Dedicato a chi non ha memoria: le donne agli uffici di curia furono nominate già da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI

DEDICATO A CHI NON HA MEMORIA: LE DONNE AGLI UFFICI DI CURIA FURONO NOMINATE GIÀ DA GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI

Non dovevamo attendere affatto i pontificati di Francesco e di Leone XIV, per vedere assurgere donne e religiose a certi ruoli. Lo rendiamo noto a tutti coloro che, giunti a ieri, non riescono ad arrivare neppure a ieri l’altro, con la loro povera memoria storica, pur presumendo di essere conoscitori sopraffini della Chiesa Cattolica e dei suoi organi di governo.

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

.

Un problema della nostra contemporaneità, reso grave e viepiù drammatico dall’entrata sulla scena mondiale dei social media, è dato dal fatto che le persone tendono ad avere difficoltà nel ricordare cosa sia accaduto ieri l’altro, perché la memoria storica di molti si ferma a ieri.

La religiosa Nicoletta Vittoria Spezzali nominata nel 2011 sottosegretario del Dicastero per i religiosi da Benedetto XVI

Un discorso a parte meriterebbero quelli che hanno bisogno di vivere in perenne agitazione creandosi a tal fine nemici da combattere, usando la Chiesa Cattolica e le dispute pseudo-teologiche ed ecclesiologiche come elemento di  sfogo per le loro peggiori nevrosi, avvolti da cupo pessimismo cronico.

In questi giorni stanno circolando giudizi impietosi sul nuovo pontificato che suonano all’incirca così: «Illusi, voi che vi siete entusiasmati per Leone XIV, ecco i risultati concreti: ha nominato una donna segretario al Dicastero per i religiosi, Suor Tiziana Merletti». Segue il giudizio lapidario: «Leone XIV non è altro che un Francesco in versione più elegante, ma la sostanza è la stessa, anzi, forse è persino peggiore».

Merita ricordare che le donne in certi uffici di curia furono nominate già sotto i pontificati di Paolo VI e Giovanni Paolo II (cfr. QUI). Non solo: regnante l’Augusto Pontefice Benedetto XVI, in questo stesso Dicastero lavoravano come sottosegretari il compianto Padre Sebastiano Paciolla, monaco e presbitero dell’Ordine Cistercense, insigne canonista e uomo di profonda cultura teologica, assieme a Suor Nicoletta Vittoria Spezzali della Congregazione delle adoratrici del Sangue di Cristo. Non dovevamo attendere affatto i pontificati di Francesco e di Leone XIV, per vedere assurgere donne e religiose a certi ruoli. Lo rendiamo noto a tutti coloro che, giunti a ieri, non riescono ad arrivare neppure a ieri l’altro, con la loro povera memoria storica, pur presumendo di essere conoscitori sopraffini della Chiesa Cattolica e dei suoi organi di governo.

Dall’Isola di Patmos, 28 maggio 2025

.

______________________

Cari Lettori, questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro Conto corrente bancario intestato a:

Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano

Codice IBAN: IT74R0503403259000000301118

Per i bonifici internazionali:

Codice SWIFT: BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione,

la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento: isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

.

.

.

.

.

 

Da Francesco a Leone XIV. Che cosa ci riserverà il futuro

DA FRANCESCO A LEONE XIV. CHE COSA CI RISERVERÀ IL FUTURO?

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo.

— Attualità ecclesiale —

.

Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

.

Ad appena due settimane dall’elezione del Romano Pontefice Leone XIV non possiamo non notare nella Chiesa un clima di euforia generalizzata unita a quella sensazione di sollievo simile a colui che a fine giornata dismette le scarpe strette per mettersi comodamente in pantofole. Basta ripercorrere le immagini della Santa Messa di inizio pontificato per notare una piazza San Pietro molto affollata fino a tutta Via della Conciliazione, cosa che non accadeva da almeno un decennio a questa parte.

Erano presenti in molti. Non solo la gente comune ha voluto essere presente all’evento dell’inizio del ministero del nuovo Romano Pontefice ma anche diverse personalità di spicco provenienti da tutto il mondo hanno reso il loro omaggio, nutrendo in cuor loro la segreta speranza che il nuovo Capo della Chiesa potesse costituire un valido alleato politico e sociale nella scacchiera geopolitica attuale.

L’elezione di un Papa è qualcosa di straordinario, senza dubbio è un evento unico al mondo, che con una facile ironia avviene appunto a ogni morte di Papa”. Eppure, questa elezione in modo particolare si è caricata di numerose speranze e aspettative proprio per la singolarità del pontificato di Papa Francesco e di quella oggettiva eccentricità dell’uomo Jorge Mario Bergoglio di cui, all’occorrenza, abbiamo parlato con dispiacere e talora imbarazzo su questa nostra rivista, sempre con rispetto ma soprattutto a “papa vivo”, al contrario degli “eroi” che solo oggi, a “papa morto”, sollevano perplessità, critiche e persino ironie. Da qui il realistico commento del nostro redattore canonista Padre Teodoro Beccia:

«A noi che dinanzi a certe sue innegabili stravaganze, all’occorrenza abbiamo criticato il Santo Padre Francesco a viso aperto, con garbo e rispetto, adesso toccherà il compito di difenderlo da morto da coloro che in vita lo hanno esaltato, sino a sprofondare in forme di vera e propria papolatria, ovviamente tutt’altro che disinteressata, avendo poi ottenuto quanto sperato in benefici, nomine e cariche ecclesiastiche».

Facciamo attenzione, dopo ogni elezione papale c’è da parte di molti commentatori e giornalisti l’uso smodato di quel sostantivo femminile che è “continuità”, termine che significa e indica la ripresa di quella linea di governo — fatta di tradizione, idee, orientamenti e stili — che il defunto pontefice ha avuto nel suo governo della Chiesa e che il nuovo dovrebbe proseguire quasi come un lascito testamentario. A conferma del fatto, la maggior parte delle ultime previsioni sui possibili papabili vertevano tutte su profili simili al de cuius, così come insegna quella locuzione latina: Similes cum similibus. Ma la storia del papato e dei Conclavi riserva sempre sorprese e imprevisti.

Ricordo come nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, l’elezione di Benedetto XVI fu salutata come un segno di grande continuità col Predecessore. Il tempo ha poi evidenziato come i due pontificati si sono dimostrati differenti sia per storia personale, sia per stili e temperamenti e che l’unica continuità riscontrabile è stata quella presente nel comando del Signore risorto a Pietro: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17). Questi due Romani Pontefici sono stati accomunati dalla volontà di condurre la navicella della Chiesa e di pascere il popolo santo di Dio con fortezza e non senza i dolorosi calvari.

Questo per dire che regimentare un pontificato dentro aspettative personali ed eredità precedenti porta a delusioni e che la continuità che conta per un Papa è quella con Gesù Cristo e non con il suo predecessore, fosse anche un santo canonizzato. Questo è stato anche il pensiero che molti Cardinali hanno condiviso durante le ultime Congregazioni Generali in vista del Conclave ed è quello che in modo non tanto velato ha potuto esprimere anche il Cardinale Giovanni Battista Re durante la Santa Messa prima dell’ingresso in Conclave.

Tali riflessioni sparse sono positive perché ci aiutano a maturare nella conoscenza che un Papa va amato sia nel suo ministero che come figura ma allo stesso tempo siamo ugualmente convinti che il Papa, qualunque esso sia, nella sua umanità fragile e fallimentare non è un outsider e quindi ha bisogno di tutto il sostegno e il consiglio possibile, perché siamo tutti passibili di quel fallimento che il nostro direttore Padre Ariel ha magistralmente espresso in un suo recente articolo (vedi QUI).

Il Consiglio è un dono dello Spirito Santo e non un compromesso umano, è quel dono che il Salmo 16 descrive così: «Il Signore mi ha dato consiglio, anche di notte il mio cuore mi istruisce» (Sal 16, 7). Il compito di consigliare e istruire il sommo Pontefice spetta primariamente a Dio attraverso il Figlio ma anche attraverso il suggerimento, la saggezza e la mediazione del Sacro Collegio al quale spetta esercitare con generosità il dono del Consiglio verso la persona del Sommo Pontefice.

L’8 maggio, dalla loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro, abbiamo potuto vedere un Pontefice affacciarsi con visibile commozione e consapevolezza del suo ruolo, le immagini televisive non potevano nascondere la commozione degli occhi e il nervosismo che increspava le labbra. Si è presentato al mondo da Pontefice, con l’aspetto proprio di un Pontefice, per chi desiderava vedere un Pontefice e non qualcos’altro. Quel dono del Consiglio avrà lavorato efficacemente nel cuore dei Cardinali in vista dell’elezione? Noi lo speriamo, ma desideriamo augurarci che continui a lavorare negli anni a venire sia nel Collegio Cardinalizio che dentro il Palazzo Apostolico. I presupposti sembrerebbero buoni — il condizionale è d’obbligo — fin dal momento in cui Leone XIV si è affacciato al balcone della loggia della basilica abbiamo potuto percepire la sua intenzionalità di ricentrare la Chiesa sulla persona di Cristo risorto e accompagnare tutti gli uomini all’interno di un cammino di consapevolezza pasquale.

Vogliamo coltivare la virtù teologale della speranza e nutrire una realistica fiducia, senza cadere in facili “anfibologie” complottiste o nella trappola di vedere nella mozzetta, nella stola pontificia e nella croce pettorale d’oro dei segni divisivi o polemici. La presenza di tali segni non è espressione di una farsa carnevalesca o di un retaggio rinascimentale, essi rappresentano gli elementi propri di un Papa e aiutano a delineare la sua figura ben chiara, che rispetta dei canoni che non sono modaioli o politici ma che si radicano dentro un linguaggio ben preciso e che significano realtà precise. A tutta quella gente che piace al mondo che piace, gioverà ricordare che è vero che l’abito non fa il monaco, tuttavia il monaco ha l’abito, che deve indossare e portare con dignità, quale segno visibile dell’ufficio al quale è chiamato a adempiere.

