«Guai a voi ricchi perché avete già ricevuto la vostra consolazione». L’Italia detiene il primato europeo della piaga dell’invidia sociale

«GUAI A VOI RICCHI PERCHÈ AVETE GIÀ RICEVUTO LA VOSTRA CONSOLAZIONE». L’ITALIA DETIENE IL PRIMATO EUROPEO DELLA PIAGA DELL’INVIDIA SOCIALE

Non è la prima volta, in dieci anni di pontificato, che si parte dall’uomo per giungere di riflesso a Gesù Cristo o che si parte da Gesù Cristo per mettere al centro neppure l’uomo, ma una figura di uomo privilegiato: il povero. Stile questo usato dal Vescovo Tonino Bello, di cui gli improvvidi Vescovi della Puglia aprirono la fase diocesana del processo di beatificazione, giunto oggi alla Congregazione per le cause dei Santi.

—  Attualità ecclesiale —

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Nel corso degli anni passati ho avuto più volte modo, mentre tutti tacevano, di far notare che certi richiami del Sommo Pontefice Francesco sui poveri rasentavano in parte la nevrosi ossessiva e in parte la serpeggiante ideologia. Oggi questo fatto è pubblicamente lamentato dagli stessi che ieri mi dicevano «attento», oppure «non sei opportuno e prudente», o peggio che mi rimproveravano: «Come osi criticare il Santo Padre?». Faccio notare che questi secondi si sono poi svegliati improvvisamente anni dopo, alle soglie dei settant’anni, quando hanno dovuto fare i conti con la realtà che l’agognata nomina episcopale non era giunta e che mai sarebbe giunta. Così, per magico incanto, hanno scoperto che anche un Sommo Pontefice può essere oggetto di critiche e che in tal senso, la storia della Chiesa, anche quella recente, ci insegna in che modo, talora anche duro e severo, molti predecessori dell’Augusto Pontefice sono stati criticati più dentro che non fuori dalla Chiesa. Chi, come il sottoscritto, è uno studioso da sempre dei concili dogmatici della Chiesa ne sa qualche cosa.

Il 23 giugno 2023 il Santo Padre ha ricevuto in udienza un numeroso gruppo di artisti ai quali ha ricordato:

«Vorrei chiedervi di non dimenticarvi dei poveri, che sono i preferiti di Cristo, in tutti i modi in cui si è poveri oggi. Anche i poveri hanno bisogno dell’arte e della bellezza. Alcuni sperimentano forme durissime di privazione della vita; per questo, ne hanno più bisogno. Di solito non hanno voce per farsi sentire. Voi potete farvi interpreti del loro grido silenzioso» [discorso integrale, QUI].

Questa esortazione è chiara nella sua costruzione e struttura: l’elemento centrale è il “povero ideologico”, mentre l’accessorio che serve per esaltarne la figura onirica e surreale è Gesù Cristo. Quindi il povero è al centro, di lato a seguire Gesù Cristo che preferisce il povero eletto a categoria privilegiata rispetto a tutti gli altri figli di Dio.

Tra quegli artisti presenti, la gran parte erano persone che considerano l’aborto una grande conquista sociale e un diritto intangibili, l’eutanasia un gesto di grande umanità verso un malato terminale, che rivendicano il “diritto” al matrimonio tra coppie dello stesso sesso e del conseguente “diritto” dell’adozione dei bambini da parte delle coppie omosessuali e il ricorso alla maternità surrogata, o cosiddetto utero in affitto. Gran parte di loro sono soggetti che saltano da una convivenza all’altra, o che dopo avere collezionato due divorzi hanno infine deciso di convivere evitando ulteriori problemi di separazioni legali, andando poi in giro per le televisioni a vantare la meraviglia delle loro “famiglie allargate” … Ebbene, non dico che andava fatta loro una lezione di morale cattolica, sarebbe stato inopportuno e quanto mai controproducente, però, costava tanto dire loro: “Cari artisti, non dimenticatevi di Gesù Cristo, che è l’inizio, il centro e il fine ultimo del nostro intero umanesimo, come l’arte stessa ci ricorda nelle sue espressioni più alte e nobili». Forse costava tanto, anche perché diversi di questi artisti, che pure vivono nell’ostentazione di un lusso sfrenato, sicuramente sono usciti felici dicendo: «Finalmente, un Papa che parla dei poveri!». È infatti noto e risaputo che la Chiesa, dei poveri, ha incominciato a occuparsene solo dieci anni fa, non certo sin dalla prima epoca apostolica. Pertanto, tutte le nostre istituzioni, fondazioni e opere dei grandi Santi e Sante della carità che da secoli assistono famiglie povere, bambini, orfani, disabili, anziani soli e abbandonati, sono solo delle illusioni ottiche. In verità, dentro il Cottolengo di Torino, c’è una beauty farm gestita dalle suore, un centro benessere a cinque stelle, non un centro di assistenza per affetti da gravi disabilità fisiche e psichiche. Le nostre Caritas, per chi non lo sapesse, nascono dopo il febbraio del 2013, perché prima non esistevano. In verità, la stessa parola Caritas è stata inventata sotto questo pontificato. Se all’epoca l’avesse conosciuta il Beato Apostolo Paolo chissà quante riflessioni belle vi avrebbe scritto sopra, forse avrebbe persino affermato che tra tutte le virtù, la più importante, era proprio la carità [I Cor 13, 13]. Purtroppo però, all’epoca, il concetto di carità era ignoto e il Beato Apostolo Paolo si perse quella bella occasione.

