«Dove c’è Dio c’è casa!» L’Epifania fa del mondo una casa dove il Dio Bambino attende ciascuno di noi

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«DOVE C’È DIO, C’È CASA!» L’EPIFANIA FA DEL MONDO UNA CASA DOVE IL DIO BAMBINO ATTENDE CIASCUNO DI NOI 

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Ma chi erano veramente i Magi? «Erano sapienti, rappresentavano la dinamica dell’andare al di là di sé, intrinseca alle religioni – una dinamica di ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche filosofia nel senso originario della parola. Così la sapienza risana anche il messaggio della scienza: la razionalità di questo messaggio non si ferma al solo sapere, ma cercava la comprensione del tutto, portando così la ragione alle sue possibilità più elevate» [cf. Benedetto XVI, L’Infanzia di Gesù]

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Epifania del Signore Gesù

Le festività di Natale hanno il grande pregio di invitare l’uomo ad abbandonare le proprie comodità e a verificare l’opera di Dio che si realizza nel mondo.

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Spesso i verbi ricorrenti nei Vangeli del tempo di Natale, risuonano come imperativi e invitano con forza il lettore a guarire dalla propria indifferenza e a prendere parte attiva nell’agire di Dio. L’evento dell’incarnazione del Verbo, ci risana dalla paralisi del cuore che si esprime nell’incapacità — o forse nel timore — di incontrare Dio, inducendoci a muovere i primi passi incerti verso una casa sicura.

         

Questa dimora è Betlemme — dall’ebraico בֵּיִת לֶחֶם alla lettera: Casa del Pane — luogo dove il Verbo di Dio si rende conoscibile e che nella sua glorificazione si renderà vero cibo di salvezza e farmaco per i peccati dell’umanità. 

       

Mi piace ora accostare al tempo di Natale, le parole di Gesù dette al paralitico nel momento in cui viene guarito: «Àlzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua» [cf. Mt 9,6]. L’invito di Gesù a questo povero infermo rattrappito, ci rende possibile capire come l’uomo è risanato nel momento in cui ha la capacità di accettare da Gesù la forza per risollevarsi dalle sue infermità e tornare ad essere un familiare di Dio.

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«Àlzati!» gli viene detto, cioè partecipa alla mia volontà di sanarti; ma poi aggiunge «va’ a casa tua», cioè datti una mossa, torna al luogo dove c’è la tua vera identità [cf. Lc 15,18].

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L’immobilismo che stringe il cuore dell’uomo moderno, spesso ci spinge fuori da Dio, ma Gesù con la sua nascita ci porta dentro verso una casa accogliente in cui egli stesso si rende nutrimento e sostentamento. Allora, come per il paralitico, siamo chiamati a dare ascolto a Gesù. Sapendo che nel raccogliere le nostre deboli forze e alzarci dal nostro lettuccio, si nasconde il segno di una promessa ad andare che non delude:

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«Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» [cf. Lc 2,12].

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Certamente i viandanti più famosi del tempo di Natale — dopo i pastori — sono i Magi. Ma chi erano veramente i Magi?

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«Erano sapienti, rappresentavano la dinamica dell’andare al di là di sé, intrinseca alle religioni – una dinamica di ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche filosofia nel senso originario della parola. Così la sapienza risana anche il messaggio della scienza: la razionalità di questo messaggio non si ferma al solo sapere, ma cercava la comprensione del tutto, portando così la ragione alle sue possibilità più elevate» [cf. Benedetto XVI, L’Infanzia di Gesù, Rizzoli, 2012, pp 111-112].

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I Magi con la loro vita dedita alla ricerca e alla conoscenza della verità, ci aiutano a comprendere il pericolo di una paralisi che rende Dio un lontano reperto vintage. Essi si spingono oltre le loro possibilità, perché la Verità va cercata con passione, fatica e costanza. Desiderano compiere il santo viaggio [cf. Sal 84,6], allontanandosi dal loro paese, per arrivare finalmente ad adorare il Signore [cf Sal 72,11; Mt 2,2].

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Di questi sapienti orientali possiamo apprezzare la spiccata sensibilità a scrutare le tracce che Dio dissemina nella vita degli uomini e — così come il saggio Daniele [cf. Dn 2,22] — cercano di interpretarne il mistero nella quotidianità della loro esistenza e del loro lavoro. In loro si realizzano gli oracoli messianici che annunciavano l’omaggio delle nazioni al Dio di Israele [cf. Nm 24,17; Is 49,23; 60,5s; Sal 72,10-15]. Ma è soprattutto nei passi dei Magi che possiamo scorgere il sobrio sentimento della gioia [cf Mt 2,9-11] che è il filo conduttore del loro desiderio più profondo: vedere Dio e adorarlo devotamente presso la sua casa [cf. Sal 5,8].

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Ritornare a casa dopo tanto tempo — specie dopo un viaggio lungo e faticoso — è senza dubbio motivo di gioia ma nello stesso tempo di ringraziamento. Per ciò, l’uomo che è capace di ringraziare, è il vero devoto, il vero adoratore, colui che intende dedicarsi prontamente al servizio di Dio.

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In questo atteggiamento è sottolineato, ancora una volta, l’invito ad andare, ad agire. Purtroppo, al giorno d’oggi, si vedono pochi devoti, pochi adoratori ma molti devozionisti. Il devozionismo è la contraffazione della devozione e dell’autentica adorazione. È uno stile del cuore che si attende tutto da Dio senza la capacità di una possibile collaborazione con lui. Si aspetta il miracolo servito su un piatto d’argento in virtù della sola esecuzione asettica di alcune pratiche religiose. Al contrario, i Magi esprimono la loro adorante devozione attraverso il ringraziamento, presentando la totale disponibilità della loro persona a Gesù, insieme al riconoscimento di trovarsi al cospetto del divino sovrano redentore del mondo [cf Mt 2,2].

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L’oro, l’incenso e la mirra, non sono solo i segni che simboleggiano la regalità, la divinità e la passione del Cristo ma anche offerte di ringraziamento — eucaristiche — per la teofania di Dio in Gesù. A Betlemme, i Magi vengono rivestiti di una missione: essere — nella casa dove Dio si rende bambino — apostoli per i lontani da casa. Sono loro i primi annunciatori che rivelano alle genti la luce splendida della presenza di Dio nel mondo. Con la gioia con cui fanno ritorno al loro paese, testimoniano la veridicità della profezia di Natan a Davide: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» [cf. II Sam 7,11].

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L’Epifania, fa del mondo una casa dove il Dio bambino attende ciascuno di noi. Quindi: diamoci una mossa e accogliamo il Signore con vera devozione e inni di ringraziamento, per poterci prostrare davanti a lui e cantare:

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«Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra».

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Cagliari, 6 gennaio 2019

Epifania del Signore Gesù

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Il mistero dell’Epifania ed i ricchi doni dei Magi: «A Dio si offre l’ottimo, il massimo, non gli scarti»

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL MISTERO DELL’EPIFANIA ED I RICCHI DONI DEI MAGI: «A DIO SI OFFRE L’OTTIMO, IL MASSIMO, NON GLI SCARTI».

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Quando a Maria e Giuseppe i magi offrirono l’oro, essi non risposero: “No, grazie, l’oro datelo ai poveri”. Non dissero questo perché erano consapevoli che a Dio si offre sempre l’ottimo, il massimo. Gli scarti, a Dio, li offriva Caino, come ci narra il Libro della Genesi. Mentre nei Santi Vangeli il falso amore per i poveri ci viene indicato attraverso la figura di Giuda, che quando Maria di Bethania unse il Signore Gesù con prezioso olio di nardo, egli si mostrò falsamente scandalizzato per lo spreco e disse che quel prezioso olio poteva essere venduto per trecento danari e il ricavato dato ai poveri.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Laudetur Jesus Christus !

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… purtroppo, nelle principali solennità dell’anno liturgico, è ormai pressoché impossibile non gettare tutti i sacri misteri nella melassa del politicamente corretto

La liturgia della solennità dell’Epifania è caratterizzata da una forte luce [testo della Liturgia della Parola, QUI] che raggiunge tutti gli uomini: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» [cf. Gv 1,9].

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Questa festa, che si celebra 12 giorni dopo Natale, prende nome dal greco ἐπιφάινω [epifàino] che significa “mi rendo manifesto”. Parola dalla quale deriva ἐπιϕάνεια [epifàneia] che significa apparizione, venuta, presenza divina. Conoscere il significato delle parole, come spesso spiego nelle mie omelie e nelle mie catechesi, è indispensabile per poter penetrare i misteri della fede, che hanno un proprio vocabolario, preciso e specifico; e se manca la lingua, non si può trasmettere il messaggio della verità, anzi si corre il rischio di falsarla. I misteri della fede hanno infatti un proprio linguaggio preciso che nasce e che si sviluppa nel corso dei secoli attraverso la sapienza dei Santi Padri e dai grandi concilî dogmatici della Chiesa.

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Con l’Epifania si celebra la prima manifestazione della divinità di Gesù all’intera umanità. Ciò avviene attraverso la visita solenne, l’offerta di doni altamente significativi e l’adorazione dei magi, che sono degli alti dignitari di un popolo estraneo al mondo ebraico e mediterraneo. La commemorazione della Epifania, che ha inizio nel III secolo, comprende le manifestazioni divine di Gesù. In particolare: l’adorazione dei Magi, il battesimo di Gesù [cf. Mc 1,9-11], ed il primo “segno” a Cana di Galilea attraverso il miracolo del vino [cf. Gv 2,1-12], anticipazione a suo modo del grande miracolo e sacrificio del Sangue di Cristo sposo della Chiesa.

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Nel tempo, la tradizione popolare, ha decorato con significati particolari le figure dei magi: anzitutto mutando questi maghi – termine oggi negativo – in magi. È stato anche precisato il loro numero, sono stati poi trasformati in Re, ed è stato dato loro un nome — Gaspare, Melchiorre e Baldassarre —, assieme a conformazioni fisiche diverse, così uno rappresenta il mondo occidentale, uno quello arabo e uno quello africano.

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Questi magoi, dalla descrizione che ce ne viene fatta, pare che siano degli astronomi, forse sono dei sacerdoti zoroastriani provenienti dalla Persia. Quello che comunque rimane certo è che dinanzi al Popolo di Israele sono degli “stranieri” che non conoscono la Sacra Scrittura e la Legge Mosaica. Eppure sono questi stranieri di altra cultura e religione che “rivelano” a Israele ed ai suoi sacerdoti e dignitari ciò che essi attendevano e sapevano, ma che si era nascosto nel loro intimo. La manifestazione del Messia a coloro che lo aspettavano è stata quindi possibile per l’intervento inaspettato di elementi estranei. Il mondo religioso e politico dell’epoca è stato “illuminato” dalla conoscenza e dalla sapienza di stranieri ritenuti dal mondo ebraico dei גוים [goijm] quelli che nella letteratura evangelica e in quella paolina sono indicati come gentili, termine che indica principalmente i pagani.