Il mondo della gente che piace, dipendente dai vari look e outfit si è scagliato contro Leone XIV per via del suo apparire smaccatamente come un Papa. Sui social tra i vari commenti, il più lusinghiero, sotto le varie notizie dell’elezione, è stato: «non mi piace», e questo perché? Semplice, da diverso tempo la figura del Papa e del papato è stata destrutturata e mortificata e questo non vuole essere un attacco al predecessore di Papa Leone XVI ma solo una lettura oggettiva. Con Papa Francesco abbiamo visto il successore del Beato Apostolo Pietro presentarsi al capolinea della sua esistenza terrena in carrozzina, con un poncho sdrucito, con dei pantaloni approssimativi (forse anche con il catetere vescicale) così come uno dei tanti anziani della peggiore Residenza Sanitaria Assistita. Che cosa ha detto questo modo di apparire a quel mondo fatto della gente che piace? Nulla, semplicemente nulla, non ci sono state levate di scudi perché l’obiettivo è apparso molto chiaro fin da subito, destrutturare l’anima del papato, normalizzarlo e forse portarlo ai minimi termini e Francesco è stato in questo l’uomo giusto al momento giusto, pedina inconsapevole (forse?) ma anche uomo fragile che non ha avuto la capacità di farsi tutelare, guidare e difendere.

Penso che nessuno di noi gradirebbe portare in giro il proprio genitore anziano in condizioni di trasandatezza e di fragilità. Io che ho servito per diversi anni come cappellano ospedaliero conosco bene la realtà degli ambienti sanitari e assistenziali e posso garantire che l’ammalato, anche se allettato o terminale, non ha piacere di manifestare la sua fragilità fisica agli estranei, spesso anche con alcuni familiari, ma cerca sempre di conservare la propria dignità; eppure, con Francesco è accaduto l’esatto contrario e di questo dobbiamo dispiacerci. 

Altra particolarità di Leone XIV è stato presentarsi al mondo con le parole del Cristo risorto: «La pace sia con tutti voi», è la parola di Cristo che vince il mondo e il Papa non può che appoggiarsi sul Risorto e lasciare a lui la supremazia. Basterebbe questo saluto per poter individuare già un possibile cammino pastorale per il nuovo pontificato di Leone XIV. Un pontificato di rappacificazione che deve toccare diversi fronti: dalla più immediata Curia Romana insieme al presbiterio di Roma — ampiamente bistrattato — fino alle relazioni internazionali tra i popoli in cui la Santa Sede con il suo capo non può che dimostrare quella autorevolezza morale e materna per ricondurre l’uomo alla ragionevolezza.

Una riappacificazione necessaria, dicevo, che non può che partire dal riconoscimento di quelle ferite che sono presenti anche in seno all’immagine del papato attuale. Del resto, lo stesso Beato Apostolo Pietro iniziò il suo ministero con ferite evidenti e un passato personale da ripacificare, questo è bene ricordarlo per sfuggire la mania della papolatria sempre in agguato.

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo. Chissà che la figura della Chiesa come ospedale da campo non si realizzi in pienezza nell’attuale pontificato. C’è chi vuole vedere il novello Pontefice come colui che ricondurrà alla tradizione, c’è chi lo vuole vedere come un continuatore dell’opera di Francesco, chi un conservatore nella forma ma un novello Bergoglio nella sostanza.

Per il momento vogliamo esercitare il dubbio inteso come esercizio della prudenza e sospendere il giudizio dentro la cornice di un sano realismo. Certo di piacerebbe rivivere quello che nel libro apocrifo degli Atti di Pietro è conosciuta come la tradizione del Quo Vadis. Gesù insegna a Pietro che a Roma un Papa ci può stare solo e soltanto se si lascia crocifiggere. E con questa consapevolezza noi vogliamo fin da ora piegare le nostre ginocchia e pregare per il Santo Padre. Viva il Papa!  

Sanluri, 27 maggio 2025

 

.

I libri di Ivano Liguori, per accedere al negozio librario cliccare sulla copertina

.

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

 

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

 

.





La pace vera è di Cristo, non quella dei pacifisti e dei pacifondisti

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PACE VERA È DI CRISTO, NON QUELLA DEI PACIFISTI O DEI PACIFONDISTI

Lo Spirito è «l’attualità di Cristo» stesso, non però come un semplice ricordo della vita terrestre del Signore. La sua attualizzazione è quella che ci fa «contemporanei di Cristo» (Søren Kierkegaaard), assicurandone la sua permanente presenza nella Chiesa, come anche San Paolo afferma di Gesù, che rimane presente nella nostra esistenza come «spirito vivificante».

.

 PDF articolo formato stampa

 

.

.

San Girolamo, nel commento alla Lettera ai Galati, narra una vicenda forse leggendaria, di sicuro antica:

«Il beato Giovanni evangelista, mentre, fino alla vecchiaia avanzata, dimorava a Efeso e con difficoltà veniva trasportato in chiesa sulle mani dei discepoli ne era più in grado di dire molte parole, nient’altro soleva proferire in ciascuna riunione se non questo: “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” (cfr. 1Gv 3,11)».

Negli scritti giovannei è l’amore la cifra attorno alla quale l’evangelista condensa il mistero cristiano, come nelle parole che si leggono nel Vangelo di questa domenica. In esse ci viene rivelato qualcosa di grande e nello stesso tempo profondo, poiché dicono che grazie all’amore la Trinità abita in noi. Il Signore Risorto che non ci ha lasciati, in forma nuova, spirituale, continua a vivere in noi portandovi l’amore del Dio trinitario. Leggiamo.

«In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate”» (Gv 14,23-29).

Nel contesto dell’ultimo incontro tra Gesù e i suoi, diversi discepoli gli rivolgono delle domande: Pietro in primis (Gv 13,36-37), poi Tommaso (Gv 14,5), quindi Giuda Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?» (Gv 14,22). È una domanda che evidenzia, forse, la sofferenza nei discepoli, poiché, dopo l’avventura vissuta insieme a Gesù per anni, egli se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo. Una piccola e sparuta comunità ha compreso qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma gli altri non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce dunque la venuta del Figlio unigenito nella carne? Gesù allora risponde: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Il Signore Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che permane ostile senza riuscire ad amarlo: per avere, invece, la manifestazione di Gesù occorre l’amore. Quelle parole di Gesù sono sorprendenti perché spalancano l’orizzonte sull’inaspettata nuova abitazione del Signore in noi. Come sarà questa nuova presenza di Gesù nella comunità dei credenti? Essa sarà caratterizzata da due tratti fondamentali.

Innanzitutto, sarà una presenza interiore, spirituale: per mezzo di essa il Signore si manifesterà ai suoi discepoli. Fino ad allora Gesù è stato semplicemente «presso» di loro (v. 25). Partirà, però, senza lasciarli orfani, poiché Egli tornerà dai suoi (v. 18), e «in quel giorno», dice Gesù, faranno un’esperienza nuova: «voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (v. 20). Riconosceranno contemporaneamente che Gesù è nel Padre suo e che perciò non sarà da solo a venire verso il discepolo che ama: verranno Gesù e il Padre suo e dimoreranno (v. 23). Gesù si manifesterà nel mistero della sua inabitazione nel Padre suo. Tuttavia, afferma Gesù, quasi come un ritornello, questa condizione si verifica se il discepolo ama il Signore, secondo l’insegnamento che ha ricevuto da Lui (vv. 15.21.23.24). In questa osservanza esistenziale del precetto dell’amore, il discepolo finalmente riconoscerà che Gesù e il Padre dimorano in lui.

L’altro tratto fondamentale rivelato dalle parole di Gesù è che tutto questo non sarà possibile senza l’azione dello Spirito Santo. Come sopra rammentato Gesù era «presso» i discepoli (v.25), così pure lo Spirito era «presso» di loro (v.17), perché era in Gesù. Più avanti sarà «in» loro — ancora il v. 17: «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» — perché il suo compito sarà quello di ricordare ai discepoli tutto quello che aveva detto loro Gesù e di insegnarlo dal di dentro: «vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26).

L’insegnamento del Paraclito coinciderà dunque con l’insegnamento interiore di Gesù: le sue parole diventeranno, nell’intimo dei discepoli, fiumi di acqua viva che susciteranno per loro e per la comunità cristiana una vita nuova: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7, 37-39). Attraverso l’interiorizzazione della parola di Gesù e per mezzo della presenza dello Spirito nei discepoli, Gesù stesso e con Lui il Padre, sarà nuovamente presente in loro. Però soltanto nello Spirito Paraclito sarà possibile «vedere» Gesù (Gv 16,22-23); così, attraverso uno sguardo nuovo, si scoprirà il suo mistero, come afferma anche Sant’Ambrogio: «Non con gli occhi del corpo, ma con quelli dello spirito si vede Gesù» (Expos. ev.sec. Lucam I,5).

Di tale maniera, in un modo assolutamente imprevedibile, si compirà la promessa della inabitazione escatologica di Dio tra gli uomini (cfr. Zac 2,14: «Rallègrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te»). Così si esprime Sant’Agostino riguardo a questa nuova presenza divina che è trinitaria: «Ecco, dunque, che anche lo Spirito Santo, insieme al Padre e al Figlio, fissa la sua dimora nei fedeli, dentro di loro, come Dio nel suo tempio. Dio Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo vengono a noi quando noi andiamo da loro» (Tract. in Jo., PL 35, 1832).

Sappiamo che i tre principali autori del Nuovo Testamento che hanno scritto sullo Spirito Santo sono Luca, Paolo e Giovanni. Ma solo quest’ultimo dice che il Gesù storico dava lo Spirito. Secondo il quarto Vangelo l’attività dello Spirito consiste nel suscitare, approfondire o difendere, nel cuore dei discepoli, la fede in Gesù e di dare loro la conoscenza del Signore. Come giustamente è stato affermato: è in un quadro di rivelazione che si inserisce in San Giovanni la dottrina sullo Spirito Santo; e il quarto vangelo di continuo ci fa assistere alla rivelazione progressiva del rapporto sempre più intimo tra Gesù e lo Spirito. Se all’inizio Gesù si presenta come colui sul quale lo Spirito  «rimane» — di lui, infatti, il Battista dice: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (Gv 1, 32) —  in seguito Egli lo dona, anzi, al momento della «sua ora» ne diviene la fonte. Dopo la risurrezione Gesù chiederà al Padre di mandare lo spirito di verità (Gv 14, 16-17) che sarà un altro Paraclito. Dallo Spirito è ormai assicurata alla Chiesa la permanenza e l’efficacia della rivelazione di Gesù. Anzi, per Giovanni, lo Spirito è «l’attualità di Cristo» stesso, non però come un semplice ricordo della vita terrestre del Signore. La sua attualizzazione è quella che ci fa «contemporanei di Cristo» (Søren Kierkegaaard), assicurandone la sua permanente presenza nella Chiesa, come anche San Paolo afferma di Gesù, che rimane presente nella nostra esistenza come «spirito vivificante» (1Cor 15,45).

