Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SE NON METTO IL MIO DITO NEL SEGNO DEI CHIODI E NON METTO LA MIA MANO NEL SUO FIANCO, IO NON CREDO 

L’Evangelista Giovanni è uno straordinario autore, oltre che un vero teologo. Già al calvario aveva anticipato temi di grande importanza come la regalità di Gesù, il compimento della sua ora, il raduno dei dispersi e perfino il dono dello Spirito. Realtà che per altri autori neotestamentari si realizzeranno più avanti o addirittura alla fine dei tempi.

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In questa seconda Domenica di Pasqua la pagina evangelica corrisponde all’ultimo dei quattro quadri che compongono il capitolo 20 di San Giovanni, con la sua finale (Gv 20,30-3) — il cap. 21 con una seconda finale verrà aggiunto in seguito — e sono così individuati: Maria Maddalena va al sepolcro; quindi anche Pietro e un altro discepolo corrono alla tomba; Maria di Magdala incontra il Signore mentre crede sia il giardiniere; infine, l’ultimo quadro, che vede protagonisti i discepoli e Tommaso.

San Tommaso, opera di Caravaggio

Siamo sempre nello stesso giorno di Pasqua, quello delle apparizioni del Risorto e l’evangelista ha appena terminato di raccontare l’incontro di Gesù con la Maddalena. Ecco che il Risorto appare per la prima volta ai suoi discepoli chiusi nel cenacolo.

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,19-31).

Non avendo qui lo spazio necessario per affrontare i molti temi che il testo evangelico ci presenta, provo ad evidenziarne alcuni — qualcosa si è già accennato Domenica scorsa (QUI) — ponendoli sotto un unico denominatore che può aiutarci a capire il senso dello scritto, che definirei come un  iniziare nuovamente a respirare. Stavolta non da soli, ma come comunità. Questo è molto importante soprattutto per noi che viviamo perennemente connessi, ma a scapito di una vera comunione, di un sincero e fidato incontro fra persone credenti. Per di più noi siamo abituati a pensare la risurrezione come evento escatologico, post-mortem, più che esperienza da vivere qui e ora e a pensarla come evento individuale, personale, non comunitario. Ma la fede nella resurrezione di Gesù domanda un inveramento nella comunità, oltre che chiedere di diventare esperienza qui ed ora, nell’oggi della nostra vita cristiana.

La pagina giovannea presenta la comunità dei discepoli la sera del giorno della Risurrezione. Lo stesso giorno in cui Maria di Magdala porta l’annuncio: «Ho visto il Signore»; riferendo poi ciò che le ha detto (Gv 20,18). Ma questo non basta a smuovere i discepoli, poiché la donna non viene creduta, come attestano con ancor più forza gli altri evangelisti. Il gruppo degli apostoli non solo è ferito dalla perdita del Signore, ma è bloccato altresì da emozioni come la paura e la sfiducia. Le porte di casa sono serrate per timore di rappresaglie provenienti dall’esterno, da quei giudei che avevano cospirato per la morte del Signore. Ma anche all’interno del luogo ove sono radunati la sfiducia è palpabile, nei riguardi della testimonianza di Maria come già detto, ed anche per il trauma sempre vivo del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro che sicuramente stanno alimentando un clima di sospetto, tant’è che qualcuno, Didimo, preferisce non rimanere col gruppo. La situazione è questa, interiore ed esteriore, e chi può accendere in tale circostanza di scoramento generale la fede nel Risorto?

L’evangelista Giovanni è uno straordinario autore, oltre che un vero teologo. Già al calvario aveva anticipato temi di grande importanza come la regalità di Gesù, il compimento della sua ora, il raduno dei dispersi e perfino il dono dello Spirito (Gv 19, 30). Realtà che per altri autori neotestamentari si realizzeranno più avanti o addirittura alla fine dei tempi. Ma ecco che Gesù, scrive Giovanni, venne in quel luogo serrato alle intrusioni esterne dai discepoli e «stette ritto in mezzo a loro», che è uno dei modi molto suggestivi, utilizzati nel Nuovo Testamento, per esprimere la presenza viva del Risorto. Il verbo greco Istemi — stare ritto in piedi — verrà usato per descrivere Gesù che si ferma e «sta» con i discepoli di Emmaus (Lc 24,36), è quello per cui Stefano dice di vedere Gesù che «stava alla destra di Dio» (At 7,55), ma soprattutto è il verbo che nell’Apocalisse indica lo «stare ritto» dell’Agnello, «come immolato», ma vivente (Ap 5,6). Gesù sta ritto in piedi alla porta e bussa, scrive, ancora, l’Apocalisse (3,20), così come ora, dopo i giorni della passione e della sofferenza, torna dai suoi, entra nel cenacolo e stando ritto in mezzo ai discepoli intimoriti si rivolge a loro.

Le prime parole del Risorto alla Chiesa sono sulla pace. Scriveva Raymond Brown nel suo commento al Quarto vangelo che il saluto di Gesù, «pace a voi» (qui, in Gv 20,19, e poi ripetuto altre due volte, in 20,21.26) non è un semplice augurio: è un dono. Il Risorto porta la pace, quella, scriverà Paolo, che il Messia ha stabilito tra il cielo e gli uomini (cfr. Col 1,20) e chi ancora oggi incontra il Signore nella Chiesa è sicuro di poterla ricevere. La seconda parola del Risorto a questa comunità di discepoli riguarda la missione, poiché Gesù è il primo apostolo del Padre. San Giovanni adopera qui il verbo greco apostello che traduciamo con mandare, da cui apostolo, ovvero «quello mandato» (cfr. anche Gv 3,17: «Dio […] ha mandato il suo figlio nel mondo»). Dopo la Risurrezione i discepoli sono inviati da Gesù per una missione che viene dall’alto, non è iniziativa umana, ma prende l’avvio da Dio stesso e si configura come continuazione della missione del Figlio.

Di seguito Gesù Risorto respira e dona lo Spirito. Il modo in cui il Quarto vangelo descrive il dono dello Spirito è unico in tutto il Nuovo Testamento. Solo Giovanni, infatti, e solo qui, nel versetto 20,22, dice che Gesù «alitò» sui discepoli. Viene usato il verbo emphysao, «insufflare, alitare», che la Bibbia utilizza per la prima volta nel libro della Genesi, durante il racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,7). Tutta la realtà creata — si legge lì — è generata dalla parola di Dio, ma per fare l’uomo questo non basta: Dio deve alitare dentro le sue narici. Bisogna, cioè, che si chini su di lui e approssimandosi all’uomo gli dia vita attraverso il suo soffio.

Nella Bibbia troviamo altre occorrenze di questo verbo, sempre legate al tema del ridare vita, far rinascere, permettere di respirare nuovamente. È il caso di Elia che compie il miracolo della risurrezione del figlio della vedova di Zarepta: «Elia si distese (traduce la CEI, ma abbiamo lo stesso verbo emphysao all’aoristo: enephusen, ἐνεφύσησεν) tre volte sul bambino e invocò il Signore: Signore Dio mio, l’anima del fanciullo torni nel suo corpo». Nel libro di Ezechiele il verbo viene adoperato nella grande scena delle ossa inaridite, simbolo del popolo dell’alleanza oramai allo stremo. Questo popolo può risorgere solo se viene lo Spirito dai quattro venti a «soffiare» la vita su quei morti (cfr. Ez 37,9). Più tardi, nella letteratura sapienziale, si userà ancora una volta il verbo «alitare, insufflare», per descrivere di nuovo la creazione dell’uomo: «Et qui insufflavit ei spiritum vitalem» (Sap 15,11).

Lo Spirito di Dio è vita per l’uomo, ma nella circostanza del cenacolo diventa anche uno dei segni visibili che Gesù è vivo. Appena dopo aver mostrato le mani ed il costato trafitti Egli può alitare sui discepoli perché respira. È un’ulteriore  prova a dimostrazione che Egli non è un fantasma, ma un vivente: è tornato a respirare dopo che aveva «emesso lo spirito», come abbiamo sentito nelle letture della Settimana Santa.