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Il racconto dell’Epifania del Signore e dei tre Magi, non può che indurci ad una riflessione sul mondo di oggi che ci sembra sempre più invaso da “altri”, ma con una gran differenza: ieri, questi stranieri, questi “altri”, ossia i magi, seguendo la luce di una stella giunsero per indicarci la venuta del Messia, ed una volta che lo ebbero trovato si prostrarono dinanzi a lui e lo adorarono. Oggi, molti degli “altri” che spesso accogliamo senza alcun prudente buonsenso, non vengono affatto per adorare il Verbo di Dio fatto uomo né tanto meno per farcelo conoscere, ma per sostituire la luce del Cristo Dio – che per noi è inizio centro e fine ultimo del nostro intero umanesimo [cf. dich. Dominus Jesus] – con la loro falsa stella, affinch’essa si innalzi su quel poco che resta della fede cristiana in questa nostra Europa in stato ormai avanzato di scristianizzazione. O detta in altri termini: sarebbe come spalancare le porte di un asilo nido a Erode detto il Grande per facilitargli la strage degli innocenti [cf. Mt 2,1-16]. Si potrebbe però obiettare che il Verbo di Dio, invitando all’accoglienza, ci ammonisce: «Ero straniero e mi avete accolto» [cf. Mt 25, 31-46], espressione che richiede di essere però compresa, non stravolta. Infatti, a suffisso di questa espressione e di tutte le altre che seguono, c’è l’Ego Sum del Verbo di Dio, che in modo totale, esclusivo e assoluto si presenta come via, verità e vita [cf. Gv 14,16]. Perché è in questa ottica cristologica che va intesa la frase finale: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Tenendo appunto conto che Cristo Dio parla tra l’altro di «fratelli», non parla di invasori desiderosi di sostituire e di distruggere la radice stessa del Suo Divino Essere unica, sola e assoluta via, verità e vita.

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Un discorso tutto a parte meriterebbero i doni portati dai magi, che oltre alla loro grande preziosità hanno un preciso significato, a partire dall’oro, un ottimo conduttore del calore che simboleggia come tale l’opera di Gesù, il quale ci ha trasmesso fedelmente il calore dell’amore del Padre. L’oro, considerato il metallo nobile per definizione, ha la caratteristica di non ossidare e di non corrodersi. L’oro rappresenta quindi sin dalla prima epoca apostolica la incorruttibilità della fede. Questo il motivo per il quale ai nostri Vescovi, maestri e custodi della fede, erano donate croci d’oro, segno appunto della incorruttibilità della fede, non certo di sfarzo e di opulenza principesca. Questo il motivo per il quale, le preziosissime specie del Corpo e del Sangue di Cristo, nella tradizione della Chiesa sono sempre state riposte dentro metalli preziosi. E a tal proposito sappiate che San Francesco d’Assisi, quello vero, ai suoi frati li mandava in giro anche scalzi, poteva persino accadere che non avessero da fare un pasto al giorno, ma quando i suoi frati sacerdoti li inviava a portare la Comunione agli ammalati, ce li mandava con le pissidi d’oro, perché – diceva il poverello di Assisi – «La povertà deve finire sotto i gradini dell’altare».

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Altro dono prezioso è l’incenso, che quando viene bruciato forma nubi bianche che salgono verso l’alto e che rappresenta le nostre preghiere e inni di lode che si innalzano al cielo a Dio Padre.

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Infine la Mirra, che si presenta sotto forma di grani tondi di colore rossastro con un gradevole odore aromatico. Questi grani rossastri ci ricordano le gocce di sangue che coprirono il volto di Gesù nel Getzemani, poi il suo capo coronato di spine e infine tutto il suo corpo flagellato e straziato dalla crocifissione. Questo מָרוֹר [maror, erba amara] nella sua simbologia ci ricorda le sofferenze di Cristo, la cui vita è stata contrassegnata da persecuzioni sin dall’infanzia, a partire dalla fuga in Egitto, per seguire con incomprensioni, tradimenti, abbandono, fino al culmine: la sua morte in croce.

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Quando a Maria e Giuseppe i magi offrirono l’oro, essi non risposero: “No, grazie, l’oro datelo ai poveri”. Non dissero questo perché erano consapevoli che a Dio si offre sempre l’ottimo, il massimo. Gli scarti, a Dio, li offriva Caino, come ci narra il Libro della Genesi. Mentre nei Santi Vangeli il falso amore per i poveri ci viene indicato attraverso la figura di Giuda, che quando Maria di Bethania unse il Signore Gesù con prezioso olio di nardo, egli si mostrò falsamente scandalizzato per lo spreco e disse che quel prezioso olio poteva essere venduto per trecento שְׁקָלִים [sheqel, plur. sheqelim, moneta della Giudea, latinizzata in siclo, sicli] e il ricavato dato ai poveri. Il Beato Evangelista Giovanni, narrando questo episodio, ci precisa che l’Iscariota non diceva questo perché amasse i poveri, ma perché era ladro. Ma soprattutto, nella memoria, dovremmo sempre portare viva la risposta data da Gesù: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» [cf. Gv 12, 1-8].  

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A Dio si offre sempre l’ottimo, il massimo. E per inciso: per capire quanto quell’olio di nardo che l’Iscariota aveva stimato trecento sicli fosse veramente prezioso, basti dire che all’epoca la paga di un soldato romano era di un soldo. Il valore di quell’olio corrispondeva quindi a quasi un anno di paga di un soldato.

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Al vedere la stella, i magi provarono una gioia grandissima. Non è importante l’evento astrale in sé. Quello che a noi interessa è il senso: «Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe» [cf. Nm 24,17]. La stella è Cristo stesso [cf. Ap 22,16], per questo non è visibile dai palazzi di Gerusalemme, perché i poteri umani hanno carenza di luce [cf. Mt 20,25] e i poteri religiosi dell’antica giudea con tutte le loro regole hanno mutata la religione in una schiavitù, sino a gravare gli uomini oltre misura: «Caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» [Lc 11, 46].

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La Stella procede in avanti e guida i magi. Il Beato Evangelista Matteo descrive la gioia dei magi nel rivedere la stella: la luce del Messia ci illumina la strada, ci guida, si riflette nella nostra vita tanto da rivestirla di quella gioia che si muta in quel dono di grazia che trasforma l’uomo per riportarlo alla sua immagine e somiglianza con Dio. La luce di Cristo illumina ogni  aspetto della vita, o come dice il Profeta Isaia: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» [cf. Rm 10,20].

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Basta solo alzare gli occhi al cielo per vedere la stella e poi seguirla, senza far scendere mai il buio; e la luce di Cristo ci coglierà dall’ombra per avvolgerci nella luce del mistero del Verbo di Dio fatto uomo.

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In questa festa della luce, risuonano le parole del Prologo al Vangelo del Beato Apostolo Giovanni che parla del mistero del Verbo fatto carne: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno sopraffatta» [cf. Gv 1,5]. Anche se ieri, come purtroppo oggi, molti la luce «non l’hanno accolta», o peggio: tentano in tutti i modi di spegnerla, in un mondo nel quale, al cristocentrismo, è stato ormai da tempo sostituito l’uomocentrismo.

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Preghiamo affinché dinanzi a questa luce divina che manifesta e che rivela il mistero del Verbo di Dio incarnato, possa risuonare e poi radicarsi nei nostri cuori l’anelito paolino:

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«Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» [Gal 2, 20].

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dall’Isola di Patmos, 6 gennaio 2019

Epifania del Signore Gesù

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

«Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità»… E il Verbo si fece carne

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«QUANDO AVRAI ELIMINATO L’IMPOSSIBILE, CIÒ CHE RIMANE, ANCHE SE POCO PROBABILE, DEVE ESSERE LA VERITÀ» … E IL VERBO SI FECE CARNE

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Sherlock Holmes, acuto investigatore, risolve i casi più intricati e misteriosi di assassinio, scoprendo con arguta sagacia l’omicida. Questo personaggio, è così in grado di rivelarci qualcosa di nascosto, portando alla luce ciò che non è subito visibile. Egli ha come proprio motto: «Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità» … E il Verbo si fece carne.

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Autore
Gabriele Giordano Scardocci, O.P.

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Buon Natale a tutti voi!

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Shelock Holmes, vignetta d’epoca

Anche quest’anno abbiamo la gioia di vivere insieme questa solennità del Signore. La nascita di Gesù, Figlio di Dio, è uno dei principali misteri della nostra fede, sintetizzato nel Vangelo di Giovanni appena proclamato [vedere testo, QUI]. Proviamo ad addentrarci in questo grande mistero a partire da un’opera letteraria.

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Tutti conosciamo il personaggio letterario Sherlock Holmes, nato dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle nel secolo scorso nel romanzo Uno Studio in Rosso. Holmes, investigatore privato londinese, è accompagnato dall’amico medico, il dottor Watson. Holmes, acuto investigatore, risolve i casi più intricati e misteriosi  di assassinio, scoprendo con arguta sagacia l’omicida. Questo personaggio, è così è in grado di rivelarci qualcosa di nascosto, portando alla luce ciò che non è subito visibile. Egli ha come proprio motto: «Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità».

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Con la sua nascita e venuta al mondo, Gesù bambino aiuta tutti noi ad entrare nella luce del mistero di Dio; con questa sua missione, che in teologia è chiamata missione visibile della Trinità, ci aiuta ad eliminare l’impossibile ed a trovare quella verità che, a prima vista, può sembrare persino poco probabile.

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Il Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato poco fa ci aiuta dunque a cogliere il grande mistero. Per comprenderlo, bisogna partire dalla fine del brano:

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«Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» [cf. v. 18]. 

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Il desiderio forte che ci rende uomini in uno stato più elevato consiste nel vedere, conoscere e scoprire. Perciò il desiderio di conoscere e scoprire Dio è quello più alto in assoluto. È una scintilla di umanità che vuole diventare fuoco. Questo ce lo permette il Figlio unigenito, Gesù, che è Dio insieme al Padre seppure distinto da Lui. Gesù esaudisce il nostro desiderio più profondo di aprirci alla verità e all’amore più grande. Ciò è possibile perché ci ha donato, in questo Natale tutto sé stesso: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» [cf. v. 16].

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Diventando uomo, Gesù accoglie tutta l’umanità e tutto l’uomo senza eccezione e senza condizioni: questa è la sua pienezza. L’averci accolto incondizionatamente ha permesso una cascata di amore e accoglienza: questa cascata è la Sua grazia che, innanzitutto, noi riceviamo nei sacramenti.

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Tramite la grazia che apre la nostra conoscenza profonda di Dio, possiamo esseri certi che

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« Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […]» [cf. v. 16].

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Nella cultura attuale questo sembra davvero improbabile e inaccettabile. Perché il Verbo che è Dio, spirituale e invisibile, farsi carne [dal greco σάρξ, sarx]? Perché Dio è amore e vuole chiamarci ad un’intimità e tenerezza profonda con Lui, sino a permettere il miracolo di assumere la natura umana ed un corpo vero, reale e fisico. Esattamente come una gocciolina d’acqua viene assunta in una più ampia parte di vino, così natura umana e divina esistono insieme in Gesù. Fra poco vedrete questo mistero della duplice natura, mostrato nella liturgia quando io stesso, adempiendo alla mia funzione di diacono, mescolerò nel calice insieme al vino con qualche gocciolina d’acqua, seguita dalle sommesse parole:

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«L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione, con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana».

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Perciò ora che sappiamo che Gesù ci ha rivelato Dio, ci ha spalancato le porte della grazia e ci ha permesso di contemplare la gloria della sua bellissima duplice natura, con occhi scintillanti di felicità e serenità possiamo dire con fede: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» [cf. v. 1].

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Il Verbo, dal greco λόγος, logos [Parola] è Dio stesso: è la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo ed è intimamente unito al Padre, e vuole trasportarci alla intima unione con la Trinità stessa e dunque ad essere piccola Trinità anche noi.