Dall’Eremo, 24 maggio 2025

.

.

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

.

Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.      

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

Leone XIV. Un inizio ruggente tra mass media, comunicazione e pace

LEONE XIV. UN INIZIO RUGGENTE TRA MASS MEDIA, COMUNICAZIONE E PACE

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

Sembra che, almeno inizialmente, il mondo cattolico abbia accolto con attenzione e speranza le parole del nuovo Romano Pontefice, Leone XIV, specialmente nei suoi primi discorsi.

foto di Domenico Cippitelli European Affairs, edizione del 12.05.2025

Ad esempio, rivolgendosi ai giornalisti convenuti a Roma per il Conclave, il Santo Padre ha lanciato un messaggio di profonda semplicità e straordinaria rilevanza: un invito pressante ad abbracciare una «comunicazione disarmata», autentica e costruttiva, capace di edificare ponti di pace in un’epoca segnata da divisioni e conflitti. Questo appello non è rivolto solamente ai professionisti dell’informazione, ma a ogni uomo e donna, chiamati a riflettere sul potere trasformativo delle parole e sul loro impatto nella creazione di un futuro più sereno per l’intera umanità. Vorrei un po’ parlare di alcuni spunti che il Santo Padre ha avviato nella mia personale riflessione teologica e condividerli con tutti voi.

«Beati gli Operatori di Pace»: Il Fondamento Teologico. L’appello di Papa Leone XIV alla comunicazione di pace affonda le sue radici nel cuore del Vangelo. Il suo discorso si è aperto con una potente citazione della beatitudine: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Questa non è una semplice esortazione, ma una promessa di felicità e una definizione di coloro che sono veramente figli di Dio. Il Successore di Pietro ha chiarito che la pace di Cristo non è un’assenza di conflitto o il risultato della sopraffazione, ma un «dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita». È una pace fatta di riconciliazione, perdono e del coraggio di ricominciare.

In questa luce, la comunicazione disarmata si rivela uno strumento essenziale per costruire attivamente questa pace dinamica e trasformativa. Le nostre parole hanno il potere di sanare ferite, di ricostruire relazioni spezzate e di infondere speranza in coloro che l’hanno perduta. Essere “operatori di pace” nel nostro comunicare quotidiano significa quindi rispondere a una chiamata divina, contribuendo attivamente alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra.

Un Appello Speciale ai Giornalisti: Custodi della Verità e Seminatori di Pace. Il Sommo Pontefice Leone XIV ha rivolto un’attenzione particolare ai giornalisti, agli operatori di Mass Media, riconoscendo il loro ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica e nel raccontare la complessità del nostro tempo. Li ha ringraziati per il loro servizio alla verità, specialmente in momenti delicati come il Conclave. Tuttavia, a questo riconoscimento si accompagna una chiara esortazione alla responsabilità. Egli ha chiesto ai giornalisti di abbracciare una «comunicazione di pace», rifuggendo da un linguaggio aggressivo e dalla logica della «guerra delle parole e delle immagini». Un momento particolarmente toccante del discorso è stato il ricordo dei giornalisti incarcerati per aver cercato e riportato la verità. Papa Leone XIV ha espresso la solidarietà della Chiesa e ha chiesto la loro liberazione, sottolineando come solo un popolo informato possa compiere scelte libere e consapevoli. In questo modo, il Pontefice non solo riconosce il ruolo fondamentale dei media, ma li investe di una missione etica di primaria importanza nella costruzione di una società più giusta e pacifica.

L’Intelligenza Artificiale: potenziale immenso che richiede discernimento. Nel suo sguardo attento alle sfide del mondo contemporaneo, Papa Leone XIV ha posto una particolare ed iniziale attenzione il tema dell’intelligenza artificiale. Ha riconosciuto il suo «potenziale immenso», capace di trasformare la comunicazione e di offrire benefici all’umanità. Tuttavia, ha anche sottolineato la necessità di un «discernimento» e di una «responsabilità» condivisa nel suo utilizzo, affinché questo strumento rimanga al servizio del bene comune e non diventi «disumano».

Questo richiamo evidenzia la consapevolezza della Chiesa di fronte alle rapide evoluzioni tecnologiche e la sua volontà di guidare queste trasformazioni con saggezza e attenzione ai valori fondamentali della dignità umana. La tecnologia, quindi, non è vista come una minaccia, ma come un nuovo «spazio da evangelizzare con intelligenza e amore».

La tecnologia finalizzata alla carità sfugge alla algocrazia: al potere degli algoritmi di elaborare dati per controllare le menti e gli uomini. Una IA è macchina lavoratrice per l’uomo che in Dio cerca l’amore. Non c’è  logica di controllo e di dominio, ma servizio.

«Noi Siamo i Tempi»: L’Esortazione di Sant’Agostino alla Responsabilità Personale. A conclusione del suo discorso, Papa Leone XIV ha citato una frase di Sant’Agostino di grande profondità: «Viviamo bene, e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». Questa affermazione ci ricorda che non siamo semplici spettatori del nostro tempo, ma protagonisti attivi nella sua costruzione. La qualità del tempo che viviamo è direttamente connessa al modo in cui viviamo, alle nostre scelte, alle nostre parole.

Questo richiamo alla responsabilità individuale è particolarmente significativo nel contesto dell’appello alla comunicazione di pace. Ogni volta che scegliamo di comunicare con verità, amore e rispetto, contribuiamo a rendere i tempi «buoni». Non dobbiamo attendere passivamente un futuro migliore, ma impegnarci nel presente per costruirlo attraverso le nostre azioni e il nostro modo di relazionarci con gli altri.

La Comunicazione come Creazione di Cultura e Atto di Carità. La visione di Papa Leone XIV sulla comunicazione va oltre la semplice trasmissione di informazioni. Egli la considera uno strumento potente per la creazione di una cultura di dialogo, di incontro e di pace.1 Il Pontefice ha affermato che «la comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». In questa prospettiva, l’atto di comunicare diventa quasi una «missione», una «forma di carità».

Questo eco del pensiero del suo predecessore, Papa Francesco, che ha più volte sottolineato l’importanza di «disarmare la comunicazione» e di costruire una «cultura dell’incontro», ci invita a considerare la comunicazione non come un’attività neutrale, ma come un impegno morale e spirituale che ha il potere di edificare ponti di fraternità e di diffondere i valori del Vangelo nel mondo.

Un Cammino Insieme Verso la Pace. Un cammino verso la pace di Cristo ci insegna che anche parlare è una missione, è una forma di carità. E allora, come dice il Papa: disarmiamo la comunicazione… e costruiamo pace. Questo è solo l’inizio di un cammino che Papa Leone XIV ci invita a percorrere insieme: quello della comunicazione disarmata, evangelica, vera.

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri». Questa è una rivoluzione spirituale. Un cambio di sguardo che può trasformare le nostre relazioni, le nostre parrocchie, i nostri ambienti di lavoro. Non si tratta di essere «buonisti», ma di essere «buoni secondo il Vangelo», capaci di uno stile che non urla, non aggredisce, ma semina fiducia.

E allora, quale comunicazione vogliamo costruire? Una comunicazione che difende la verità con amore, che non è ideologica né superficiale, ma profonda e libera. Una comunicazione «che non separa mai la verità dalla carità», come dice san Paolo. Una comunicazione che sa farsi voce di chi non ha voce, che non si lascia sedurre dal potere, ma sceglie la debolezza della Croce come linguaggio di salvezza.

Il Santo Padre Leone XIV ci parla anche della «tecnologia», e in particolare dell’intelligenza artificiale, che definisce uno «strumento immenso». Anche qui, non si tratta di avere paura, ma di esercitare «discernimento». L’evangelizzazione passa anche da questi nuovi spazi: ma deve farlo con sapienza, custodendo la dignità della persona. E poi … quel passaggio finale, così agostiniano: «Noi siamo i tempi». Non dobbiamo aspettare tempi migliori. «Siamo noi a renderli tali», ogni volta che scegliamo la verità, il perdono, la speranza.

Allora domandiamoci, davvero, con sincerità: «quali tempi vogliamo costruire oggi nel mondo?» Un tempo di paura o di fiducia? Un tempo sterile o generativo? Il Papa ci chiede di essere «testimoni di una cultura nuova», di una Chiesa che non si chiude ma dialoga, che non combatte ma accompagna, che non impone ma illumina. Una Chiesa che comunica pace perché vive di pace. E anche noi, vogliamo camminare in questa direzione: offrire contenuti che nutrano la fede, che costruiscano una comunità pensante e orante, capace di abitare il mondo con lo stile del Vangelo.

Ricordiamolo sempre: «per andare in Paradiso, dobbiamo cominciare a costruirlo insieme, qui e ora». Facciamolo insieme a Papa Leone.

Santa Maria Novella in Firenze, 22 maggio 2025

.

.

Iscrivetevi al nostro Canale Jordanus del Club Theologicum diretto da Padre Gabriele cliccando sopra l’immagine

 

LE ULTIME PUNTATE SONO DISPONIBILI NELL’ARCHIVIO: QUI

.

Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.      

.

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

L’inizio del ministero petrino di Leone XIV e il disincanto di un vecchio prete che spera ma non s’illude — The beginning of the petrine ministry of Leo XIV and the disenchantment of an old priest who hopes but is not deluded

(English text after the Italian)

L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO DI LEONE XIV E IL DISINCANTO DI UN VECCHIO PRETE CHE SPERA MA NON S’ILLUDE

Dio benedica il Romano Pontefice, visto che in questa condizione di disastro potrebbe fare poco o niente. Però, dinanzi a una situazione disperata come la nostra, averci provato anche senza riuscirci, costituirà già merito di grazia e salvezza, attraverso la gloria del cristologico fallimento, perché il futuro e la lenta e dolorosa rinascita della Chiesa si giocherà tutta sulla ricerca dell’unità. Dunque: buon fallimento, Beatissimo Padre Leone XIV.

— Attualità ecclesiale —

.

PDF  articolo formato stampa – PDF article print format

.

