Lo spavento delle donne: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LO SPAVENTO DELLE DONNE: «HANNO PORTATO VIA IL SIGNORE DAL SEPOLCRO E NON SAPPIAMO DOVE L’HANNO POSTO» 

Sant’Agostino con l’acutezza che lo contraddistingue legge con onestà quello che queste parole dicono: «Era entrato e non l’aveva trovato. Avrebbe dovuto credere che era risorto, non che era stato rubato»

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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Mentre nella notte di Pasqua abbiamo letto il racconto evangelico più antico sulla risurrezione di Gesù, quello di Marco, oggi viene proclamato l’inizio del capitolo ventesimo di Giovanni, probabilmente l’ultimo testo dei Vangeli sulla risurrezione di Gesù ad essere scritto. Siamo, in questo modo, davanti a una parabola che prende l’avvio da quello che è contenuto e ripreso da Marco, ovvero un resoconto «pre-marciano» della passione e risurrezione di Gesù e arriva fino all’ultimo racconto, quello giovanneo, risalente alla fine del primo secolo. La liturgia, nello spazio di una sola notte, dalla Veglia Pasquale alla messa del giorno di Pasqua, raccoglie fonti e tradizioni che si sono sedimentate nell’arco di alcuni decenni e ci permette di gustare le differenti prospettive degli evangelisti. Questo il testo proclamato:

Salvador Dalì, L’aurora, 1948

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario ― che era stato sul suo capo ― non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,1-9)

 Leggendo questo brano ci coglie una profonda emozione, la stessa provata dai primi testimoni della Risurrezione, una donna e due discepoli. Questa sembra proprio l’intenzione dell’evangelista. Ci aspetteremmo, infatti, una confessione matura e convinta circa l’evento, invece nel nostro testo non abbiamo ancora l’annuncio pasquale, anzi, ciò che Maria di Magdala corre a dire ai due discepoli è: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto». Maria, preda della paura e dello sconforto, dà per certo che il corpo di Gesù sia stato trafugato e la sua preoccupazione verte sul «dove» ora si possa trovare la salma. Il racconto evangelico mostra dunque la genesi della fede pasquale presentandone il momento incoativo, lo sprigionarsi della scintilla che presto diverrà un incendio. L’itinerario interiore che condurrà al grido e all’annuncio «È risorto» passa attraverso la presa di coscienza delle evidenze di morte costituite dalle bende e dal sudario che avvolgevano la salma e dal sepolcro in cui essa era stata deposta. Il Santo Vangelo ci fa sentire così questi discepoli molto vicini a noi, al nostro graduale cammino verso una fede salda nella Risurrezione di Gesù. Fede piena sarà quella di Tommaso che dirà: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28); ma non senza esser dovuto passare anche lui per la tentazione del non credere e della sfiducia.

L’assenza di fede nella Risurrezione viene simbolicamente anticipata dall’annotazione che fuori «era ancora buio» (Gv 20,1) quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. E il «buio» nella simbologia giovannea rinvia a ciò che si oppone alla luce (Gv 1,5; 3,19), designa la situazione problematica dei discepoli nell’assenza di Gesù (Gv 6,17), è la condizione di incertezza e sbandamento in cui si trova a vagare chi non segue Gesù (Gv 8,12), chi non crede in lui (Gv 12,46). Insomma, siamo al «primo giorno della settimana» (Gv 20,1), ma non è ancora spuntata l’alba, siamo ancora nel buio.

In questo contesto l’evangelista presenta le reazioni di tre discepoli di fronte alla tomba vuota e in particolare la fede incoativa del discepolo amato che, viste le bende per terra ed entrato nel sepolcro vuoto, «credette» (Gv 20,8), o meglio, «cominciò a credere» (cfr. l’aoristo ingressivo: epiesteuesen καὶ ἐπίστευσεν). Solo così si può infatti spiegare l’annotazione che l’evangelista pone a immediato commento: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura che egli doveva risuscitare dai morti» (Gv 20,9). Sant’Agostino con l’acutezza che lo contraddistingue legge con onestà quello che queste parole dicono: «Era entrato e non l’aveva trovato. Avrebbe dovuto credere che era risorto, non che era stato rubato» (cfr. QUI). La fede pasquale non nasce dalla mera constatazione di una tomba vuota: questa può condurre anche a formulare l’ipotesi di un trafugamento del corpo. I fatti vanno accostati alle parole della Scrittura e da essa illuminati. Solo allora essi daranno vita alla fede pasquale. Fede che troverà la sua pienezza con il dono dello Spirito che illumina le menti aprendole all’intelligenza delle Scritture, come fu per i discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,45),  perché: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16, 13).

La resurrezione infatti è un evento inaudito, impensabile e sconcertante. Ne saprà qualcosa Paolo quando proverà ad annunciarla agli ateniesi (At 17, 32). È la novità assoluta di Dio e i discepoli sono totalmente impreparati all’evento. Solo il discepolo amato, proprio per quella sua conoscenza intima che lo lega a Gesù, comincia a intuire e a lasciar spazio nel proprio animo alla novità compiuta da Dio.

C’è tuttavia in questi tre discepoli l’aspetto emotivo che a suo tempo li aveva portati a lasciare tutto per seguire Gesù. In Maddalena che teme di non poter più vedere e toccare il suo Signore e per questo corre. Corre verso Pietro e il discepolo amato, i due punti di riferimento del gruppo dei discepoli. E a loro volta corrono anch’essi, stavolta al contrario, di nuovo verso il sepolcro. Nel momento in cui il piano emotivo viene lasciato andare a briglia sciolta ognuno esprime se stesso senza più far valere le regole del gruppo. Giunto tuttavia al sepolcro il discepolo amato attende Pietro e lascia che lui entri per primo, rispettando il primato stabilito dal Signore. Il piano emotivo e affettivo di Maria (che corre dai due discepoli) e del discepolo amato (che aspetta Pietro e lo fa entrare per primo nel sepolcro) restano ordinati e sottomessi all’oggettività comunitaria. Ma per guidare l’emotività e l’affettività alla fede piena occorreranno l’intelligenza della Scrittura e la fede in essa, che è fondamento ineliminabile e oggettivante della fede pasquale e della vita ecclesiale.

Noi oggi che ascoltiamo ancora una volta queste parole del Santo Vangelo proclamate esprimiamo gratitudine verso questi discepoli così importanti che hanno voluto conservare la loro titubanza di fronte ad un evento così inusitato. Li sentiamo vicini, grati per la loro testimonianza di fede che ci hanno tramandato proprio nelle Scritture. Ci hanno insegnato a cercare il Risorto non più nel sepolcro (mnemeîon in greco: lett. «memoriale»; Gv 20 1.2.3.4.6) che è memoria cimiteriale, morta. Ma ormai vivente nella sua gloria e presente quando ci amiamo, quando lo testimoniamo nei luoghi della nostra esistenza, quando incontriamo la sofferenza o quando portiamo speranza. Nel nostro radunarci ogni domenica, Pasqua della settimana, senza la quale non possiamo più vivere. Perché lì confessiamo non solo i nostri peccati, ma ascoltiamo di nuovo la Scrittura che ci parla di Lui e di Lui ci nutriamo, nell’attesa che Egli venga.