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Questo mistero, dall’alto della sua intangibilità, ora scende nella concretezza della vita quotidiana: adesso che tornerete a casa per radunarvi assieme con chi più amate per il pranzo di Natale, chiediamo al Signore la forza e la determinazione di essere testimoni di fronte ai nostri parenti e amici dell’amore di Gesù che oggi nasce. Affinché noi stessi, una volta ricevuto Gesù nella comunione eucaristica e uniti in Lui, possiamo condurre anche i più lontani alla grotta di Betlemme. Affinché anche noi tramandiamo la purezza, la bellezza e la verità con cui viviamo la fede cattolica.

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Così sia.

 

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Roma, 25 dicembre 2018

Natività del Signore

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Qualche chiarimento affinché il nostro Natale sia meno povero e meno ideologico: in verità, a Betlemme era solo tutto esaurito, Gesù Cristo non è nato da due immigranti …

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

QUALCHE CHIARIMENTO AFFINCHÉ IL NOSTRO NATALE SIA MENO POVERO E MENO IDEOLOGICO: IN VERITÀ, A BETLEMME ERA SOLO TUTTO ESAURITO, GESÙ CRISTO NON È NATO DA DUE IMMIGRANTI …

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Tra il 25 e il 26 dicembre dovremo sorbirci i resoconti giornalistici stillanti correttezza politica che c’informeranno in quante gloriose cattedrali e basiliche, durante la Santa Messa della Notte di Natale, è stato fatto riferimento ad un Gesù povero e profugo. E più la cattedrale o la basilica sarà prestigiosa, più l’omileta avrà alzato il tiro …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

 

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Puer natus est, alleluja !

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non c’era un posto, a Bethlehem …

Dedicheremo l’omelia al Vangelo di questa Santa Notte al legame che unisce l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo al mistero della Santissima Eucaristia [vedere testo della Liturgia della Parola, Lc 2, 1-14, QUI].

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Nei giorni precedenti questo Santo Natale, ed in quelli che seguiranno, il divino mistero di questa nascita è stato definito in tanti modi dal mondo sempre più mondano e laicista, solo qualche esempio: il Natale indicato come «festa della pace», «festa della solidarietà», «festa dell’amore tra i popoli e dell’accoglienza delle diversità», ovviamente «festa dei poveri» e «festa degli immigranti». Sia chiaro: io non sono turbato né dai poveri né dagli immigranti, credo anzi sia nostro dovere umano e cristiano aiutare i poveri ad uscire dal loro stato di povertà, ed ai veri profughi che fuggono da guerre e carestie ad avere una patria: «Ero straniero e mi avete accolto» [cf. Mt 25, 31-46].

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A turbarmi, non è quindi il dramma della povertà, né il problema della immigrazione; da cinque anni a questa parte a turbarmi è altro, ed in specie quando in occasione del Santo Natale e della Santa Pasqua, queste due categorie ormai ideologiche ― poveri e migranti veri o sedicenti tali ―, prendono il posto del Verbo di Dio incarnato e del Cristo Risorto.

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Tra il 25 e il 26 dicembre dovremo così sorbirci i resoconti giornalistici stillanti correttezza politica che c’informeranno in quante gloriose cattedrali e basiliche, durante la Santa Messa della Notte di Natale, è stato fatto riferimento ad un Gesù povero e profugo. E più la cattedrale o la basilica sarà prestigiosa, più l’omileta avrà alzato il tiro. E così, come ad ogni 1° gennaio avremo il tradizionale resoconto dato da giornali e telegiornali sugli incidenti di capodanno avvenuti a Napoli, altrettanto accadrà nella nostra Chiesa sempre più incidentata dalla mondanità, ed il 26 dicembre potremo festeggiare la memoria di Santo Stefano Protomartire con tutti i resoconti più dettagliati sui pranzi che si sono tenuti nelle nostre chiese alla vigilia di Natale e sulle omelie a base di poveri e profughi che nelle stesse si sono tenute tra la notte del 24 ed il giorno del 25 dicembre, tra presepi divenuti ormai un monotono e conformistico tripudio di barconi e di ciambelle di salvataggio usate per adagiarvi sopra il Divin Bambinello appena sbarcato nell’Isola di Lampedusa.

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In questa Santa Notte desidero ricordare che a Natale, la orbe catholica, festeggia il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo [cf. Gv 1, 1-18], non festeggia una non meglio precisata “festa della solidarietà” svuotata del divino mistero e riempita di laicismo mondano. E le parole sono importanti, perché il modo più diabolico per distruggere la fede, è svuotare i misteri della fede del loro vero significato per poi riempirli di altro. Non più quindi memoria del grande mistero della Incarnazione del Verbo di Dio che si fa uomo assumendo la nostra stessa natura umana come illustra il Beato Apostolo Paolo nel suo celebre Inno Cristologico [cf. II Fil 2, 6-11 testo QUI], ma «festa della pace», «festa della solidarietà», «festa dell’amore tra i popoli e dell’accoglienza delle diversità» … il tutto con improbabili e non veritieri riferimenti ad un Gesù povero e profugo.

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Vediamo allora cosa narrano le cronache storiche dei Santi Vangeli: la Beata Vergine Maria, dopo avere risposto in piena libertà con il proprio «fiat» al messaggero del Signore [cf. Lc 1, 26-38], dà alla luce mesi dopo il Figlio unigenito di Dio, lo avvolge in fasce e lo depone in una mangiatoia. Questa nascita e questa deposizione in una mangiatoia non accadde nei modi narrati perché Giuseppe era povero e profugo, ma perché i due, come ci narra il Santo Vangelo che abbiamo appena proclamato [Lc 2, 1-14], erano in viaggio da Nazareth verso Betlemme per adempiere l’obbligo del censimento ordinato da Cesare Augusto [cf. Lc 2, 1-14]. Giuseppe era un artigiano che svolgeva il nobile e redditizio mestiere di ebanista, mentre Maria proveniva da una famiglia forse ancor più benestante di quella di Giuseppe, basti pensare che il marito di sua cugina Elisabetta era un Sacerdote della antica casta di Abìa [cf. Lc 1, 57-80]. Pertanto, se Gesù nasce in un luogo di fortuna è perché, come narrano i Santi Vangeli, non c’era un posto libero in alcun albergo [cf. Lc 2, 1-6]; non perché Giuseppe non avessero di che pagare l’alloggio quando la beata Vergine fu colta dalle doglie del parto durante quel viaggio, intrapreso non per scelta volontaria, ma per un dovere giuridico imposto dall’obbligo di farsi censire [cf. Lc 2,1].

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L’evento più grande della storia, l’incarnazione del Verbo di Dio, è descritto attraverso la successione di alcune fondamentali parole chiave: dare alla luce, avvolgere in fasce, porre in una mangiatoia. Con queste parole semplici e chiare si narra la nascita del Figlio Unigenito di Dio Padre, Gesù, la Luce del mondo. Perché «Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce» [Fil 2, 6-11]. Lui, che è Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato della stessa sostanza del Padre [Simbolo Niceno-Costantinopolitano], vede la luce con gli occhi di un vero uomo nascendo dal ventre di una donna, la Beata Vergine Maria.

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Il Figlio Unigenito di Dio posto nella mangiatoia, costituisce per noi un grande valore mistagogico. Nella mangiatoia si depone infatti il cibo per gli animali: il fieno e la paglia, tenendoli elevati da terra affinché non si sporchino. Gesù, ponendosi nella mangiatoia, rivela al mondo sin dalla nascita qual è la sua vera essenza: il Verbo di Dio fatto uomo viene per farsi nutrimento reale degli uomini.

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Anche oggi Cristo è deposto nella mangiatoia dell’altare o del tabernacolo affinché tutti possano accostarsi a Lui per adorarlo come lo adorarono i festanti pastori accorsi [cf. Lc 2, 15-20] ed i Maghi Astronomi detti Re Magi [cf. Mt 2, 1-12], affinché tutti possano nutrirsi di Lui nella Santissima Eucaristia, che è il mistero del suo corpo donato e del suo sangue versato. E nell’Eucaristia Cristo non è presente simbolicamente o metaforicamente, ma realmente; Egli è presente vivo e vero in anima corpo e divinità.

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Cristo redime e salva l’umanità col sacrificio della croce, immolandosi come agnello di Dio che lava il peccato dal mondo [cf. Gv 1, 29-34], facendosi vero cibo, vero nutrimento dell’uomo. La Santissima Eucaristia è il mistero della mutua trasformazione: Dio si è fatto uomo come noi, affinché noi, lavati dal peccato col suo sangue, attraverso Cristo cibo di vita eterna possiamo trasformarci in Lui, con Lui e per Lui. Ricordate che cosa recita il celebrante quanto fa memoria dei defunti nelle Santa Messe di suffragio? Noi sacerdoti, agendo in quel momento in persona Christi ― non certo come dei meri “presidenti dell’assemblea gioioso-giocosa” ―, recitiamo questa bella orazione: «Egli trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso» [cf. Messale Romano, III Preghiera Eucaristica]. Questo, s’intende per mistero della mutua trasformazione.

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Ma qual è il vero Cristo Signore gioia viva ed eterna dell’umanità deposto in fasce nella mangiatoia? La gioia dell’uomo è Cristo accolto e ascoltato che diviene nostro cibo di vita eterna: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» [cf. Gv 6, 51]. Se Cristo non diviene nostro cibo vivo e nostra vita reale, l’uomo non potrà mai conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32]. Non saranno mai le parole fini a se stesse a dare all’uomo quella gioia che pervade il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni; meno che mai lo saranno quelle parole vuote che anziché condurre ai misteri della fede e della salvezza, svuotano questi misteri e li riempiono di altro, spesso di mondanità e di moderna paganità.

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Finché l’uomo non mangia in spirito di fede e verità Cristo nella sua carne immolata per la nostra salvezza, nessuna vera gioia nascerà per lui. E la carne viva e palpitante di Cristo Dio, prende sì vita in una tenera mangiatoia, ma poi finisce immolata su una croce per la nostra redenzione. Infine, il corpo glorioso di Cristo, risorge dalla morte. Perché l’epilogo finale della natività è la risurrezione. Ce lo dice il Beato Apostolo Paolo: «Se Cristo non fosse veramente risorto, vana sarebbe la nostra fede, vana la nostra speranza» [cf. I Cor 15,14].

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La nostra fede nasce con l’Incarnazione del Verbo di Dio deposto in una mangiatoia, ma è suggellata dalla pietra rovesciata di un sepolcro vuoto, dinanzi al quale l’Angelo dice alle donne: «Non cercate tra i morti colui che vive» [cf. Lc 24,5]. La tenera mangiatoia è solo l’inizio del grande annuncio cristologico, mentre il Cristo risorto è l’eterno, colui che affiancandoci nel cammino lungo la Via di Emmaus [cf. Lc 24, 13-53], ci guiderà attraverso i secoli verso il suo regno che non avrà fine, verso l’eterno.

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Dall’Isola di Patmos, 24 dicembre 2018

Notte di Natale – Natività del Signore

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Il Verbo di Dio incarnato per la nostra salute: il Natale come percorso terapeutico alla luce dei Padri della Chiesa

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL VERBO DI DIO INCARNATO PER LA NOSTRA SALUTE: IL NATALE COME PERCORSO TERAPEUTICO ALLA LUCE DEI PADRI DELLA CHIESA

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Appare chiaro, come il mistero della venuta di Cristo sulla terra, presenta una nuova strategia terapeutica che la provvidenza divina rende fruibile per ogni uomo. L’incarnazione conduce a una profonda affinità tra il Salvatore e l’uomo. L’affinità di Cristo nei confronti dell’uomo si costituisce nel rivestire una natura fragile e segnata dal peccato pur senza assumerne la colpa originaria.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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il Verbo di Dio si è fatto uomo per divenire medico celeste sulla terra

La nascita di Cristo costituisce l’evento più grande dell’intera storia umana: in questa venuta, Dio si riveste della natura dell’uomo rendendosi con lui solidale. Tale serena immersione dell’Altissimo  nella nostra fragilità, attua il progetto di redenzione atteso da tutti i profeti.