Non è la prima volta, in dieci anni di pontificato, che si parte dall’uomo per giungere di riflesso a Gesù Cristo o che si parte da Gesù Cristo per mettere al centro neppure l’uomo, ma una figura di uomo privilegiato: il povero. Stile questo usato dal Vescovo Tonino Bello, di cui gli improvvidi Vescovi della Puglia aprirono la fase diocesana del processo di beatificazione, giunto oggi alla Congregazione per le cause dei Santi.

Un doveroso inciso a correzione della evidente ignoranza che serpeggia persino in certi ambienti ecclesiali ed ecclesiastici: quella in corso di Tonino Bello non è una causa di canonizzazione, come indica il sito ufficiale della Diocesi di Molfetta ma una causa di beatificazione. Per canonizzazione si intende infatti l’apertura di un processo per giungere a canonizzare un beato, ossia a proclamare santo un beato. E con questo è presto detto tutto sui tempi che corrono e che purtroppo dobbiamo subìre e vivere [cfr. QUI].

È la prima volta ― o perlomeno io non ho memoria storica in tal senso ― che viene aperto un processo di beatificazione per un Vescovo che nel corso della propria intera vita ha mostrato una inquietante ignoranza in materia di dottrina, fautore e promotore di una cristologia imbarazzante ma soprattutto non cattolica, per seguire con una mariologia rasente a volte la blasfemia del tutto involontaria. Tonino Bello, di fatto eterodosso, è stato il precursore dei vescovi sociali con la crocetta di legno al collo e il pastorale da falegnameria in mano prodotto nella bottega di Mastro Geppetto, dopo che questo celebre falegname della famosa novella di Collodi aveva costruito non un solo Pinocchio, ma tanti piccoli pinocchi episcopali fatti in serie.

Alcuni replicano: «Ma Tonino Bello era buono!». Non lo metto in dubbio. O che forse, Ario e Pelagio, erano cattivi? Esistono cronache in tal senso? Sant’Agostino, che a Pelagio lo contrastò duramente [cfr. QUI], pose in discussione il suo pensiero ereticale, mica affermò che era cattivo.

Il IV Concilio Lateranense del 1215 che condannò l’eresia millenarista di Gioacchino da Fiore — con buona pace di coloro che oggi vogliono attribuire ad altri e non a lui quei pensieri — non affermò che il florense era cattivo, tutt’altro! Mentre da una parte questo Concilio condannava gli errori del suo pensiero, al tempo stesso, i Padri, ribadivano le sue indubbie virtù e la sua santità di vita. Essere buoni, o essere sensibili ai poveri, non vuol dire essere uomini di solida e ortodossa dottrina, meno che mai essere santi. Un soggetto buono non è in quanto tale automaticamente in linea con la dottrina, il pensiero e il perenne magistero della Chiesa. Quello di Tonino Bello è un pensiero che abbonda di numerose e grossolane eresie, lo provano suoi scritti e pubblici discorsi. Può essere però che i Vescovi della Puglia abbiano individuato un patronato che sino a oggi era rimasto scoperto. Esiste infatti persino il patronato delle prostitute pentite, di cui è patrona Santa Margherita da Cortona, non esisteva però ancóra un Santo Patrono degli eretici. Può essere che i Vescovi della Puglia abbiano pensato in tal senso a promuovere il loro conterraneo Tonino Bello, dal quale prende poi vita quel pensiero insidioso che diversi tra noi teologi chiamiamo toninobellismo.

Nel Discorso della Montagna, noto anche come Beatitudini, Gesù Cristo afferma: «Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» [Lc 6,17-20.26].

