratelli e sorelle,  

la Liturgia della Parola di questa XVI domenica del tempo ordinario ci offre il racconto della visita di Gesù presso la casa di Maria e Marta [testo della Liturgia della Parola, QUI].

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Nella celebre favola di Antoine de Saint Exupèry, Il Piccolo Principe, c’è un bellissimo incontro fra il piccolo principe e la volpe. Nella loro chiacchierata, il principino e la volpe intrecciano pian piano un’amicizia profonda fra serio e faceto. Prima di salutarsi, la volpe dice un’ultima cosa al piccolo principe:

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«Ecco il mio segreto. è molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

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Questa storia è un aiuto per comprendere il bellissimo insegnamento di Gesù oggi: la preghiera e lo sguardo che essa ci dona. Uno sguardo d’amore e di verità su tutte le cose. Lo sguardo di Gesù sulle persone e gli eventi del mondo.

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Nella prima lettura di Genesi, Abramo incontra i tre uomini presso le Querce di Mamre:

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«Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo» [Gn 18].

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Secondo gli esegeti e i padri della Chiesa, i tre uomini descritti in questo passo sono una anticipazione della rivelazione sulla Trinità. Abramo infatti si rivolge al Signore uno e trino. Rivolge una preghiera spontanea, commovente e al tempo stesso autentica. Chiede al Signore di fermarsi, di rimanere con Lui. Abramo offre una preghiera affettuosa; offre la sua casa e innanzitutto la sua anima affinché Dio vi dimori.

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Nel Vangelo di Luca troviamo una differenza fra l’atteggiamento di Marta e quello di Maria. Marta infatti non sbaglia nell’essere al servizio di Gesù, mentre rassetta, sistema, pulisce, insomma fa le cose di casa. Gesù infatti le rimprovera di agitarsi, affannarsi, tralasciando «quella che è la parte migliore».

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Ogni azione, anche il servizio di casa più nascosto e insospettabile può diventare un’offerta al Signore. Può diventare anche questa una preghiera, se appunto questo nostro servizio è attuato ponendo al centro Gesù: è Lui la parte migliore, senza il quale non possiamo fare nulla. Maria, che è lì davanti e ascolta, è colei che sembra aver capito meglio questo insegnamento. È infatti lì, silenziosa, ma non per questo in preda alla pigrizia. Maria è lì che prega in modo contemplativo: prega col cuore, sapendo che tutto l’essenziale è in quel rapporto invisibile, ma vero con Gesù.

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Il senso della preghiera è dunque una amicizia vera e profonda con il Signore. Una amicizia però appunto che non rimane semplicemente un rapporto individuale col Signore, ma si apre agli altri.

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Scrive infatti San Paolo nella seconda lettura:

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«Sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare […] il mistero nascosto, ma ora manifestato ai suoi santi» [Col 1,25].

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La preghiera spalanca le porte della missione, cioè di essere mandati agli altri per annunciare quello che abbiamo ricevuto nel nostro incontro col Signore; la preghiera si sviluppa in un’azione pratica con cui tutti manifestiamo quel mistero nascosto di Dio stesso. Lo manifestiamo con la nostra vita, le nostre opere di carità e, paradossalmente, manifestiamo il mistero della misericordia di Dio anche nel nostro essere peccatori pentiti.

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Tutti quanti perciò diventiamo ministri, non solo i chierici e i religiosi: tutti quanti diventiamo coloro che amministrano e donano, secondo le loro capacità, il dono di Dio al prossimo. È il dono più grande, l’unico invisibile agli occhi davvero essenziale al cuore di chi si sente fisicamente e spiritualmente isolato e abbandonato.

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Il Signore doni a noi tutti l’abbraccio accogliente ed orante di Gesù, per sentirci amati fino alla fine dei tempi.

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Così sia.

Roma, 21 luglio 2019

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Quella domanda tanto antica e tanto fondamentale: «Chi è il mio prossimo?»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUELLA DOMANDA TANTO ANTICA E TANTO FONDAMENTALE: «CHI È IL MIO PROSSIMO?»

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Il prossimo che ha bisogno della carità materiale oggi, non è solo il clochard o il migrante, ma anche i disoccupati, i disabili e gli anziani abbandonati da tutti. Hanno bisogno di carità materiale quei padri o madri che hanno subito un divorzio e ingiustamente sono lontani e impoveriti dalla presenza dei loro figli.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P. durante la celebrazione delle sue prime Sante Messe

Cari fratelli e sorelle, 

questa XV domenica del tempo ordinario solleva un grande e fondamentale quesito: «Chi è il mio prossimo?» [Cf. testo delle Liturgia della Parola, QUI].

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Oggi viviamo nell’epoca in cui la scienza medica ha compiuto passi da gigante. Ci sono medici che con gli odierni ritrovati della clinica specialistica e delle nuove chirurgie e micro-chirurgie possono salvare vite umane in modo sino a ieri impensabili, quindi prendersi cura e garantire uno stile di vita dignitoso.

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Una bellissima figura di medico, è quella di Louis Pasteur; siamo sul finire dell’Ottocento. Egli, che dedicò la sua vita alla cura dei malati, ci ha lasciato molti pensieri profondi, trai quali mi è cara una frase in particolare:

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«Non ti domando chi sei, da dove vieni, a quale religione appartieni. Tu soffri, questo mi basta. Tu mi appartieni».