Termino con queste parole del poeta fiorentino Mario Luzi (1914 – 2005). Il Papa Giovanni Paolo II gli chiese di commentare le stazioni della Via Crucis al Colosseo nel giorno di Venerdì Santo del 1999. Ed egli finì così:

«Dal sepolcro la vita è deflagrata. / La morte ha perduto il duro agone. / Comincia un’era nuova: l’uomo riconciliato nella nuova alleanza sancita dal tuo sangue / ha dinanzi a sé la via. / Difficile tenersi in quel cammino. / La porta del tuo regno è stretta. / Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto, / ora sì che invochiamo il tuo soccorso, / tu, guida e presidio, non ce lo negare. / L’offesa del mondo è stata immane. / Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore. / Amen». (Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo, 1999)

Surrexit Dominus vere, et apparuit Simoni, alleluia!

Buona Pasqua a tutti.

 

Dall’Eremo, 31 marzo 2024

Santa Pasqua di Risurrezione 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Giovedì Santo 2024. Una omelia di saluto del Cardinale Giuseppe Betori

GIOVEDÌ SANTO 2024. UNA OMELIA DI SALUTO DEL CARDINALE GIUSEPPE BETORI

Affermare che oggi, dalle aquile e dai falchi che furono stiamo passando ai polli o, bene che vada, ai tacchini, non è una affermazione ingenerosa e irriverente ma un dato di fatto: negli ultimi anni abbiamo assistito a nomine episcopali di soggetti imbarazzanti, ma quel che è peggio tutti uguali, o come suol dirsi fatti a stampo, clonati per emulazione. Il tutto alla faccia della pluralità delle voci all’interno della Chiesa!

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Autore
Simone Pifizzi

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A ispirarmi questo articolo ― che tale non è, perché si tratta di riportare il testo di una omelia pronunciata dal Cardinale Giuseppe Betori Arcivescovo Metropolita di Firenze ― è stato il Padre Ariel, che poche settimane fa ha dedicato su queste nostre colonne un omaggio al suo Vescovo, S.E. Mons. Andrea Turazzi; omaggio fatto con un tocco di classe riassunto in questa frase:

«Un buon prete è tale se per lodare il proprio Vescovo attende la fine del suo mandato […] Solamente adesso che non ha più potere di governo pastorale sulla Diocesi e su di me, posso dire pubblicamente quanto abbia venerato, apprezzato e amato il mio Vescovo».

L’Arcivescovo di Firenze, pur avendo presentato al Sommo Pontefice la propria rinuncia al governo pastorale della nostra Diocesi non è ancora emerito, né è stato ancora ufficializzato il suo successore designato. La sua missione tra di noi, di fatto, è da considerarsi però terminata. Per quanto riguarda il suo successore, è pressoché certo che sia stato già scelto e nominato, dobbiamo solo attendere l’annuncio ufficiale.

Con il Cardinale Giuseppe Betori — e ormai pochissimi altri divenuti vescovi cinquantenni sotto il pontificato del Santo Pontefice Giovanni Paolo II — si chiude definitivamente una stagione ecclesiale ed ecclesiastica che ebbe anch’essa le sue non poche problematicità, ma comunque popolata anche di personalità di alto livello pastorale e spessore culturale. Affermare che oggi, dalle aquile e dai falchi che furono stiamo passando ai polli o, bene che vada, ai tacchini, non è una affermazione ingenerosa e irriverente ma un dato di fatto: negli ultimi anni abbiamo assistito a nomine episcopali di soggetti imbarazzanti, ma quel che è peggio tutti uguali, o come suol dirsi fatti a stampo, clonati per emulazione. Il tutto alla faccia della pluralità delle voci all’interno della Chiesa!

Facendo mie le parole rivolte da un confratello al proprio Vescovo oggi posso dire anch’io:

«Un buon prete è tale se per lodare il proprio Vescovo attende la fine del suo mandato […] Solamente adesso che non ha più potere di governo pastorale sulla Diocesi e su di me, posso dire pubblicamente quanto abbia venerato, apprezzato e amato il mio Vescovo».

Il Cardinale Giuseppe Betori si è rivelato una perla ormai incastonata nel diadema della genealogia degli ultimi Vescovi donati a questa nostra Chiesa fiorentina dalla Roma che ormai fu, come dimostra l’omelia che segue …

Firenze, 28 marzo 2024

 

Il Cardinale Giuseppe Betori Arcivescovo Metropolita di Firenze, Santa Messa del Crisma dell’anno 2024

La Messa crismale, che il Vescovo concelebra con i presbiteri delle diverse zone della diocesi e durante la quale benedice il santo crisma e gli altri oli, è considerata una delle principali manifestazioni della pienezza del sacerdozio del vescovo e un segno della stretta unione dei presbiteri con lui». Sono queste le parole del Pontificale Romano nelle Premesse al rito della Benedizione degli Oli. Con queste parole quindici anni fa mi rivolsi a voi nella mia prima presidenza della celebrazione della Messa Crismale nella Chiesa fiorentina. Ad esse faccio riferimento anche oggi, in questa celebrazione che si può presumere sia l’ultima mia presidenza della Messa Crismale in questa cattedrale, per rivolgermi in particolar modo a voi preti fiorentini, con cui ho condiviso il governo pastorale del popolo di Dio che mi è stato affidato in questi anni.

Le mie vogliono essere parole di ringraziamento, di riflessione, di consegna per il futuro. Vorrei però evitare di scivolare sul piano dei sentimenti, pur importanti e non assenti nel mio cuore in questo momento, per ricondurre tutto alla luce della parola di Dio. Gratitudine, consapevolezza, fiduciosa speranza vanno infatti misurate sulla fedeltà con cui siamo stati capaci di corrispondere al dono che Cristo ci ha fatto, di come ci sentiamo in dovere di approfondirne le forme in modo adeguato ai tempi, di come ci consegniamo ad esso nella certezza che la presenza del Signore e del suo Spirito tra noi, pur nelle incertezze del presente, non verrà mai meno.