Si tratta forse di un manifesto primigenio della futura lotta di classe? No, in verità si tratta anzitutto di un errore di traduzione, di quelli che abbondano soprattutto nelle versioni della Conferenza Episcopale Italiana, come di recente ha fatto notare anche il nostro autore Monaco Eremita in un suo articolo [vedere QUI]. Questa apertura «Ma guai a voi, ricchi», nel nostro lessico parlato suona come una minaccia. Infatti, nel vocabolario italiano, la parola «guai» è indicata come una esclamazione di minaccia. Ce lo conferma la letteratura, basti pensare alla figura di Caronte, il barcaiolo che conduce i dannati nel luogo di perdizione eterna, che nell’Opera di Dante, al Canto III dell’Inferno, tuona:

«Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi a l’altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo. E tu che se’ costì, anima viva, pàrtiti da cotesti che son morti”».

Nel suo significato etimologico e secondo la migliore letteratura, la parola «guai» costituisce una minaccia grave e ben precisa.

Mi si passi l’ironia: io che a suo tempo non ho fatto il santissimo seminario ― perché come adulto consacrato sacerdote quarantenne ebbi altro genere di adeguata formazione ― il greco l’ho studiato e lo conosco, al contrario dei fuoriusciti dai moderni santissimi seminari nei quali al posto del greco si studia l’inglese e al posto del latino i sociologismi trasmessi dai vari formatori che offrono ai discepoli i pensieri teneri scritti sulle cartine dei Baci Perugina, anziché il solido pane dei grandi Santi Padri e dottori della Chiesa. Nel testo greco di questo Vangelo lucano è usata l’espressione Oὐαί (ouai), che non è affatto una maledizione in tono di minaccia, ma una espressione che equivale ad ahimè, o per usare un arcaismo de’, il tutto per esprimere con tenero spirito un senso di rammarico. Espressione nella quale la ricchezza è usata come paradigma per esprimere altro: l’egoismo, la mancanza di altruismo e di generosità, l’attaccamento alle cose materiali, che non sono solo il danaro, perché l’attaccamento a certi stili di vita o pensiero può essere di gran lunga più nocivo del rapporto morboso con la ricchezza materiale. Ne consegue quindi la lode «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» [Lc 6,17-20.26]. Lode non riferita certo al fatto che l’essere poveri è una nota di merito al punto da meritare per questo la salvezza eterna. Per poveri in spirito si intendono coloro, indistintamente ricchi o poveri di soldi, che hanno conquistato la libertà dei figli di Dio attraverso quella verità che una volta conosciuta ci farà liberi [cfr. Gv 8,28].

Che elementi di questo genere li sottovalutasse un evidente lacunoso teologico come Tonino Bello, indubbiamente è cosa grave, perché un vescovo è sommo sacerdote e maestro. Però, se questi elementi, li ignora e sottovaluta il maestro e il custode supremo della dottrina della fede cattolica, a dir poco è inquietante. Per questo siamo allo sbando nel modo in cui ormai siamo tristemente e tragicamente ridotti.

Passiamo alla seconda e ultima parte di questo discorso. Da alcune settimane le reti televisive e i giornali parlano del grande flusso di turisti in Italia, ponendo l’accento sul fatto che le strutture alberghiere e i resort che offrono servizi di extra lusso sono tutti pieni, a tal punto che non è possibile trovare posto. Le redazioni televisive Rai e Mediaset hanno sguinzagliato i loro giornalisti per riprendere e mandare in onda interviste fatte ai direttori di queste strutture che alle domande loro rivolte hanno risposto che i costi di certe suites variavano da cinque, sei, sino alla bellezza di 15.000 euro al giorno. Pochi minuti dopo venivano mandati in onda servizi fatti a varie famiglie del popolo proletario che spiegavano in che modo non potevano fare le vacanze, dato l’aumento dei prezzi, oppure che avrebbero potuto farle in clima di stretta economia improntandole sul più attento risparmio.

La cosa peggiore che si possa fare a livello giornalistico e mediatico è di fomentare l’istinto dell’invidia sociale, che in Italia non necessita di essere fomentata, perché se essa fosse uno sport, noi italiani deterremo il primato assoluto a livello europeo.