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Conformemente a questa volontà di Dio «i Padri e tutta la tradizione ecclesiale vedono in lui un medico inviato dal Padre per guarire gli uomini malati dalle conseguenze del peccato originale e per far ritrovare alla natura umana la sua salute originaria» [cf. Jean-Claude Larchet, Terapia delle malattie spirituali, ed. San Paolo, 2003, pg 2699].

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In questo agire divino, dobbiamo scorgere chiaramente ciò che costituisce il fulcro della nostra dignità che non può essere offuscata da nessuna persona e da nessuna cosa, segno quanto mai eloquente del valore intrinseco di ogni persona, anche se inferma.

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Essere resi degni — per grazia — della natura divina del Figlio di Dio, costituisce nell’uomo la vera identità personale che il Santo Pontefice Leone Magno spiega proprio a partire dal mistero della natività:

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«Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna» [cf. Leone Magno, Discorsi, Omelia I per il Natale, 1-3; PL 54, 190-193].

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L’incarnazione di Cristo determina così una profonda liberazione di tutto l’uomo che diventa il paradigma della sympátheia divina [cf. Pietro Crisologo, Sermones, 50; PL 52, 340], attitudine che coniuga in sé la capacità che Dio ha di assumere la sofferenza umana insieme alla capacità di risanarla. 

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Questo concetto lo troviamo espresso in modo chiaro in diverse guarigioni compiute da Gesù e testimoniate dagli evangelisti. Abbiamo di fronte il paradigma del guaritore ferito, colui che è capace di risanamento perché si rende malato con l’infermo.

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Appare chiaro, come il mistero della venuta di Cristo sulla terra, presenta una nuova strategia terapeutica che la provvidenza divina rende fruibile per ogni uomo. L’incarnazione conduce a una profonda affinità tra il Salvatore e l’uomo. L’affinità di Cristo nei confronti dell’uomo si costituisce nel rivestire una natura fragile e segnata dal peccato pur senza assumerne la colpa originaria, dice il Concilio:

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«Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per l’umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato”…» [cf. Concilio di Calcedonia, Symbolum: DS 301-302].

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Il principio di affinità tra Cristo e l’uomo, congiunge il divario tra il divino e l’umano e questo permette alla natura divina di guarire in profondità la natura umana attraverso una compromissione radicale e del tutto nuova, infatti: «un sano può curare chi non lo è solo se è anch’egli malato con il malato. È l’antica cura che offriva il centauro Chirone alla gente ferita che andava a visitarlo, di essere curante perché a sua volta ferito» [cf. Lucio Coco, a cura di: Io ti guarirò, ed. Abbazia di Praglia, 2013].

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Cristo realizza veramente la speranza di risanamento totale che gli antichi hanno rappresentato nel mito del centauro guaritore Chirone, così

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«ogni cosa che Cristo aveva messo nel corpo umano di natura celeste, vedendo che era consumata da una malvagità corrosiva e che il sinuoso serpente era signore dei mortali, poiché voleva risollevare la sua parte, non lasciò il morbo agli altri medici – infatti è sufficiente per i gravi morbi un piccolo rimedio –, ma svuotandosi della sua gloria, essendo celeste e immutabile immagine del divino, da uomo e contro le leggi mortali, nelle viscere sante di una vergine donna si è incarnato, o miracolo incredibile per gli uomini sfiniti» [cf. Gregorio di Nazianzo, Pœmata moralia: 1,2,38 vv. 140-148; PG 37, 533].

         

La condizione dell’uomo, nei confronti del medico celeste, necessita di una quotidiana fiducia che è il sentimento umano che – illuminato dalla grazia – conduce alla virtù teologale della fede.

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Così, come l’infermo guarisce solo se ripone la sua fiducia in chi lo cura, la fiducia in Dio è necessaria per comprendere come l’intera vita cristiana è un percorso di risanamento in cui noi siamo condotti tra le braccia del Signore per riavere la salute. Senza questa fiducia, mai possiamo ritenerci del tutto al sicuro da qualche infermità.

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La fiducia in Dio è necessaria per non presumere di noi stessi e per non cadere nella patologica scontentezza lamentosa, che è figlia dalla vanità e dell’affanno mondano. Sant’Agostino approfondisce il tema dell’avvento di Cristo, in relazione alla fiducia e alla disponibilità che l’uomo dimostra verso Dio, affermando:

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«Al genere umano giacente infermo nel gran letto del mondo venne in soccorso quel nostro gran medico. Un medico valente osserva e studia il corso della malattia, fa una prognosi sui suoi sviluppi e, quando è ancora lieve la sofferenza del malato, fa intervenire i suoi aiutanti; allo stesso modo il nostro medico mandò prima a visitarci i Profeti che ci portarono la loro parola, la loro predicazione, ed egli guarì alcuni per mezzo loro. Essi annunciarono un aggravamento del male in prossimità della fase finale, che avrebbe richiesto l’intervento del medico in persona a cui potesse direttamente ricorrere il malato. Era stato annunciato che avrebbe consolato e sanato chi avesse avuto fede in lui: «Io percuoto e guarisco» [cf. Dt 32,39]: e così avvenne. Egli è venuto, si è fatto uomo assumendo la nostra condizione di uomini mortali perché noi possiamo condividere la sua immortalità. Ma gli uomini sono ancora travagliati dalla malattia e, riarsi dalla febbre, con il respiro affannoso, si lamentano che da quando è arrivato il medico, le febbri sono diventate più violente, più grave il tormento, insostenibili i patimenti. Da qualunque parte sia giunto il medico, non sembra loro sia stata salutare la sua venuta. Questi i lamenti di chi è ancora immerso nella malattia delle vanità mondane, avendo rifiutato di ricevere dal medico, la medicina della sobrietà» [cf. Sant’Agostino, Sermones: 346/A,8; NBA 34, pg 101].

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Ogni anno il Natale è preceduto da un congruo tempo di preparazione affinché la nostra vita cristiana si renda sobria da tante distrazioni e ubriacature che ci distraggono dalla fiducia in Dio. La venuta di Cristo nel mondo è motivo di grande gioia [cf. Lc 2,10], proprio perché il Padre

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«nel corso del tempo ha convinto la nostra natura della propria impotenza nell’ottenere la vita; ora egli ci ha mostrato il Salvatore che ha la potenza di salvare anche ciò che non poteva esserlo: attraverso questo duplice mezzo, ha voluto che noi avessimo fede nella sua bontà e che vedessimo in lui […] un medico» [cf. Lettera a Diogneto, IX, 6].

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Rinfrancati da questa certezza, accogliamo il Natale del Signore come la visita del medico celeste e accantoniamo la paura e la vergogna di farci visitare, presentando anche quelle piaghe più nascoste e infette che ci fanno orrore. I nostri occhi così, come quelli del santo vegliardo Simeone, contempleranno la salvezza e con il salmista saremo lieti di cantare «Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito» [cf. Sal 30,3].

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Cagliari, 24 dicembre 2018

Vigilia di Natale

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Questa è la mistica cristiana: l’anima della Vergine Maria che si magnifica nel Signore e che ci ricorda che nel Nome di Cristo Redentore ogni ginocchio si pieghi

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

QUESTA È LA MISTICA CRISTIANA: L’ANIMA DELLA VERGINE MARIA CHE SI MAGNIFICA NEL SIGNORE E CHE CI RICORDA CHE NEL NOME DI CRISTO REDENTORE OGNI GINOCCHIO SI PIEGHI

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Taluni eccessi di devozione popolare da un lato, vecchi eccessi di cautela ecclesiastica dal lato opposto, hanno indotto a dimenticare a lungo un’altra figura straordinaria quanto quella di Maria: quella di Giuseppe. Prudentemente dipinto come un vecchietto messo più o meno in un angolo in disparte, o variamente chiamato nelle giaculatorie col titolo di “castissimo sposo”. Giuseppe non è divenuto santo perché era “castissimo”, ma perché ha accolto e fatto sua la libertà di Maria. Appoggiando e proteggendo con la propria libera scelta di fede il si di Maria. Il Verbo si è potuto incarnare perché quest’uomo di grande fede — che era un giovanotto, non quel vecchietto decrepito posto accanto alla mangiatoia, quasi come se la stalla di Bethlehem fosse per lui la succursale di un reparto di geriatria — ha protetto Maria e il mistero. In caso contrario, la fine di questa giovane rimasta incinta senza marito, senza la fede e l’amore di Giuseppe sarebbe stata la lapidazione.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
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Laudetur Jesus Christus !

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Visitazione della Beata Vergine Maria alla cugina Elisabetta. Opera di Domenico Ghirlandaio, XV secolo, refurtiva d’arte conservata presso la celebre Casa Francese delle Rapine d’Arte nota anche come Museo del Louvre di Parigi

L’amabile figura della Beata Vergine Maria proposta dal Santo Vangelo di questa IV domenica d’Avvento [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] è stata letta è interpretata in tutti i modi nel corso dei secoli, dalla letteratura popolare alla letteratura colta. Si pensi alla monumentale ode con la quale Dante apre il XXXIII canto del Paradiso con la preghiera di San Bernardo alla Vergine: 

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Vergine madre, figlia del tuo Figlio,
Umile ed alta più che creatura,
Termine fisso d’eterno consiglio.

Tu se’ colei che l’umana natura
Nobilitasti sì, che il suo Fattore
Non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore
Per lo cui caldo nell’eterna pace
Così è germinato questo fiore […]

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Nel mondo teologico l’attenzione rivolta alla Beata Vergine ha dato vita a una disciplina di ricerca e di studio: la mariologia, nata anche per correggere e riportare entro i ranghi della fede cattolica un problema che ha sempre pervaso certe sacche di fedeli, principalmente noi mediterranei e i vari popoli latinoamericani, animati sovente da quella cosiddetta fede più o meno popolare che non di rado ha mutato i culti mariani in forme di mariolatria; autentiche deviazione dalla fede che è nostro dovere pastorale e sacerdotale correggere, sempre e comunque, anche quando attorno a certi fenomeni circola molto denaro, anzi, soprattutto se attorno a certi fenomeni comincia a circolare troppo danaro …

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A predicare un passo del Vangelo che parla di Maria non c’è che l’imbarazzo della scelta: possiamo avviare il discorso partendo da mille strade diverse e dire altrettante mille cose diverse, ma le sintesi di Maria sono due, racchiuse in un principio e in una fine che segnerà il trionfo e l’inizio del mistero cristologico. L’inizio del cammino di Maria è un sì [cf. Lc 1, 26-38]; la fine del percorso di Maria proiettata per prima nel mistero del grande inizio, è quella croce che ci porterò sin davanti alla pietra divelta del sepolcro vuoto del Risorto.

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La fede e l’amore della Vergine Maria permettono a Dio Padre di realizzare il mistero dell’incarnazione. Dio bussa alle porte della libertà di questa giovinetta, poco più che adolescente, con una richiesta che supera ogni immaginario umano: Dio vuole farsi uomo. Come liberamente l’antica Eva disubbidì a Dio assieme all’antico Adamo, con altrettanta libertà Maria dice di si, divenendo a suo modo la nuova Eva dell’umanità. Senza molte parole, senza alcun discorso filosofico e teologico, il si di questa giovane ragazza cambiò la storia dell’umanità; e con quel sì «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi [Gv 1, 14].