In questo orizzonte accogliamo la rivelazione che oggi ci viene fatta dalla parola di Dio circa la missione di Cristo, delle dignità e responsabilità che sono consegnate ai suoi discepoli, del servizio della parola e della grazia che è affidato a noi suoi ministri a vantaggio di tutti. L’immagine che riassume questo mistero è quella dell’unzione, con cui il profeta esprime la consacrazione del Messia inviato a portare il lieto annunzio della salvezza, a porsi al servizio dei poveri e degli oppressi, a diffondere la consolazione della misericordia. Questa stessa unzione abbiamo udito Gesù proclamare come segno della missione per cui lo Spirito lo invia come liberatore dell’umanità da ogni sua fragilità per entrare nel tempo della grazia del Signore. Infine, questa unzione, ora definita regale e sacerdotale, è il segno di un popolo redento che vive per la gloria del Padre.

Annuncio, sacerdozio e regalità dalla persona di Cristo passano a quella dei credenti in lui e al servizio di questo passaggio è posto il nostro ministero di preti. Grazie dunque per il vostro ministero a servizio della Parola; viva sempre in voi il desiderio di conoscerla sempre più profondamente e di saperla ridire con parole che siano in grado di incrociare le domande espresse e inespresse dell’umanità contemporanea, guardiamo con fiducia al futuro, certi che nella inesauribile ricchezza della parola di Dio c’è un sicuro orientamento per le nuove sfide che incombono sull’umanità nei giorni a venire. Grazie per il vostro ministero di pontefici tra l’umanità e il suo Creatore, di generosi trasmettitori della grazia che viene dall’alto e di voce dell’umanità e delle sue attese verso il Padre di tutti; in un mondo che si edifica seguendo il mito dell’autosufficienza, sentite come particolare vostro impegno quello di risvegliare nella vostra gente il bisogno dell’invocazione e l’umiltà dell’accoglienza del dono di vita nuova opera dei sacramenti; alimentate sempre in voi la speranza, perché nessun ostacolo vi getti nello sconforto o anche solo nell’inerzia, perché tanto nulla cambia, avendo in noi la certezza che il Risorto ha il potere di fare nuove tutte le cose. Grazie per come nel vostro ministero animate le vostre comunità, vi consacrate ad esse, vi fate carico dei problemi in particolare dei più poveri; Siamo sì ministri della Chiesa, ma il nostro servizio è sempre per la venuta del Regno di Dio tra noi, nei segni di bene che aiutiamo a far sbocciare e nel contributo che come comunità cristiane siamo in grado di offrire per l’affermarsi della giustizia, della pace, del rispetto della dignità di ogni uomo, del bene comune; è in rapido mutamento il posto della Chiesa nella società e di conseguenza quello del prete, per cui siamo sollecitati a lasciare ogni nostalgia di centralità ma anche a ribadire che nessuno e nessun mondo può restare estraneo al dono di noi stessi nel Signore.

Nell’omelia di quindici anni fa vi richiamavo a una comunione che non fosse una massificante uniformità, ma un intrecciarsi di relazioni nella diversità delle esperienze e nella modulazione dell’unica verità. Vi chiedevo di rifuggire dallo stanco ripetersi di una melodia monocorde per cercare un’armonia polifonica in cui ciascuna voce cerca la sintonia con le altre, per una comunicazione che esprima intelligenza della realtà e bellezza dell’esperienza. Non so quanto siamo riusciti a vivere così in questi anni e sto qui anche a chiedervi perdono per quanto non ho fatto o per quanto posso aver fatto in senso contrario.

L’altro richiamo di quindici anni fa era alla radice sacramentale del nostro ministero, per non lasciarci ridurre ad agenti sociali, pur apprezzati e benvoluti, e neppure a funzionari di un sacro a cui ricorrere come rifugio delle angosce umane. Sacramentalità significa che ciò che è decisivo in noi è il dono della grazia, di cui siamo stati e siamo destinatari e di cui abbiamo la responsabilità di essere trasmettitori. Vi ricordavo e vi ripeto perciò che servire la dimensione sacramentale della Chiesa significa anzitutto impegno a mostrare come nel regime sacramentale possiamo cogliere il primato di Dio nella storia e come esso si manifesti a noi ed entri in contatto con la nostra vita grazie alla mediazione di Cristo, che dei sacramenti è il fondamento e il fondatore.

E questo richiamo a Cristo mi fa ripetere anche oggi che la misura del nostro essere prete è strettamente dipendente dal nostro legame a lui. Solo restando uniti a lui sia la nostra identità che il nostro servizio nella Chiesa e nel mondo potranno trovare verità ed efficacia. Non manchi mai nella nostra vita quotidiana questo guardare a Cristo, dialogare con lui, lasciarci da lui guidare e sostenere.

Abbiamo camminato insieme in questi anni. È stato un grande dono per me essere il vostro vescovo e poter contare sul vostro sostegno. Non sappiamo quando, ma in futuro sarà un altro vescovo a guidarvi, a cui vi consegnerò ma a cui chiedo anche a voi di consegnarvi con fiducia. I vescovi passano, il Signore resta ed è lui l’unico vero nostro Pastore, di cui noi siamo solo segni, consapevoli, per quanto mi riguarda di debolezza e insufficienza. Al Signore chiedo misericordia e a voi umana comprensione. Con affetto.

 

Firenze, 28 marzo 2024

Cattedrale Metropolitana di Santa Maria del Fiore

Santa Messa del Crisma

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Avvisiamo l’Arcivescovo di Chieti-Vasto che il prete scomunicato Alessandro Minutella prenota in strutture religiose della sua Diocesi per celebrare i riti della Settimana Santa per poi proseguire al Grand Hotel di Assisi

AVVISIAMO L’ARCIVESCOVO DI CHIETI-VASTO CHE IL PRETE SCOMUNICATO ALESSANDRO MINUTELLA PRENOTA IN STRUTTURE RELIGIOSE DELLA SUA DIOCESI PER CELEBRARE I RITI DELLA SETTIMANA SANTA PER POI PROSEGUIRE AL GRAND HOTEL DI ASSISI

Quando abbiamo chiamato la Casa del Pellegrino di Manoppello, istituto fondato a suo tempo dai Frati Minori Cappuccini, per chiedere se erano consapevoli di chi avrebbero ospitato, i responsabili sono caduti letteralmente dalle nuvole rispondendo che dalle ore 20 alle ore 24 avevano fissata una prenotazione da parte di un gruppo “fans basket” (!?)

— Attualità ecclesiale —

Autore
I Padri de L’Isola di Patmos

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Il Sig. Alessandro Minutella è incorso in scomunica latae sententiae per scisma ed eresia (vedere decreto QUI), successivamente, per la sua ostinata pertinacia, è stato dimesso dallo stato clericale  con decreto del Sommo Pontefice Francesco (vedere decreto QUI), quindi non è più parte della Chiesa e del clero cattolico per sentenza data dalla Suprema Autorità Ecclesiastica.