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Le letture di oggi ci introducono al tema del prendersi cura di qualcuno che Dio stesso ci ha inviato a curare e rialzare in un momento di grande sofferenza. Il Signore stesso ci dà questo incarico, come possiamo leggere nei testi vetero testamentari:

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«Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» [Cf. Dt: 30, 14].

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P. durante la celebrazione delle sue prime Sante Messe

La parola che Mosè riporta è la parola di Dio una parola che rende vicini noi e il Signore. Questa vicinanza indica che la parola di Dio, il messaggio di Gesù Cristo va conosciuto, amato e reso intimo. Per ciò qui si parla di una vicinanza nella bocca: cioè questa parola va testimoniata, annunciata con gioia a chi non la conosce. Subito dopo c’è una vicinanza del cuore è [dall’antico ebraico לֵבָב lebav]: nel linguaggio ebraico, il cuore indica la intima scelta concreta di Dio: dunque un passaggio dalla testimonianza all’azione. In particolare l’azione del credente è proprio quella della misericordia spirituale e materiale, il prendersi cura di chi è bisognoso in modo materiale e soprattutto spirituale. 

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Questa azione avviene in un luogo ben preciso: la Chiesa. Come spiega il bellissimo inno paolino: la Chiesa, cioè noi stessi, è la comunità dei credenti e al tempo stesso il corpo mistico di Cristo, il luogo cioè dove tutti credenti, diversificati secondo la loro vocazione, esprimono concretamente la loro testimonianza ed azione uniti a Gesù stesso [Cf. Col 1, 15. 18]. La Chiesa allora è il luogo dove agisce Gesù insieme a noi, e doniamo cura e misericordia in Lui.

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La parabola del buon samaritano infine spiega a chi, come Chiesa, dobbiamo rivolgerci. Per tanto, la domanda base di ogni cattolico è questa: «Chi è il mio prossimo?» [Lc 10, 30].

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Il prossimo che ha bisogno della carità materiale oggi, non è solo il clochard od il migrante, ma anche i disoccupati, i disabili e gli anziani abbandonati da tutti. Hanno bisogno di carità materiale quei padri o madri che hanno subito un divorzio e ingiustamente sono lontani e impoveriti dalla presenza dei loro figli.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P. 

Soprattutto, l’allarme principale è per coloro che hanno bisogno della carità spirituale: gli atei, gli agnostici, tutti coloro che combattono la Chiesa in nome della cultura gender, della necro-cultura, o che favoriscono i peccati più gravi come l’aborto e l’eutanasia.

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Noi da samaritani, siamo chiamati a portarli all’albergo con le fasciature necessarie: cioè essere accanto a loro, nell’ascolto e nel dialogo, per accogliere le loro ferite esistenziali, mostrargli il volto del Dio vivente e vero, e donargli il regno di Dio, di fasciarli della Verità di Dio e donargli il vino per eccellenza, il Preziosissimo Sangue di Nostro Signore.

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Scriveva il poeta Kahlil Gibran: «Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici».

Il Signore doni ad ognuno di noi il coraggio, la tenerezza e la forza del buon samaritano per accogliere le ferite e le cicatrici di tutti coloro che incontriamo, e donare la speranza dell’amore di Cristo.

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Così sia.

Roma, 13 luglio 2019

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Novità dalla Provincia Domenicana Romana: «La prudenza di…», di Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P. [testo, QUI].

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La virile tenerezza dei guerrieri della luce, mandati come pecore in mezzo ai lupi

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA VIRILE TENEREZZA DEI GUERRIERI DELLA LUCE, MANDATI COME PECORE IN MEZZO AI LUPI

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Essere agnelli mandati da Gesù è un po’ questo: essere guerrieri della Luce, capaci a sconfiggere i lupi, od ammansirli, per la potenza di grazia di Colui che ci ha mandati come agnelli in mezzo a lupi.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

guerrieri della luce

Questa XIV domenica del tempo ordinario ci offre un Vangeli denso di immagini che ci parla della missione affidata da Cristo agli Apostoli [cf. testi della Liturgia della Parola, QUI].

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In questi periodi di vacanza può capitare spesso di fare memoria di quando eravamo più piccoli. Quando le vacanze al mare erano con i nostri genitori, e si trascorreva molto tempo in spiaggia fra scherzi, giochi e tanta dolcezza e tenerezza. Anche adesso, se trascorriamo del periodo coi nostri genitori, ringraziamo Dio per il dono del loro amore e della fede: questo infatti ci ha portato fino ad oggi e fino a qui, ad essere chi siamo nella via del Signore.

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Le letture di oggi vogliono farci addentrare in questo grande mistero di Dio nella sua consolazione e tenerezza che ci invia ad essere creature nuove, e dunque inviati del suo grande amore.

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Nei testi profetici vetero testamentari leggiamo:«Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» [Is 66, 13]. Si noti che il terzo Isaia scrive nel post esilio ebraico del VI a.C., quindi la Città di Gerusalemme, in questa precisa circostanza, è il luogo che richiama simbolicamente la consolazione materna di Dio. Questo ci insegna che Dio non sta rinchiuso nei cieli ma ci consola, ci è vicino con affetto di una mamma. Di questa tenerezza parla spesso Papa Francesco, e questo ci deve far porre attenzione: la tenerezza consolatrice è uno degli elementi caratteristici propri di Dio, quasi fosse il DNA stesso di Dio. Noi non siamo lontani da questa mano tenera del Signore, eterno innamorato di noi. Siamo consolati quando veniamo assolti nella confessione e quando riceviamo la fragranza della Eucarestia. Oppure nella misericordia amichevole di qualche amico e familiare.