Sebbene non sia un economista e meno che mai propenso a fare il tuttologo che si lancia in mestieri che non sono i miei di pertinenza, applicando la basilare logica del buon senso comune mi rammarico dinanzi a simili servizi faziosi che istigano di fatto all’odio sociale di classe. Se infatti nel nostro Paese, centri che offrono servizi di extra lusso del genere, non hanno posti liberi e sono prenotati per tutta l’estate, ciò dovrebbe rallegrare anzitutto proprio i figli del popolo proletario. Semplice il motivo: quanto personale di lavoro è richiesto di necessità per offrire servizi alberghieri a simili costi stratosferici? Per ogni suite occorrono quattro camerieri fissi che coprano ininterrottamente a due a due un servizio di 18 ore, per non parlare del relativo personale necessario per offrire altrettanti analoghi servizi per le prime colazioni, per le seconde colazioni e le cene, per i servizi alle piscine e tutti gli altri comfort offerti. Pertanto, i padri, le madri, i figli e i nipoti del popolo proletario dovrebbero essere i primi a rallegrarsi, perché tutto ciò si chiama: posti di lavoro. A meno che non si preferisca al posto di lavoro il reddito di cittadinanza parassitario, quello che per alcuni anni è andato non ai bisognosi non in grado di lavorare o senza lavoro, che ne avevano sì sacrosanto diritto e che vanno aiutati e sostenuti, ma ai furbi, la più alta percentuale dei quali è risultata essere presente, putacaso, nella Città di Napoli, non lo hanno detto i cattivi anti-meridionalisti razzisti, ma i dati delle varie Agenzie di Stato. Perché è questo che produce il turismo di extra lusso: posti di lavoro. O qualcuno pensa che la pensioncina economica di Rimini per le vacanze economiche del popolo proletario, al costo di 70 euro al giorno camera e prima colazione, possa produrre altrettanti posti di lavoro, oltre al giro di affari che questo genere di clientela può creare attorno a queste strutture a beneficio di ristoranti, negozi di lusso o gioiellerie all’interno delle quali non si trova neppure una spilla al di sotto del costo minimo di 10.000 euro?

Ricordo alcuni decenni fa, quando ero ragazzino, le proteste di certi attivisti del popolo proletario al grido «le spiagge e le scogliere sono di tutti» e che «tutti hanno diritto a mare e sole». La lotta di classe in questione era legata al fatto che nella esclusiva e costosa zona del Monte Argentario, nella bassa Maremma toscana, i proprietari delle ville sulle scogliere avevano impedito l’accesso al mare al popolo proletario. Varie associazioni, tutte e di rigore di un preciso colore, cominciarono a bordare denunce, fin quando dei magistrati, forse della stessa colorazione, disposero l’apertura dei cancelli e delle recinzioni di certe proprietà, o comunque la creazione di passaggi affinché il popolo proletario potesse esercitare il diritto al mare e al sole.

Questi i risultati: nel giro di una stagione molte scogliere divennero méta di nutriti gruppi di persone rumorose che lasciavano poi tra gli scogli spazzatura e bottiglie di bibite, che urlavano e ascoltavano gli stereo portatili sparati al massimo volume. Un danno notevole all’ambiente e a quel delicato ecosistema, che è uno tra i più belli e incontaminati d’Italia. Gli sporchi ricconi incominciarono così a disertare la zona e ad andarsene in Sardegna o sulla Costa Azzurra. Di questo non ne risentirono né i magistrati, il cui stipendio era assicurato, né i figli del popolo operaio, anch’essi con lo stipendio di fabbrica assicurato inclusa tredicesima e quattordicesima, bensì i ristoratori, i proprietari degli stabilimenti balneari, i negozianti e i vari commercianti della zona. E se i gestori di tutte queste attività non potevano avere un certo giro di lavoro, al tempo stesso non potevano assumere personale e creare e dare posti di lavoro, perché nessuno di loro faceva cassa con i figli del popolo proletario, che si limitavano a guardare le vetrine di certi negozi o a leggere i menù di ristoranti nei quali una cena per quattro persone sarebbe costata la metà dello stipendio mensile di un operaio figlio del popolo proletario. L’ideologia ebbe sul momento la meglio, il popolo proletario ebbe diritto a sole e mare in zone costiere che non possono e non devono essere prese d’assalto dalla grande massa, salvo rovinarle. La conseguenza fu che il danno economico risultò enorme. E così, in zone nelle quali il vecchio Partito Comunista vinceva le elezioni con maggioranze superiori al 60%, fu presto invertita la rotta. Le scogliere furono nuovamente chiuse e i passaggi obbligatori eliminati. A quel punto, gli sporchi ricconi che producevano lavoro e ricchezza ritornarono, mentre il popolo proletario, al quale nessuno ha mai negato mare e sole, era dirottato verso località e spiagge adatte ad accogliere la gran massa di gente.