 

Davanti a un Romano Pontefice che si presenta dignitoso, a una liturgia pontificale decorosa come non se ne vedevano da un decennio, a una piazza San Pietro gremita, dopo anni di trionfi di piazze e chiese sempre più vuote, tra i tripudi di giubilo dei laicisti delle sinistre internazionali che inneggiavano al “papa rivoluzionario”, all’udire un Romano Pontefice che parla misurando con cura le parole attraverso discorsi elaborati su contenuti dottrinali e teologici, quantomeno, dovrebbe indurmi a gioire con entusiasmo. Sì, posso anche rallegrarmi, ma non riesco a gioire, né ad essere entusiasta.

Il Santo Padre Leone XIV eredita la situazione incancrenita di una Chiesa che ristagna in una condizione di decadenza irreversibile e che da tempo ha superato la soglia del non ritorno, lo vado dicendo e scrivendo da 15 anni (cfr. QUI e QUI). Beninteso, più che poco, le parole mie contano niente. Figurarsi, abbiamo perduto l’abitudine di ascoltare la parola di Dio, dopo averne fatto ciò che volevamo, tra manipolazioni e surreali esegesi di comodo, cosa potrà contar mai il pensiero di un Signor Niente e di un Signor Nessuno come me? A maggior ragione mi sento di dire: se il Santo Padre riuscirà a fare solo qualche cosa, ciò non sarà molto, ma moltissimo.

Un uomo solo non può cambiare le cose, neppure Francesco d’Assisi ci riuscì, anche per questo sul finir della vita andava nascondendosi alla Verna. E poco dopo, Bonaventura da Bagnoregio, eliminate le precedenti cronache e biografie redatte da Tommaso da Celano, provvide a inventare una leggenda aurea a uso ecclesiale, politico e sociale, tanto complicata era la figura del vero Francesco, quello reale (cfr. rimando a questo articolo QUI). Questo a riprova del fatto che non vogliamo i Santi, che sono figure quasi sempre complesse, non facili da leggere, spesso provocanti e persino irritanti; vogliamo i santini da candela a uso del fitto esercito dei fedeli beoti, quelli tutti cuoricini che noi preti ci siamo sempre guardati dall’educare come si converrebbe in virtù della missione a noi affidata da Cristo. Se infatti avessimo educato e formato i fedeli, questi avrebbero finito col vedere anzitutto i nostri difetti, le nostre gravi contraddizioni, comprendendo che noi preti siamo la versione aggiornata e peggiorata degli antichi farisei dinanzi ai quali Cristo esortava i devoti credenti a fare quel che insegnavano, non quel che facevano nel loro vissuto quotidiano (cfr. Mt 23, 1-10), rimproverandoli di caricare sulla spalle delle persone dei pesi insopportabili che non avrebbero mai toccato neppure con un dito (cfr. Lc 11,46).

La macchina della Chiesa non funziona più da decenni, il motore è usurato. Le vipere rimarranno al loro posto, già si sono riciclate saltando nel giro di pochi giorni sul carro del nuovo vincitore. Toccare o rimuovere in tempi brevi eserciti di prelati che hanno mutato la curia romana in una associazione clericale a delinquere di stampo mafioso, sarebbe imprudente e pericoloso. Qualsiasi cambiamento richiede attenta riflessione, prudenza e tempo, soprattutto oggi che il Santo Padre non può fare affidamento su elementi di valore coi quali lavorare. Il suo Predecessore ha piazzato in tutti i posti chiave della curia romana ruffiani e delatori, nell’ipotesi migliore soggetti mediocri, gravati quasi sempre da problematicità morali, tanto da essere per questo ricattabili e controllabili in un sistema ormai perverso e pervertitore, quindi gestibili e all’occorrenza utilizzabili per fare del male al prossimo e diffondere le metastasi del male in tutto il corpo ecclesiale.

Il livello della formazione dei sacerdoti si è abbassato negli ultimi anni a livelli orribili, nei seminari abbiamo cresciuto generazioni di preti svezzati col latte in polvere delle emotività dei cuoricini, nutrendoli poi con gli omogenizzati dei sociologismi. Infimi, i livelli dottrinali, teologici e pastorali. Orami è pressoché prassi udire preti che durante le omelie riescono a mettere in croce tre micidiali eresie nell’arco dei primi minuti, senza neppure rendersene conto.

Cerco di esercitare la virtù teologale della speranza (I Cor 13.13), guardandomi però dal confonderla con l’illusione. Alle soglie dei 62 anni d’età sono un vecchio prete disilluso, sempre più ritirato e distante da tutti i giri e i circoli ecclesiali ed ecclesiastici che nel corso degli anni mi hanno recato il peggior male con diabolica malizia. Più volte ho dovuto difendermi da false accuse legate a fatti mai avvenuti, a gesta mai compiute, a cose mai dette e neppure mai pensate. Seguiterò a difendermi finché ne avrò voglia e forza, soprattutto finché ne varrà la pena, perché a volte non merita neppure difendersi dal falso.

Sono disilluso totalmente, pur seguitando a sperare, perché ho fede. È infatti con la fede e la speranza che si può esercitare la virtù della carità. Non so se sono realista in modo oggettivo o se i miei dolori e le tante umiliazioni patite nel corso dell’intera vita sacerdotale rendono viziata la mia analisi su ciò che pure è reale e incontrovertibile, questo lo dirà il tempo. La disillusione è la malattia più grave che si incontra nella stagione della vecchiaia, è un morbo così grave da essere definito cronico come disturbo, quindi incurabile. Dobbiamo accettare serenamente il tutto prendendo dalla vecchiaia, tra i vari elementi belli che ci può dare, l’accettazione di quei nostri limiti personali che talvolta la vita ci mette dinanzi assieme ai nostri fallimenti. 

Verrebbe da invidiare i cuoricini emotivi palpitanti con la loro “fede” fatta di stelline, di efebici Cristi androgini photoshoppati e di madonnine languide che vagano logorroiche per il mondo a distribuire messaggi e segreti tremebondi ai vari sedicenti veggenti. Invece, io che ho vissuto 38 anni nel mondo secolare prima di iniziare la formazione al sacerdozio e diventare prete a 46 anni, pur avendo viaggiato e incontrato uomini e donne delle più diverse culture e società, non ho memoria d’aver conosciuto in alcun dove dei soggetti cattivi, crudeli e malvagi come quelli che ho conosciuto nella Chiesa all’interno del clero cattolico. Mai, nella mia vita secolare, ho conosciuto esseri umani che fossero cattivi, vigliacchi, bugiardi e traditori come certi preti, che non sono affatto pochi, come qualche scandalizzata anima pia si affretterebbe a ribattere accusandomi di indugiare in tremende generalizzazioni. E più si sale nella scala gerarchica più la cattiveria, la vigliaccheria, la menzogna e il tradimento aumentano di livello quando si giunge a vescovi e cardinali.

Leone XIV non è Mago Merlino, in mano tiene all’occorrenza la ferula, o bastone pastorale, non la bacchetta magica. Cercherà di fare e, sicuramente, farà, ma non potrà fare più di tanto in questa Chiesa non più ridotta neppure a puttana, per usare l’espressione del Santo vescovo e dottore della Chiesa Ambrogio che la definì «casta meretrix», ossia «santa e puttana». Oggi la Chiesa è ridotta a un circolo grottesco di checche acide, cattive e incattivite alla massima potenza, drogate di potere e piazzate in tutte le stanze di comando, a partire dalla curia romana ubicata nella nazione con la più alta percentuale di gay di tutto il mondo: lo Stato della Città del Vaticano.

Dinanzi al mistero di Cristo e della sofferenza umana bisogna interrogarsi a fondo in che cosa consisterebbe la vita eterna, se non nel recupero di tutto ciò che abbiamo dimenticato, considerato inutile o perduto nella nostra vita terrena secondo il principio della ricapitolazione:

«[…] il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1, 1-10).

In poche pagine ho scritto il manifesto del mio fallimento consumato come uomo e come prete, sentendomi in ciò associato a quello di Cristo non accolto (cfr. Gv 1,11) tradito (cfr. Lc 22,48) e abbandonato (cfr. Mt 26,56). E tale sarebbe rimasto il Cristo: un clamoroso fallito, se non fosse intervenuta la sua risurrezione, alla quale tutti noi falliti cristologici siamo stati resi partecipi. È infatti la risurrezione del Cristo e la nostra risurrezione in Cristo a cambiare la prospettiva del fallimento e mutarlo in una tappa di passaggio, in un grande momento di grazia, in una porta di accesso alla vita eterna.

Dio benedica il Romano Pontefice, visto che in questa condizione di disastro potrebbe fare poco o niente. Però, dinanzi a una situazione disperata come la nostra, averci provato anche senza riuscirci, costituirà già merito di grazia e salvezza, attraverso la gloria del cristologico fallimento, perché la lenta e dolorosa rinascita della Chiesa si giocherà tutta sulla ricerca dell’unità (cfr. QUI). Dunque: buon fallimento, Beatissimo Padre Leone XIV.

Dall’Isola di Patmos, 18 maggio 2025

.

______________________________________

THE BEGINNING OF THE PETRINE MINISTRY OF LEO XIV AND THE DISENCHANTMENT OF AN OLD PRIEST WHO HOPES BUT IS NOT DELUDED

God bless the Roman Pontiff, since in this condition of disaster he could do little or nothing. However, in the face of a desperate situation like ours, having tried even without succeeding will already constitute a merit of grace and salvation, through the glory of Christological failure, because the slow and painful rebirth of the Church will be played out entirely on the search for unity. Therefore: happy failure, Most Blessed Father Leo XIV.

— Attualità ecclesiale —

.

Before a Roman Pontiff who presents himself with dignity, before a decorous pontifical liturgy like we haven’t seen in a decade, before a crowded St. Peter’s Square, after years of triumphs of increasingly empty squares and churches, amid the jubilation of the secularists of the international left who praised the “revolutionary pope,” hearing a Roman Pontiff who speaks carefully measuring his words through speeches elaborated on doctrinal and theological content, at the very least, should induce me to rejoice with enthusiasm. Yes, I can also rejoice, but I cannot rejoice, nor be enthusiastic.

The Holy Father Leo XIV inherits the cancerous situation of a Church that is stagnant in a condition of irreversible decadence that has long since passed the threshold of no return, I have been saying and writing for 15 years (see HERE and HERE). Of course, more than a little, my words count for nothing. Imagine, we have lost the habit of listening to the word of God, after having done what we wanted with it, between manipulations and surreal exegeses of convenience, what could the thought of a Mr. Nothing and a Mr. Nobody like me count for? All the more reason I feel like saying: if the Holy Father manages to do just a little, it will not be much, but a lot.