Dalle occorrenze veterotestamentarie prima ricordate emergono alcune risultanze che possiamo applicare al racconto evangelico. San Giovanni lascia intravedere che come nella prima creazione Dio alitò nell’uomo uno spirito vitale, cosi adesso, nella nuova creazione che la Risurrezione inaugura, Gesù alita lo Spirito Santo promesso, donando ai discepoli una vita eterna che non inizia necessariamente dopo la morte, ma è già presente, a motivo di questo dono e per la fede nella Risurrezione del Signore: «Questa è la via eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). E come nel simbolismo battesimale di Gv 3,5, dove viene detto che gli uomini rinascono come figli di Dio da acqua e Spirito; allo stesso modo la presente scena serve da battesimo per gli immediati discepoli di Gesù e da pegno di rinascita divina per tutti i credenti del futuro. Non ci si meraviglia se in seguito l’usanza di alitare sopra coloro che riceveranno il Battesimo entrerà nel Rito dell’iniziazione cristiana. Ora essi sono veramente fratelli di Gesù e possono chiamare Dio col nome di Padre (Gv 20,17). In questo modo il dono dello Spirito diviene così l’acme finale delle relazioni personali fra Gesù e i suoi discepoli.

Ho iniziato col dire che grazie alla presenza del Risorto e per mezzo del dono dello Spirito anche i discepoli tornano a respirare. Ma questo non corrisponde ad un tirare un sospiro di sollievo, come dopo un grosso spavento, vi è qui un profondo significato teologico ed ecclesiale. Gesù Risorto non tiene per sé la vita che ha sconfitto la morte, ma la comunica anche ai discepoli riuniti insieme comunitariamente, come Chiesa. Questa vita è la sua e l’ha ricevuta dal Padre, Egli lo aveva già annunciato nella sua esistenza terrena: «Io sono la via della verità e della vita». Ora essa discende sulla Chiesa pasquale grazie al dono dello Spirito ed è vita eterna che già inizia nel momento del battesimo e si dipana nelle mille forme dell’esistenza cristiana. Per questo i discepoli gioiscono nel vedere il Signore e di lì a poco anche Tommaso entrerà nella circolarità vitale di questa fede nonostante la iniziale mancanza di fiducia nella testimonianza della titubante chiesa pasquale. Questa testimonianza, compresa quella di Tommaso — «Mio Signore e mio Dio» — termina San Giovanni, è ormai consegnata nel Vangelo. Esso è il segno che rimane e che ci permette di partecipare alla vita dei risorti, ma ciò è possibile se lo apriamo con fede e in comunione ed obbedienza con tutta la Chiesa e la sua tradizione che dal giorno di Pasqua non cessa di annunciare: «Il Signore è veramente risorto!».

Dall’Eremo, 27 aprile 2025

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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L’ultimo regalo dei Gesuiti: tra poco pagheremo per gli anni avvenire la noncuranza con la quale è stato trattato il diritto negli ultimi anni

L’ULTIMO REGALO DEI GESUITI: TRA POCO PAGHEREMO PER GLI ANNI AVVENIRE LA NONCURANZA CON LA QUALE È STATO TRATTATO IL DIRITTO NEGLI ULTIMI ANNI

Il principale ringraziamento dovrà andare al Cardinale Gianfranco Ghirlanda, canonista di fiducia del defunto Romano Pontefice, che era affaccendato a confezionare zuccherini per il laicato e per le quote rosa.

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

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Forse il Cardinale Gianfranco Ghirlanda, canonista di fiducia del defunto Romano Pontefice, negli ultimi tempi è stato interamente assorbito da altre priorità di vitale importanza.

Cito una sola di queste priorità: la possibilità di definire una differenza tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione, rendendo possibile che il governo della Chiesa e la autorità nell’insegnamento possano essere separate dalla potestà di santificazione derivante dal Sacramento dell’Ordine conferito ai ministri in sacris. A questo modo sarebbe possibile dare l’ennesimo zuccherino a un certo laicato — in particolare alle sempre più rumorose quote rosa —, incuranti che laicizzare i chierici e clericalizzare i laici sta all’origine delle nostre peggiori disgrazie e del caos che stiamo vivendo.

Essendo troppo impegnato in questo e altro, l’Eminente canonista ha dimenticato di ricordare che la Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, che regola il conclave e l’elezione del Successore del Beato Apostolo Pietro, al n. 33 stabilisce un tetto massimo di centoventi cardinali elettori, che attualmente sono però centotrentasette, senza che il Sommo Pontefice, prima di morire, sia mai intervenuto per derogare a questo numero tassativo.

Non contenti di tutti i complottisti saliti alla ribalta in giro per il mondo, soprattutto dei social media, dopo l’atto di rinuncia di Benedetto XVI, con immane danno per i nostri fedeli più semplici e fragili, la clerical noncuranza ha reputato opportuno dare a questi stessi oscuri personaggi uno splendido pretesto per poter andare avanti altri anni con nuove teorie complottistiche e nuovi Codici fantastici. E di questo, nello specifico, il principale ringraziamento dovrà andare al Cardinale Gianfranco Ghirlanda, canonista di fiducia del defunto Romano Pontefice, che era affaccendato in cose molto più serie: confezionare zuccherini per il laicato e per le quote rosa.

 

Dall’Isola di Patmos, 21 aprile 2025

Lunedì dell’Angelo

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«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«HANNO PORTATO VIA IL SIGNORE DAL SEPOLCRO E NON SAPPIAMO DOVE L’HANNO POSTO»

Ogni speranza cristiana è fondata sulla Risurrezione di Cristo, sulla quale è «ancorata» la nostra risurrezione con Lui. D’altronde, fin da ora siamo risorti con Lui: tutta la trama della nostra vita cristiana è intessuta di questa incrollabile certezza e di questa realtà nascosta, con la gioia e il dinamismo che ne derivano.

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Il brano evangelico del giorno di Pasqua non presenta un annuncio, simile ad un proclama, della risurrezione di Gesù. Questo ne è l’aspetto più sorprendente, certamente stemperato dalle altre letture e preghiere liturgiche che contraddistinguono questa solennità.

Il segreto e il motivo di tale assenza sta nella qualità del testo giovanneo che non esplicitando rivela e nel suo movimento, mentre descrive quello che fu vero e fisico della discepola Maddalena insieme a Pietro e ad un altro, trascina anche i lettori, quasi che a quella corsa al sepolcro partecipino anche loro, coinvolti in quella che a tutti gli effetti è la genesi della fede pasquale. Leggiamo il testo.

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario — che era stato sul suo capo — non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,1-9).