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Questa consolazione ci rende nuovi di zecca. In un brano delle sue lettere apostoliche San Paolo scrive:

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«Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura» [cf. Gal 6, 15].

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Ricevere la consolazione e tenerezza di Dio ci fa sentire immensamente amati. Cambia tutto il nostro modo di essere da testa a piedi. E nonostante i nostri difetti, peccati, vizi, debolezze noi siamo continuamente amati da Dio. Nel suo amore, ogni giorno siamo resi nuovi, ricostruiti, riprogettati ogni volta che ci sembra di fallire. Ognuno di noi è chiamato a un progetto più grande da Dio stesso: per questo siamo resi incredibilmente nuovi dal Signore, forti e ad un tempo tranquilli e sereni nella Sua Verità.

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Consolati e resi creature nuove, finalmente Dio ci invia. Come ha fatto con i Settantadue discepoli qui descritti nel Vangelo di Luca. A questi discepoli Gesù dice: «Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi» [Lc 10,3].

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Anche noi siamo mandati, come creature nuove per portare quella consolazione e tenerezza che abbiamo ricevuto. Questo ci permette di trasmettere anche la gioia e la comunione con Dio. Ci permette di essere suoi missionari di pace nelle sofferenze e nelle difficoltà della vita, di tutti coloro che incontreremo. Questa è l’ottica di essere agnelli fra i lupi. Il lupo è l’immagine biblica di chi è rapinatore rapace che viene nella notte. È l’immagine della cultura attuale che non rispetta chi ha bisogno di cure. Si pensi a tal proposito alle terribile sofferenze che sta soffrendo ora Vincent Lambert [cf. QUI]. L’agnello invece è l’immagine di chi è mansueto e buono. Appunto di chi è ripieno della pace di Dio e si fa missionario della luce e della consolazione di Dio.

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Ricordo di aver letto a 16 anni un bellissimo libro di Paulo Coelho, da un titolo altrettanto splendido: Manuale del Guerriero della Luce.

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Essere agnelli mandati da Gesù è un po’ questo: essere guerrieri della Luce, capaci a sconfiggere i lupi, od ammansirli, per la potenza di grazia di Colui che ci ha mandati come agnelli in mezzo a lupi.

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Il Signore ci conceda la Luce della Sua Grazia e della Sua consolazione, perché diventiamo tradizione viva e autentica del Suo Amore che si donò fino alla fine.

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Così sia.

Roma 6 luglio 2019

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È in distribuzione il primo libro delle Edizioni L’Isola di Patmos, visita la pagina del nostro negozio QUI

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Novità dalla Provincia Domenicana Romana: «Il bene di vivere ed il diritto di non soffrire: il testamento biologico», di Riccardo Lufrani, O.P. [testo, QUI].

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Il mistero della gioia: «Et ascéndit in caelum, sedet ad déxteram Patris»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL MISTERO DELLA GIOIA: «ET ASCÉNDIT IN CÆLUM, SEDET AD DÉXTERAM PATRIS »

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L’Ascensione è dunque la festa liturgica di chi sceglie la speranza come faro della propria vita. Contrariamente ad un pessimismo di fondo, tipico del nostro tempo, dopo che le grandi ideologie sono cadute, la speranza dell’Ascensione ci aiuta a vivere giorno dopo giorno la fede. E l’effetto più evidente di chi è speranzoso nel nome di Gesù, è la gioia. Non una falsa maschera di felicità, posta in viso per sembrare felici quando il cuore è invece nelle tenebre. No, la speranza è la gioia vera di chi ha incontrato il Gesù risorto e poi asceso.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P..

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PDF articolo formato stampa
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Cari fratelli e sorelle,

Salvador Dalì: Ascensione del Cristo [1958]

Con la proclamazione del Vangelo del Beato Evangelista Luca [cf. 24, 46-53] Celebriamo oggi l’ascensione al cielo del Cristo Risorto [vedere Liturgia della Parola, QUI].

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Nell’omiletica, per illustrare i quadri delle Sacre Scritture a volte mi richiamo a opere cinematografiche interessanti …

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… Qualche anno fa uscì al cinema un bel film intitolato La Teoria del Tutto. Il film narrava la vita del fisico Stephen Hawking, scienziato tetraplegico e delle sue teorie sull’origine dell’universo. Nonostante le sue condizioni fisiche terribilmente debilitate, Hawking non perse mai la voglia di vivere e di ricercare. Alla fine del film, lo stesso scienziato afferma:

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«Per quanto possa sembrare brutta la vita c’è sempre qualcosa che uno può fare e con successo. Perché finché c’è vita, c’è speranza». 

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Questo esempio introduce il tema delle letture della Santa Messa di Ascensione che oggi celebriamo insieme. L’Ascensione è il momento del ritorno di Gesù, Figlio di Dio, all’Eterno Padre, anch’Egli Dio. Nel momento stesso in cui Gesù ascende ed è elevato in alto, lascia un messaggio importante ai suoi discepoli. Negli Atti degli Apostoli: 

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«Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» [At 1,8].

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Questo è il nucleo centrale dell’Ascensione: la chiamata di Dio a diventare suoi testimoni, dal greco μᾰρτῠρος [marturos: martire, testimone]. È una chiamata a testimoniare Gesù e la sua persona fino ai confini della terra. Il tutto, rapportandolo a noi, costituisce la chiamata a testimoniare Gesù in ogni luogo che frequentiamo, in famiglia, sul posto di lavoro, con gli amici, o anche durante i momenti di relax.