One man alone cannot change things, not even Francis of Assisi succeeded, which is also why he hid at the end of his life at La Verna. And shortly after, Bonaventura da Bagnoregio, having eliminated the previous chronicles and biographies written by Tommaso da Celano, proceeded to invent a golden legend for ecclesiastical, political and social use, so complicated was the figure of the true Francis, the real one. This proves the fact that we do not want Saints, who are almost always complex figures, not easy to read, often provocative and even irritating; we want candle holy cards for the dense army of the faithful childish, that we priests have always been careful not to educate as would be appropriate by virtue of the mission entrusted to us by Christ. If in fact we had educated and trained the faithful, they would have ended up seeing first of all our defects, our serious contradictions, understanding that we priests are the updated and worsened version of the ancient Pharisees before whom Christ exhorted devout believers to do what they taught, not what they did in their daily lives (see Mt 23:1-10), reproaching them for placing unbearable burdens on people’s shoulders that they would never have touched even with a finger (see Lk 11:46).

The Church machine has not worked for decades, the engine is worn out. The vipers will remain in place, they have already recycled themselves by jumping on the bandwagon of the new winner in a matter of days. Touching or removing in a short time armies of prelates who have transformed the Roman Curia into a mafia-style clerical criminal association would be imprudent and dangerous. Any change requires careful reflection, prudence and time, especially today when the Holy Father cannot rely on valuable elements with which to work. His Predecessor has placed in all the key positions of the Roman Curia sycophants and informers, in the best case mediocre subjects, almost always burdened by moral problems, so much so that they are therefore blackmailable and controllable in a system that is now perverse and perverting, therefore manageable and, if necessary, usable to harm others and spread the metastases of evil throughout the ecclesial body.

The level of priestly training has dropped to horrible levels in recent years, in seminaries we have raised generations of priests weaned on the powdered milk of the emotions of little hearts, then nourished with the homogenized baby food of sociologisms. The doctrinal, theological and pastoral levels are very low. It is now almost common practice to hear priests who during homilies manage to enunciate three heresies in the space of the first few minutes, without even realizing it.

I try to exercise the theological virtue of hope (I Cor 13.13), but I am careful not to confuse it with illusion. On the threshold of 62 years of age I am an old disillusioned priest, increasingly withdrawn and distant from all the ecclesiastical and ecclesiastical circles and circles that over the years have brought me the worst harm with diabolical malice. I have had to defend myself several times from false accusations related to facts that never happened, to deeds never done, to things never said or even thought. I will continue to defend myself as long as I have the will and strength, especially as long as it is worth it, because sometimes it is not even worth defending oneself from falsehood.

I am totally disillusioned, even though I continue to hope, because I have faith. It is in fact with faith and hope that one can exercise the virtue of charity. I do not know if I am objectively realistic or if my pains and the many humiliations suffered throughout my entire priestly life make my analysis of what is real and incontrovertible flawed, time will tell. Disillusionment is the most serious illness encountered in old age, it is such a serious disease that it is defined as chronic disorder, therefore incurable. We must serenely accept everything, taking from old age, among the various beautiful elements that it can give us, the acceptance of our personal limits that life sometimes puts before us together with our failures.

One would envy the emotional hearts and  their “faith” made of little stars, of ephebic androgynous photoshopped Christs and of languid Madonnas who wander chattering around the world distributing messages and secrets to the various self-styled seers. Instead, I who lived 38 years in the secular world before beginning my training for the priesthood and becoming a priest at 46, despite having traveled and met men and women from the most diverse cultures and societies, I have no memory of having met anywhere such bad, cruel and wicked individuals as those I have met in the Church within the Catholic clergy. Never, in my secular life, have I met human beings who were bad, cowardly, liars and traitors like certain priests, who are not at all few, as some scandalized pious soul would hasten to retort accusing me of indulging in terrible generalizations. And the higher you go up the hierarchical ladder, the more wickedness, cowardice, lies and betrayal increase when you reach bishops and cardinals.

Leo XIV is not Merlin Magician, in his hand he holds the “ferula”, or pastoral staff, not the magic wand. He will try to do and, certainly, he will do, but he will not be able to do much in this Church no longer even reduced to a whore, to use the expression of the Holy Bishop and Doctor of the Church Ambrose who defined it as “casta meretrix”, or “holy and whore”. Today the Church is reduced to a gay circle grotesque; an army of evil and vengeful gays to the maximum power, drugged with power and placed in all the rooms of command, starting from the Roman Curia located in the nation with the highest percentage of gays in the world: the Vatican City State.

Faced with the mystery of Christ and human suffering, we must ask ourselves what eternal life would consist of, if not in the recovery of everything we have forgotten, considered useless or lost in our earthly life according to the principle of recapitulation:

«to be put into effect when the times reach their fulfillment to bring unity to all things in heaven and on earth under Christ» (Eph 1, 1-10).

In a few words I have written the manifesto of my failure as a man and as a priest, feeling associated in this with that of Christ who was not welcomed (see Jh 1:11), betrayed (see Lk 22:48) and abandoned (see Mt 26:56). And Christ would have remained such: a resounding failure, if his resurrection had not intervened, in which all of us Christological failures, have been made participants. It is in fact the resurrection of Christ and our resurrection in Christ that changes the perspective of failure and transforms it into a stage of transition, into a great moment of grace, into a door of access to eternal life.

God bless the Roman Pontiff, since in this condition of disaster he could do little or nothing. However, in the face of a desperate situation like ours, having tried even without succeeding will already constitute a merit of grace and salvation, through the glory of Christological failure, because the slow and painful rebirth of the Church will be played out entirely on the search for unity. Therefore: happy failure, Most Blessed Father Leo XIV.

From the Isle of Patmos, May 18, 2025

.

______________________

Cari Lettori, questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro Conto corrente bancario intestato a:

Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano

Codice IBAN: IT74R0503403259000000301118

Per i bonifici internazionali:

Codice SWIFT: BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione,

la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento: isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

.

.

.

.

.

 

Più che «Buonasera» e «Buon pranzo» avevamo bisogno di un leone che ci ricordasse di «Accettare Cristo senza condizioni»

PIÙ CHE «BUONASERA» E «BUON PRANZO» AVEVAMO BISOGNO DI UN LEONE CHE CI RICORDASSE DI «ACCETTARE CRISTO SENZA CONDIZIONI»

Papa Leone nella sua prima omelia ci ha già ricordato che dobbiamo accettare Cristo senza condizioni, sebbene questa verità venga ritenuta dal mondo e dai potenti una cosa assurda, essa resta l’unica maniera per camminare da cristiani e per corrispondere al ministero petrino che da Pietro giunge fino a noi oggi.

— Attualità pastorale —

.

Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

.

Il Sacro Collegio Cardinalizio ha dato da pochi giorni alla Chiesa un nuovo Pontefice: Leone XIV. Da cattolici e consacrati, vogliamo e speriamo che questa gravosa scelta sia stata — se non proprio guidata — almeno ispirata dallo Spirito Santo in quella maniera misteriosa con cui Dio è capace di orientare il mondo e gli eventi, anche quelli che palesemente sembrano negare la sua azione e presenza.

In un mio recente articolo (cfr. QUI) ho già avuto modo di spiegare il ruolo dello Spirito Santo dentro il grande rito del Conclave, certamente l’azione dello Spirito di Dio resta il più delle volte misteriosa all’uomo e quindi è difficile voler avere la pretesa di un controllo e scandagliare tutte le sottigliezze che lo Spirito Santo intesse nella vita di noi uomini, compresa quella permissione all’errore e finanche al peccato che per l’uomo diventa l’occasione per riscoprire la grazia divina.

Come non ricordare, a questo proposito, proprio l’apostolo Pietro nel momento del suo rinnegamento, un momento di grande tragicità e infedeltà, a fronte di tutte quelle esperienze di fede che Pietro ha avuto modo di vedere stando con Gesù nei tre anni di vita pubblica. In che modo Pietro sa ripagare il Maestro dopo aver spergiurato amore e fedeltà? Con quelle parole pesanti come il piombo: «Non lo conosco». E se Pietro tenta di disconoscere Cristo, Cristo però conosce bene Pietro e il suo cuore e per questo per lui prega e lo invita preventivamente sulla strada del ritorno:

«Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).

Di questi due versetti del Vangelo di Luca l’invito alla conversione e al ritorno dell’apostolo è fondamentale. Gesù sembra quasi dire a Pietro che il suo compito di guida nella fede e di capo del collegio apostolico e della Chiesa non può prescindere dalla capacità di una continua conversione e di un ritorno in sé stesso in cui c’è lo stesso Cristo ad attenderlo. Come non vedere in ciò quello sguardo penetrante di Cristo a Pietro dopo il suo rinnegamento. Quello sguardo pieno di misericordia che penetra nell’anima, «in interiore homine», dove Pietro riconosce finalmente la verità nella Verità. E la verità è che Pietro è tale solo quando sa essere «Kephas» che nel suo significato originale che i nostri fratelli cristiani orientali sanno dare — più di quello che noi occidentali siamo soliti interpretare — significa pietra instabile e traballante. Tu Pietro sei pietra instabile finché non trovi la stabilità in Cristo che è pietra d’angolo, finché non ti fidi del suo comando a gettare le reti quando è giorno pieno e a quello di pascere le sue pecorelle, finché non ti ricordi che Cristo ti chiede di amarlo e tu puoi solo offrirgli il tuo povero bene.

Avendo davanti agli occhi della fede la persona del Beato apostolo Pietro, possiamo lecitamente domandarci che Papa sarà Leone XIV? Personalmente non desidero altro che egli sia un annunciare di Cristo risorto e che riproponga ogni giorno al mondo la fede pasquale. Questa è la cosa più urgente oggi nella Chiesa e nel mondo. I problemi ci sono, le riforme sono necessarie, la pace è un grido da invocare sempre, il dialogo, l’accoglienza e le relazioni politiche e internazionali sono buone cose ma senza la solidità di Cristo pietra d’angolo nulla di tutto questo salva e restituisce all’uomo la speranza. In questa danza della libertà umana, dovrà scomparire l’uomo Robert Francis Prevost, per lasciare finalmente il posto al Pontefice Leone XIV, il quale con fatica e sofferenza dovrà rendersi trasparente affinché in lui Cristo si manifesti.