Da anni gira per l’Italia e l’Europa raccogliendo fragili e disagiati smarriti portando al mondo la “buona novella” che il Sommo Pontefice Benedetto XVI non avrebbe mai fatto atto di rinuncia e che il Sommo Pontefice Francesco non è altro che un «usurpatore satanico emissario dell’Anti-Cristo».

In quanto scomunicato e dimesso dallo stato clericale il Sig. Alessandro Minutella non può accedere nei luoghi di culto né usufruire ad alcun titolo delle strutture ecclesiastiche, non può qualificarsi come sacerdote cattolico e non può indossare l’abito ecclesiastico del clero. 

In evidente segno di sfida e provocazione ha deciso di celebrare durante il Triduo Pasquale a Manoppello, in una struttura religiosa accanto al Santuario del Santo Volto. Ma veniamo all’inganno: quando abbiamo chiamato la Casa del Pellegrino di Manoppello, istituto fondato a suo tempo dai Frati Minori Cappuccini, per chiedere se erano consapevoli di chi avrebbero ospitato, i responsabili sono caduti letteralmente dalle nuvole rispondendo che dalle ore 20 alle ore 24 avevano fissata una prenotazione da parte di un gruppo di “fans basket”. È evidente che il Sig. Alessandro Minutella ha mandato avanti i suoi cosiddetti referenti per fare una provocatoria prenotazione tramite inganno, non certo a suo nome né a quello della sua esotica associazione di eretici scismatici, bensì addirittura a nome di un … “fans basket” (!?) Saprà comunque l’Arcivescovo di Chieti-Vasto che cosa fare e come farlo.

Il giorno successivo il Sig. Alessandro Minutella e i suoi seguaci saranno al Grand Hotel di Assisi, che non è una struttura religiosa, ma pur non essendo tale è una struttura che grazie alla religiosità lavora e porta avanti la propria impresa alberghiera, quanto basterebbe per evitare che un soggetto espulso dalla Chiesa possa recare grave oltraggio al sentimento cattolico, con tutti i suoi fanatici al seguito, direttamente in uno tra i più grandi luoghi-simbolo al mondo della religiosità cristiana.

dall’Isola di Patmos, 22 marzo 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Meglio muoia un solo uomo che perisca una nazione intera

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

MEGLIO MUOIA UN SOLO UOMO CHE PERISCA LA NAZIONE INTERA

Per Gesù la vera morte non è quella fisica che gli uomini possono dare, ma sta nel rifiuto di dare la vita per gli altri, la chiusura sterile su se stessi; al contrario, la vera vita è il culmine di un processo di donazione di sé.

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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Fraintendere, ovvero prendere una cosa per un’altra. Questa attività che si è diffusa ai giorni nostri contrassegnati dall’uso consistente dei social, per l’autore del Quarto Vangelo diventa un espediente letterario per mezzo del quale, utilizzando la momentanea incomprensione, il lettore è guidato verso una conoscenza ulteriore, spesso più profonda, della realtà, del mistero che vive in Gesù. Lo abbiamo visto nell’incontro fra Lui e la samaritana e prima ancora con Nicodemo, nel Vangelo di domenica scorsa. Lo ritroviamo ancora qui, nel brano evangelico di questa quinta Domenica di Quaresima. Cosa c’è di più semplice e naturale del desiderio di vedere Gesù? Non sarebbe una richiesta che anche noi porremmo ogni giorno? Eppure l’Evangelista ci dice che Egli sembra, apparentemente, non prenderla in considerazione; distratto o, per meglio dire, concentrato su una prova imminente, su ciò che potrebbe distoglierlo e dunque su una presentazione di sé che la semplice curiosità di vederlo potrebbe non capire. Che cosa o chi dobbiamo guardare quando desideriamo vedere Gesù?  

Secondo Tempio di Gerusalemme, modello di ricostruzione, Museo dello Stato d’Israele

«In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”. La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. Disse Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 20-33).

Per comprendere la pericope appena letta occorre far riferimento alla montante ostilità verso Gesù segnalata dalle seguenti parole che precedono il brano appena riportato:

«”Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”. Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”. Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11, 48-53).

Nelle parole delle oppositori vi è anche la constatazione che: «Il mondo (ho kósmos) gli è andato dietro» (Gv 12,19). In questo contesto, nel quale le decisioni degli avversari sono già prese, alcuni greci vogliono vedere Gesù. È un primo passo, non ancora quel vedere perfetto che fa contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito il senso delle cose, tutta la profondità della realtà che farà proferire a Gesù: «Chi  ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Questo desiderio però è positivo, di tutt’altro tenore dell’aspirazione omicida degli avversari di Gesù. Ma i greci, presenti per la Pasqua a Gerusalemme, forse simpatizzanti del monoteismo ebraico o addirittura già circoncisi, non possono entrare nella parte più interna del tempio dove probabilmente Gesù si trovava: il recinto riservato agli ebrei. A segnare questo spazio vi era infatti una balaustra di cui ci parla anche lo storico Giuseppe Flavio che riportava delle scritte, ancora oggi conservate a Gerusalemme e Istanbul, le quali recitavano in lingua greca, per essere comprese dai non ebrei:

«Nessun straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hierón (la zona del Tempio riservata, n.d.r.); chi venisse preso in flagrante sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà».

Questi che vogliono vedere Gesù si rivolgono al discepolo che porta un nome greco, Filippo, che era di una città abitata anche da molti greci e forse lui stesso parlava la loro lingua. La richiesta doveva essere singolare se lo stesso Filippo si fa aiutare ed accompagnare da uno dei primi due discepoli di Gesù, anch’egli con un nome greco: Andrea.

Ricevuta la notizia Gesù coglie il momento come un altro segnale che la sua «ora» è venuta (Venit hora), quella della sua glorificazione nella sua Pasqua (Gv 17,1). A Cana di Galilea, quando si era nella fase iniziale, Gesù ne fa menzione a sua Madre, adesso qui, invece, si dice espressamente che l’ora: «È giunta». E come allora gli sposi delle nozze di Cana spariscono dalla scena, anche qui i greci paiono scortesemente messi da parte, affinché emerga una rivelazione su Gesù. Stavolta non un segno, ma le sue stesse parole la palesano. La sua morte sarà feconda come accade al chicco di grano che per moltiplicarsi e dare frutto deve cadere a terra e quindi marcire, morire, altrimenti resta sterile e solo. Accettando di marcire e morire, il chicco moltiplica la sua vita e dunque attraversa la morte e giunge alla resurrezione. 

Ritorna il paradosso delle parabole che Gesù sente il bisogno di chiarire:

«Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la custodisce per la vita eterna».