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La lettera agli ebrei chiarifica cosa significa essere testimoni:

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«Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza» [Eb 10, 23].

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L’Ascensione è dunque il momento in cui Gesù lascia il mandato di proseguire la sua missione visibile agli apostoli e ai discepoli, dunque alla Chiesa. In questo mandato rientriamo anche noi. La nostra speranza non è solo umana, ma anzitutto speranza ultraterrena: è nutrire un sentimento di attesa fiduciosa di essere per l’Eternità con il Signore in Paradiso. Questa attesa risponde alle domande di senso più profonde e offre dunque una risposta esistenziale. Infatti, è un’attesa costruita a partire proprio dall’essere testimoni attivi del grande amore che potremo vivere alla fine dei secoli.

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Su questo essere testimoni di speranza di vita eterna, Gesù ne parla anche nel Vangelo quando ribadisce

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«Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno. […] Di questo voi siete testimoni”» [Lc 24, 46]

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L’Ascensione è dunque la festa liturgica di chi sceglie la speranza come faro della propria vita. Contrariamente ad un pessimismo di fondo, tipico del nostro tempo, dopo che le grandi ideologie sono cadute, la speranza dell’Ascensione ci aiuta a vivere giorno dopo giorno la fede. E l’effetto più evidente di chi è speranzoso nel nome di Gesù, è la gioia. Non una falsa maschera di felicità, posta in viso per sembrare felici quando il cuore è invece nelle tenebre. No, la speranza è la gioia vera di chi ha incontrato il Gesù risorto e poi asceso.

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La gioia di un incontro che è avvenuto per noi, ogni volta che incontriamo Gesù nei sacramenti. In questa Eucarestia, Gesù verrà incontro a noi, abitando la nostra anima. il suo abitare in noi ha come scopo permetterci già adesso di elevarci con Lui, tramite lo sguardo della fede. Con quello sguardo dall’alto, è possibile gustare ogni giorno della nostra vita in Cristo, vivendo in pienezza e bontà.

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Chiediamo al Signore il dono di essere testimoni della speranza, alimentando quel sentimento di elevazione al cielo e raggiungere colui che è Sposo Eterno della nostra anima.

Così sia.

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Roma, 2 giugno 2019

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I blog personali dei Padri de L’Isola di Patmos

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il blog di Padre Gabriele

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Senza la pace di Cristo, presto l’Europa sarà morta e sepolta sotto le macerie della falsa pace del mondo [in appendice: la bandiera mariana dell’Unione Europea]

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

SENZA LA PACE DI CRISTO, PRESTO L’EUROPA SARA MORTA E SEPOLTA SOTTO LE MACERIE DELLA FALSA PACE DEL MONDO

[IN APPENDICE: LA BANDIERA MARIANA DELL’UNIONE EUROPEA] 

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Se non ricordo male, domani si vota per le elezioni europee, sinceramente non ho ascoltato le raccomandazioni date dal comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana né da quello della Segreteria di Stato della Santa Sede, perché avevo di meglio da fare, incluso pregare per le sorti del nostro vecchio, glorioso e amato Continente, a proposito del quale mi torna a mente una frase lapidaria lanciata dal Cardinale Giacomo Biffi agli inizi del Secondo Millennio: «L’Europa, o sarà di nuovo cristiana o non lo sarà più».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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PDF  articolo formato stampa

 

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Laudetur Jesus Christus !

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sono stati numerosi i devoti cattolici che attraverso i mezzi telematici mi hanno inviata questa vignetta, inclusi numerosi sacerdoti e religiosi, cosa questa che dovrebbe far riflettere coloro che non vivono, come noi, nella reale Isola di Patmos, ma nella irreale Isola che non c’è

In questa VI domenica di Pasqua, il Vangelo ci offre un brano dell’Evangelista Giovanni [Liturgia della Parola: QUI], il discepolo prediletto dal Signore. Colui che rimase sotto la croce con la Beata Vergine, mentre «tutti i discepoli abbandonatolo fuggirono» [Mt 26, 56; Mc 14, 50]. Sotto quel supplizio — sul quale il Cristo straziato nel corpo non era affatto un bel santino iconografico, né la figura linda raffigurata in pitture e sculture —, avviene lo straordinario atto di affidamento:

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«Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» [Gv 19, 26-27].

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Poco prima, Cristo, pietra angolare [cf. Mt 21, 42; Mc 12, 10; Lc 20, 17], aveva edificata la Chiesa nascente su Pietro con un’espressione spesso male intesa, forse oggi più di ieri: «Pietro, tu sei pietra, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» [Mt 16, 18]. Frase che può essere compresa solo capendo a chi si riferisce Cristo Signore indicando «su questa pietra». Se infatti non si comprende che la pietra fondante è Cristo Dio, sulla quale Pietro è appoggiato come pietra, si può correre il rischio di cadere nella pietrolatria. È per ciò bene ricordare che Pietro, di Cristo, è il vicario sulla terrà, non il successore. Chiunque avesse dubbi in proposito, legga le parole del Beato Apostolo Paolo:

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« […] edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» [Ef 12, 20].

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Col giovane Giovanni e col maturo Pietro, abbiamo due figure quasi antitetiche di Apostoli: il primo, sotto la croce con la Beata Vergine e con una Santa ex prostituta convertita e redenta, il secondo che scappa per primo in testa agli altri Discepoli e che poco dopo rinnega Cristo per tre volte; e lo fa prima giurando, poi persino imprecando [cf. Mt 26, 74].