In quel primo giorno della settimana che in seguito diverrà festivo per i cristiani, «giorno del sole» (San Giustino) e del Signore, l’evento della Risurrezione di Cristo è un fatto che si palesa nelle vesti della testimonianza. Nel racconto giovanneo ne cogliamo il momento incoativo, lo sprigionarsi della scintilla che infiammerà il mondo. Eppure, ciò che Maria di Magdala per prima comunica è una constatazione ben lontana dalla fede nella Risurrezione del Signore, il quale incontrerà di lì a poco, appena rimarrà sola. Ella riferisce la cosa più ovvia: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». In quel plurale scorgiamo lo sconcerto iniziale dei discepoli e delle discepole, sottolineato da un’annotazione, simbolo di una fede ancora non profonda e convinta: «era ancora buio». Nel Quarto Vangelo il buio rimanda alle tenebre che si oppongono alla luce del Verbo che arriva (Gv 1,5; 3,19); designa la situazione problematica dei discepoli in assenza di Gesù (Gv 6,19), ed è la condizione di incertezza e sbandamento in cui si trova a vagare chi non segue Gesù (Gv 8,12). Soprattutto è la condizione di chi non crede in lui: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46). Maria è in quella situazione lì, ha sbirciato nel sepolcro vuoto, ma non ha ancora compreso poiché non ha visto con gli occhi della fede e così coinvolge due importanti testimoni: Pietro ed un altro discepolo anonimo. Solo più avanti Maria di Magdala dirà convinta: «Ho visto il Signore!». In questo modo l’itinerario interiore che condurrà all’annuncio ecclesiale: «È risorto», passa attraverso le evidenze di morte, costituite dalle bende e dal sudario che avvolgevano la salma e dal sepolcro vuoto in cui essa era stata deposta. Secondo l’autore del Quarto Vangelo per arrivare ad una professione di fede chiara e certa da parte del credente ― come quella di San Tommaso: «Mio Signore e mio Dio» ― bisogna che essa maturi pian piano nella coscienza dei discepoli ed egli ne delinea l’insorgenza attraverso i vari gradi del vedere. Vale la pena sottolineare come nel capitolo 20 di San Giovanni il verbo vedere ricorra per ben 13 volte. Dappertutto nel Vangelo, ma soprattutto in questo capitolo è delineato lo sviluppo del «vedere», ed è Gesù stesso che insegna ai suoi a guardare: è il suo metodo pedagogico. Inizialmente c’è un vedere sensibile che conduce di seguito alla contemplazione, cosicché nella profondità del visibile si tocchi il mistero (cfr. Gv 19,35: «Chi ha visto ne da testimonianza…perché anche voi crediate»).

Nell’ultima Cena Gesù aveva affermato: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9) e questo è il versetto centrale del quarto Vangelo. Ma vedere fisicamente Gesù non basta perché, ovviamente, anche i suoi nemici lo vedono ritenendolo però semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile per pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. È Gesù, con le parole e i segni, con tutta la sua presenza, che apre la porta sul mistero e conduce dal «vedere» un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio; cosicché il «vedere» fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso a questo mistero che si rivela. La pedagogia del vedere diventa esplicita, sarà infatti Gesù stesso a spiegarla a Tommaso, nel nostro capitolo 20. Il punto di partenza che diventa un incedere, è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne; si comincia dai segni, come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s’imbatte Maria Maddalena, nel quale poi riconosce Gesù Risorto. Si tratta di una progressione, riscontrabile nell’uso che Giovanni fa del verbo vedere. Si passa dal greco Blepo col significato di scorgere, notare qualcosa, come i teli nel sepolcro, a theorein quando gli apostoli e la Maddalena guardano e osservano più attentamente. Infine il verbo horan, al perfetto greco, utilizzato da San Giovanni per esprimere la pienezza della fede pasquale: «Ho visto il Signore» (heôraka ton Kyrion). Anche se non possiamo dire molto di più qui, ciò che salta agli occhi, notando la struttura concentrica dell’intero capitolo 20 è che esso descrive la nascita della fede in Cristo risorto che però si basa sulla testimonianza di quelli che «hanno visto» il sepolcro vuoto e il Signore vivo. È così tanto importante questo aspetto che Gesù Risorto rimprovererà Tommaso per la sua mancanza di fiducia nella testimonianza degli altri discepoli e discepole: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29).

Fatto è dunque la Risurrezione di Cristo, ma anche evento inscindibilmente legato alla fede e alla testimonianza. Cosicché il Signore, ancora una volta e soprattutto in questa occasione della Risurrezione da morte, non deroga dalla sua pedagogia e dal modo per mezzo del quale ha voluto incontrare e salvare gli uomini e cioè incarnandosi.

Il Vangelo descrive molto bene la dinamica della fede pasquale e come si consolidi la testimonianza su di essa. Dell’altro discepolo, che era corso insieme a Pietro al sepolcro arrivando per primo, vien detto che «iniziò a credere» (nel greco: episteuesen, aoristo ingressivo) e a Tommaso il Risorto dirà: «E non essere incredulo, ma diventa credente!» (Gv 20,27). Questo aspetto del progresso e del divenire spesso non è ben sottolineato, poiché anche le traduzioni talvolta non sono sempre felici, eppure ci fa capire che la fede cristiana non è qualcosa di statico ed acquisito, ma virtù che cresce con l’esperienza, l’intelligenza delle Scritture e l’incontro con la testimonianza che diviene la tradizione viva della comunità cristiana. Inizialmente c’è buio: «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli, perciò, se ne tornarono di nuovo a casa». Ma pian piano, anche grazie alla presenza del Risorto, la fede si fa sempre più sicura e acclarata fino al: «Mio Signore e mio Dio!» di Tommaso, che sono poi le ultime parole dei discepoli nel Vangelo giovanneo nella sua prima stesura (Gv 20,28). Quanto sia importante oggi per le nostre comunità riscoprire questo legame fra evento, fede e testimonianza, giudicatelo voi. Molti seguono a tutt’oggi l’ultima rivelazione privata, l’ennesimo messaggio mariano presunto, quando invece è tutto lì, nel Vangelo. Ancora oggi Cristo risorto, rispettando come allora la nostra umanità che Lui stesso ha assunto, chiede la nostra testimonianza e la nostra fede sincera in Lui risorto da morte affinché il mondo, le nostre concrete situazioni e le storie personali e collettive rinascano.

Vorrei concludere riportando le parole che Paolo VI rivolse ai partecipanti al Simposio sul mistero della Risurrezione di Cristo nel lontano 1970:

«Sì, ogni speranza cristiana è fondata sulla Risurrezione di Cristo, sulla quale è “ancorata” la nostra risurrezione con Lui. D’altronde, fin da ora siamo risorti con Lui (cfr. Col 3,1): tutta la trama della nostra vita cristiana è intessuta di questa incrollabile certezza e di questa realtà nascosta, con la gioia e il dinamismo che ne derivano. Non sorprende quindi che un tale mistero, così fondamentale per la nostra fede, così prodigioso per la nostra intelligenza, abbia sempre suscitato, con l’interesse appassionato degli esegeti, una contestazione multiforme lungo tutta la storia. Questo fenomeno era già evidente quando era ancora in vita l’evangelista san Giovanni, il quale ritenne necessario rilevare che l’incredulo Tommaso era stato invitato a toccare con le sue mani il segno dei chiodi e il costato ferito del Verbo della vita risorto (cfr. Gv 20, 24-29). Come non menzionare, da allora, i tentativi di una gnosi, sempre rinascente sotto molteplici forme, di penetrare questo mistero con tutte le risorse dello spirito umano, e anche di sforzarsi di ridurlo alle dimensioni di categorie interamente umane? Una tentazione certamente comprensibile e senza dubbio inevitabile, ma che ha una formidabile tendenza a svuotare insensibilmente tutte le ricchezze e la portata di ciò che è prima di tutto un fatto: la Risurrezione del Salvatore. Anche oggi — e non è certo a voi che dobbiamo ricordarlo — vediamo questa tendenza manifestare le sue estreme drammatiche conseguenze, giungendo fino al punto di negare, tra i fedeli che si dicono cristiani, il valore storico delle testimonianze ispirate o, più di recente, di interpretare in modo puramente mitico, spirituale o morale, la risurrezione fisica di Gesù. Come potremmo non sentire profondamente l’effetto disgregante di queste discussioni deleterie su tanti fedeli? Ma Noi proclamiamo con forza: tutto questo lo consideriamo senza timore, perché, oggi come ieri, la testimonianza «degli Undici e dei loro compagni» è capace, con la grazia dello Spirito Santo, di suscitare la vera fede: “È proprio vero! Il Signore è risorto ed è apparso a Pietro” (Lc 24,34-35) (testo integrale: QUI, traduzione mia).

 

Dall’Eremo, 20 aprile 2025

Pasqua di risurrezione

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Lo Spirito Santo in Gesù: Maestro spirituale nel cammino di Quaresima

LO SPIRITO SANTO IN GESÚ: MAESTRO SPIRITUALE NEL CAMMINO DI QUARESIMA

Nel cammino quaresimale giungiamo dal deserto fino al Calvario, e da questo luogo di consumazione del cuore di Cristo per gli uomini, si passa a quella consumazione charis-matica che è missione e compito per la vita della Chiesa.