Oggi, nelle zone della vicina Capalbio, si recano in villeggiatura tutti i più ricchi fricchettoni dei Democratici di Sinistra, tutti nipotini viziati e degenerati del vecchio e glorioso Partito Comunista. E anche loro, i poveri, inclusi i migranti sbarcati clandestini a Lampedusa, non li vogliono tra i coglioni — per usare un francesismo aulico — neppure a distanza dalle recinzioni delle loro ville.

Povero non equivale a buono, esistono poveri che sono dotati di una cattiveria fuori dal comune, dai quali guardarsi, tenersi a distanza e tenerli a distanza. Come esistono ricchi che nella assoluta riservatezza fanno del bene a numerose famiglie e intere istituzioni benefiche che operano a servizio dei vari disagi sociali. L’uomo non è buono o cattivo in base alla classe o al ceto di appartenenza, ma in base alla propria natura e sensibilità umana.

Il nostro Paese dovrebbe puntare sul turismo di lusso, perché sia le Città d’arte italiane sia certe nostre zone costiere, sono ambienti e territori molto fragili e delicati da conservare e mantenere. E non possono essere presi d’assalto da masse di orde spesso barbariche né distrutti in nome dell’ideologia, con turisti cafoni che danneggiano i monumenti di Roma o che fanno il bagno dentro le fontane monumentali.

Ogni tanto qualcuno strepita che la Chiesa italiana ha messo i biglietti d’ingresso per visitare diverse storiche cattedrali e chiese monumentali. Bene hanno fatto, molto prima avremmo dovuto farlo. Ci sono infatti numerosi luoghi di culto che sono monumenti di straordinaria bellezza e altrettanta straordinaria delicatezza. Imporre un biglietto, preferibilmente anche costoso, eviterà che in città come Siena, Pisa, Venezia … certi luoghi siano presi d’assalto da persone che ci entrano tanto per entrarci, non di rado anche per recarvi danni gravi e irreparabili, come possono confermare le varie Soprintendenze alle belle arti corse più volte ai ripari con lunghi, delicati e costosi restauri di opere d’arte danneggiate da idioti che si erano arrampicati da qualche parte per farsi, ad esempio, fotografie spiritose, da inviare ad altrettanti amici idioti sparsi in giro per il mondo.

Pura e semplice economia del buon senso comune, applicata a un Paese come il nostro, dove abbondano ricchezze artistiche e ambientali che richiedono estrema cura e che sono tanto belle quanto fragili, oltre che facili da danneggiare per opera delle moderne orde barbariche. L’Italia è un gioiello delicato e fragile che non è fatto né mai potrà essere fatto per il turismo di massa, con buona pace delle ideologie sul popolo proletario.

dall’Isola di Patmos, 29 giugno 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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«Non abbiate dunque paura: voi valete molto più dei passeri»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«NON ABBIATE DUNQUE PAURA: VOI VALETE PIÙ DI MOLTI PASSERI»

 

… c’è la paura che blocca, che fa perdere il coraggio dell’annuncio e della testimonianza, la paura che si prova di perdere la faccia, un privilegio o di non essere à la page. E si diventa pigri e man mano si perde forza e si arriva a non riconoscere più Gesù, il Maestro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ogni mattina, appena sveglio, provvedo a versare un bicchiere generoso di chicchi di riso soffiato in un contenitore poggiato su un albero del giardino. Appena rientrato in casa mi godo lo spettacolo. Decine e decine di passeri prima svolazzanti intorno, sugli alberi o nelle siepi, cominciano a planare, azzuffandosi o rincorrendosi, sulla ciotola di riso e un po’ lo mangiano, altro ne gettano intorno, oppure se lo portano via, probabilmente per sfamare i nuovi nati che in questo periodo dell’anno escono dalle uova.

Nel Vangelo di questa XII domenica del tempo ordinario, proprio al centro del breve discorso di Gesù si parla dei passeri. Egli rassicura i discepoli: “Voi valete più di molti passeri”. Ecco il brano del Vangelo:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: “Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”» [Mt 10, 26-33].

Siamo all’interno del decimo capitolo del Vangelo di Matteo, dove si racconta dell’invio in missione dei dodici apostoli. Ma è anche un discorso che è rivolto ai discepoli di ogni tempo e luogo, quindi anche a noi che sentiamo proclamare oggi una pagina che ci giunge da lontano e che probabilmente già risentiva di quelle difficoltà che non solo incontrarono i primissimi discepoli del Signore inviati ai territori di Israele e solo a quelli, ma anche le asperità del cammino che trovarono le successive generazioni di discepoli che si ispirarono alla tradizione dello scritto matteano.