Da fedeli cristiani siamo chiamati ad abbandonare da subito le colorate tifoserie papolatriche del “mi piace”, “non mi piace” che equiparano il Santo Padre a un leader politico o a un influencer con le proprie ideologie e i propri entourage di potere. Tutte queste cose non possono reggere alla prova della fede dell’apostolo Pietro che confessa:

«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).

Papa Leone nella sua prima omelia (cfr. nostro articolo QUI) ci ha già ricordato che dobbiamo accettare Cristo senza condizioni, sebbene questa verità venga ritenuta dal mondo e dai potenti una cosa assurda, essa resta l’unica maniera per camminare da cristiani e per corrispondere al ministero petrino che da Pietro giunge fino a noi oggi.

Altra cosa da evitare e da non sperare è quella di rendere Papa Leone XIV un emulo dei pontificati precedenti, lui non è un Francesco, un Benedetto, un Giovanni Paolo II: lui è Leone. Vivere di nostalgia, con la testa rivolta al passato, fino a farsi venire il torcicollo non appartiene ai cristiani. La nostalgia è il terreno fertile in cui nascono le divisive fazioni dei tradizionalisti, dei progressisti, dei sedevacantisti e di altri patologici modi di essere e di sentire che si contrappongono e soffocano la vera fede pasquale.

Assistere in questi giorni ai vari tentativi di tirare per la mozzetta il Papa per portarlo dalla propria parte — ecclesiale e politica — è uno spettacolo disdicevole e puerile. Il tempo saprà darci il polso di questo nuovo pontificato in cui lo Spirito Santo — così come quella simpatica famigliola di gabbiani che hanno fatto il nido vicino al comignolo della Sistina — starà a vigilare affinché la barca della Chiesa non venga definitivamente affondata dai marosi.

Sanluri, 12 maggio 2025

 

.

I libri di Ivano Liguori, per accedere al negozio librario cliccare sulla copertina

.

.

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

 

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

 

.





La partita fondamentale del futuro e del nuovo papato si gioca sull’unità della Chiesa

LA PARTITA FONDAMENTALE DEL FUTURO E DEL NUOVO PAPATO SI GIOCA SULL’UNITÀ DELLA CHIESA

Significativamente la storica Lucetta Scaraffia rileva l’impossibilità, dopo 12 anni di pontificato, di cogliere un’eredità di Papa Francesco, che non sia quella della mera confusione. 

— Gli Autori ospiti de L’Isola di Patmos —

Autore
Antonio Caragliu
avvocato

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

.

L’info-intrattenimento dei mass-media, dopo i pronostici del toto-nomine papale, si concentra ora nel determinare i caratteri della personalità vincente: Leone XIV.

il Sommo Pontefice Leone XIV in visita pastorale nella regione delle Ande peruviane all’epoca in cui era Vescovo di Chiclayo

Continuerà le riforme del predecessore? Confermerà le sue aperture? Come porterà a termine il percorso sinodale? É moderato? È progressista? È un po’ l’uno e un po’ l’altro? È misericordioso con i migranti? Andrà d’accordo con Donald Trump? A simili interrogativi seguono per lo più affermazioni che suonano come slogan, funzionali a segnare un’appartenenza di schieramento più che una visione sostanziale, spiritualmente significativa.

In particolare, si perde di vista, a mio avviso, la partita fondamentale che si presenta al Papa: l’unità della Chiesa. La questione esatta è: quale unità? Ovvero, come deve essere concepita questa unità? Come deve essere interpretata? Come deve essere declinata?

Il Cardinale Giovanni Battista Re, nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice del 7 maggio, aveva dichiarato:

«L’unità della Chiesa è voluta da Cristo; un’unità che non significa uniformità, ma salda e profonda comunione nelle diversità, purché si rimanga nella piena fedeltà al Vangelo».

Comunione nelle diversità: ma quando le diversità minacciano la comunione? E quando, invece, è un’indebita uniformità a minacciare la ricchezza delle legittime diversità? Re fa riferimento alla «piena fedeltà al Vangelo»: è questo il criterio dirimente. Ma, in verità, la questione, più che risolversi, sembra spostarsi: come determinare, infatti, la «piena fedeltà al Vangelo»?

Si tratta dello stesso tema che aveva affrontato il Cardinale Ratzinger nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice del 18 aprile 2005. In questa omelia, che segnerà il programma del pontificato di Benedetto XVI, Ratzinger aveva determinato con precisione il criterio dell’unità: la verità, la cui dimensione ultima è lo stesso Figlio di Dio, misura del vero umanesimo. E con coraggio aveva calato il significato di un simile criterio nel contesto ideologico del relativismo dominante. Senza elusioni e infingimenti. Con onestà intellettuale.

Con il pontificato di Francesco, invece, si è imposto un differente paradigma di unità ecclesiale: un paradigma gesuitico.

Ho trovato una significativa illustrazione di questo paradigma in una conversazione del giornalista Ross Douthat con il padre gesuita James Martin S.J. circa l’eredità del papato appena concluso (vedere video-intervista del 26.04.2025 QUI). Douthat evidenzia come il carattere drammatico del pontificato di Francesco sia stato determinato dalla spinta a cambiare l’insegnamento e la pratica della Chiesa su una serie di questioni difficili e controverse, come la possibilità per i cattolici divorziati e risposati di accedere alla comunione eucaristica, la possibilità per le donne di diventare diaconi o addirittura sacerdoti, la possibilità di benedire coppie dello stesso sesso. Fino a che punto Francesco si è spinto su tali questioni? Martin, in prima battuta, afferma che questo genere di temi «scottanti» avevano per il Papa un carattere secondario rispetto alla proclamazione del Vangelo. In seconda battuta, afferma che Francesco «è andato fin dove ha potuto». A tal proposito racconta come il Papa, in un suo incontro personale del 23 ottobre 2024 come delegato del sinodo, fosse preoccupato della «unità della Chiesa» a causa delle «resistenze» provenienti dall’Africa subsahariana, dall’Europa orientale e persino dagli Stati Uniti. «E ha ripetuto più volte che l’unità è più importante di questi conflitti. Quindi penso che abbia cercato di aprire la porta alla discussione su alcuni di questi problemi senza rompere la chiesa».

A ben vedere ciò che caratterizza il resoconto di Martin circa le preoccupazioni di Francesco è il particolare rapporto tra unità ecclesiale e verità. Apparentemente nel suo discorso sembra non operare un concetto vincolante di verità. Ma in realtà una verità viene fatta valere. Una verità che sembra non vincolare, ma che conferisce una direzione. Una verità implicita, data per presupposta, che prende posizione per un’indefinita apertura circa le questioni controverse proposte. Una verità criticamente non tematizzata, teologicamente emancipata, priva cioè di un serio confronto con il dato biblico, ridotto tutt’al più a un generico riferimento alla misericordia. È una verità non vincolante? Non proprio. È una verità criticamente disimpegnata ma politicamente vincolante, che, non a caso, affronta le posizioni diverse (e logicamente incompatibili) come «resistenze».

In una dimensione simile non vi è spazio per un dialogo autentico, ma semmai per una mediazione, per un accomodamento. Come se in gioco ci fossero delle forze e degli interessi. L’unità ecclesiale, quindi, non si fonda sulla verità. Non si fonda, per riprendere le parole di Ratzinger, sul «Figlio di Dio, misura del vero umanesimo». L’unità è una composizione di forze, in ultimo, fondata sul potere supremo del Papa, il cui ruolo vicariale si stempera, per far risaltare invece la sua personalità.

Alla luce di questo paradigma gesuitico dell’unità ecclesiale si spiega il carattere autoritario e contraddittorio del papato gesuita, rilevato sovente dagli osservatori più sensibili. Nella prospettiva di una simile concezione dell’unità ecclesiale, infatti, le contraddizioni non fanno problema: possono convivere. Anche se le contraddizioni provengono dallo stesso Papa: non è la verità a fare l’unità, ma il suo potere supremo. Il prezzo di questa impostazione è stato, tuttavia, molto salato. Significativamente la storica Lucetta Scaraffia rileva l’impossibilità, dopo 12 anni di pontificato, di cogliere un’eredità di Papa Francesco, che non sia quella della mera confusione. O, tutt’al più, della promozione di alcune politiche, molto, troppo dettagliate, in tema di immigrazione di massa e di economia politica che, invece, avrebbero richiesto il riconoscimento di un sano pluralismo di posizioni.

In definitiva, il nuovo corso del papato di Leone XIV sarà determinato dal modo in cui egli interpreterà, alla luce della lezione di questi ultimi 12 anni, l’unità ecclesiale e il suo rapporto con la verità. Il suo motto episcopale «In Illo uno unum» e la sua formazione agostiniana fanno ben sperare. Che Dio ce l’abbia mandata buona.

Trieste, 12 maggio 2025

 

 

 

.

Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.      

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

La prima omelia di Leone XIV è stata una armonica continuità con la tradizione della Chiesa

LA PRIMA OMELIA DI LEONE XIV È STATA UNA ARMONICA CONTINUITÀ CON LA TRADIZIONE DELLA CHIESA

Urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco. Questo è il mondo che ci è affidato […]

– Attualità ecclesiale –

Autore Teodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

Potrebbe apparire presuntuoso mettersi a commentare l’omelia del Sommo Pontefice Leone XIV, pronunciata nella sua prima vera apparizione pubblica, la Santa Messa Pro Ecclesia celebrata con i Cardinali che hanno partecipato al conclave della sua elezione.

il Sommo Pontefice Leone XIV al suo primo affaccio alla loggia centrale della Papale Arcibasilica di San Pietro

Oppure potrebbe essere semplicemente bello valorizzare questo primo atto del nuovo Vescovo di Roma, immaginando, senza scostarci troppo dal vero, che queste parole che egli ha pronunciato a commento del Vangelo siano effettivamente sortite dal suo cuore, siano proprio sue, meditate nel breve spazio di tempo concessogli fra l’impatto dell’elezione, l’emozione della presentazione al pubblico ed al mondo e questo primo impegno pubblico. Esse, come vedremo, sembrano proprio un programma per la Chiesa che ha iniziato a presiedere, la cifra entro la quale vorrà muoversi e anche in che maniera sente di esservi coinvolto.

Rimandando a una lettura personale della bella omelia papale (QUI), voglio solo sottolinearne tre aspetti.