— Attualità pastorale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Nella prima Domenica di Quaresima si legge tradizionalmente la pericope evangelica delle tentazioni di Gesù nel deserto.

I tre Vangeli sinottici, compreso il più sintetico Marco, concordano nel sottolineare una cosa importante e cioè che Gesù viene sospinto nel deserto dallo Spirito, per essere tentato dal diavolo. Questa vicenda rappresenta un momento forte che qualifica l’identità di Gesù, poiché Egli, pieno di Spirito Santo, inaugurerà di li a poco l’anno di grazia giubilare (cfr. Lc 4,18-19), mentre le Sue opere realizzeranno la buona novella che libera e guarisce quei poveri che trepidanti attendono il Regno di Dio. Ma non può esserci anno di grazia – non c’è vero giubileo – senza il fermo proponimento di porre fine al regno di satana e delle sue opere. In Gesù Cristo questa promessa si compie (cfr. Lc 10,18), è nel suo Battesimo al Giordano che prende avvio la vittoria sul male, che avrà un primo momento di combattimento nell’agone del deserto e culminerà poi sul Golgota in quel tempo fissato (cfr. Lc 4,13) che è káiros di salvezza per ogni uomo.

Come già anticipato, la cornice narrativa determina anche la chiave di lettura interpretativa di quel passo delle tentazioni. Esso si colloca dopo il battesimo al Giordano, nel momento della teofania del Padre per mezzo della quale Egli riconosce solennemente il Figlio, il Messia e il profeta ricolmo del fuoco dello Spirito Santo. Non è esegeticamente ardito vedere qui un passaggio di testimone tra Giovanni il Battista – colui è il profeta di fuoco (cfr. Mt 11,14; 17,12; Sir 48,1)– e Gesù, colui che possiede la pienezza del fuoco dello Spirito Santo. Questo Spirito effuso sul Cristo rimarrà stabilmente su di Lui e, come i Vangeli ricordano, per ben tre volte durante la sua vita terrena consacra la Sua vita ed il ministero pubblico.

La prima volta nel grembo della Vergine Maria, primo altare sul quale Gesù viene unto dallo Spirito Santo (cfr. Mt 1,20); la seconda unzione è appunto quella nel fiume Giordano; la terza avverrà sulla croce, dove Cristo, morendo dona lo Spirito Santo al mondo (cfr. Gv 19,30). E quell’ ultimo sospiro sarà preludio all’effusione dello Spirito Santo che comunicherà agli apostoli nella domenica di Pasqua (cfr. Gv 20,21-22).

Soffermandoci sulla seconda unzione o consacrazione pneumatologica di Gesù al Giordano, notiamo come Egli, in quella circostanza, unisce a sé solidarmente tutta la stirpe umana, di cui ne condivide la natura, le gioie, le speranze e le sofferenze. Nell’abbraccio dello Spirito Santo con Gesù si rivela la Sua profonda identità che, poi, attraverso i sacramenti, verrà comunicata dalla Chiesa agli uomini e che la teologia paolina esprime così nella lettera ai Galati: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6). Uno Spirito donato, dunque, per riconoscere il Padre e il Figlio Suo Gesù, Signore e Salvatore nostro, che svolge anche l’azione di condurre a Gesù gli uomini, affinché siano uniti a Lui nell’immersione pasquale di morte e risurrezione.

Nel battesimo al Giordano Gesù si fa solidale con noi cosicché tutti veniamo presentati al Padre in quanto figli nel Figlio, pur riconoscendoci ancora bisognosi di conversione e – cosa importante – tutti, attraverso l’umanità di Gesù, riceviamo quell’unzione dello Spirito Santo che ci permette di affrontare le tentazioni del maligno e di superarle, il che rappresenta, per i cristiani il primo importante passo del cammino battesimale, nella conversione e nella libera scelta.

Infatti lo Spirito Santo nel deserto mette l’umanità di Cristo di fronte al male perché possa combatterlo e scegliere nella libertà di Figlio di permanere nell’obbedienza al Padre. Allo stesso modo lo Spirito Santo agisce in noi, manifestandoci lo scandalo del mistero di iniquità che può essere vinto soltanto permanendo nell’obbedienza a Dio, radicati nell’unica sua parola: «sta scritto, è stato detto» (cfr. Lc 4,4. 8.12). Non è più tempo per l’uomo, come accadde ai progenitori in Eden, di nascondersi a causa del peccato o della sconcertante devastazione che esso provoca nella vita, ma per mezzo dello Spirito egli è chiamato ad agire, ad impugnare la spada (cfr. Ef 6,17) e a dare guerra al maligno che è già stato respinto nell’umanità di Cristo.

La Quaresima diviene in tal modo, anno per anno, un cammino di consapevolezza spirituale sempre maggiore e ogni volta diverso. Un cammino di ascolto del maestro interiore – lo Spirito Santo – che invoglia l’uomo a «vedere», potremmo anzi dire, a fare esperienza di Lui: «Venite, vedete le opere del Signore» (cfr. Sal 46, 9). E quali sono le opere che lo Spirito Santo, come Signore, compie? Sono quelle stesse opere che vediamo realizzarsi nella vita terrena di Gesù e che egli ripropone a coloro che intendono seguirlo: venerazione e contemplazione del Padre, annientamento di sé stessi e dono di sé agli uomini.

La Quaresima si presta a questa triplice dinamica affinché, sotto la guida attenta dello Spirito Santo, non ci sia più spazio per l’emotività disordinata o per rivelazioni apocalittiche, poiché tutto conduce a una conformazione della propria vita a quella di Cristo che solo lo Spirito è in grado di operare in pienezza nell’uomo. Vediamo come ciò avviene, attraverso tre movimenti.

Il primo movimento corrisponde a un moto ascensionale, il che significa fissare lo sguardo non sulla propria miseria di peccatore, ma sollevare gli occhi verso Dio che è Padre. Ciò ci permette di contemplare la Sua opera redentiva nel Figlio Gesù: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (cfr. Gv 6, 29). Il centro dell’esistenza, ciò che dà senso e ferma speranza al cammino spesso difficile della vita dell’uomo è la fede in Gesù, l’incontro con Cristo. Non si tratta di seguire un’idea, un progetto, ma di incontrare Gesù come una Persona viva, di lasciarsi coinvolgere totalmente da Lui e dal suo Vangelo. Per questo Gesù invita a non fermarsi ad un piano puramente umano, ma ad aprirsi all’orizzonte di Dio, quello della fede. Egli esige quest’unica opera: accogliere il piano di Dio, cioè «credere a colui che egli ha mandato» (cf. Benedetto XVI, Angelus, Castel Gandolfo, 5 agosto 2012).

Il secondo movimento è un moto abissale, esso coincide con la realtà della croce. Significa portare quel giogo che ci fa piccoli, che quotidianamente ridimensiona il nostro io e ci permette di rinunciare al dominio sul fratello e sulle cose, scansando l’egoistica ossessione del possesso, mettendo la propria persona al servizio, ovvero volgendosi di preferenza a coloro che non hanno possibilità alcuna di ricambiare (cfr. Lc 14,13-14).