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Il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni è noto anche come il Vangelo della gioia e dell’amore, benché nelle sempre più stravaganti catechesi e nelle omelie sempre più scialbe, non si precisi — o forse, ahimè, proprio non si conosca! —, che questo giovane, tal era all’epoca, ha goduto delle particolari cure spirituali da parte del Divino Redentore, in seguito ha vissuto buona parte della sua esistenza con la Immacolata Concezione, la Mater Dei, da noi venerata anche come Mater Ecclesia

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Cristo Signore ha affidata la Chiesa nascente alla guida del più limitato degli Apostoli, forse affinché Pietro potesse incarnare anche tutte quelle fragilità, debolezze e miserie umane ch’egli non tarda a manifestare, seguitando a manifestarle anche nella vecchiaia, per esempio quando a Roma, sotto le persecuzioni di Nerone, sta dandosi alla fuga per l’ennesima volta. Però, come sappiamo, sulla Via Appia gli apparve il Cristo, al quale Pietro domanda: «Quo vadis Domine?» [dove vai, Signore?»]. Risponde Cristo: «Eo Romam, iterum crucifigi» [vado a Roma per essere crocifisso di nuovo]. A quel punto Pietro tornò indietro, morendo poco dopo martire sul Colle Vaticano, dove si trovava sia il luogo delle esecuzioni, sia il circo di Nerone. Sotto certi aspetti un po’ come oggi: perché il Vaticano è un luogo di esecuzioni “misericordiose” e al contempo un circo. E in quel luogo di esecuzioni e di giochi circensi, Pietro si santificò col martirio; e come lui chiunque lo voglia può santificarsi oggi, inclusi i Successori di Pietro.

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Forse con due millenni d’anticipo, sotto la croce Cristo affida al giovane e amato Giovanni la Madre Chiesa straziata dal dolore, mentre colui che l’ha voluta come sposa dell’Agnello [cf. Ap 19, 7-8], agonizza affisso ad un palo con quattro chiodi ed una corona di spine sulla testa.

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Assieme alla Chiesa nascente, Cristo ha lasciato agli Apostoli anche qualcos’altro di molto prezioso: la sua pace, che è elemento centrale di questo brano evangelico redatto dalla giovannea aquila. A tal proposito Cristo precisa:

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«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore» [Gv 14, 27].

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La dualità tra Cristo e il mondo, torna ad affiorare tra queste righe, dinanzi alle quali dovremmo anzitutto interrogarci: ma che cos’è veramente la pace di Cristo, che, rispetto a quanto Lui ci dice, appare del tutto antitetica, rispetto alla pace del mondo?

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La pace del mondo, o se preferiamo la falsa pace, è quella che non rigetta il peccato, ma che anzi lo accoglie trasformandolo in bene, in preziosa diversità da accogliere, in diritto e in valore supremo. Volendo potremo riassumere il tutto con uno striscione che durante la Marcia per la Vita del 23 maggio è stato affisso a Roma da un gruppo di femministe indiavolate con su scritto: «La legge 194 non si tocca, le donne sono libere di abortire in santa pace!».

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Ecco la pace del mondo: il “diritto” ad uccidere creature innocenti, il “diritto” all’eutanasia, od il “diritto” dell’utero in affitto, affinché due gay possano fabbricarsi il loro bimbo giocattolo. O forse, il mondo, può essere per caso così “crudele” da togliere a siffatto modello di coppia così felice questa “meritata” pace?

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La pace di Cristo risiede nella verità e nella giustizia, dalla quale nascono le espressioni più profonde di carità. Ma soprattutto, la pace, è Cristo stesso che è via verità e vita [cf. Gv 14, 6], che della pace è fonte e datore [Ef 2,14]. 

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Accomiatandosi dai Discepoli prima della passione, Gesù lascia loro la sua pace [Gv 14,27], ed in seguito, una volta risorto dalla morte, torna a offrire il dono supremo della sua pace salutandoli: «Pace a voi!» [Lc 24,36; Gv 20,19-21.26]. La pace di Cristo si ottiene attraverso la riconciliazione con Dio Padre, dalla quale nasce poi la riconciliazione con i fratelli [cf. Mt 6,12], affinché questa cristologica pace possa essere estesa a un mondo rinnovato dal Cristo che mediante la grazia dello Spirito Santo ci purifica e ci santifica. Dunque, ogni volta che noi sacerdoti apriamo le braccia e diciamo «Pax vobiscum» [la pace sia con voi], in quel momento siamo Cristo che vi dona la Sua pace e che vi inviata nella Sua pace.

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Se non ricordo male, domani si vota per le elezioni d’Europa, sinceramente non ho ascoltato le raccomandazioni date dal comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana né da quello della Segreteria di Stato della Santa Sede, perché avevo di meglio da fare, incluso pregare per le sorti del nostro vecchio, glorioso e amato Continente, a proposito del quale mi è ritornata alla mente una frase lapidaria lanciata dal Cardinale Giacomo Biffi agli inizi del Secondo Millennio: «L’Europa, o sarà di nuovo cristiana o non lo sarà più».