Gesù, proprio nel Vangelo di domenica scorsa, aveva avvisato i discepoli che sarebbe toccata loro la stessa sorte del maestro:

«Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!» (Mt 10,24-25).

Ovvero, ciò che Gesù ha vissuto, sarà vissuto anche dai suoi inviati, che verranno chiamati diavoli, al servizio del capo dei demoni, Beelzebul, e verranno perseguitati fino a essere uccisi da chi crede di dare in questo modo gloria a Dio (Gv 16,2). Per questo motivo nel Vangelo odierno Gesù sente il bisogno, non di indorare la pillola, ma di rincuorare i discepoli e per tre volte (vv. 26. 28.31) li invita a non temere: «Non abbiate paura!».

Vorrei dire la stessa cosa ai miei passeri che, se faccio un movimento brusco o involontario, fuggono via spaventati. La paura è un precoce istinto che l’imprinting ha fissato nelle diverse specie, anche nella nostra. C’è una paura buona che ci consente di non cadere nei pericoli e di essere prudenti. Nello stesso discorso Gesù aveva infatti detto:

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». (10, 16).

E poi c’è la paura che blocca, che fa perdere il coraggio dell’annuncio e della testimonianza, la paura che si prova di perdere la faccia, un privilegio o di non essere à la page. E si diventa pigri e man mano si perde forza e si arriva a non riconoscere più Gesù, il Maestro.

Come Pietro nella notte della passione: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (v. 33). Ma «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro»¹.

Mi dispiace per i traduttori della Conferenza Episcopale Italiana, ma «volere» non c’è in greco. E invece occorre rendere, alla lettera: «… senza il Padre vostro». Ovvero, neppure un passero, cadendo a terra, è abbandonato dal Padre! A maggior ragione i discepoli e pure Pietro che ne è a capo. Allo stesso modo, anche i capelli della nostra testa (v. 30), che perdiamo ogni giorno senza accorgercene: sono tutti contati, tutti sotto lo sguardo del Padre. Da una tale contemplazione nasce la fiducia che scaccia il timore: Dio vede come ci vede un padre, che ci guarda sempre con amore e non ci abbandona mai, neanche quando cadiamo.

Quando pensiamo di essere soli come discepoli, lasciati in balìa delle prove che la vita ci presenta o degli avversari che non danno tregua, ripensiamo al profeta Geremia della prima lettura di questa domenica: «Sentivo la calunnia di molti. Terrore all’intorno… Ci prenderemo la nostra vendetta» (Ger 20,10). Geremia si lascia andare a un momento di rabbia per la situazione che si è creata: «possa io vedere la tua vendetta su di loro» (v. 12). Chi non lo capirebbe? Ma poi prevale l’uomo di fede chiamato dal seno della madre: «Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero» (v. 13). Gli fa eco il salmista del responsorio odierno:

«Vedano i poveri e si rallegrino; voi che cercate Dio, fatevi coraggio, perché il Signore ascolta i miseri non disprezza i suoi che sono prigionieri. A lui cantino lode i cieli e la terra, i mari e quanto brùlica in essi» (Sal 68).

Ora ditemi se c’è un protagonista della Scrittura al quale il Signore Dio non abbia rivolto l’incoraggiamento che Gesù dice in forma triplice ai discepoli: non aver paura e non temere. Neanche uno, da Abramo a Giuseppe di Nazareth. Pensate che la Vergine Maria non se lo sia sentito dire? Anche lei: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,30). Poi possiamo discutere fino a domattina sulla differenza fra il temere di Maria e quello del parente Zaccaria, fra quello di Geremia o di San Pietro mentre Gesù veniva interrogato nel Sinedrio. La cosa importante che il Vangelo di oggi ci rivela è questo invito a lasciar cadere la paura, a non permettere che questa emozione primaria prenda il sopravvento, a motivo della speciale protezione di Dio, il Padre che Gesù ci rivela, il quale non ci abbandona come spazzatura², la qual cosa fa invece l’avversario per eccellenza.

Perché Gesù dopo aver inviato i suoi, compresi noi oggi, invita a non aver paura davanti a niente e nessuno? Perché questo è il tempo della rivelazione (v. 26) o come qualcuno ha detto «il tempo della fine»³ inaugurato da Gesù. Il tempo della missione è un tempo di apocalisse, non nel senso catastrofico solitamente attribuito a questo termine, ma nel senso etimologico di ri-velazione, di alzata del velo. L’annuncio del Vangelo, infatti, richiede che ciò che Gesù ha detto nell’intimità sia proclamato in pieno giorno, ciò che è stato detto nell’orecchio sia gridato sui tetti.