Il terzo movimento è un moto orizzontale, esso coincide con quel «fino alla fine» di Gv 13,1, che Gesù mette in atto dapprima nel Cenacolo con gli apostoli, ma poi realizza compiutamente per tutti sul Calvario. Lì Gesù fa pieno dono di sé agli uomini. Così come lo Spirito Santo lo aveva sospinto nel deserto, quasi per necessità salvifica, ora Gli fa salire l’erta del Calvario dove avverrà l’ultimo, definitivo e necessario combattimento contro il maligno; mentre intanto questi propone la sua messianicità alternativa che contraddice il disegno del Padre: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (cfr. Mt 27,40); «Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi sé stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”» (cfr. Lc 23,35-37). Questo moto orizzontale non ha primariamente un significato filantropico o solidaristico come lo si potrebbe frettolosamente intendere, ma è una lucida richiesta di consumazione del proprio cuore per l’altro. È il compimento definitivo che giunge perfino al perdono dei nemici. Lì la tentazione demoniaca non può arrivare, lì c’è solo e soltanto l’opera dello Spirito Santo che trasforma l’intimo dell’uomo fino alla consumazione per l’altro, così come Cristo ha fatto. Il Consummatum est di Cristo è l’inizio di ogni operazione charis-matica del cristiano e della Chiesa; per questo l’amore trova la sua fonte nella terza persona della Trinità che prende stabilmente dimora nella creatura (cfr. Rm 8,9).

Per concludere, nel cammino quaresimale giungiamo dal deserto fino al Calvario, e da questo luogo di consumazione del cuore di Cristo per gli uomini, si passa a quella consumazione charis-matica che è missione e compito per la vita della Chiesa. Sottolineando quei tre movimenti su ricordati, a cui l’uomo, seguendo Cristo, cerca di conformarsi per vocazione, abbiamo delineato un percorso spirituale e un cammino missionario, di annuncio, di autenticità cristiana e battesimale, per coloro che hanno ricevuto l’effusione dello Spirito Santo e che vivono la vita cristiana sotto il segno della Pentecoste. Questo è divenuto vero per i cristiani fin da subito, appena dopo la morte, la risurrezione e ascensione al cielo di Cristo. Lo Spirito Santo effonde con magnanimità su tutta la Chiesa doni e carismi, come testimoniano il Vangelo di Marco e le lettere paoline. Lo stesso libro degli Atti degli Apostoli è una sinfonia pneumatologica dell’opera dello Spirito nella vita della Chiesa delle origini, che poi proseguirà nei secoli successivi nei quali, stupefatti, assisteremo alla nascita di inaspettati doni: il martirio, la santità degli anacoreti, la dottrina dei grandi dottori, la carità ecclesiale, la vita sacramentale e orante; essi lasciano intravedere ovunque la firma dello Spirito Santo quale maestro interiore. La Quaresima è un cammino in compagnia dello Spirito Santo, è la realizzazione di quel sogno di diventare simili a Dio ottenuto non nella disobbedienza e con il peccato, come per i progenitori, ma nella mediazione di Cristo: Egli è il solo che può condurre l’uomo al Padre.

Sanluri, 16 aprile 2025

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Ci voleva Daniele Capezzone, l’allievo meglio riuscito di Marco Pannella, per togliere di mezzo il «Codice Katzinger» di Andrea Cionci

CI VOLEVA DANIELE CAPEZZONE, L’ALLIEVO MEGLIO RIUSCITO DI MARCO PANNELLA, PER TOGLIERE DI MEZZO IL «CODICE KATZINGER» DI ANDREA CIONCI

Quando alla direzione editoriale di Libero è giunto Daniele Capezzone, che del liberalismo e dell’onestà intellettuale è un modello ― tanto che vivendo con lui n’è divenuta modello persino la sua gatta Giuditta ―, le cose sono cambiate. Perché per un professionista di primordine come l’allievo meglio riuscito di Marco Pannella, certi articoli da neurodeliri pubblicati sotto il marchio editoriale da lui diretto erano graditi come un cactus al posto del cuscino da letto.

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

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Correva l’anno 2010 quanto nel mio libro E Satana si fece trino scrissi che la nostra dignità cattolica sarebbe stata salvata da liberali e miscredenti che riconoscono però nel Cristianesimo un valore che sta alla radice della nostra cultura occidentale. Oltre un decennio dopo tornai a ribadirlo nel mio libro Digressioni di un prete liberale,  quando ormai la nostra disastrata, ma per mistero di grazia sempre Santa Chiesa, aveva toccato il fondo della decadenza irreversibile.

Che Andrea Cionci sia un contaballe lo prova l’immonda spazzatura del suo Codice Ratzinger, doverosamente ribattezzato Codice Katzinger, dove sostiene la fantastica tesi della invalida rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di un antipapa usurpatore portato avanti da «poteri forti occulti».

Privo di senso del ridicolo, ancor più che della misura, avrebbe scoperto e reso noto che Benedetto XVI, parlando attraverso un codice criptico — che solo questo eletto aveva colto e decifrato —, era stato costretto a rinunciare al sacro soglio e a vivere prigioniero.

La singolarità è che costui può vilipendere pubblicamente il Pontefice regnante affermando che non solo è un «falso papa», ma peggio: pure «eretico, apostata, usurpatore». Però, se qualcuno conferisce all’autore di Codice Katzinger il titolo che merita, vale a dire minchione, eccolo annunciare d’aver già passato la terrificante “diffamazione” al suo agguerritissimo «collegio di avvocati» (!?).

Per anni questo ciarpame è stato pubblicato sotto il marchio editoriale di Libero, finché n’è stato direttore responsabile quella faccia da becchino malinconico di Alessandro Sallusti, che di certe assurdità pubblicate se n’è fregato. In fondo, con decine di articoli scritti sotto il marchio di Libero, il Cionci offendeva solo il Romano Pontefice, mica i leader della destra.

Quando alla direzione editoriale di Libero è giunto Daniele Capezzone, che del liberalismo e dell’onestà intellettuale è modello ― tanto che vivendo con lui n’è divenuta modello persino la sua gatta Giuditta ―, le cose sono cambiate. Perché per un professionista di primordine come l’allievo meglio riuscito di Marco Pannella, certi articoli da neurodeliri pubblicati sotto il marchio editoriale da lui diretto erano graditi come un cactus al posto del cuscino da letto. E così, circa un migliaio di articoli fanta-complottardi sono spariti dal sito di Libero, dal quale mesi fa era già stato eliminato il blog del Cionci.

Un paio d’anni fa indirizzai a questo triste personaggio delle parole che dimostrò però di non essere proprio in grado di recepire:

«L’Autore del Codice Katzinger ha scelto di colpire da anni un bersaglio che non dimentica, soprattutto quando tace. Mao Zedong che attende lungo il fiume che passi il cadavere del nemico, in confronto alla Santa Sede e al clero è un principiante alle prime armi. Se conoscesse un po’ il clero dovrebbe essere spaventato, per non avere mai ricevuto alcuna considerazione e smentita dall’Autorità Ecclesiastica o dai suoi organi o portavoce ufficiali, perché vuol dire che il regalo arriverà del tutto inaspettato. Quando poi giungerà, finirà per non poter più deambulare. A quel punto può essere che l’Autorità Ecclesiastica gli esprima persino accorato dolore e solidarietà. In un certo senso siamo stati noi preti a ispirare ai Mammasantissima in che modo porgere le condoglianze alle vedove, con la lacrima all’occhio, ai funerali dei loro mariti “serenamente spirati”» (vedere articolo QUI).

Come volevasi dimostrare …

Dall’Isola di Patmos, 8 aprile 2025

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L’ultima del Senatore Dario Franceschini: «Il cognome paterno è una tradizione patriarcale» …

L’ULTIMA DEL SENATORE DARIO FRANCESCHINI: «IL COGNOME PATERNO È UNA TRADIZIONE PATRIARCALE»

Se vogliamo un pensiero per così dire “di sinistra”, bisogna tornare indietro al finire degli anni Sessanta del Novecento, aprire una enciclica scritta da Paolo VI nel 1967 intitolata Populorum Progressio, leggerla con attenzione e imparare quel che dovrebbe essere realmente il progresso dei popoli basato sul buon senso umano e cristiano, non sulla cieca ideologia.