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Taluni eccessi di devozione popolare da un lato, vecchi eccessi di cautela ecclesiastica dal lato opposto, hanno indotto a dimenticare a lungo un’altra figura straordinaria quanto quella di Maria: quella di Giuseppe. Prudentemente dipinto come un vecchietto messo più o meno in un angolo in disparte, o variamente chiamato nelle giaculatorie col titolo di “castissimo sposo”. Giuseppe non è divenuto santo perché era “castissimo”, ma perché ha accolto e fatto sua la libertà di Maria. Appoggiando e proteggendo con la propria libera scelta di fede il si di Maria. Il Verbo si è potuto incarnare perché quest’uomo di grande fede — che era un giovanotto, non quel vecchietto decrepito posto accanto alla mangiatoia, quasi come se la stalla di Bethlehem fosse per lui la succursale di un reparto di geriatria — ha protetto Maria e il mistero. In caso contrario, la fine di questa giovane rimasta incinta senza marito, senza la fede e l’amore di Giuseppe sarebbe stata la lapidazione. Non a caso, Giuseppe, prima di ricevere l’illuminazione divina, da uomo giusto e buono che era, aveva pensato a ripudiarla in segreto, salvandole così la vita [cf. Mt 1,16.18-21.24]

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Dicevo all’inizio che Maria può essere letta partendo da mille strade diverse, dicendo altrettante mille cose diverse. Vorrei scegliere la strada della mistica …

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… nella liturgia precedente al Concilio Vaticano II, la Preghiera Eucaristica veniva recitata dal sacerdote a bassa voce e le persone tenevano la testa chinata in segno di umiltà, quasi non osando guardare il grande mistero del pane e del vino che divengono corpo e sangue di Cristo, sua presenza viva e reale nella Chiesa. Dinanzi al mistero e al dono ineffabile del pane e del vino che divengono corpo e sangue di Cristo, il minimo che possiamo fare è stare in ginocchio, in segno di umiltà e di adorazione. Cosa questa che andrebbe ricordata ai nostri fedeli, soprattutto a quegli uomini che ritengono di potersene stare impettiti a testa alta con la mani incrociate sulla patta dei pantaloni, forse perché afflitti da gravi problemi di prostata? Animo, cari uomini, l’urologia ha fatto passi da gigante, il vostro problema è dunque risolto!

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Il valore, umile e adorante dell’inginocchiarsi, andrebbe non ultimo ricordato anche a certi nostri cerimonieri, che contro ogni tradizione e pedagogia ecclesiale danno talvolta pio esempio al Popolo di Dio ammaestrando giovani diaconi, accoliti, seminaristi e ministranti nel pieno possesso di tutte le loro migliori forze e funzioni fisiche a starsene in piedi attorno all’altare; il tutto — notate bene — in una società dove l’uomo, forse il vescovo e il presbìtero più ancora di tanti secolari, si inginocchia sempre più e sempre più spesso dinanzi agli idoli umani più diabolici, fuorché al mistero di Dio fatto uomo incarnato nel ventre della Beata Vergine, morto e risorto dalla morte, dopo averci lasciato il dono della sua ineffabile presenza nel Mistero dell’Eucaristia, dinanzi al quale inginocchiarsi è davvero il minimo “sindacale” che si possa fare.

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Che dolore, entrare in certe chiese e trovare al posto delle panche con gli inginocchiatoi delle file di sedie o delle graziose poltroncine stile platea di cinema, costate peraltro molto più delle vecchie panche!

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La mistica si fa in ginocchio, altrettanto la liturgia si fa in ginocchio, perché la liturgia non è fatua estetica creativa ma centro e comunione del mistero divino. La liturgia non è uno spettacolo del prete attore o del prete regista, perché del sacro mistero e della liturgia che lo realizza noi siamo servi fedeli e strumenti devoti, non creatori, non padroni. E dinanzi al mistero divino ci si prostra, ed all’occorrenza il buon Popolo di Dio — spesso molto più sensibile e intelligente di quanto non lo siano certi suoi preti — dovrebbe ricordarlo anche a certi maestri di cerimonia, ossia che non ci si inginocchia per consuetudine o per vecchia tradizione, ma per ovvio, sensibile, adorante e cristiano buonsenso dinanzi all’ineffabile misterium fidei.

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Mentre la mistica non cristiana tende a essere individualista, a porsi dinanzi al mistero di Dio a testa alta e a esaltare l’individualismo in ogni sua forma, la dimensione mistica cristiana che nasce dalla comunione e dal comunitarismo, rifiuta ogni forma di individualismo ed ha sempre un aspetto sociale ed ecclesiale, una dimensione adorante e liberante che si genuflette per mostrare anche col corpo, tempio vivo dello Spirito Santo di Dio, quella dimensione di amore alla quale ci invita l’Apostolo con le sue parole: «Nel nome di Gesù  ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» [I Fil 2, 6-11].  

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L’atto della contemplazione e soprattutto dell’adorazione, non si restringe al rapporto privato, soggettivo e personale con Dio; la contemplazione e soprattutto l’adorazione, ha un profondo slancio inter soggettivo sulla Chiesa e sull’intera umanità.

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Mistica come mistero: ogni cristiano non solo vive nel mistero, ma è chiamato a vivere in comunione col mistero, in quanto egli stesso mistero e parte viva del mistero della creazione. E tra poco, dopo il canto del Sanctus, tutti entreremo in comunione col mistero del Corpo e del Sangue di Cristo.

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Pensare alla mistica e ai mistici come persone che vivevano più o meno sulle nuvole o che in modo prodigioso lievitavano in estasi da terra, in parte è sbagliato e in parte è riduttivo. Infatti, mentre certe forme orientali di mistica non cristiana cercano il distacco col corpo e con la materia, la mistica cristiana è strettamente legata alla terra, al corpo e alla materia, perché nei disegni di Dio le due sfere di cielo e terra non sono estranee ma si uniscono; e si uniscono nel corpo e nello spirito. Gli elementi mistici che realizzano il sacro mistero e che rendono il Cristo stesso presente tra noi, sono elementi della terra legati alla terra. Forse per questo sarebbe bene non sovrapporre canti e musiche alle importanti parole dell’offertorio che spesso, i nostri fedeli, tra un tamburello e una schitarrata rischiano di non ricordare più: «… dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna». Segue, subito appresso, altrettanta preghiera sul vino, mentre il popolo dovrebbe rispondere — se chitarre e tamburelli non lo impedissero — «Benedetto nei secoli il Signore».

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La Beata Vergine Maria che scandisce le parole del Magnificat è un esempio privilegiato della nostra mistica basata sulla materia, sul corpo e sulla dimensione terrestre, perché grazie a lei si compie il più grande e mistico mistero: il Verbo diviene carne per giungere ad abitare in carne e ossa in mezzo a noi. Un Verbo Incarnato grazie a questa giovinetta che si genuflette con l’anima e col cuore dicendo: «Ecco, io sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la sua parola» [cf. Lc 1, 26-38].

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Tra le tante cose Maria ci insegna a vivere col cuore al cielo e coi piedi per terra, perché nei misteri di Dio, Gerusalemme terrena e Gerusalemme celeste si fondono assieme; e si fondono oltre la pietra del sepolcro vuoto del Redentore, che è morto fisicamente e che è risorto altrettanto fisicamente per la salvezza del mondo.

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Tutto questo è stato possibile grazie al sì di una giovinetta la cui anima si è magnificata e genuflessa nel Signore, grazie al suo spirito che ha esultato in Dio nostro salvatore. Quindi grazie al sì di un santo uomo di Dio, Giuseppe, che anzitutto e avanti a tutto era e rimane per noi esempio mirabile di uomo vero e deciso, che con amore protesse il si di Maria dicendo a sua volta si al mistero di Dio, insegnandoci a essere uomini veri e decisi, ed a farci per amore, con lui e con Maria Madre di Dio, servi fedeli del Signore, affinché la nostra anima possa essere in Lui magnificata.

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dall’Isola di Patmos, 23 dicembre 2018

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Il deserto e le vie tortuose offerte ad un uomo oggi più che mai emblema del vivere «in una selva oscura» dove «la diritta via era smarrita»

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL DESERTO E LE VIE TORTUOSE OFFERTE AD UN UOMO OGGI PIÙ CHE MAI EMBLEMA DEL VIVERE «IN UNA SELVA OSCURA» DOVE «LA DIRITTA VIA ERA SMARRITA»

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San Giovanni porta a compimento un’antica e lunga stagione profetica segnata da uomini altrettanto straordinari: i grandi profeti d’Israele. Ma che cosa accomunava uomini come Geremia, finito lapidato. Isaia, condannato a morte, pare sia stato segato in due. Daniele, gettato in pasto ai leoni … e il Battista? Tutti questi uomini, servi anch’essi della verità e della giustizia, morti come Giovanni non di serena morte naturale in un quieto giaciglio, erano accomunati tra di loro dall’intuizione, un dono racchiuso per natura nell’istinto di ogni uomo, che se sviluppato dal tocco della grazia di Dio per opera dello Spirito Santo può portare chiunque a percepire e vedere oltre il tempo e le ristrettezze dello spazio presente

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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San Giovanni Battista in vignetta

Tra le righe dell’Evangelista Luca di questa IIª Domenica di Avvento [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] c’è il nostro inizio remoto, il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. O come spesso ripeto: nel messaggio in movimento della parola viva di Dio c’è la totalità del nostro essere presente e del nostro divenire futuro.

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Essenziale, a tratti ombrosa, quasi selvatica come le locuste e il miele di cui si cibava, quella di San Giovanni detto il battista e il precursore, non è figura che nasca dal nulla; né una figura che termina la propria vita morendo in un quieto letto colto da senile morte naturale. Giovanni, che amava la verità e la giustizia, — perché senza verità e giustizia non possono operare né la misericordia né la grazia — fu sacrificato per una danza di Salomè; e la sua testa, in nome di quelle ragioni politiche alle quali pare talvolta non si possa mai dire di no, specie quando vilipendono la verità e la giustizia, fu recisa di netto e deposta su di un vassoio per la perversa gioia di Erodiade che la richiese in dono. Un dono non negato, anzi prontamente concesso, perché da esso dipendeva il mantenimento di tanti fragili equilibri legati al potere per il potere; non importa se immorali e perversi, ciò che solo contava era di mantenerli.

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San Giovanni porta a compimento un’antica e lunga stagione profetica segnata da uomini altrettanto straordinari: i grandi profeti d’Israele. Ma che cosa accomunava uomini come Geremia, finito lapidato. Isaia, condannato a morte, pare sia stato segato in due. Daniele, gettato in pasto ai leoni … e il Battista? Tutti questi uomini, servi anch’essi della verità e della giustizia, morti come Giovanni non di serena morte naturale in un quieto giaciglio, erano accomunati tra di loro dall’intuizione, un dono racchiuso per natura nell’istinto di ogni uomo, che se sviluppato dal tocco della grazia di Dio per opera dello Spirito Santo può portare chiunque a percepire e vedere oltre il tempo e le ristrettezze dello spazio presente, nel quale spesso ci facciamo prigionieri anziché creature libere, perché se nel nostro spazio sviluppiamo la libertà, la nostra esistenza sarà una continua emancipazione. Se invece rimaniamo chiusi nel nostro spazio, ci riduciamo alla limitatezza, ed in questo caso la nostra esistenza sarà una prigionia, semmai dorata, ma pur sempre una prigione.