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Tante altre cose mi sono tornate a mente, vorrei ricordarle in breve a chi pare privo di memoria storica. Anche perché non si tratta di tornare indietro di secoli, ma solo di pochi decenni …

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… negli archivi dell’ex Sant’Uffizio e in quelli di molti tribunali ecclesiastici diocesani d’Italia, sono sempre conservati atti nei quali diversi sacerdoti sono stati canonicamente sanzionati anche e solo per sospette simpatie verso il vecchio Partito Comunista Italiano. Ebbene, in queste ultime settimane abbiamo dovuto assistere all’autentico sconcio dei nostri Vescovi — ma quel che è peggio della Santa Sede —, che sono entrati a gamba tesa nella campagna elettorale per sostenere il Centro-Sinistra, erede molto annacquato del vecchio Partito Comunista Italiano. Infatti, mentre i vecchi comunisti, tanto agguerriti quanto coerenti, parlavano di proletariato e di classe operaia, portando avanti molte giuste rivendicazioni a tutela delle classi più deboli, i loro nipotini piddini, — quelli sostenuti dal nostro episcopato, per intendersi —, li troviamo invece all’ora dell’aperitivo nei caffè di lusso del quartiere Parioli, nei super attici del centro e nelle ville romane dell’Olgiata.

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Siccome non tutti sono privi di memoria storica, vorrei ricordare che da adolescente, nell’affatto lontano 1978, ho visto piangere un anziano parroco che finì fulminato dal Vescovo poiché accusato di essere troppo vicino a circoli comunisti. L’accusa al Vescovo fu presentata da alcuni politici e amministratori democristiani finiti sotto processo per corruzione e poi in galera un ventennio dopo. Detto questo mi sarebbe lecito domandare, sia al comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana sia a quello della Segreteria di Stato, se sono io che ho capito male, se sono io che mi sono perso qualche passaggio della nostra incredibile evoluzione storico-politica ecclesiastica, oppure: siamo proprio all’appoggio clericale dato ai nipotini incoerenti e viziosamente borghesi di quelli che furono i vecchi e coerenti comunisti italiani? Perché temo che un certo clero politicante, con la nuova Sinistra, condivida un elemento inquietante: una idea di popolo ideologico e onirico totalmente avulsa dal reale, a ben considerare che il popolo non si incontra né nei caffè di lusso dei Parioli, né nei super attici del centro, né nelle ville romane dell’Olgiata, ma neppure nei palazzi delle curie, per quanto oggi ammantate di grande pauperismo con i loro vescovi che indossano croci di legno al collo e che procedono in processione con i bastoni pastorali fatti non più dagli artigiani argentieri ma dai falegnami, il tutto in attesa che cambi vento per poi presentarsi, come se nulla fosse accaduto, con sette metri di cappa magna.

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Possa l’Europa accogliere la pace di Cristo, perché con la pace del mondo, portata avanti dai nipotini incoerenti dei vecchi comunisti coerenti, presto sarà morta e sepolta, con la benedizione del nostro episcopato italiano.

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dall’Isola di Patmos, 25 maggio 2018

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NOTA STORICO POLITICA SULLA BANDIERA MARIANA DELL’UNIONE EUROPEA

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La bandiera dell’Unione Europea rappresenta il velo e il diadema di stelle della Beata Vergine Maria

Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. [Apocalisse di San Giovanni Apostolo: 12, 1]

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A chi non lo sapesse ricordo qual è il significato della bandiera d’Europa: il colore blu raffigura il manto della Vergine Maria, le dodici stelle il suo diadema. All’epoca, quando fu costituito il primo nucleo dell’Unione Europea, i politici cattolici, all’insaputa dei protestanti Nord Europei, misero la nascente unione sotto la protezione della Mater Dei.

Se di ciò prenderanno atto laicisti, gay e lesbiche incattivite che pullulano nel Parlamento di Strasburgo, forse faranno un’interpellanza per cambiare bandiera.

Altri ancóra non sanno poi che alle urne si va in questo mese di maggio, che tradizionalmente è il mese dedicato alla Vergine Maria, anche se in molte chiese, in questo mese mariano, svariati vescovi e presbiteri si sono profusi in auguri sperticati di buon Ramadam, anziché lodare la Vergine Santa con la recita del Santo Rosario col quale l’Europa vinse la Battaglia di Lepanto, evitando che la bandiera con la mezzaluna potesse sventolare sulla cattedrale del Vescovo di Roma, il tutto prima ancóra di creare un’unione che ha, come proprio emblema, il manto e il diadema della Madonna …

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L’intima amicizia del Pastore con le sue pecore: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco, ed esse mi seguono»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’INTIMA AMICIZIA DEL PASTORE CON LE SUE PECORE: «LE MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE E IO LE CONOSCO, ED ESSE MI SEGUONO»

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Proprio come in un cammino di transumanza, ognuno di noi è chiamato ad essere pecora del gregge di Gesù, vale a dire che siamo chiamati a vivere da credenti nella Chiesa di Gesù. In quanto credenti, innanzitutto noi ascoltiamo la Sua Voce: Gesù ci parla nella Parola di Dio e tramite i pastori, in particolare oggi lo fa attraverso l’insegnamento ufficiale cattolico della Chiesa espresso dal Successore di Pietro e dal Collegio degli Apostoli, chiamati a custodire integro e quindi diffondere il deposito della fede.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Pastore sardo, opera del pittore Antonio Piras

molto probabilmente tutti conosciamo la poesia I Pastori di G. D’Annunzio:

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«Settembre, andiamo. È tempo di migrare / Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare / scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti».

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Un’immagine di pastorizia, la transumanza, cioè il cammino verso territori selvaggi e verso alture che danno serenità, riposo e senso di completezza.

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Questa immagine verso una pace tanto cercata, forse l’abbiamo persa: un po’ perché viviamo in città con luci e suoni che ci distraggono, un po’ perché non capiamo più l’idea di un cammino che, dopo tante fatiche, può darci invece molte soddisfazioni. Però, questa immagine di pastorizia, può farci addentrare nelle letture di questa domenica.