— Attualità —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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La proposta di legge del Senatore Dario Franceschini che prevede la possibilità di attribuire automaticamente il cognome materno ai neonati ha generato un acceso dibattito pubblico, con voci e commenti contrastanti. Proposta da lui definita come

«un risarcimento per una ingiustizia secolare che ha avuto non solo un valore simbolico, ma è stata una delle fonti culturali e sociali delle disuguaglianze di genere» (cfr. QUI)

I Sostenitori della proposta la vedono come un adattamento legislativo e sociale necessario che segue i cambiamenti costitutivi delle famiglie, affinché vi sia maggiore parità di genere e sia eliminata l’usanza del cognome paterno, considerata “tradizione patriarcale”. A questo modo sarebbe dato un ruolo maggiore alle madri a livello sociale, con maggiore libertà di scelta del cognome da trasmettere ai figli da parte dei genitori, promuovendo una visione più equilibrata e reale del concetto più ampio di famiglia rispetto a quello considerato troppo restrittivo della cosiddetta “famiglia non tradizionale”. La proposta non esclude la possibilità per i genitori di scegliere congiuntamente il cognome, inclusa l’opzione del doppio cognome.

I critici della proposta sostengono che essa rischia di creare confusione sull’identità familiare, influenzare la percezione del rapporto coi genitori e relativa figliolanza, producendo divisioni all’interno delle famiglie in caso di disaccordo tra i genitori per la scelta del cognome.

Per i giuristi e gli esperti esistono innegabili problematiche sulla proposta riguardo la complessità burocratica che potrebbe derivare dall’applicazione della legge, come ad esempio le difficoltà nella gestione dei documenti e delle pratiche amministrative. A tal proposito la Suprema Corte Costituzionale ha già dato delle indicazioni per il superamento del cognome prettamente paterno, in cui possono rientrare le fattispecie e le casistiche a cui è mirata la proposta.

È difficile prevedere con precisione quanti neonati riceverebbero il cognome materno in seguito all’approvazione della legge, senza dati specifici sulle preferenze dei genitori, qualsiasi calcolo sarebbe approssimativo ma comunque indicativo. Analizzando alcuni dati dell’ente nazionale di statistica (cfr. QUI), si evince che:

– La natalità in Italia è in costante calo, nel 2023, i nati residenti in Italia sono stati 379.000, segnando un nuovo minimo storico con un calo di 14.000 unità rispetto al 2022 (-3,6%);
– Le madri sole, o le cosiddette famiglie “monogenitoriali”, hanno statistiche ancora molto approssimative per il campione così ridotto, tuttavia, i nuclei famigliari in cui la madre è il genitore unico è aumentato come conseguenza dei divorzi, separazioni e scelte singolari di maternità;
– I “monogenitori”, ossia padri e madri soli, tra il 2011 e il 2021 hanno registrato un aumento del 44%: le madri sole sono aumentate del 35,5%, mentre i padri soli si sono incrementati attestandosi all’85%.

Questa proposta di legge sarebbe interessante per i nuclei “monogenitoriali” che secondo i dati ISTAT sarebbero in crescita e che comprendono le famiglie sensibile alle questioni di parità di genere, le famiglie con genitori non sposati in cui la scelta del cognome può essere più complessa, in questo e altri casi la proposta semplificherebbe il processo di assegnazione del cognome. È estremamente difficile calcolare con precisione quante famiglie sceglierebbero effettivamente di utilizzare il cognome materno, ma potrebbe arrivare anche al 10-20% delle famiglie, ciò rappresenterebbe un numero significativo di individui che non devono essere esclusi.

La scelta politica della sinistra, negli ultimi anni potrebbe essere considerata progressista, ma volendo anche una forma di lotta radicale per il riconoscimento civile e l’adeguamento giuridico e sociale verso i gruppi minoritari. Secondo quello che dicono gli attuali esponenti politici nei loro discorsi ideologici fatti sulle televisioni e nei comizi sulle piazze, questi gruppi, ostracizzati o condannati nel corso della storia, oggi devono ricevere il proprio pieno riconoscimento all’interno della società, se la società stessa vuole essere veramente civile. Questo abbandono della sinistra verso l’ideale della lotta di classe o contro certi sistemi economici in cui l’operario o il membro della classe proletaria era strumentalizzato come elemento di propaganda, non è più così importante e rilevante, come lo è la lotta per questi gruppi minoritari, o per dirla in altri termini: dalle lotte operaie di piazza con le sfilate dei metalmeccanici in tuta, siamo passati al gay pride con gli uomini arcobalenati vestiti come grottesche fatine in tacchi e calze a rete.

È una scelta ideologica, quella dei post-comunisti, che appare oggi più in contradizione con un mondo nel quale la difesa dei deboli, all’interno di poteri economici-cannibali, è favorita nelle sue tragiche diseguaglianze tra le classi proprio dalle Sinistre internazionali, quelle che ieri urlavano “peace and love” e che oggi urlano al riarmo dell’Europa, con in testa la Germania, che a suo tempo non fu disarmata propriamente per caso.

Il transfert freudiano su certe minoranze privilegiate come i cisgender e chi non vuole accettare e adeguarsi a ruoli e schemi “tradizionali” sociali, sembra una sorta di “aggiornamento della lotta di classe” o, meglio una sua parodia, affinché si possa rivoluzionare i concetti basilari della cultura che a poco a poco riescono a “educare” le nuove generazioni, oltre al popolo obbligato a sua volta a cambiare la società alla propria radice. La scelta comunque ideologica, anche se rivendica una maggiore inclusione e tolleranza, troppo spesso mette in risalto la esclusività di questi gruppi minoritari a discapito della maggioranza della popolazione. Sono segmenti statisticamente inferiori che vengono salvati e protetti dalla “massa” quasi come una nuova sorta di “fascio” superiore diverso e accogliente. Tema complesso, questo, sul quale ha scritto un saggio lungimirante un nostro autore, Francesco Mangiacapra, nella sua opera Il golpe del politicamente corretto – Quando le minoranze divengono dittatura.

La nuova lotta degli esponenti di sinistra non solo dimentica il popolo, come provano i fatti, ma con inconsapevole vena comica usa quella dialettica in cui sono presentate le politiche degli avversari come “retorica di pancia”, o come “bieco populismo”, fomentati da talk show che alimentano il vittimismo, le pose da perseguitati e il bisogno di un riscatto vendicativo, anziché la ricerca della giustizia retributiva e dei beni di ogni individuo al di sopra di loro personali piaceri egoistici o egocentrici. 

Se vogliamo un pensiero per così dire “di sinistra”, bisogna tornare indietro al finire degli anni Sessanta del Novecento, aprire una enciclica scritta da Paolo VI nel 1967 intitolata Populorum Progressio, leggerla con attenzione e imparare quel che dovrebbe essere realmente il progresso dei popoli basato sul buon senso umano e cristiano, non sulla cieca ideologia.

dall’Isola di Patmos, 9 aprile 2025

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Omaggio hard rock dei Padri de L’Isola di Patmos

OMAGGIO HARD ROCK DEI PADRI DE L’ISOLA DI PATMOS

È vero che tutti chiedono, noi però siamo fantastici e per questo meritiamo, siamo hard rock. Quindi, anche se non chiediamo mai, cercate di sostenere la nostra opera. 

– Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos –

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos 

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Dall’Isola di Patmos, 7 aprile 2025

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La pietra di Gesù e l’antica Bocca di Rosa che metteva l’amore sopra ogni cosa

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PIETRA DI GESÙ E L’ANTICA BOCCA DI ROSA CHE METTEVA L’AMORE SOPRA OGNI COSA

«C’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di Rosa né l’uno né l’altro, lei lo faceva per passione»  

 

 

 

 

 

 

 

 

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la audio lettura sarà disponibile nel pomeriggio di domenica

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C’è un filo che lega la frase di Gesù ascoltata due Domenica fa: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13, 3); a quella, divenuta famosa, che leggiamo nel Vangelo di questa Quinta Domenica di Quaresima: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». È il tema della misericordia, magistralmente rappresentato da Gesù nella parabola del Figliol prodigo proclamata invece domenica passata.