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Altro elemento sul quale oggi più che mai si dovrebbe parlare in modo approfondito, forse anche drammatico, è il concetto di deserto. Da questa pagina del beato Evangelista Luca abbiamo appena udito: «Voce di uno che grida nel deserto». Ebbene, proviamo a pensare quali generi di sordi e muti deserti si è costretti a vivere oggi in mezzo al rumore, tra le fibre ottiche che corrono invisibili e le reti telematiche super tecnologiche del nostro mondo della notizia in tempo reale. Eppure mai come oggi, l’uomo è stato solo nei moderni spazi deserti dell’anima, che sono totalmente diversi dai deserti in cui l’uomo si ritirava in passato, per trovare se stesso e avvertire il soffio della carezza di Dio su di lui.

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Quale senso può avere la frase del profeta Isaia riportata dall’Evangelista Luca: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri?» [cf. Is 40, 3]. Si tratta di una frase all’apparenza chiara, che necessita però di profonde spiegazioni. Esempio: tutti abbiamo udito qualche volta nel corso della vita, attraverso i modi di dire degli anziani: «Dio raddrizza le vie storte». Cosa che la sua grazia fa e che più volte nel corso della storia ha mostrato di fare. Però, in questo caso, il soggetto chiamato in causa, o per meglio dire all’opera, pare proprio che sia l’uomo. Dio ha bisogno di sentieri adeguati per camminare tra gli uomini, che per andare incontro alla sua Maestà Divina devono lavorare a raddrizzare quei sentieri che all’origine Dio aveva tracciato diritti. Volendo possiamo aggiungere altro ancora: talvolta le vie non sono neppure più storte, molto di più e molto peggio: all’apparenza le vie non esistono proprio più!

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Si pensi a tal proposito quante antiche strade sono scomparse nel tempo, inghiottite dalla terra, dalla vegetazione, da strati urbani e architettonici sovrapposti gli uni sugli altri. Basti solo pensare alla nostra antica Roma. Eppure, quelle strade una volta esistevano. E si trattava di strade non solo reali, ma pure funzionali; e per lunghi periodi di tempo furono percorse per secoli dagli etruschi, appresso dai romani. Poi, dopo la caduta dell’Impero Romano che segnò la grande decadenza, molte di quelle strade, assieme a numerosi stabili ed opere architettoniche, furono ingoiate dalla vegetazione e sommerse da strati di terra.

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Talvolta, la strada, per poter essere preparata richiede un attento e faticoso recupero archeologico, cosa questa che a suo tempo San Giovanni Battista intuì. E dal deserto tracciò il recupero inducendo alla purificazione e al pentimento dei peccati, quindi alla preparazione annunciando: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» [cf. Mt 3, 11].

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Proviamo a riflettere su quello che nei Santi Vangeli è l’apertura di un inizio senza fine. Avete mai riflettuto sul fatto che il Vangelo, in sé e di per sé, è un inizio senza fine? In quale dei Vangeli è infatti scritta, o anche solo vagamente sottintesa la parola: fine?

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Scrive il beato Evangelista Matteo:

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«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» [Mt 28, 19-20].

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Scrive il beato Evangelista Marco:

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«Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» [Mc 16, 20].

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Scrive il Beato Evangelista Luca:

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«Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» [Lc 24, 51-53].

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Mentre il Beato Evangelista Giovanni, nella sua conclusione non manca di precisare:

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«Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» [Gv 21, 25].

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In modo diverso, al termine delle loro stesure gli Evangelisti non pongono in alcun modo la parola fine a un racconto, tutt’altro: delineano che quel racconto — che tale semplicemente non è —, racchiude in sé il mistero della rivelazione che dà avvio all’inizio: adesso cominciate a partire, fate discepoli e battezzate [cf. Mt supra] … allora partirono e cominciarono a predicare dappertutto [cf. Mc supra] … e dopo che il Signore fu salito al cielo loro tornarono a Gerusalemme e cominciarono ad andare sempre al Tempio a lodare Dio [cf. Mc supra]. E, beninteso: tutto questo è solo una piccola parte di tutto ciò che realmente è accaduto [cf. Gv supra].

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Il Vangelo procede di inizio in inizio sino alla parusia che traccerà un nuovo eterno inizio: Dio che irrompe nell’esperienza dell’uomo in modo reale, fisico e  corporeo  attraverso l’incarnazione. Sino a  giungere, dopo  l’ intera esperienza cristologia che pare culminare con l’infamia della croce, alla pietra rovesciata di un sepolcro che non segna la chiusura di una storia a lieto fine, ma l’inizio della vera storia dell’umanità che col Cristo è risorta e che comincia a muovere il passo con i due discepoli lungo la via di Emmaus [cf. Lc 24, 13-53] sino al ritorno del Cristo alla fine dei tempi.

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«Noi infatti», dice il Beato Apostolo Pietro: «Secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» [cf. II Pt 3, 8-14]. E di questa nuova terra e di questi nuovi cieli, Dio non ci vuole certo spettatori, ma protagonisti costruttori, per bagnare questa nuova terra con l’acqua che stilla dalle fonti dell’eterna giustizia. L’amore di Dio è infatti giustizia e la giustizia è l’espressione divina più perfetta del suo immenso amore. Chi infatti ama, è sempre giusto; e nella giustizia trova senso ed espressione il suo amore di creatura creata a immagine e somiglianza del Dio Vivente. Solo allora «Le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie spianate». E «ogni uomo» di buona volontà, che ha saputo percorrere i deserti «vedrà la salvezza di Dio» [Lc 3, 6]. 

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dall’Isola di Patmos, 9 dicembre 2018

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Chi è Cristo Re dell’Universo e che cos’è la verità?

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

CHI È CRISTO RE DELL’UNIVERSO E CHE COS’È LA VERITÀ ?

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Il quesito ironico «che cos’è la verità?», oggi non risuona più nel pretorio di Ponzio Pilato, purtroppo risuona da anni all’interno della Chiesa visibile, dove si rischia di smarrire la verità per correre dietro alle nostre egocentriche voglie fatte di individualistiche favole.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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icona bizantina raffigurante Cristo Re dell’Universo

In questa XXXIV domenica del tempo ordinario, con la narrazione del Beato Evangelista Giovanni il Santo Vangelo ci dona il dialogo tra Cristo Signore ed il Governatore della Giudea Ponzio Pilato [cf. Gv 18, 33-37], incentrato sulla regalità e sulla verità [vedere testo della Liturgia della ParolaQUI].

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La festa di Cristo Re fu istituita dal Sommo Pontefice Pio XI nel 1925 con l’intento di manifestare la signoria di Dio sul mondo in antitesi alle forme di moderno ateismo ed a tutti gli ismi sorti a tra l’Ottocento ed il Novecento. Degli ismi che l’umanità si è trascinata dietro sino all’alba del Terzo Millennio senza averli ancora elaborati, ma soprattutto senza averli risolti. Merita precisare che mi riferisco agli illuminismi, ai liberalismi, ai socialismi, ai comunismi, ai fascismi, ai materialismi, ai capitalismi, agli edonismi, ai relativismi ed ai religiosi sincretismi, per proseguire con i falsi ecumenismi sino ad arrivare ai pauperismi ed ai misericordismi …

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Se il Beato Pio IX intuì le conseguenze del liberal-capitalismo indifferentista e del marxismo in fase di gestazione, il Sommo Pontefice Pio XI toccò i frutti concreti dell’uno e dell’altro. Per questo volle riproporre all’umanità il mistero di fede del cristocentrismo cosmico: Cristo unico re dell’universo.

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Ecco quindi che il Sommo Pontefice Pio XI cerca di porre nuovamente Cristo sul trono dal quale si era tentato di spodestarlo prima, durante e dopo la Rivoluzione Francese, la quale esaltò in modo truffaldino tre principi ben lungi dall’essere inventati dagli illuministi, perché da sempre sono pilastri sui quali si regge il messaggio cristiano: libertà, uguaglianza e fraternità. Se però alla libertà, che è dono supremo di Dio all’uomo e che è un suffisso portante del mistero stesso della creazione [cf. Gen 1, 26-31]; se all’uguaglianza, che prende vita dal nostro essere creature libere create a immagine e somiglianza di Dio; se alla fraternità, che ci rende figli in comunione con Dio; togliamo però il fondamento eterno e immutabile che è il Creatore, non nascerà alcuna Èra dei Lumi, ma solo il buio della presunta ragione. E questo buio della presunta ragione si fonderà sulla più satanica delle umane presunzioni: poter fare a meno di Dio ed eliminare Dio dalla storia dell’umanità.

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Per noi cristiani la ragione risiede nel Cristo vero Re dell’Universo che ricapitola in sé tutte le cose, come esprime il Beato Apostolo Paolo nella lettera indirizzata ai fedeli della Chiesa di Efeso [Ef 1, 10]. Dinanzi a questa lirica che racchiude l’intero deposito della fede, siamo chiamati a penetrare ed a lasciarci penetrare dal mistero del Cristo incarnato, morto e risorto. Il Cristo non è una parte della nostra vita, è la totalità del nostro essere ed esistere, o come amava definirlo Sant’Agostino Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa: il Christus Totus.

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Nella narrazione del Vangelo del Beato Evangelista Giovanni, è contenuto il colloquio tra Gesù Cristo e Ponzio Pilato incentrato sul concetto di regalità. Un colloquio che si svolge dopo che le autorità giudaiche avevano giudicato Gesù Cristo passibile di morte e lo condussero nel pretorio dinanzi al Governatore della Giudea affinché questi ratificasse il loro giudizio traducendolo in sentenza di morte. Così, Ponzio Pilato, entrato nel pretorio domanda a Gesù Cristo se egli è realmente il re dei Giudei. Risponde Cristo Signore: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» [Gv 18, 34]. E qui va fatto notare che mentre nei tre Vangeli sinottici Cristo Signore risponde in modo indefinibile «tu lo dici», nel Vangelo del Beato Evangelista Giovanni Egli risponde in modo molto chiaro facendo uso del termine greco βασιλεία, basileia, che significa appunto regalità [nei Santi Vangeli con: ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν, si indica il regno dei cieli]. A quel punto, il Divino Re dell’Universo, cerca di far capire al proprio interlocutore che questa sua regalità non è di questo mondo. Ponzio Pilato, che però è un militare pratico, a suo modo un materialista, prosegue a interloquire domandando: «Dunque tu sei re?». Al ché Cristo Signore risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

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Che la regalità del Cristo non sia di questo mondo, non deve però indurci a credere ch’essa sia solo ed unicamente oltre il terreno, altrimenti perché mai, il Verbo di Dio, si sarebbe incarnato nascendo su questa terra? Quella di Cristo Dio Re dell’Universo è infatti una regalità divina, che però si inserisce pienamente nel mondo terreno per essere esercitata sull’umanità, benché in modi e forme del tutto diverse da quelle che caratterizzano i regni della terra.

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Ponzio Pilato, militare pratico e materialista, non riesce a seguire quei discorsi. Ciò che a lui interessa è solo di sapere se Gesù il Cristo è il re dei giudei; dunque in parte non vuole, ed in parte non è neppure capace di seguire il discorso di Gesù Cristo, perché da buon romano vuole conoscere i fatti e sapere se quell’uomo è il re dei Giudei.