Il primo e più importante è il richiamo al Cristo. Potrebbe sembrare ridondante sottolinearlo: di chi dovrebbe parlare un Pontefice se non di Gesù? Ma il fatto che subito ne abbia accennato, al primo apparire dalla loggia centrale della basilica di San Pietro e ora qui nella sua prima omelia, è significativo. Egli ha affermato che le parole di Pietro ricordate nel Vangelo «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16)  esprimono «in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette. Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre». Leone XIV si pone, così, in continuità con la tradizione della Chiesa, così come hanno fatto i suoi recenti predecessori. Giovanni Paolo II col suo: «Aprite, anzi spalancate le porta e a Cristo»; proferite proprio nella sua prima omelia. Papa Benedetto che ha scandagliato il mistero del Signore con la sua intelligenza e ha insegnato alla Chiesa a riconoscerlo e Papa Francesco che ci ha aiutato a scorgere il suo volto in tutti, soprattutto i più poveri. E di Cristo Papa Leone traccia l’identikit:

«per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità».

Il secondo aspetto che mi preme sottolineare dell’omelia papale è proprio il richiamo alla santità. Egli la vede come un dono, ma anche come cammino di trasformazione personale e comunitaria. Santità che supera meriti e limiti perché anticipa la nostra nascita (cfr. Ger 1,5) e grazie alla rinascita battesimale ci conduce e ci rende partecipi della missione del Cristo. Un compito che coinvolge il Papa in prima persona e poi tutta la Chiesa: «città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni…, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).

Infine, un terzo motivo mi piace appuntare dell’omelia del Santo Padre: il confronto con il mondo, compreso quello ecclesiale dei credenti. Dice il Papa:

«Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni».

Come avvenne ai tempi del Signore le risposte alla sua domanda, «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», apparivano incomplete e monche, così anche oggi il mondo spesso fraintende il messaggio cristiano per eccesso di sufficienza o tracotanza.  Eppure, afferma il Papa:

«proprio per questo… urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco. Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

Come abbiamo letto egli richiama il tema della missione, cosa che aveva fatto anche la sera prima, affacciandosi dalla loggia principale della basilica vaticana (QUI).

Ma la missione si rivolge anche verso i credenti, poiché possono correre il rischio di adattare il Vangelo e l’immagine di Cristo alle proprie personali visioni. Queste le parole del Pontefice: «Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».

Nelle ultime battute dell’omelia il Santo Padre ricorda l’importanza del rapporto personale col Cristo, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione e richiama tutta la Chiesa a vivere l’appartenenza al Signore portandone a tutti la Buona Notizia.

Da ultimo il Santo Padre parla di sé. Lo fa citando la Lettera ai Romani del Padre apostolico Ignazio di Antiochia, per definire il suo compito e ruolo di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamato a presiedere nella carità la chiesa universale. E sempre riportando le parole di Sant’Ignazio:

«Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1).

Conclude il suo intervento omiletico così:  

«Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo — e così avvenne —, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa».

L’omelia termina così come era iniziata, col rimando a Cristo. Vale la pena ricordare le citazioni usate da Papa Leone in questo suo intervento liturgico. La Lettera di Sant’Ignazio di Antiochia ai Romani, sopra rammentata, nove rimandi a brani del Nuovo Testamento e a uno solo del Vecchio. Ci sono poi due citazioni del Concilio, tratte dai due documenti che parlano della Chiesa: la Lumen Gentium e la Gaudium et Spes.

Un intervento, si diceva all’inizio, che parrebbe programmatico, lasciando dunque sperare in un proseguo che potrebbe essere proficuo per la Chiesa. Credo che il Papa non si aspetti solo l’attesa, ma anche il sostengo della preghiera e la fattiva collaborazione dei credenti.

Velletri di Roma, 11 maggio 2025

.

.

Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.      

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma –Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

La Francia s’è desta e anziché verso l’idolo della laicité corre verso il fonte battesimale

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA FRANCIA S’È DESTA E ANZICHÈ VERSO L’IDOLO DELLA LAICITÉ CORRE AL FONTE BATTESIMALE

Nelle lettere inviate ai vescovi dai giovani francesi battezzati questa Pasqua in età adulta, essi parlano prima di tutto di un cammino personale, spesso iniziato nell’infanzia. «Cristiani non si nasce, si diventa» scriveva Tertulliano, al quale fa eco Sant’Agostino: «non è la generazione che fa cristiani, ma la rigenerazione».

.

PDF  articolo formato stampa

 

.

Ha suscitato stupore e gioia la notizia che durante le recenti Veglie Pasquali nelle chiese di Francia oltre 17000 persone hanno ricevuto il Battesimo.

Al di là del dato o di altre considerazioni che però esulano questo scritto, riporto soltanto un’informazione che emerge dai giovani di quel gruppo di battezzati: nelle lettere da loro inviate ai vescovi, essi parlano prima di tutto di un cammino personale, spesso iniziato nell’infanzia. «Cristiani non si nasce, si diventa» scriveva Tertulliano, al quale fa eco Sant’Agostino: «non è la generazione che fa cristiani, ma la rigenerazione»; infatti già nei tempi antichi il processo di catecumenato era lungo e in alcuni casi poteva durare diversi anni. Così, sempre fin dall’antichità, il periodo pasquale, scandito dalle sue domeniche, era divenuto il tempo della mistagogia, utile cioè a introdurre i neo battezzati nei misteri più profondi della vita cristiana. Per questo a loro, come agli altri cristiani, veniva offerto un cibo più solido, come quello contenuto nel testo evangelico di oggi, porzione del famoso capitolo 10 di San Giovanni, che presenta Gesù Buon Pastore. Come è stato scritto: «Nessuna immagine di Cristo nel corso dei secoli è mai stata più cara al cuore dei cristiani di quella di Gesù buon Pastore» (A.J. Simonis). Leggiamo il brano di questa Domenica:

«In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 27-30).

Per comprendere un po’ questi appena quattro versetti dobbiamo inquadrarli nell’insieme più ampio della sezione che va dal capitolo 7 al capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, nella quale si trovano. Gesù gravita attorno al Tempio per l’occasione della festa dei Tabernacoli (Gv 7,14). Abbiamo quindi un’unità di spazio, il Tempio di Gerusalemme, e di tempo, la festa che durava otto giorni, in particolare la metà della festa e soprattutto l’ultimo giorno della stessa che comprende la sezione più lunga dei capitoli giovannei (Gv 7,37-10,21) con all’interno la promessa dell’acqua viva dello Spirito, la rivelazione di Gesù luce del mondo, la guarigione del cieco nato e il discorso, appunto, sul Buon Pastore. Infine l’ultima parte del capitolo 10, che interessa i nostri versetti, si colloca sempre nel Tempio della città santa, ma per un’altra festa, quella della Dedicazione, tre mesi dopo gli eventi sopra elencati. Gesù si sta rivelando al mondo, ma in perenne contrasto con esso, in particolare coi giudei. E poiché a partire dall’esilio quelle feste avevano assunto una connotazione messianica ed escatologica il discorso sul Buon Pastore serve a Gesù per far capire il senso della sua opera messianica.

Dapprima Gesù definisce se stesso come «la porta delle pecore», una metonimia utilizzata per comunicare che Egli è effettivamente il nuovo recinto per le pecore ed il nuovo tempio. A differenza di quelli che lo hanno preceduto, in particolare di coloro che incarnano un falso messianismo, sia religioso che politico, quello di Gesù va nella direzione dell’amore verso le pecore. Con Gesù non sono asservite a nessuno, per questo le pecore «non li hanno ascoltati» quelli venuti prima (v. 8); possono uscire e soprattutto entrare attraverso di Lui, per avere vita, una vita che Egli come Figlio condivide in una perfetta e profonda comunione con il Padre. A questo punto Gesù dice di se stesso, marcando ancora di più il discorso: «Io sono il Buon Pastore» (v. 11).

Il tema del pastore, riservato al nuovo Davide, arriva dall’Antico Testamento dove diviene un elemento della speranza escatologica.  Ezechiele infatti fa dire al Signore: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore» (Ez 34,23). E l’aggettivo «Buono, Kalos», non ha qui una connotazione morale, quasi una qualità soggettiva di Gesù, perché ovunque nel quarto Vangelo si riferisce alle opere di Gesù (v. 32.33 e Gv 2,10: il vino buono delle nozze di Cana) e cioè lo caratterizza per ciò che porta agli uomini. Gesù è il Buon pastore perché «depone» (v.17-18) la sua vita per le pecore e instaura con esse rapporti nuovi di conoscenza reciproca: l’aggettivo mira dunque a mettere in luce l’opera salvifica compiuta dal Pastore messianico.

Senza esagerazione si può affermare che tutto il capitolo sul Buon Pastore e quindi anche i versetti del Vangelo di questa Domenica costituiscono una vera e propria sintesi della teologia giovannea. Quel che colpisce è che questa teologia non è esposta solo in un discorso astratto o teoretico, ma prende avvio da una situazione storica e concreta della vita di Gesù. La situazione storica è quella della rivelazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme durante la celebrazione di una festa solenne che si conclude con la guarigione del cieco nato che porterà ad una discriminazione degli uomini di fronte a Gesù. Da una parte i credenti, rappresentati dal cieco, guarito da Gesù; dall’altra i giudei che hanno respinto la luce del mondo. Il discorso sul Buon Pastore è un parlare simbolico attraverso il quale Gesù lascia intendere che sta conducendo fuori dal recinto del giudaismo le sue pecore, alcune appartenenti a quell’ovile ed altre verranno in seguito, i cosiddetti gentili, al fine di costituire un nuovo gregge, la comunità messianica.

Lui, Gesù, sarà la porta delle pecore, quella che da accesso alla salvezza e sarà il Buon Pastore che comunica la vita in abbondanza.  La docilità delle pecore nei confronti del Pastore è espressa dalle parole «ascoltano la mia voce». Questa formula riceve qui un senso più profondo rispetto a quello di una semplice attenzione come poteva essere al v. 3 dell’inizio, poiché esprime la futura docilità delle pecore, ormai uscite dal recinto, verso il pastore Gesù che le condurrà. Nel corso della Passione Gesù dirà che per ascoltare la voce si deve «essere dalla verità» (Gv 18,37) e la ragione di ciò è ovvia: la docilità delle pecore verso il Pastore è infatti un frutto della fede, è essenzialmente ormai una realtà della Chiesa dei tempi messianici.