Per Gesù la vera morte non è quella fisica che gli uomini possono dare, ma sta nel rifiuto di dare la vita per gli altri, la chiusura sterile su se stessi; al contrario, la vera vita è il culmine di un processo di donazione di sé. La vicenda del chicco di grano è la vicenda di Gesù ma anche quella di ogni suo servo, il quale, seguendo Gesù, conoscerà la passione e la morte come il suo Signore, ma anche la resurrezione e la vita per sempre. Non sarà solo Gesù a essere glorificato dal Padre ma anche il discepolo, il servitore che, seguendo il suo Signore, diventa suo amico (Gv 15,15). 

Che cosa, dunque, Gesù promette di vedere? La sua passione, morte e resurrezione, la sua glorificazione, la croce come rivelazione dell’amore vissuto fino alla fine (cfr. Gv 13,1). A ogni discepolo, proveniente da Israele o dalle genti, è dato di contemplare nella sua morte ignominiosa la gloria di chi dà la vita per amore. L’Evangelista ci permette anche di gettare uno sguardo sui sentimenti più intimi vissuti da Gesù e sulla sua coscienza filiale. Come i sinottici racconteranno l’angoscia di Gesù al Getsemani (cfr. Mc 14,32-42 e par.), nel momento che precede la sua cattura, Giovanni riporta la sua confessione: «Ora l’anima mia è turbata». Egli è turbato per quel che sta per accadere, come già si era turbato e aveva pianto alla morte dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,33-35). Ma questa angoscia umanissima non diventa un inciampo posto sul suo cammino: Gesù è si tentato, ma vince radicalmente la tentazione con l’adesione alla volontà del Padre. In modo diverso dai sinottici, ma concorde con loro, per Giovanni Gesù non ha voluto salvarsi da quell’ora, né esserne esentato, ma rimane fedele alla sua missione compiendo la volontà del Padre, in unione profonda con Lui, tanto che la gloria è fra loro condivisa: «Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora». Ritornano alla mente le parole della Lettera agli Ebrei:

«Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui (sua reverentia), venne esaudito» (Eb 5,7). 

Ma l’ora di Gesù corrisponde anche al giudizio sul mondo che non conosce l’amore del Cristo e vi si oppone:

«Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me»

un rimando a quel serpente innalzato da Mosè (cfr. Nm 21,4-9; Gv 3,14) che salvava gli israeliti. L’«ora» messianica di Gesù espelle il principe del mondo che preferisce le tenebre del male e lascerà spazio all’autentico Re che, anche se governa da una croce, attrae tutti per amore e verso il quale bisogna rivolgere uno sguardo di fede. Ecco la vera risposta a quanti volevano, e ancora oggi vogliono, «vedere Gesù». 

La pagina odierna del Vangelo è la buona notizia soprattutto per tutti quei discepoli che conoscono la dinamica del cadere a terra, del «marcire» nella sofferenza, nella solitudine e nel nascondimento. In alcune ore della vita sembra che tutta la sequela si riduca solo alla passione e alla desolazione, all’abbandono e al rinnegamento da parte degli altri, ma allora più che mai occorre guardare all’immagine del chicco di grano consegnataci da Gesù; più che mai occorre rinnovare lo sguardo della fede: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37).

Secondo un’antica tradizione il Vescovo Ignazio di Antiochia (35 circa – Roma, 107 circa) conobbe l’apostolo San Giovanni. Non sorprende perciò ritrovare in una sua lettera indirizzata ai cristiani di Roma, dove troverà il martirio, una concordanza di termini e di vedute con il Vangelo che oggi abbiamo letto:

«Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo… È meglio per me morire per Gesù Cristo che estendere il mio impero fino ai confini della terra… Il principe di questo mondo vuole portarmi via e soffocare la mia aspirazione verso Dio. Ogni mio desiderio terreno é crocifisso e non c’é più in me nessuna aspirazione per le realtà materiali, ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: “Vieni al Padre”».

Dall’Eremo, 17 marzo 2024 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

L’aborto, il nuovo dogma del nostro tempo al grido di libertè, Egalitè, fraternitè …

L’ABORTO, IL NUOVO DOGMA DEL NOSTRO TEMPO AL GRIDO DI LIBERTÈ, EGALITÈ, FRATERNITÈ …

Per la morale cattolica che discende dal Vangelo e dalla viva tradizione della Chiesa, nonché dalla riflessione razionale, l’aborto è un male e un peccato, un grave delitto contro la vita peggiore dell’assassinio di un uomo o di un femminicidio. Un uomo o una donna alle cui vite si attenta, in qualche modo potrebbero anche difendersi e sottrarsi alla morte, o fuggire all’aggressione dell’assassino, ma un bambino nel ventre della madre no, non può difendersi in alcun modo né fuggire.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Il premio Nobel Madre Teresa di Calcutta ripeteva una frase: «Il più grande distruttore di pace è l’aborto». La lapidaria espressione racchiude una contestazione di quelle derive del pensiero moderno che spesso scelgono logiche di morte anziché di vita. Fra queste una certa cultura delle libertà che ha imposto la possibilità di scegliere l’aborto, fino a farlo diventare un «dogma» contemporaneo, radicato nelle convinzioni più profonde delle persone e naturalmente dei politici che nei parlamenti votano ed emanano leggi che favoriscono l’interruzione volontaria della gravidanza. Nell’ultima campagna elettorale italiana perfino alcuni politici di ispirazione cattolica rassicuravano i loro elettori nei talk show televisivi affermando: «l’aborto rimane un diritto intangibile» (!?).

 

A tal proposito vorrei far riferimento a eventi politici accaduti in due democrazie mature, quali sono l’americana e quella francese, nei quali possiamo ravvisare la debolezza di una cultura della libertà di una parte che reca discapito a un’altra più debole, non avente quasi diritti: quella del nascituro che aspira ad una propria esistenza.

Nel novembre 2022 nello Stato del Montana (USA) si svolse una consultazione referendaria nella quale fu proposto agli elettori il seguente quesito:

«Devono essere prestate cure mediche a bambini che lo necessitano, se sono sopravvissuti a un tentato aborto?».

Vinse il «no», con una percentuale pari al 52% dei votanti. Secondo l’opinione di 231.345 elettori di quello Stato americano a un bambino che sta morendo perché il primo tentativo di sopprimere la sua vita è andato a male non vanno prestate cure: la «libertà» della donna viene prima del suo diritto a vivere. Secondo i fautori del «no» il personale sanitario ha tutto il diritto di far morire un bambino, purché la donna veda «rispettata» la sua scelta e il suo corpo. Sono aberrazioni che sfuggono a una coscienza morale; è infatti molto difficile comprendere in che modo l’evento, poniamo caso, di una bimba sopravvissuta a un tentato aborto andato male, possa definirsi violenza contro il corpo di quella donna che non l’ha voluta e dunque vada lasciata morire, impedendo che le vengano prestate cure salvavita.