Oggi, lasciato Luca, leggiamo il Vangelo di Giovanni, dove troviamo un’affermazione di Gesù che spiega bene il brano della donna adultera:

«Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Dopo tanti scontri coi suoi avversari, finalmente questi portano a Gesù un caso concreto che interseca un peccato sociale, l’adulterio. Essi sanno che il suo insegnamento è incentrato sull’apertura ai peccatori, ha mangiato con loro, ha già detto al paralitico «Non peccare più» (Gv 5,14), eppure insistono per metterlo alla prova, tanto che questa apertura di Gesù diventerà uno dei motivi della sua condanna. Leggiamo il Vangelo.

«Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv 8,1-11).

Il testo è complesso — fin dall’antichità pose problemi di critica testuale per la sua assenza nei manoscritti più importanti — anche per la distanza culturale che ci separa dalle tematiche lì espresse, e in questo modo le interpretazioni si sono moltiplicate. Alcuni, forse proprio perché la sensibilità odierna è molto cambiata rispetto quell’antica cultura, mettono in risalto la violenza usata verso la donna da parte di quegli uomini maschi, di contro alla gentilezza e all’atteggiamento usati da Gesù verso di lei. Si chiedono dove sia l’uomo al contempo adultero che la Legge ordinava di mettere a morte alla stregua della donna, se scoperti (Dt 22, 22). Non stanno facendo, in questo modo, violenza anche alla Legge, oltre che alla donna, quegli uomini che la spingono in mezzo, lì davanti a tutti, nel Tempio poi, al fine di incastrare Gesù?

Per qualcun altro è probabile non si tratti di un vero adulterio, ma di un utilizzo capzioso delle parole di Gesù per metterlo in difficoltà. Queste parole si trovano in Mt 5, 31-32:

«Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio».

Secondo quel che dice Gesù in Matteo il ripudio della moglie, pur ammesso dalla Torah (Dt 24, 1-4) per mezzo di un libello di divorzio, espone comunque la divorziata all’adulterio. La scrittura di divorzio aveva lo scopo di limitare l’arbitrio maschile e di concedere alla donna, dopo la separazione, la possibilità di risposarsi senza essere accusata di adulterio. Gesù nel Discorso della Montagna aveva poi detto: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5, 17). Perciò in quelle difficili parole sopra riportate comprendiamo almeno che per Gesù il divorzio è un atto che va contro l’amore verso la propria moglie, esponendola all’adulterio. Secondo questa interpretazione è possibile che quella donna buttata lì in mezzo fosse in verità una divorziata risposata e secondo quegli scribi e farisei non poteva essere riprovata, ma siccome sono venuti a conoscenza che Gesù ha avanzato quella nuova ermeneutica della Legge, loro la sfruttano per «metterlo alla prova» (cfr. Gv 8, 6; Mt 19, 3). Dimostrano così di tenere più al caso e di nessun conto la persona; pervertendo l’insegnamento di Gesù già avevano messo mano alle pietre per lapidarla. Così commenta Sant’Agostino: «Si interessavano dell’adultera, e intanto perdevano di vista se stessi».

Il brano evangelico si apre con l’annotazione di Gesù che si reca al Tempio per insegnare ad una folla numerosa. Anzi il testo dice che «tutto il popolo» (Gv 8,2) andava da lui. Anche in Luca troviamo un’annotazione simile:

«Durante il giorno Gesù insegnava nel Tempio; la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte degli ulivi. E tutto il popolo di buon mattino andava da lui nel Tempio per ascoltarlo» (Lc 21,37-38).

Gesù svolge un’attività quotidiana di insegnamento nel Tempio che probabilmente genera fastidio e per tal motivo viene interrotta in modo subitaneo e violento da alcuni. Da questi Gesù prende le distanze, sottraendosi al faccia a faccia con loro; così mentre due volte vien sottolineato che la donna si trova in mezzo a questo gruppo di persone (vv. 3 e 9), anche per due volte è ripetuto che Gesù si china fino a terra per scrivere (vv. 6 e 8). Non sappiamo se volesse esprimere solidarietà verso la più debole, provando nel suo proprio corpo ciò che lei sta vivendo, ma sicuramente questo gesto ha una valenza teologica. Ripercorriamo i vari passaggi del testo. Gesù si china una prima volta e scrive per terra con il dito (v. 6), scribi e farisei insistono a interrogarlo; quindi si alza e parla loro dicendo: «chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Subito dopo Gesù si china di nuovo per la seconda volta, scrive per terra (v. 8), scribi e farisei se ne vanno a uno a uno cominciando dai più anziani e lasciando solo Gesù con la donna (v. 9), quindi Gesù si alza (v. 10) e dice alla donna: «va’ e non peccare più» (v. 11). C’è qui, con tutta probabilità, un rimando all’Antico Testamento, all’episodio della duplice ascensione di Mosè al monte Sinai dove riceve due volte le tavole della Legge «scritte dal dito di Dio» (Es 31,18). In quel caso Mosè sceso una prima volta dal monte spezzò le tavole della Legge perché il popolo le stava trasgredendo col peccato del vitello d’oro (Es 32, 19). Egli sale ancora e riceve di nuovo le tavole riscritte una seconda volta insieme alla rivelazione del nome di Dio misericordioso e capace di perdono:

«Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato…”» (Es 34, 1-9).

Così Gesù, col suo gesto di chinarsi, scrivere e alzarsi due volte, sembra alludere, mimeticamente, al dono della Legge donata due volte, una Legge che conteneva già il dono della misericordia ed il perdono, tanto che l’alleanza agli occhi del Signore Dio non viene annullata dal peccato dell’uomo. Ora è Gesù, nella Nuova Alleanza, che rivela la misericordia ed il perdono divini, poiché in entrambi i casi in cui Gesù si alza e parla  pronunciando parole che hanno a che fare con il peccato, degli scribi e dei farisei prima e della donna poi, la quale poi è già stata perdonata, anche se alla fine le dirà: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gesù chiede alla donna un’assunzione di responsabilità, perciò la invia dimostrando fiducia in lei. Il fatto poi che nel nostro testo il chinarsi preceda il rialzarsi a differenza della vicenda di Mosè che al Sinai prima è salito e poi è disceso, è un riferimento all’evento fondamentale dell’incarnazione del Verbo che prima è disceso e poi è stato innalzato nella gloria: «Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose» (Ef 4,10). Nel mistero di Cristo si rivela, dunque, il volto del Padre Dio ricco di misericordia, secondo l’espressione evangelica già menzionata inizialmente: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Al di là di ogni possibile interpretazione il testo di Giovanni 8,1-11 afferma che la misericordia di Dio diventa prassi in Gesù. Sono rimaste famose le parole di Sant’Agostino a commento dell’incontro tra il Signore e l’adultera:

«Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia (misera et Misericordia.

Parole che colpirono anche Papa Francesco che scrisse:

«Non poteva [Sant’Agostino] trovare espressione più bella e coerente di questa per far comprendere il mistero dell’amore di Dio quando viene incontro al peccatore» (Lettera Apostolica Misericordia et misera del Santo Padre Francesco a conclusione del Giubileo straordinario della misericordia, 2016).

Giustamente la liturgia in questa domenica ci fa pregare:

«O Signore che hai mandato il tuo Figlio unigenito non per condannare ma per salvare il mondo, perdona ogni nostra colpa, perché rifiorisca nel cuore il canto della gratitudine e della gioia».

Dall’Eremo, 5 aprile 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica … non sta scritto “sinodale” …

CREDO LA CHIESA UNA, SANTA, CATTOLICA APOSTOLICA … NON STA SCRITTO “SINODALE”

Con buona pace dei piloti tedeschi di sempre, noi non professiamo “credo nelle Chiese”, perché la Chiesa è una, non molteplici; perché è la particolarità o località che deve sottostare alla universalità della Chiesa, non la universalità della Chiesa a sottostare alla particolarità o località, specie ai capricci teutonici. 

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

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La Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium si apre con queste parole:

«Cristo è la luce delle genti, e questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini, annunziando il Vangelo a ogni creatura» [1].