Queste pecore sono «sue», hanno dunque una relazione speciale con Lui, intessuta di libertà, ed Egli le conosce e questa reciproca conoscenza è a immagine di quella esistente fra Gesù ed il Padre (vv.14-15). Non si tratta di una conoscenza in senso greco, ti tipo intellettuale, ma biblico, ovvero relazionale ed esistenziale. Conoscere nella Bibbia vuol dire avere dell’oggetto un’esperienza concreta e conoscere qualcuno significa entrare il rapporti personali con lui. Qui si parla della relazione e dell’intimo possesso di Gesù delle sue pecore: «Il Signore conosce i suoi» (2Tim 2,19). Solo qui, per due volte nel capitolo 10 di San Giovanni, si dice che Gesù conosce i suoi per significare che questa particolare «intelligenza» è una conoscenza di amore in virtù della quale Gesù invita i suoi a seguirlo ed essa si esprime nel dono della vita eterna, che non inizierà dopo la morte, ma già da ora. I discepoli conoscono Gesù e la loro conoscenza scaturisce dalla loro fede in Lui (cfr. Gv 14,7.9). Poiché essa implica la comunione con Cristo e, grazie a Lui, con il Padre, costituisce l’essenza stessa della «vita eterna», della partecipazione alla vita stessa di Dio (Gv 17,3). Già all’inizio del Vangelo Giovanni Battista aveva detto di Gesù: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35); ora qui è Gesù stesso che afferma delle pecore sue: «nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Così la nuova comunità non è più un recinto del tipo di quello che le pecore hanno abbandonato, ormai è una comunione, consiste nella conoscenza reciproca tra le pecore ed il Pastore, nei loro rapporti personali con Lui, e, tramite Lui, con il Padre. E poiché l’opera compiuta dal Figlio non è che l’esecuzione della volontà del Padre, dobbiamo affermare che il Padre stesso è contemporaneamente origine e termine di tutta l’opera della salvezza.

Siccome ho parlato, a proposito di questo capitolo di San Giovanni, di sintesi teologica, possiamo affermare senza dubbio che la figura del Buon Pastore riunisce qui nel Vangelo temi di cristologia, ecclesiologia e soteriologia che si richiamano a vicenda, ma tuttavia è la cristologia a operare l’unità di tutto l’insieme. Si vede ancora una volta come l’insieme del quarto Vangelo ha come fondamentale centro di interesse la persona del Cristo.

Dall’Eremo, 11 maggio 2025

.

.

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

.

Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.      

.

______________________

Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

«Noi in Vaticano, qua in Vaticano…». Gli asini sileriani in cattedra e le ragadi anali

«NOI IN VATICANO, QUA IN VATICANO…». GLI ASINI SILERIANI IN CATTEDRA E LE RAGADI ANALI

Mister Silere non Possum è come una maestrina con la bacchetta in mano a caccia del minimo errore altrui, che si siede su vaso e, sebbene seduta, sbaglia mira e la fa fuori, salvo dar poi degli ignoranti e degli incompetenti agli altri […]

— Attualità —

.

 

Più molesto delle lacerazioni alla mucosa anale causata dalle ragadi, Mister Silere non Possum e i suoi anonimi blogghettari, alias «noi in Vaticano, qua in Vaticano…», nelle ultime settimane hanno dato il meglio di loro stessi nel distribuire patenti di «incompetenti, ignoranti, analfabeti, ladri di stipendi…» e via a seguire [cfr. QUI].

Bersagli privilegiati dei loro incessanti attacchi sono Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per le comunicazioni, Andrea Tornielli, direttore dei media vaticani, Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede.

Non è la prima volta che la maestrina dispensatrice d’insulti si siede poi sul water, sbaglia mira e la fa tutta fuori, come in questo caso:

«Robert Francis Prevost, ora Papa Leone XIV, ha compiuto un gesto che esprime la sua devozione al santo Vescovo di Ippona, Agostino, fondatore dell’ordine al quale si era consacrato» [cfr. QUI].

Sant’Agostino, al secolo Aurelio di Tagaste, vissuto tra 354 e il 430, come vescovo favorì la fraternità e forme di vita comune tra i membri del clero in quanto servi di Dio, ma non fondò mai alcun ordine religioso. Agli inizi dell’anno Mille circolavano già da tempo tre regole attribuite a Sant’Agostino: la Regula consensoria, la Regula ante omnia fratres carissimi, la Regula ad servos Dei, nessuna delle quali è stata riconosciuta autentica, piuttosto ricavate da vari scritti e sermoni dell’Ipponate. Queste “antiche regole” sono dunque autentiche quanto possono esserlo le opere dello pseudo-Dionigi areopagita o la Donazione Costantiniana. Gli agostiniani, denominatisi tali in quanto ispirati alla spiritualità e alla teologia agostiniana e non certo perché Sant’Agostino fondò un ordine, nascono canonicamente nel 1244, otto secoli dopo la morte del Santo vescovo e dottore della Chiesa, in seguito all’unione in un’unica fraternitas di Eremiti sparsi per la Tuscia; unione promossa dal Cardinale Riccardo Annibaldi della Molara, con approvazione del Sommo Pontefice Innocenzo IV sancita con la bolla Incumbit nobis del 16 dicembre 1243. Solo allora si comincerà a parlare di Ordine Agostiniano, nel 1244.

La pia leggenda — ma di pia leggenda appunto si tratta — che fa risalire le origini dell’Ordine a Sant’Agostino, è quindi attendibile quanto la tesi peregrina dei fautori della neoscolastica decadente che per giustificare la filosofia di Aristotele posta da San Tommaso d’Aquino alla base speculativa del suo pensiero, giunsero a inventarsi che il filosofo di Stagira non era pagano come si pensava, perché aveva percepito e intuito Cristo quattro secoli prima l’incarnazione del Verbo di Dio (!?).

All’amico di vecchia data Andrea Tornielli, a Paolo Ruffini e a Matteo Bruni, ho rivolto una domanda molto personale: in che modo orinate? Hanno risposto di farlo in piedi davanti al water. In tal posizione può essere che, malgrado la migliore attenzione, qualche piccola goccia esca fuori senza volere, quando si gestisce una macchina mediatica internazionale complessa che con tempi frenetici pubblica in decine di lingue notizie che si susseguono veloci, rendendo talora inevitabile l’errore umano, la svista, o la notizia stessa che, una volta data, può richiedere di essere integrata o corretta. Invece, una maestrina con la bacchetta in mano a caccia del minimo errore altrui, che si siede sul water e, sebbene seduta, sbaglia mira e la fa fuori, salvo dar poi agli altri degli ignoranti, degli incompetenti e persino dei soggetti che abusano del titolo di teologi senza a suo dire esserlo, difficilmente è giustificabile; non lo è lei e non lo sono gli avvelenati che insultano a raffica sul suo blog senza metterci la propria faccia e il proprio nome, nascosti, come tutti i vigliacchi, dietro l’anonimato.

Dall’Isola di Patmos, 10 maggio 2025

.

I nostri precedenti articoli:

–  31 marzo 2025  — L’ULTIMA PERLA DI SILERE NON POSSUM: «LA RESPONSABILITÀ DELL’ORDINARIO SUI PRETI INCARDINATI»? ALLORA FATE CACCIARE FUORI I SOLDI A CARDINALI E VESCOVI: DA ANGELO SCOLA A SEGUIRE ... (per aprire l’articolo cliccare QUI)

–  29 marzo 2025  — SEMPRE A PROPOSITO DI SILERE NON POSSUM: DAL “HOMBRE VERTICAL” AI “PIGLIANCULO” E “QUAQUARAQUÀ” DI LEONARDO SCIASCIA (per aprire l’articolo cliccare QUI)

–  21 marzo 2025  — SILERE NON POSSUM E LA STORIA DI QUELLA SARTINA CONVINTA DI POTER DARE LEZIONI DI ALTA MODA A GIORGIO ARMANI (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 12 febbraio 2025 — L’OPOSSUM STA ALLA CONOSCENZA DEL VATICANO COME ÉVA HENGER STA ALLA CASTITÀ E COME IL SUO DEFUNTO MARITO RICCARDO SCHICCHI STA ALL’OPERA  CONFESSIONES DI SANT’AGOSTINO (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 15 gennaio 2025 — AI CONFINI CLERICALI CON LA REALTÀ: LA DONNA SOFFRE DELL’INVIDIA FREUDIANA DEL PENE, L’OPOSSUM DELL’INVIDIA DI MATTEO BRUNI DIRETTORE DELLA SALA STAMPA DELLA SANTA SEDE (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 20 gennaio 2025 — L’OPOSSUM IGNORA CHE UNA SUORA PUÒ DIVENTARE TRANQUILLAMENTE GOVERNATORE DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO, COME GIÀ LO FU GIULIO SACCHETTI (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 22 novembre 2024 — LA NOMINA EPISCOPALE DI RENATO TARANTELLI BACCARI. QUANDO GLI AFFETTI DA CARCINOMA AL FEGATO, CARICANO ALL’ATTACCO CHI TACER NON PUÒ (per aprire l’articolo cliccare QUI

– 31 maggio 2024 — UNA NOTA DI PADRE ARIEL SUL SITO SILERE NON POSSUM: «MOLESTO COME UN RICCIO DI MARE DENTRO LE MUTANDE» (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 8 dicembre 2023 — A CHI SI RIFERISCE MARCO FELIPE PERFETTI AFFERMANDO DAL SITO SILERE NON POSSUM «QUA IN VATICANO … NOI IN VATICANO …», SE IN VATICANO NON CI PUÒ METTERE NEMMENO PIEDE? (per aprire l’articolo cliccare QUI)

– 14 ottobre 2023 — È MORTO L’ARCIABATE EMERITO DI MONTECASSINO PIETRO VITTORELLI: LA PIETÀ CRISTIANA PUÒ CANCELLARE LA TRISTE VERITÀ? (per aprire l’articolo cliccare QUI)

 

______________________

Cari Lettori, questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:

O se preferite potete usare il nostro Conto corrente bancario intestato a:

Edizioni L’Isola di Patmos

Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano

Codice IBAN: IT74R0503403259000000301118

Per i bonifici internazionali:

Codice SWIFT: BAPPIT21D21

Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione,

la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento: isoladipatmos@gmail.com

Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.

I Padri dell’Isola di Patmos

.

.

.

.

.

.

.

.