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Negli Atti degli Apostoli [cf. 13, 46] leggiamo come Paolo e Barnaba si rivolgono agli ebrei:

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«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani».

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I due Apostoli rivolgono l’annuncio della vita eterna superando la presenza ebraica e ponendo l’attenzione ai pagani, che erano romani e greci, con una cultura intrisa di filosofia ellenistica. Il messaggio di Cristo allora esce dallo “steccato” giudaico, mostrando come l’annuncio cristiano non è legato un singolo popolo o nazione. Il messaggio di Gesù è universale: tutti siamo chiamati alla vita eterna. Questo implica entrare in un amore più grande, quello del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per l’eternità.

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La chiamata alla vita eterna attende una risposta da noi. Il Signore ci lascia liberi anche di rifiutarla, come fecero gli ebrei nel testo degli Atti che abbiamo ascoltato. Ma se invece rispondiamo positivamente, possiamo ora capire in che modo arrivare alla vita eterna.

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Il Vangelo ci dà una risposta chiara sul cammino da percorrere verso questo traguardo. Leggiamo infatti in San Giovanni:

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«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» [cf. 10, 27].

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Proprio come in un cammino di transumanza, ognuno di noi è chiamato ad essere pecora del gregge di Gesù, vale a dire che siamo chiamati a vivere da credenti nella Chiesa di Gesù. In quanto credenti, innanzitutto noi ascoltiamo la Sua Voce: Gesù ci parla nella Parola di Dio e tramite i pastori, in particolare oggi lo fa attraverso l’insegnamento ufficiale cattolico della Chiesa espresso dal Successore di Pietro e dal Collegio degli Apostoli, chiamati a custodire integro e quindi diffondere il deposito della fede.

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Ascoltiamo la voce di Gesù quando facciamo intimamente nostri gli insegnamenti cattolici: credere nelle verità di fede, vivere i precetti della morale o impegnarsi in momenti di preghiera diverrà un ascolto che aprirà il cuore verso il Suo Grande Amore. Dio entrerà nella nostra anima e insieme con Lui ogni momento della vita quotidiana diventerà una gioia.

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In secondo luogo, come credenti noi seguiamo Gesù: soprattutto lo seguiamo nei momenti di fatica della nostra vita, sapendo che il primo ad aver faticato per noi portando la Croce sul Golgota. Seguire Gesù è sapere che anche quando le miserie della vita sembrano sprofondarci sulle spalle, Lui sarà a sorreggerci.

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Dall’ascolto e dal seguire Gesù, viene che il fatto che Lui ci conoscerà: questo verbo nel linguaggio originario indica un’intimità profonda, quasi corpo a corpo con Dio. Questo contatto intimo corpo a corpo noi lo viviamo ogni volta che viviamo l’Eucarestia, che infatti è un anticipo della vita eterna, una grandissima amicizia con Dio. E proprio riguardo l’amicizia scriveva Susanna Tammaro:

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«L’amicizia è uno dei sentimenti più belli da vivere. Ad un tratto ci si vede, ci si sceglie, si costruisce una sorta di intimità».

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Il Signore ci doni la sua amicizia di entrare nella vita eterna, in una intimità che dona gioia senza fine e capacità di cogliere il senso profondo di ogni giorno.

Così sia.

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Roma, 12 maggio 2019

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Avviso della Redazione ai Lettori

In questi giorni stiamo ultimando la lavorazione delle bozze di stampa dei primi libri che a breve saranno stampati e distribuiti dalle Edizioni L’Isola di Patmos. Essendo assorbiti da questo lavoro, nel corso delle ultime tre settimane abbiamo dovuto rallentare solo momentaneamente la pubblicazione degli articoli sulla rivista L’Isola di Patmos

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I blog personali dei Padri de L’Isola di Patmos

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Sleepers. Dai sognatori alla prostituta pentita, attraverso la via della vera misericordia di Cristo Dio

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SLEEPERS. DAI SOGNATORI ALLA PROSTITUTA PENTITA, ATTRAVERSO LA VIA DELLA VERA MISERICORDIA DI CRISTO DIO

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Nella confessione Gesù, tramite il sacerdote, ci dona la Sua fiducia. Quando veniamo assolti, anche noi torniamo liberi dalle catene spirituali che provengono dai peccati commessi. Una volta liberi, Dio pone il suo amore di Padre Misericordioso nel nostro cuore e con fiducia ci esorta: va e donalo. E anche se siamo deboli, e nonostante gli sforzi cadremo di nuovo in altri peccati, non smettiamo mai di chiedere il suo perdono e di aprirci alla Sua fiducia. Diceva infatti lo scrittore Ernest Hemingway: «Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare qualcuno è di dargli fiducia».

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle.

Locandina del film Sleepers (1996)

il tema del peccato e della colpa che affiora nella pagina del Vangelo di questa V domenica di quaresima [testi della Liturgia della Parola, QUI], fa parte della nostra fede e non sempre è semplice parlarne in modo corretto o semplice. Il grande mezzo televisivo presenta giornalmente realtà che non solo, non aiutano a comprendere il peccato, ma che esaltano proprio, il peccato come stile di vita.