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Il Beato Evangelista Giovanni, nel presentare la domanda chiave di Ponzio Pilato, la formula così: «Tu sei re?» [Gv 1,37]. Con questa formulazione del tutto diversa dal quesito «sei tu il re dei giudei?» che affiora invece nei Santi Vangeli sinottici [Mt 27, 11; Mc 15, 2; Lc 23, 3] la regalità del Cristo valica di molto il riduttivo concetto di «re dei giudei», infatti Egli non è re di una piccola regione di questa terra, ma di tutto l’universo, colui che — come scrive il Beato Apostolo Paolo —, per divino volere, una volta risuscitato dai morti fu fatto sedere alla destra di Dio Padre nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione [cf. Ef 1, 20-21].

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La regalità di Cristo Dio ha quindi una estensione molto più vasta rispetto a ciò che pensa o che cerca di capire Ponzio Pilato: essa si colloca in una dimensione universale nella quale  la regalità del Redentore ha portata ben più ampia. Cristo Signore è re perché mediante il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio nel ventre della Beata Vergine Maria, è venuto nel mondo «per rendere testimonianza alla verità» [Gv 18, 37]. Non a caso, proseguendo nel suo interrogatorio, il Governatore della Giudea esordisce con la domanda: «Τί ἐστιν ἀλήθεια», nel testo latino «quid est veritas?», che tradotto significa «che cos’è la verità?» [Gv 18, 38]. Domanda nella quale si potrebbe cogliere ed interpretare un desiderio di capire, quindi di sapere, mentre invece è solo una domanda retorica formulata in modo puramente ironico.

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Questa la riflessione che vi lascio nella solennità di Cristo Re dell’Universo e che purtroppo risuona da anni all’interno della Chiesa visibile, dove si rischia di smarrire la verità per correre dietro alle nostre egocentriche voglie fatte di individualistiche favole. E anche questo, due millenni or sono, ce lo aveva detto e profetato il Beato Apostolo Paolo nella Lettera indirizzata al discepolo Timoteo:

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«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4, 3-4].

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Il modo in cui salvarsi e salvare la Chiesa visibile da questo pericolo distruttivo, ce lo indica quindi l’Apostolo stesso:

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«Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàthema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàthema».

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Ecco, che cos’è la verità: il trono sul quale è assiso Cristo Signore, il Re dell’Universo, colui che ricapitola in sé tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra [cf. Ef 1, 10]. E se qualcuno, chiunque esso sia, dovesse predicarvi un Vangelo diverso: sia anàthema! 

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dall’Isola di Patmos, 25 novembre 2018

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo …

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL SOLE SI OSCURERÀ, LA LUNA NON DARÀ PIÙ LA SUA LUCE, LE STELLE CADRANNO DAL CIELO …

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte sembrano ricorrere tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» [Mc 13, 24-25].

In questa XXXIII domenica del tempo ordinario, attraverso la narrazione del Beato Evangelista Marco il Santo Vangelo ci dona la Parabola del fico [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI].

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L’Evangelista si esprime in uno stile profetico-apocalittico:

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«Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dalle estremità della terra fino all’estremità del cielo» [Mc 13, 27].

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Nei giorni antichi in cui l’Evangelista stilava questo Vangelo, a pochi decenni di distanza dalla morte, risurrezione e ascensione al cielo del Verbo di Dio fatto uomo, si credeva che il ritorno di Cristo Signore nella gloria alla fine dei tempi fosse vicina. Anche il Beato Apostolo Paolo lo credeva, ed inizialmente era convinto di poter essere presente e partecipe su questa terra al ritorno di Cristo Signore alla fine dei tempi.

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Attorno all’anno 52, nella prima delle lettere indirizzata agli abitanti di Tessalonica, il Beato Apostolo parla del ritorno di Cristo Signore; un ritorno indicato col termine greco di παρουσία [parusia], che indica la definitiva e manifesta presenza divina [cf I Ts 4,13-18]. Nell’annunciare ai giudei ed ai pagani il mistero del Verbo di Dio morto, risorto e asceso al cielo, il Beato Apostolo deve fronteggiarsi con le perplessità ed i dubbi di coloro ai quali questo annuncio è rivolto, anche per questo egli scrive:

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«Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti» [I Ts 4,14].

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Dopodiché seguita a spiegare:

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«Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore» [I Ts 4,16-17].

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Per spiegare la verità di fede della parusia, il Beato Apostolo fa uso di immagini allegoriche che, come le parabole attraverso le quali si esprimeva Cristo Dio, sono utili ed efficaci per trasmettere un messaggio molto profondo: il mistero della vita eterna nella piena comunione con Dio.

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Nel testo della seconda lettera agli abitanti di Tessalonica il Beato Apostolo muta la sostanza del proprio messaggio e comincia a parlare di eventi terribili che precederanno quel giorno che segnerà la fine dei tempi, affermando:

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«Non bisogna lasciarsi ingannare come se il giorno del Signore fosse davvero imminente».

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Procedendo poi a spiegare:

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«Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!» [II Ts 2,1-3].

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Segue a questo punto quel terribile e drammatico racconto che da sempre dovrebbe farci riflettere, forse però in modo del tutto particolare nel presente che stiamo vivendo:

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«Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità [II Ts 2, 4-12].

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Quella indicata come «uomo iniquo» è figura universalmente conosciuta come Anticristo, del quale narra l’Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni [Ap 13,13-14] redatta durante il suo esilio nell’Isola di Patmos, nota anche come il luogo dell’ultima rivelazione.

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Il Beato Apostolo, nella sua opera di evangelizzazione, non manca di ricordare che l’attesa della parusia di Cristo Signore non può certo essere vissuta in uno stato di pigra apatia, ma in modo estremamente attivo e operoso, come siamo esortati a fare nella parabola dei talenti, a noi dati per essere messi a frutto, non per essere sotterrati e poi restituiti tal quali al ritorno del Signore [cf. Mt 25, 14-30].

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Ai tempi del Beato Evangelista Marco si pensava che questo glorioso ritorno di Cristo Signore fosse vicino. Una gloria che circa due secoli e mezzo dopo, il primo Concilio di Nicea imprimerà nell’anno 325 nella nostra professione di fede, nota anche come Simbolo Niceno-Costantinopolitano, dove professiamo la fede nella parusia acclamando: «… un giorno tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine».

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Col trascorrer dei secoli l’attesa della imminente parusia si è affievolita, non ultimo per il fatto che l’uomo è condizionato al tempo e dal tempo, spesso dimentico che quello del tempo è solo un problema dell’uomo, non di Dio, che è eterno e a-temporale, ossia senza tempo, perché in Dio regna solamente la dimensione eterna.

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La nostra Santa Fede racchiusa nei Santi Vangeli e nelle Lettere Apostoliche ci ricorda, assieme alla nostra Professione di Fede, che la creazione non è eterna, perché eterno è solo il mistero di Dio Creatore e la Parola del Verbo di Dio Cristo Signore, Suo figlio unigenito.

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Il discorso contenuto in questo Santo Vangelo nasce da una spiegazione catechetica data ai discepoli da Cristo Divino Maestro, che uscendo dal tempio lo invitano ad ammirare le pietre con le quali era stato costruito. La risposta di Cristo Signore fu anzitutto una profezia sulla futura distruzione del tempio:  «In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra» [Mt 24, 2]. Giunti poi sul monte degli Ulivi, Gesù seguitò a rispondere attraverso un discorso interamente incentrato sulla escatologia — termine derivante dal greco ἔσχατον [escaton] che significa “le cose ultime” — ossia la fine del mondo. Il discorso escatologico di Cristo Dio si articola su tre diversi livelli che comprendono la persecuzione dei discepoli fedeli [cf. Mt 13,5-13]; quella grande tribolazione dinanzi alla quale Cristo Dio suggerisce di cercare rifugio sui monti [cf. Mt 13,14-23]; espressione evangelica usata cinque anni fa dal Venerabile Pontefice Benedetto XVI che dopo il proprio atto di rinuncia al sacro soglio affermò che si sarebbe ritirato sul monte a pregare per la Chiesa [cf. discorso all’Angelus del 24.02.2013, testo QUI]. Dopodiché, consumati tutti questi eventi, avverrà la manifestazione nella gloria del Figlio dell’uomo [cf. Mt 13,24-32].

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Cristo Signore, in questa pagina del Beato Evangelista ci rivolge diversi moniti, anzitutto l’invito ad essere sempre vigilanti. E come spesso ripeto nelle mie omelie e catechesi, ed in specie di questi tristi tempi, è bene ricordare che allegorico o metaforico è solo il linguaggio, non sono allegorici e metaforici quei contenuti che costituiscono invece delle certe, innegabili e assolute verità della fede.

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte pare che ricorrano tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra, assieme al quale meditai nel corso di questo lungo colloquio sulla frase: «Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» [Mc 13, 29].

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La grazia di Dio, tramite i doni dello Spirito Santo da noi accolti e fatti fruttare come preziosi talenti, permetterà sempre di mettere in salvo la nostra anima per la vita eterna, basta essere pronti ad andare verso il Divino Sposo, come ci esorta a fare la Parabola delle vergini stolte e delle vergini sagge [cf. Mc 25, 1-13], che si conclude con l’invito a vegliare in attesa dell’arrivo dello sposo « perché non sapete né il giorno né l’ora» [Mt 25, 13].

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Quest’ultimo monito, riguardo il giorno e l’ora che non sono conosciuti a nessuno se non al Divino Padre, dovrebbe stimolarci a non indugiare a forme di schizofrenico catastrofismo, spesso purtroppo trasferite dalla letteratura delle frange più esaltate di certi pentecostali ed evangelici all’interno della Chiesa Cattolica, tramite il triste e pernicioso cavallo di Troia degli adepti di certi nostri movimenti laicali cattolici che si atteggiano a veri e propri possessori esclusivi del mistero dello Spirito Santo. Compito degli eletti, è quello di crearsi con la propria vita santamente vissuta su questa terra il supremo premio della propria elezione, per poi essere radunati dai quattro angoli della terra e vedere per sempre la luce del Volto di Dio, le cui parole eterne non passeranno mai: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [Mc 13, 31].

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Laparusia, chiusa quindi nel segreto cuore di Dio Padre, null’altro è che la morte del tempo e la proiezione nell’Eterno Assoluto, dopo che il Divino Giudice, tornato nella gloria, avrà giudicati i vivi e i morti. E questa, ripeto, non è una metafora né un’allegoria poetica — come purtroppo non pochi affermano e insegnano —, ma è una verità assoluta della nostra Santa Fede.

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dall’Isola di Patmos, 18 novembre 2018

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L’obolo della povera vedova che offre le due sole monete che ha, predicato ai preti ed ai loro vescovi, ma anche a certi nostri fedeli avari

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

L’OBOLO DELLA POVERA VEDOVA CHE OFFRE LE DUE SOLO MONETE CHE HA, PREDICATO AI PRETI ED AI LORO VESCOVI, MA ANCHE A CERTI NOSTRI FEDELI AVARI

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Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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dal Santo Vangelo di questa domenica: L’obolo della povera vedova

In questa XXXII domenica del tempo ordinario s’è proclamata l’incisiva pagina del Santo Vangelo narrante l’episodio della Povera Vedova che getta nel tesoro del tempio le due sole monete che possiede [cf. Mc 12, 38-44. Testo della Liturgia della Parola, QUI]. Questo testo ci pone dinanzi una realtà difficile da sfuggire con voli pindarici, perché se la concretezza del gesto della Povera Vedova è disarmante, il monito in esso racchiuso non è poco severo: le due monete rappresentano il senso della totalità. Offrire a Dio tutto il nostro essere senza risparmio e paura, nella certezza di fede del nostro divenire futuro tutto racchiuso nel mistero del Cristo Dio. E noi presbìteri, quando durante il rito della sacra ordinazione abbiamo detto «eccomi!» e poco dopo siamo stati consacrati sacerdoti, a nostro modo ci siamo trasformati nelle due monete della Povera Vedova, gettandoci nel tesoro di Cristo Dio, che ha depositato e impresso in noi il grande tesoro di quel dono che ci ha segnati con un carattere indelebile ed eterno: il sacerdozio ministeriale.