Il Concilio Vaticano II indica che l’articolo di fede sulla Chiesa dipende interamente dagli articoli concernenti Gesù Cristo. La Chiesa non ha altra luce che quella di Cristo. Secondo un’immagine cara ai Padri della Chiesa, essa è simile alla luna, la cui luce è tutta riflesso del sole.

L’articolo sulla Chiesa dipende anche interamente da quello sullo Spirito Santo, che lo precede:

«In quello, infatti, lo Spirito Santo ci appare come la fonte totale di ogni santità; in questo, il divino Spirito ci appare come la sorgente della santità della Chiesa»[2]. Secondo l’espressione dei Padri, la Chiesa è il luogo «dove fiorisce lo Spirito»[3].

Credere che la Chiesa è «Santa» e «Cattolica» e che è «Una» e «Apostolica» (come aggiunge il Simbolo niceno-costantinopolitano) è inseparabile dalla fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Nel Simbolo degli Apostoli professiamo di credere la Santa Chiesa e non nella Chiesa, per non confondere Dio con le sue opere e per attribuire chiaramente alla bontà di Dio tutti i doni che egli ha riversato nella sua Chiesa[4] (cfr. QUI).

Credo la Chiesa una, santa, cattolica apostolica … non sta scritto “sinodale”, ma soprattutto — con buona pace dei piloti tedeschi di sempre, noi non professiamo “credo nelle Chiese”, perché la Chiesa è una, non molteplici; perché è la particolarità o località che deve sottostare alla universalità della Chiesa, non la universalità della Chiesa a sottostare alla particolarità o località, specie ai capricci teutonici. Anche per questo, l’ultimo Sinodo, si è rivelato un notevole fallimento.

Dall’Isola di Patmos, 4 aprile 2025

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Note

Cfr. 1: AAS 57, anno 1965, 5
Cfr. Catechismo Romano, 1, 10, 1: ed. P. Rodríguez (Città del Vaticano-Pamplona 1989) p. 104.
Cfr. Sant’Ippolito di Roma, Traditio apostolica, 35: ed. B. Botte (Münster I.W. 1989) p. 82.
Cfr. Catechismo Romano, 1, 10, 22: ed. P. Rodríguez (Città del Vaticano-Pamplona 1989) p. 118.

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Il 2 aprile tornava alla Casa del padre Giovanni Paolo II e moriva Antonio Livi, l’ultimo teologo della Scuola Romana

IL 2 APRILE TORNAVA ALLA CASA DEL PADRE GIOVANNI PAOLO II E MORIVA ANTONIO LIVI, L’ULTIMO TEOLOGO DELLA SCUOLA ROMANA 

Con il passare degli anni ci rendiamo conto sempre più che certi uomini, morendo, hanno lasciato tanti vuoti nella Chiesa, perché non sono stati sostituiti e non c’è stato alcun ricambio e continuità.

– Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos –

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Riproponiamo un breve articolo scritto da Padre Ariel S. Levi di Gualdo nell’aprile del 2020 in occasione della morte di Antonio Livi, che assieme all’accademico pontificio domenicano Giovanni Cavalcoli fu uno dei fondatori di questa nostra rivista. 

 

Dall’Isola di Patmos, 2 aprile 2025

 

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È MORTO ANTONIO LIVI ASSIEME AL SANTO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II AUTORE DELLA ENCICLICA FIDES ET RATIO

Questa mattina è morto Antonio Livi, presbitero romano e ultimo teologo della Scuola teologica romana. I Padri de L’Isola di Patmos affidano un commento in suo ricordo ad Ariel S. Levi di Gualdo.

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Autore
I Padri de L’Isola di Patmos

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Antonio Livi, accademico della Pontificia Università Lateranense

Riposi in pace il nostro confratello Antonio Livi, toscano-pratese di nascita, presbìtero romano, filosofo e teologo, ultimo grande esponente della Scuola teologica romana, tornato alla Casa del Padre questa mattina.

Il nostro confratello, 82 anni, da tempo era ammalato di tumore al cervello. La sua morte non è in alcun modo ricollegabile alla pandemia in corso.

Tra i fondatori di questa nostra rivista nata nell’ottobre del 2014, Antonio Livi fu l’autore del sottotitolo che accompagna L’Isola di Patmos«Il luogo dell’ultima rivelazione». Fu infatti in quest’isola dell’Egeo che il Beato Apostolo, noto anche come l’Aquila, scrisse il Libro dell’Apocalisse.

Chi ha conosciuto Antonio Livi a fondo, sa che la cosa peggiore che gli si potrebbe fare è l’apologia del Caro Estinto. O com’ebbe a dirmi lui stesso in un’occasione col suo cinismo tipicamente toscano:

«Quando muore un prete, lo si piange due giorni, facendo finta, ovviamente. Poi, a partire dal terzo giorno, ci si rallegra perché si è tolto di mezzo».

Inutile ricordare il suo curriculum accademico, perché una volta detto che Antonio Livi era l’ultimo esponente della Scuola teologica romana, con ciò è stato detto tutto.

Antonio Livi con il Sommo Pontefice Benedetto XVI in visita alla Pontificia Università Lateranense

Amabile come persona e al tempo stesso carattere a volte impossibile. Con lui dialogare voleva dire alla fine litigare. Tanto che una volta gli dissi: «Quando avrai finito di litigare con tutti, a quel punto comincerai a litigare con te stesso». E quando una volta, in tono di lamentela mi disse: «… sai, dicono in giro di me che io sia permaloso». Replicandogli in modo sfottente dissi: «Non mi dire! Calunnie, orribili calunnie. Tu permaloso in modo, per così dire … ordinario? No, tu sei più permaloso di una scimmia cappuccina!».

Ha voluto bene a me e io a lui, ci siamo voluti bene litigando. Una volta ci “scotennammo” per il classico malinteso: io scrissi che senza il supporto storico il dogma sarebbe rimasto campato in aria, essendo il dogma anche frutto di una precisa storia, a volte persino di una precisa politica che aiuta a comprendere come si è giunti alla sua solenne definizione. Lui decise di capire fischi per fiaschi — perché in quel momento aveva bisogno psicofisico di litigare con qualcuno — e mi dette dello storicista e del cripto-modernista. Al ché io presi a sfottere la sua logica aletica, un suo cavallo di battaglia; e la cosa andò avanti per settimane. Poi intervenne l’anziano Brunero Gherardini che disse all’uno e all’altro: «Mi sembrate due cani che mordono lo stesso osso!». Questo era Antonio Livi, per questo affermo che beatificarlo oggi nel giorno della sua morte, vorrebbe dire recargli davvero ingiuria.

Antonio Livi

La morte giunge sempre silente, però, a suo modo, a volte parla: Antonio Livi è morto il 2 aprile, nello stesso giorno in cui morì il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, sotto il quale collaborò alla stesura della celebre Enciclica Fides et Ratio, che s’è portata nel cuore per tutta la sua vita. Noi sapevamo del suo prezioso contributo dato alla stesura di questa Enciclica, ma lui non lo diceva e mai se n’è gloriato. Sicché non solo litigioso e permaloso, ma anche umile e discreto servitore della Chiesa e del papato. 

Alla casualità non crediamo, anzi immaginiamo da chi la sua anima è stata accolta. E forse, Giovanni Paolo II, accogliendolo col sorriso sornione tipicamente suo e con l’ironia propria del suo carattere, può essere che gli abbia detto: «Antonio, adesso puoi finalmente rilassarti, perché hai finito di litigare, dopo avere sperimentata sulla tua pelle, nel corso della tua malattia, anche l’essenza di un’altra mia celebre Lettera Apostolica: la Salvifici Doloris».

E forse, il dolore che negli ultimi anni ha sofferto, lo ha purificato come un nuovo Battesimo, aprendogli le porte al premio della beatitudine eterna.

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Ariel S. Levi di Gualdo

Dall’Isola di Patmos, 2 aprile 2020

in memoria di Antonio Livi

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