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Oltre un ventennio fa fu prodotto e distribuito un film che forse qualcuno ricorderà: Sleepers. Il cast è composto da attori di prim’ordine: Robert De Niro, Dustin Hoffman, Kevin Bacon, Brad Pitt e Jason Patric [cf. vedere scheda QUI]. In questo film ambientato nei quartieri popolari americani del 1966, quattro adolescenti compiono una ragazzata, mossi proprio dall’intenzione di commettere una innocua ragazzata, che rischia però di terminare in tragedia. Questa la storia: i quattro, nei pressi dello stadio, fuggono con il carrettino di un venditore di hot dogs, col quale giungono sin davanti alla rampa di scale della metropolitana; il carretto sfugge loro di mano e precipita per le scale, col rischio di uccidere un anziano che stava salendo la rampa. I quattro sono processati e condannati a diciotto mesi di riformatorio.

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Tutta la trama è un tessuto di violenza e vendetta, compresi abusi sessuali sui minori da parte di diverse guardie carcerarie. Come se questo film volesse dirci che dal male e dalla colpa, non si ha via d’uscita. Sbagliato, invece. Nostro Signore ci insegna come lui stesso ama i peccatori e li aiuta ad uscire dalle loro debolezze. Partendo infatti proprio dalla prima lettura di questa liturgia, leggiamo questo brano profetico:

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«Ecco, io faccio una cosa nuova: […] Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» [Is 43, 19].

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dal film Sleepers: la ragazzata finisce per sfiorare la tragedia …

Il Profeta scrive durante il secondo esodo della schiavitù babilonese, nel VI sec. a.C, quando gli israeliti si stavano liberando dall’oppressione di Babilonia. In questi versetti, Dio conforta gli ebrei e gli indica una strada feconda nel deserto nella steppa. Deserto e steppa sono luoghi in cui donerà il suo fiume, cioè il suo amore vivo e reale. E tutto questo a noi trasmette qualcosa di importante: anche dinanzi alle nostre debolezze comportamentali, che sembrano essere delle dune sabbiose in cui ci perdiamo, non dobbiamo temere di chiedere l’acqua dell’amore di Dio. I difetti insabbiano la bellezza della nostra unicità: non ci scoraggiamo. Anzi, di fronte ad essi affidiamoci a Dio con una preghiera spontanea anche ad alta voce. Dio inoltre è con noi non solo nelle debolezze, ma anche in quelle esperienze di cadute o peccati più gravi.

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Sleepers, il riformatorio

Nel brano dell’adultera leggiamo che i farisei e gli scribi avevano tentato di far cadere in trappola Gesù con un dilemma, usando a tal fine la tecnica di un artificio retorico che è tipico nei dibattimenti dei processi penali sin dall’epoca dell’antico diritto penale greco e romano. La trappola consiste appunto nella risposta che si attendono gli astanti, vale a dire che: se dici di lapidare la donna, vai contro il tuo insegnamento di amore. Se dici di non lapidarla, vai contro la legge di Mosè e contro il diritto romano, quello applicato all’epoca nella colonia della Giudea. Infatti, pur consentendo Roma la legittimità dei tribunali rabbinici e del Gran Sinedrio su questioni religiose o legate all’antico Tempio, qualora si fosse trattato di emettere certe sentenze di condanna il potere poteva essere esercitato — oppure la condanna approvata eseguita —, solo dal potere romano, esattamente come nel caso della esecuzione della condanna a morte di Gesù Cristo.

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Dinanzi a questa domanda-trappola, Gesù dà la risposta in modo da superare il dilemma. I farisei non possono applicare la legge mosaica con lei. A questo punto il Signore Gesù può invece applicare l’insegnamento dell’Amore:

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Sleepers, Rober De Niro, nel ruolo dei parroco dei quattro adolescenti, durante la deposizione in tribunale

«Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? […] Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» [Gv 8, 10-11].

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Notiamo: Gesù si alza in piedi e fa scaturire il suo atto di perdono: amore tenero e tenace verso quella donna. Non le dice affatto che l’adulterio è un atto giusto, comprensibile, accettabile, o da comprendere in virtù delle tendenze o dei costumi sociali dell’epoca. Quel peccato, rimane un grave peccato. Ciò che interessa a Gesù, adesso è vedere negli occhi dell’adultera quel pentimento vero: quando vede lo sguardo pentito, il Signore accoglie la peccatrice nel proprio cuore divino, ed accogliendola distrugge il suo peccato. A quel ponto Gesù si rivolge direttamente alla donna, che si mostra tanto desiderosa d’amore. Adesso può rialzare anche lei e condurla nel suo cuore misericordioso. Il Divin Redentore, distruggendo quel peccato, ha donato alla donna la libertà di camminare sulla via di Dio; e mostrando e donando fiducia a questa donna, fa di lei una sua figlia pentita.

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Sleepers, Rober De Niro nel ruolo del buon pastore

Così è anche per noi: nella confessione Gesù, tramite il sacerdote, ci dona la Sua fiducia. Quando veniamo assolti, anche noi torniamo liberi dalle catene spirituali che provengono dai peccati commessi. Una volta liberi, Dio pone il suo amore di Padre Misericordioso nel nostro cuore e con fiducia ci esorta: va e donalo. E anche se siamo deboli, e nonostante gli sforzi cadremo di nuovo in altri peccati, non smettiamo mai di chiedere il suo perdono e di aprirci alla Sua fiducia.  Diceva infatti lo scrittore Ernest Hemingway: «Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare qualcuno è di dargli fiducia».

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Il Signore ci doni la gioia del Suo Sguardo pieno di fiducia per essere noi stessi testimoni di una speranza più grande.

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Così sia!  

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Roma, 7 aprile 2019

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