«Nulla vi è di nascosto (verbo καλύπτω, kalýpto) che non sarà ri-velato (verbo αποκαλύπτωapokalýpto) né di segreto (κρυπτός, kryptós) che non sarà conosciuto (verbo γιγνώσκω, ghinósko)» (v. 26).

Le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Mt 13,35; Sal 78,2) sono rivelate da Gesù e poi dai discepoli nella storia. E, nascosto nel cuore di questo messaggio inesauribile, sta l’annuncio di Dio come Padre, che è quel «molto di più» come lo chiama l’Apostolo Paolo nella seconda lettura di questa domenica (Rm 5, 12), ovvero l’abbondanza della sua grazia che salva, redime e ama.

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 25 giugno 2023

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NOTE

1 Mt 10, 29b “καὶ ἓν ἐξ αὐτῶν οὐ πεσεῖται ἐπὶ τὴν γῆν ἄνευ τοῦ πατρὸς ὑμῶν”. Traduzione CEI: «Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro».

2 La Gehenna (Mt 10,28) era la valle che raccoglieva la spazzatura di Gerusalemme

3 G. Gaeta, Il tempo della fine, prossimità e distanza della figura di Gesù, Quodlibet 2020

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294)

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Che cos’è un bacio? L’apparente omofobia in terra di Cesena non è grave quanto la crassa ignoranza storica del sindaco DEM che usa a sproposito il termine “Medioevo”

CHE COS’È UN BACIO? L’APPARENTE OMOFOBIA IN TERRA DI CESENA NON È GRAVE QUANTO LA CRASSA IGNORANZA STORICA DEL SINDACO DEM CHE USA A SPROPOSITO IL TERMINE “MEDIOEVO”

Davanti alle bufale storiche come quelle proferite dal Sindaco di Cesena l’ascoltatore medio del nostro secolo ha ben poche armi di difesa. Del resto, come diceva Don Camillo a Peppone: «Se hanno creduto a Carlo Marx, qualunque balla gli racconti andrà bene!». E noi stiamo ancora qui a raccontarci le balle che gli LGBT, i Democratici di Sinistra e i vari compagnucci blogghettari ci vengono a raccontare, inclusi i cattolici perfetti che amoreggiano con i circoli LGBT e che vorrebbero introdurre dentro la Chiesa Cattolica il «cavallino di troia arcobalenato»

— Attualità ecclesiale —

                   Autore
        Ivano Liguori, Ofm. Capp..

 

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L’audio lettura sarà disponibile il 23 giugno dopo le ore 15

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È di questi giorni la notizia di un parroco della Diocesi di Cesena-Sarsina che ha comunicato a un suo giovane collaboratore del Grest (Gruppo Estivo Cattolico) l’inopportunità di proseguire il suo ruolo di educatore del centro estivo parrocchiale in quanto su Instagram sarebbe apparso in una foto che lo ritraeva nell’atto di baciare un ragazzo.

Sicuramente la notizia avrà leso la sensibilità di più anime belle appartenenti a quella schiera di cristiani perfetti e democratici che non possono tacere, di coloro che sono più buoni e misericordiosi dello stesso Nostro Signore Gesù Cristo e che indefessamente vivono per cercare e affermare la ben rotonda Verità, il cui cuore iridato potrebbe candidamente prendere in prestito la poetica di Edmond Rostand che dice:

«Et qu’est-ce qu’un baiser? Une apostrophe rose entre les mots je t’aime, un secret dit de sa bouche».

Un bacio, insomma, che cos’è mai un bacio? Forse nulla ma in questa situazione non è il bacio a costituire il problema. Sotto la punta dell’iceberg del bacio c’è ben altro. Ed è proprio questo altro che bisogna scandagliare e che a me non convince, per questo mi piacerebbe argomentare brevemente il fatto con i nostri Lettori per tentare di dare una lettura trasversale di tutta quanta la vicenda che a mio parere solleva non pochi dubbi e interroga non poche coscienze.