Presto detto: proprio oggi che la cosiddetta buona società si strugge per i casi di femminicidio, al tempo stesso dobbiamo prendere atto che non è  considerato invece femminicidio se una bambina nata viva per un aborto andato a male, viene lasciata morire. Si tratta infatti di femminicidio solo se un uomo uccide una donna in preda a un impeto criminale, non però se un ginecologo uccide una bambina, perché in questo secondo caso siamo dinanzi all’esercizio di un diritto legalmente tutelato, esercitato dalla madre alla quale si riconosce potere di vita e di morte e realizzato dal ginecologo che usa l’arte medica per aiutare la donna a beneficiare di questo suo diritto indiscutibile. Anzi, più che indiscutibile, dogmatico!  

Molto più significativa del referendum nel Montana è stata la recente definitiva approvazione della modifica alla Costituzione da parte del Parlamento francese, le Congrès du Parlement, che a camere riunite, lunedì 4 marzo del presente anno, ha voluto inserire il “diritto” all’aborto nella Carta Costituzionale. La Francia è ora il primo paese non solo in Europa, ma anche nel mondo, a includere il diritto di abortire nella sua Carta fondamentale. Tale diritto in Francia era disciplinato dalla Legge Simone Veil del 1975. Il voto del Parlamento francese e i toni trionfalistici dei commenti che lo hanno esaltato, in Francia come sulla stampa internazionale, sembrano trasformare una tragedia per cui indignarsi e contro cui lottare, in una suprema affermazione della dignità e della libertà delle donne. L’aborto diventa simbolo di emancipazione, profezia di un nuovo modo di intendere la femminilità. Mettendo ancora una volta in secondo piano l’urgenza di investire maggiori risorse per dare alle donne, piuttosto che la licenza di eliminare i propri figli, la possibilità di non farlo. La modifica ormai approvata della Costituzione, fortemente voluta dal Presidente Emmanuel Macron per marcare una differenza di impostazione nei riguardi di una precedente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (vedere QUI), pone diversi problemi per esempio a quei francesi che, seguendo una confessione religiosa che ripudia l’aborto, se lo ritrovano adesso come un diritto sancito dalla costituzione. Nessun americano, nel caso previsto dalla Sentenza di cui sopra che rimandava la decisione circa l’aborto agli Stati federali, era messo in condizione di scegliere tra il suo essere cittadino e la sua coscienza. Nel caso francese invece sì.

L’aborto da sempre è stato per molte donne una dolorosa necessità, di cui sono state loro stesse le prime vittime. Uccidere il bambino che si porta nel seno è sempre stato ed è, per una madre normale, un dramma, reso più tremendo dal fatto che una società maschilista, ancora oggi, non fa il possibile per evitarlo, lasciandola spesso sola a vivere sulla propria pelle i tanti problemi che rendono problematica la maternità. Per questo appoggiarsi al logico riconoscimento della libertà della donna per motivare una tale presa di posizione politica pone diversi problemi dal punto di vista filosofico, morale e biologico. Per la biologia, ad esempio, non ci sono «salti» tra la vita pre-natale e quella successiva al parto e una cesura tra l’una e l’altra sarebbe arbitraria: i non nati sono individui biologicamente umani, come i nati. Tutto allora dipende dalle giustificazioni filosofiche ed etiche che si riescono a dare per giustificare l’aborto e molti studiosi, anche non religiosi, hanno messo in evidenza che l’etica cristiana ha posto almeno un argine a quelle che potrebbero essere le derive di simili diritti sanciti costituzionalmente e fatti discendere dalle libertà personali. In questo modo chi potrà in futuro decidere chi è soggetto auto-cosciente e chi no fra un feto, un infante, un malato mentale o in coma, un affetto da totale demenza incapace di intendere e volere? 

I due casi politici sopra riportati fanno ripensare a quella tradizione spartana legata al Monte Taigeto. Su quel monte i bambini indesiderati perché non abili alla vita militare o «difettosi» venivano da lì scagliati e fatti morire. «La cultura dello scarto», come ebbe a chiamarla il Santo Padre Francesco ancora nel 2023. Perché, come sappiamo, per la morale cattolica che discende dal Vangelo e dalla viva tradizione della Chiesa, nonché dalla riflessione razionale, l’aborto è un male e un peccato, un grave delitto contro la vita peggiore dell’assassinio di un uomo o di un femminicidio. Un uomo o una donna alle cui vite si attenta, in qualche modo potrebbero anche difendersi e sottrarsi alla morte, o fuggire all’aggressione dell’assassino, ma un bambino nel ventre della madre no, non può difendersi in alcun modo né fuggire. 

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda ai credenti: «La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» (Nr 2258). E al numero 2302 rammenta ― eco delle parole di Madre Teresa riportate all’inizio ― che fra i nemici della pace troviamo innanzitutto l’omicidio.

I Pontefici interessati da questa problematica dell’aborto hanno tutti preso una posizione chiara e contraria. Il Santo Padre Francesco, con il fare colorito che spesso lo contraddistingue, ha più volte affermato che questa spirale di odio è chiara nell’aborto perché quando si abortisce è come pagare un sicario per effettuare un omicidio (cfr. QUI). Il Santo Padre Benedetto XVI qualche anno fa ha ricordato la terribile ferita aperta dalle leggi abortiste, affermando: «Hanno creato una mentalità di progressivo svilimento del valore della vita» (cfr. QUI). Il Magistero di San Giovanni Paolo II è stato chiarissimo a riguardo: «Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l’aborto o l’eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l’ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?». Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un’autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale. Rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato (Gv 8, 34)» (cfr. Evangelium Vitae, n. 20).

Il dramma dell’aborto, perché tale rimane, non sembra dunque propriamente liberale, poiché togliendo la vita a qualcuno, si diceva all’inizio, la pace subisce un vulnus; e viene meno anche quella pace interiore, dell’animo, in chi compie un gesto tanto violento. Alla fine, con esso, oltre la libertà e la pace, muore anche la speranza. Anzitutto quella del feto, perché gli è precluso l’avvenire, la sua storia umana fra i suoi simili. Ma anche quella della donna che, nonostante tutti gli aiuti sanitari e psicologici, si troverà sola nel compiere quel passo tremendo. Potrà consolarla in quel momento sapere che l’aborto sia stato inserito fra i diritti costituzionali? Oppure ripenserà a tutto l’aiuto di cui avrebbe avuto bisogno ― non solo morale e spirituale, ma anche economico, sociale e politico ― affinché non si trovasse a compiere una simile scelta, lei e tutte le donne del mondo che hanno tolto la vita ai propri figli?

Santa Maria Novella in Firenze, 16 marzo 2024

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Padre Gabriele, Roma, Piazza della Repubblica (già Piazza Esedra) Marcia per la vita

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Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il Regno di Dio

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SE UNO NON NASCE DALL’ALTO, NON PUÒ VEDERE IL REGNO DI DIO

La morale giovannea è una morale della verità: «Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Nella crescente consapevolezza che «senza di me non potete far nulla», le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere, vivere come Gesù: «Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato».