Nella parte finale di questo Santo Vangelo Cristo Signore dice …

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«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» [Mt 12, 44].

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In questo monito è racchiuso il richiamo severo alla nostra profonda responsabilità. Noi uomini chiamati a servire la Chiesa tramite il sacro ordine sacerdotale che ci rende indegni partecipi del sacerdozio ministeriale di Cristo, siamo responsabili di questa duplice ricchezza: della fede della povera vedova e del denaro della povera vedova. Ogni cosa che viene offerta per Dio deve essere infatti impiegata per Dio, a servizio di Dio ed a gloria di Dio. Tutto ciò che in ricchezza di doni abbiamo avuto dalla Chiesa e per la Chiesa, alla nostra morte deve tornare moltiplicato alla Chiesa, come ci insegna la celebre parabola dei talenti [cf. Mt 23, 14-30].

Seguendo le orme della divina scorrettezza di Cristo, senza falsi pudori o penosi nascondimenti, desidero porre un quesito alla mia coscienza di prete: in che modo noi vediamo talvolta amministrare questi due tesori, il patrimonio della fede e i doni materiali che ci vengono dalle membra vive del Popolo di Dio? Oggi che si parla tanto di Misericordia, dovremmo essere più che mai consapevoli in che misura la ricchezza della fede si regga o cada tutta sull’esempio. Dunque ogni giorno dovremmo interrogarci: quale esempio diamo al Popolo di Dio per indurlo a mantenere, a sviluppare ed a diffondere la ricchezza della fede?

A questo primo quesito dovrebbe seguirne un secondo non meno doloroso: in una società dove sempre più famiglie stentano ad arrivare alla fine del mese, come sono ripartite le ricchezze all’interno della Chiesa? Con quale oculata ed equa ripartizione queste sostanze sono usate per il più alto decoro della Casa del Signore, per il decoroso sostentamento dei suoi fedeli ministri, per il sostegno dei poveri e dei bisognosi?

Quante volte, nello svolgimento del mio ministero sacerdotale in varie parti d’Italia, mi è capitato di entrare in sacrestie puzzolenti, di estrarre da armadi tarlati e mezzi marci dei camici ingialliti dallo sporco, dei paramenti sacri maleodoranti, oppure essere costretto a deporre il prezioso sangue di Cristo dentro calici non giovabili corrosi al loro interno? E quante volte mi è accaduto poi di passare da queste sacrestie all’abitazione privata del mio confratello e di vedere al suo interno strumenti elettronici di ultima generazione, maxi schermi televisivi altamente costosi … per non parlare della cura maniacale con la quale il confratello teneva pulita la propria automobile, ricolma di accessori tanto inutili quanto costosi? Anch’io tengo sempre pulita la mia automobile, che non è un’utilitaria ma è un’automobile di media cilindrata sufficientemente costosa, la quale non costituisce né un capriccio né un lusso ma una necessità per i miei lunghi e frequenti viaggi, spesso effettuati anche in stato di maltempo e soprattutto per tragitti di centinaia di chilometri. Però, prima dell’automobile, che va di certo ben conservata, io tengo pulito il Tabernacolo del Santissimo Sacramento. Più volte mi è infatti capitato di trovare dentro qualche tabernacolo della polvere e del grasso incrostato, persino una mosca morta dentro la pisside.

Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

A rendere più grave il tutto, è che mentre costoro accumulavano tesori destinati non alla Chiesa, non alla Casa di Dio, non ai poveri e ai bisognosi del suo Popolo Santo … altri loro confratelli inseriti in contesti ecclesiali e pastorali meno felici — o se preferiamo molto meno redditizi — dovevano battere cassa presso i propri familiari, perché non ce la facevano ad andare avanti, perché non avevano soldi per mettere la benzina dentro il serbatoio dell’automobile per andare a prestare i loro servizi pastorali, perché non avevano soldi per comprarsi un cappotto pesante che li riparasse dal freddo invernale.

A conclusione di questo penoso discorso che ritengo però abbia una sua precisa utilità nell’economia della salvezza, vorrei invitarvi alla lettura di un’Enciclica scritta nell’anno 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, Ad Chatolici Sacerdotii, nella quale il Santo Padre non esita a puntare il dito su certi malcostumi del clero di ieri e di oggi, andando alla radice dei potenziali problemi che bisognerebbe sempre evitati a monte, ma soprattutto offrendo soluzioni. A tal scopo, egli invita i formatori dei candidati al sacerdozio a capire e percepire anzitutto che cos’è la vera misericordia e come essa opera. Scrive in quell’enciclica Pio XI al paragrafo dedicato alla scelta dei candidati al sacerdozio:

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«Correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina  […]. Per ottenere che gli altri abbraccino il Vangelo, l’argomento più accessibile e più persuasivo è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne predica l’osservanza» [testo integrale, QUI].

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Questo il messaggio, ed in parte l’amorevole dramma che si cela dietro alle due monete della povera vedova. Sulle quali può nascere o sulle quali può morire la fede del Popolo di Dio e la credibilità verso i suoi sacerdoti chiamati a servire la Chiesa, non certo a servirsi della Chiesa. Questo è l’imbarazzo e la provocazione con la quale Gesù Cristo Figlio di Dio e Dio fatto uomo sfida la nostra indifferenza e il nostro torpore, chiedendoci oggi più che mai di annunciare ciò che è stato detto sulle righe e oltre le righe del suo Santo Vangelo, non ciò che di comodo e di de-responsabilizzante spesso noi interpretiamo, al triste e nefasto fine di eluderne la verità, sino ad omettere di guidare gli uomini a conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32].

I due soldi della povera vedova hanno una profonda valenza teologica: rappresentano e manifestano il mistero della fede e l’azione di grazia di Dio sull’uomo che, accolta liberamente la grazia, risponde donando tutto se stesso senza alcun risparmio, affinché gli uomini possano entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Non ci si serve della Chiesa di Dio e tanto meno dell’ obolo della povera vedova per arricchire noi stessi o le nostre fameliche consorterie. La Chiesa si serve per arricchire l’umanità intera, dopo essersi fatti poveri in spirito [cf. Mt 5, 3] per divenire beati e per guadagnare la ricchezza eterna del Regno dei Cieli, consapevoli che Cristo ci ha chiamati a sé e istituiti per sacramento di grazia «Pescatori di uomini» [cf. Mt 4, 19], forniti di tutti i migliori mezzi affinché la nostra, come la sua, possa essere una pesca miracolosa.

Detto questo resti però chiaro il fatto che allo stesso tempo non è ammissibile neppure la mancanza di sensibilità e di generosità da parte di molti nostri fedeli, perché l’esempio della Povera Vedova applicato ai preti, lo dobbiamo applicare anche a quei numerosi fedeli che fin quando hanno da chiedere e da pretendere per tutti i loro bisogni umani, morali e spirituali, non esitano a gettare il prete giù dal letto anche alle due della notte, ma quando poi il prete deve pagare il riscaldamento o la bolletta della luce della chiesa parrocchiale e dei locali destinati alle attività pastorali e caritative, ecco che cadendo dal settimo cielo non pochi replicano: «Ma come, voi non avete il Vaticano … la Banca Vaticana?». E poi c’è lo Stato, c’è la Regione, c’è il Comune … insomma, ci sono tanti, ci sono tutti, fuorché lui, il fedele avaro, che fin quando ha da prendere, allora prende, però, se deve dare, allora indica l’esistenza di altri, ma soprattutto i portafogli altrui …

Questo per dire che le monete della Povera Vedova hanno un diritto e un rovescio: uno per certi preti — di cui noi per primi riconosciamo senza alcun problema limiti, debolezze, avidità e avarizie —, l’altro per quei nostri fedeli che hanno solo le mani per prendere, mai per dare, scaricando su altri la responsabilità per il mantenimento del decoro della Casa del Signore e delle strutture sociali, giovanili, caritative, assistenziali e via dicendo.

Uno dei miei formatori, con la saggezza tutta quanta tipica degli anziani mi disse un giorno: è vero, certi sacerdoti possono dare l’impressione di essere avari, o attaccati ai soldi, ma dietro quell’apparente attaccamento, che in realtà non è poi tale, si celano in verità tutt’altre paure: la paura di rimanere soli e abbandonati nella vecchiaia. Spesso, molti di questi sacerdoti, sono rimasti molto toccati — quando ancora non erano anziani — da casi di sacerdoti morti soli e ammalati. Detto questo, sempre il mio anziano formatore, seguitando a parlare delle paure dei preti anziani, aggiunse: «… e specie in certe zone, dove spesso i fedeli arrivano solo a mani tese per chiedere con lo spirito di coloro ai quali tutto è dovuto, è capitato che certi preti, divenuti vecchi, malati e non più sfruttabili, trovandosi senza soldi si sono trovati privi di qualcuno che portasse loro un bicchiere d’acqua».

Questo il motivo per il quale spesso insisto, coi giovani confratelli, sulla importanza della vicinanza che specie i giovani devono avere verso i presbiteri anziani. E vi dirò: ogni volta che io sono stato vicino ai presbìteri anziani, ne ho tratto un bene profondo, perché poca cosa è stata la compagnia che io ho fatto a loro, o l’aiuto che ho dato a presbìteri semi infermi, a confronto di ciò che costoro hanno dato a me, trasmettendomi il loro bagaglio di prudenza, sapienza, conoscenza …

I presbìteri anziani non andrebbero messi a riposo, ma tutt’altro messi a lavoro. Sarebbe bene che i vescovi, specie quelli giovani, se li tenessero vicini come consiglieri, anziché circondarsi di gruppi di giovani preti — mossi non di rado da interessi personali o da condizionanti aspettative di carriera —, perché certi anziani sono la memoria storica viva delle loro diocesi. Che i vescovi li mettano a fare i rettori, i confessori, od i padri spirituali dei seminari, perché per poter sviluppare la prudenza, la sapienza, la conoscenza, non occorrono i giovani rettori mandati a fare i corsi di socio-psicologia nelle università laiche, bensì anziani capaci ad insegnare ai giovani non solo per mezzo delle loro virtù, ma anche attraverso i loro stessi difetti, che sono propri dell’umanità di ciascuno di noi, presbiteri inclusi.

Per dare sul finire un’altra lettura al racconto evangelico della povera vedova: la povera vedova è la Chiesa che dona la propria totalità; le due monete preziose che lei depone nel pubblico tesoro del tempio — che è pubblico e visibile a tutti —, sono la prudenza e la sapienza degli anziani.

Pertanto, a quei vescovi che dicono «bisogna ripartire dalla formazione», io ho sempre risposto: allora dovere ripartire dagli anziani, visto che nessun giovane, per quanto dotato, può avere la sapienza dei vecchi. Né può avere lo slancio della povera vedova, che ha dato tutta se stessa attraverso il poco che aveva, ma quel poco era la sua totalità. E per dare veramente tutto occorre tempo, occorre una vita. E questo i vecchi lo hanno fatto, mentre i giovani devono imparare a farlo. E per imparare a farlo hanno bisogno dell’esperienza dei vecchi, specie di quelli che nel corso di tutta la loro di vita cristiana e sacerdotale hanno cercato di trasformarsi — per Cristo con Cristo e in Cristo — nella Povera Vedova.

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dall’Isola di Patmos, 11 novembre 2018

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