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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Poiché il Vangelo di Marco è più breve degli altri, alcuni brani del Vangelo di Giovanni concorrono a coprire tutte le domeniche dell’anno liturgico, soprattutto nel tempo di Quaresima. Sono testi che aiutano a comprendere quel mistero pasquale che si celebrerà in particolare nei giorni del «Triduo». Essi anticipano temi importanti, come quello dell’innalzamento del «Figlio dell’uomo» a cui accenna il seguente brano evangelico che si proclama nella quarta domenica di Quaresima. 

Henry Ossawa Tanner: Gesù e Nicodemo, olio su tela,  1899, Pennsylvania Academy of the Fine Arts (USA)

«In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”» (Gv 3,14-21)

Nei Sinottici, Gesù predice che dovrà soffrire molto; annuncia che «sarà schernito, flagellato e crocifisso» (Mt 20,19) e che il terzo giorno risorgerà. Giovanni, invece, annunciando la passione di Gesù la presenta come una «esaltazione». Lo fa nei capitoli 3 (vv. 14-15), 8 (v. 28) e 12 (v. 32). L’ultimo è il brano più esplicito: «Quando io sarò innalzato [exaltatus] da terra attirerò tutti a me». Nel versetto precedente Gesù aveva detto: «Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo [Satana] sarà cacciato fuori». Gesù, innalzato da terra, prenderà il suo posto, divenendo re e attirando tutti a sé. Ma l’esaltazione di Gesù non avverrà in Paradiso, bensì sulla croce. Molti hanno interpretato, infatti, l’innalzamento di Gesù come un anticipo giovanneo della sua Ascensione, mentre qui si fa invece esplicito riferimento alla morte del Signore. Tutto questo potrebbe apparire sconcertante perché nel nostro brano, fra l’altro, siamo all’inizio del Vangelo e non alla fine, eppure Gesù già parla della sua morte. Del resto anche nel prologo avevamo letto che: «I suoi non l’anno accolto» (Gv 1,11). E non dimentichiamo che questa è anche la Domenica «In Laetare» come proclama l’antifona d’ingresso della liturgia eucaristica. Dove trovare dunque i motivi per rallegrarsi? Evidentemente in questa verticalità evangelica che da vertigini.

Il primo ad essere sconcertato è Nicodemo, l’interlocutore di Gesù, al quale viene chiesta una rinascita dall’alto (desuper), cioè dallo Spirito effuso dall’alto. La reazione stupìta di Nicodemo ― «Come può accadere questo?» ― incontra una risposta da parte di Gesù che sconcerta anche noi:

«Se non credete quando vi ho parlato di cose della terra, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (Gv 3,12).

Stando al contesto le cose terrestri consistono proprio nella dinamica di rinascita spirituale che deve avvenire in vita, qui sulla terra, nell’umanità della persona che, grazie alla fede, si apre all’azione dello Spirito. Mentre le cose celesti sono il paradosso di un innalzamento che coincide con una condanna a morte e una crocifissione che, secondo Giovanni, è esaltazione e glorificazione. Ritroviamo l’eco delle parole del profeta Isaia: «Chi crederà alla nostra rivelazione?» (53,1); le quali seguono l’annuncio che il «servo del Signore sarà innalzato» (Is 52,13). Il verbo greco, nella versione della Settanta (LXX), ypsóo, sarà usato anche da Giovanni nel nostro testo per indicare l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Così al cuore della fede cristiana vi è qualcosa di sorprendente specificato subito dopo: l’innalzamento del Figlio dell’uomo è l’evento che adempie e realizza in pienezza il dono che il Padre ha fatto all’umanità: il dono del Figlio. L’innalzamento sulla croce che sembra apparire come il punto più infimo della vita di Gesù, per lo sguardo di fede è il momento nel quale si nasce dall’alto, come veniva chiesto a Nicodemo: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio»; grazie al dono dello Spirito che il crocifisso effonde. È qui il motivo per rallegrarci, poiché se «nessuno mai è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo» (Gv 3,13), l’evento che potremmo leggere come il più basso della vita di Gesù, la sua croce, diviene secondo Giovanni il momento più alto per lui e per noi: occasione di un dono che palesa tutto l’amore di Dio. Un amore che, in quanto tale, non intende minimamente condannare, ma solo salvare. Un amore gratuito e incondizionato che si può diffondere e può manifestare le sue energie in chi vi fa spazio accogliendolo in sé attraverso la fede: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». Un dono che è verticale e asimmetrico perché non cerca reciprocità: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

Qui dobbiamo insistere sull’assoluta novità di una affermazione. Nelle altre religioni si parla per esempio della profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua eternità, della sua giustizia, ecc.. Ma solo il cristianesi­mo ci insegna:

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui […] abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).

Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, che è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui ha amato noi (Gv 13, 34). Solo così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che tutta la morale giovannea è praticamente una morale della verità. Si compendia in due pre­cetti fondamentali: la fede che ci apre al Mistero e l’amore che ci fa vivere nel mistero della rivelazione. Per converso Giovanni sembra conoscere, nella sua essenzialità e semplicità ricchissime, solo due peccati: il rifiuto della fede in Gesù e l’odio del fratello.

Così la morale giovannea è una morale della verità: «Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Nella crescente consapevolezza che «senza di me non potete far nulla», le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere, vivere come Gesù: «Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2,6). «Chiunque rimane in Lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto» (1Gv 3,6). Se il cristiano, come Giovanni, rimane stupito a guardarlo, anzi se veramente rimane in Lui, allora non pecca più. In quanto chi rimane in quello stupore e in quella grazia non può peccare. È bellissimo, nella sua sinteticità, il commento di Agostino a questo versetto: «In quantum in ipso manet, in tantum non peccat». Una percezione comune soprattutto tra i padri della Chiesa orientale. Anche Ecumenio, un teologo della tradizione antiochena di Crisostomo, nel suo commento alla Prima lettera di Giovanni, scrive:

«Quando colui che è nato da Dio si è completamente dato a Cristo che abita in lui mediante la filiazione, egli resta fuori della portata del peccato».

Diventiamo impeccabili in quanto ci abbandoniamo totalmente a Gesù Cristo, in quanto rimaniamo in Lui.

Per concludere e riassumere, se mai fosse possibile, temi di così grande densità teologica ricavabili dal brano evangelico di questa domenica, riporto un brano della costituzione dogmatica Lumen Gentium:

«Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue».

Dall’Eremo, 10 marzo 2024 

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Viaggio nella notte con Nicodemo

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

VIAGGIO NELLA NOTTE CON NICODEMO

«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari fratelli e sorelle,

nelle nostre vite abbiamo avuto momenti di grande notte e tenebra esistenziale e spirituale. In quei momenti il Signore ci è stato vicino con la sua Luce, anche se forse all’inizio non ce ne siamo accorti. In questo cammino di Quaresima possiamo ripensare a quei momenti e scoprire il senso della speranza come carità teologale. Nicodemo stesso era andato da Gesù di notte. I due hanno un lungo scambio di cui oggi effettivamente è riportata solo una parte. La sezione più importante:

Cristo e Nicodemo, opera di Pieter Crijnse Volmarijn, XVII sec.

«In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”» (Gv 3, 14-21).

Inizialmente Gesù fa riferimento al serpente nel deserto innalzato da Mosè (14-15), sostenendo con gran forza che Lui è il nuovo innalzato che donerà la vita eterna. In effetti, il richiamo al serpente non era nuovo per Nicodemo. Infatti qui, Gesù, fa riferimento all’episodio in cui Mosè aveva preso un serpente e postolo su di un’asta liberava dalla morte gli ebrei avvelenati (cfr. Nm 21,8 ss).

Ecco allora che Gesù è il Nuovo Innalzato: colui che se accolto con fede e amore libera da tutti i veleni della nostra vita. I peccati, i vizi e le fragilità. Accogliere la vita vera ed autentica è scoprire tutte le proprie potenzialità, i doni di Dio e offrirli nella carità al prossimo.  Occorre dunque purificare lo sguardo della nostra fede per cercare di incontrare Gesù innalzato anche nei momenti di difficoltà e sofferenza. Anche quel momento, se vissuto con fede dona momenti di crescita: si entra nella vita nuova quando si è innalzati sulla propria croce in Lui, nei momenti cruciali della vita.

Questo fiorire nella vita nuova in Cristo spalanca la speranza per un mondo migliore già adesso, che costruisce il Bene Comune nella Carità, e anche la speranza escatologica. La speranza cioè di essere redenti e un giorno di andare in Paradiso. Gesù stesso lo promette a Nicodemo:

«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

La salvezza che Gesù ci offre avviene proprio sulla croce, in cui, con un’opera supererogatoria ci ha riscattato dal dominio del peccato e del demonio; noi abbiamo attinto a questa salvezza direttamente nel nostro battesimo e l’abbiamo rinvigorita nella cresima.

In questo tempo di Quaresima possiamo rinvigorire la fede e la speranza della vita eterna, sempre con degli atti di carità, ma anche con uno sguardo di speranza e di bene sulla storia che viviamo. Infatti, la micro-storia personale che viviamo nella nostra quotidianità è un grande dono di grazia: Dio ci ha donato vita, libertà e vocazione personale, perciò, le nostre scelte personali influiscono nella costruzione del nostro quotidiano. Il nostro quotidiano se vissuto con fede e carità ci permette di sperare di costruire una macro-storia del mondo in cui viviamo, che spalanca la strada della speranza per la vita eterna. Dunque, nel nostro piccolo percorso quotidiano amiamo, crediamo e operiamo nel Bene al contempo fondiamo la speranza di una vita che sarà eternamente bella perché al cospetto di Dio. La vita eterna che sarà inaugurata dalla mattina di Pasqua in cui con Cristo saremo chiamati a nascere per non morire mai più.

La Quaresima ci purifica per imparare a sperare nell’Eterno e non più solo sulle realtà temporanee. Chiediamo al Signore di crescere sempre più nella speranza e generare sempre più un cuore effuso dal suo Santo Spirito e dall’amore mariano.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 10 marzo 2024

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Essere scrutati dal cuore di Dio

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

ESSERE SCRUTATI DAL CUORE DI DIO

Gesù scruta il cuore degli uomini testimoni dei suoi miracoli e si accorge che la loro non è una vera fede ma solo emozione. È una fede che cerca solo il sensazionalismo, quello che oggi definiremmo “fideismo”. Gesù cerca invece di donare loro una fede che sia autentica e forte.

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

In questa terza tappa verso la Pasqua osserviamo un momento molto forte della vita di Gesù. L’unico episodio in cui il Signore sembra quasi utilizzare delle azioni violente in cui combatte la mentalità del suo tempo. In effetti ogni scena di combattimento è sempre forte agli occhi. Pensiamo alle scene di guerra descritte nelle grandi opere classiche come l’Iliade o la Gerusalemme Liberata. Il combattimento di Gesù, però, non è finalizzato alla guerra, ma finché nel cuore dell’uomo e in ciascuno di noi sgorghi un sentimento di fede e di conversione continua.

In questa III domenica di quaresima Leggiamo il celeberrimo passo della cacciata dei mercanti dal tempio nel (testo del Vangelo QUI). Una scena davvero forte. Una modalità da parte del Signore per purificare il Tempio, cioè la casa di Dio, dalle impurità che le vendite non sempre giuste venivano qui operate. D’altronde, il Tempio, è spazio sacro in cui i mercanti davvero non potevano entrare per finalità di compravendita.

Questo episodio si applica generalmente al nostro tempo come condanna del mercato e delle speculazioni finanziarie disumane e che non rispettano la dignità e la sacralità dell’uomo. Ma questo è anche segno che Gesù non è attento alla singola materialità economica in sé stessa ma come mezzo per il fine. Il denaro, dunque, per quanto mezzo necessario, non può mai diventare un sostituto di Dio.

Il dialogo successivo è scusa che Gesù usa per annunciare la sua Passione. Per affermare il suo atto d’amore finale. Questo atto d’amore è Redenzione e liberazione dal peccato. Ed è anche il Grande Segno di Gesù, più grande di tutti gli altri segni, che dobbiamo riscoprire anche noi in questa Quaresima. Se infatti leggiamo con attenzione questa pericope:

«Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo».

Comprendiamo in che modo Gesù, tramite la sua conoscenza divina per via eternitatis, scruta il cuore degli uomini che erano testimoni dei suoi miracoli. E si accorge che la loro non è una vera fede ma solo emozione. È una fede che cerca solo il sensazionalismo, o quello che oggi definiremmo “fideismo”. Gesù cerca invece di donare loro una fede che sia autentica e forte.

Questo è il nostro cammino quotidiano che in questo periodo forte possiamo intraprendere con coraggio. Facciamoci aiutare con la preghiera, i Sacramenti e l’affidamento al Signore a liberarci da una fede poco matura, emotiva e fragile. Questo percorso può anche aiutarci a comprendere quali sono le nostre difficoltà e distrazioni nella preghiera e nella pratica delle opere di misericordia.

Il tutto ci porterà a crescere nell’essere conosciuti per divenire gradualmente sempre più intimi col Signore. E questa intimità sarà fonte di gioia e soddisfazione.

Chiediamo al Signore di avere sempre un cuore aperto alle sue ispirazioni d’amore e di verità per diventare uomini nuovi in Lui.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 3 marzo 2024

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