La prima cosa che non mi convince è che il giovane animatore non abbia avuto la minima remora a postare su Instagram una foto in cui è ritratto a baciare il suo fidanzato. E questo perché? Era notoria la sua omosessualità oppure questo voleva solo essere un gesto provocatorio? E se la sua omosessualità fosse stata di fatto conosciuta ― cosa che avrebbe valicato non solo l’aspetto privato e familiare ma anche quello sociale e quindi parrocchiale ―, come mai la sorpresa per una normale dimostrazione di affetto? Intendiamoci, ognuno è libero di usare i social come meglio ritiene opportuno sebbene nei limiti prescritti dalla legge, così come manifestare i propri sentimenti verso un’altra persona. Purtuttavia ci si aspetterebbe da un cristiano uno stile differente nell’uso dei social così come nell’approccio affettivo verso un’altra persona. E dico questo mettendo in conto le normali contraddizioni e fragilità che costituiscono la lotta verso la perfezione cristiana. Ammettiamo anche che il ragazzo non volesse essere un provocatore e ritenesse giusto fare coming out invece di restare nella riservatezza e vivere la sua vita in serenità. Mi domando e domando ai Lettori: è stata questa la cosa più opportuna da fare, quella di postare una foto su Instagram di un bacio galeotto che per ovvie ragioni sarebbe stato letto o considerato problematico? Trattandosi poi di un animatore parrocchiale, di una persona che, ci auspichiamo, seguiva un cammino cristiano all’interno di una comunità ecclesiale, questa scelta non aveva altra alternativa? Faccio un’ipotesi: non sarebbe stato meglio per lui parlarne con il proprio confessore o direttore spirituale e affrontare la questione in modo privato, in quel foro interno che permette di far crescere la coscienza cristiana e indirizzare verso una maturazione umana e spirituale? Oggi molti reputano di essere cristiani senza l’aiuto di alcuna guida, ma così facendo si moltiplicano le situazioni di imbarazzo e di confusione che non sono ad esclusivo appannaggio degli omosessuali ma di tutti gli uomini, perché la radice di questa mentalità non soggiace nell’orientamento sessuale ma in quella concupiscenza che ferisce la nostra decisionalità e ci rende testardi e spesso refrattari alla docilità spirituale che conduce all’incontro con Dio.

Che il giovane si sia mostrato poi risentito e abbia dato forfait al Grest a me fa ancora più pensare, così come non mi sono chiare le sue parole nella chat di Whatsapp:

«Buongiorno. Vi chiedo personalmente di evitare qualsiasi tipo di messaggi incriminatori o accusatori. Questa faccenda riguarda la mia vita privata e non deve intaccare la gioia e la felicità dei ragazzi nel partecipare al centro estivo» (vedi QUI).

Mi vedo scettico a ritenere che il ragazzo ignorasse che la sua scelta non avrebbe comportato reazione alcuna, sia nel bene che nel male. Dico questo perché non si tratta di una evenienza discriminatoria contro il mondo omosessuale e i gay ma semplicemente di una evenienza che riguarda tutti gli uomini del mondo: ogni scelta e posizione può essere condivisa o meno; appoggiata o biasimata.

Del resto sappiamo di casi in cui ― davanti alla volontà di un ragazzo di entrare in seminario o in convento ― i genitori, il parentado o gli amici hanno spesso espresso la battuta canzonatoria: «meglio morto che prete o frate». Che si sappia nessuno ha mai tacciato di chiericofobia queste persone, anzi spesso si sono viste rafforzate in questo comportamento canzonatorio, ritenendo che il farsi prete o frate fosse realmente la più grande sciagura di questo mondo. Davanti a questi presupposti, gli aspiranti a una vita sacerdotale o di speciale consacrazione sono semplicemente andati avanti per la propria strada infischiandosene del giudizio altrui e perseguendo il proprio intento, anche quando questo avrebbe comportato una certa difficoltà di gestione dei rapporti familiari e amicali.

Avete idea, noi sacerdoti e frati, gli insulti che talvolta ci sentiamo tirare dietro per le strade e sulle pubbliche piazze, semmai anche da dei mocciosi adolescenti, quando le attraversiamo con la talare del clero secolare o con l’abito del proprio ordine religioso? Insulti a volte anche gravissimi e infamanti. Però noi non siamo attivisti gay, perché in quel caso scatterebbero le querele e le potenti associazioni LGBT si costituirebbero anche parte civile al processo. Insultare gravemente un prete o un frate per strada pare invece costituire libera e democratica espressione del pensiero, il reato scatta solo se fai una battuta ironica sul Gay Pride o su un travestito alto 1.60 per 120 kg di peso che, stile fratello brutto di Lino Banfi, cammina per strada con una parrucca biondo platino, le calze a rete e i tacchi a spillo, forse proprio in spasmodica attesa che qualcuno gli gridi «fenomeno da baraccone», così che lui possa andare a piangere di talk show in talk show contro l’omotransfobia con tutti gli attivisti LGBT che strepitano.

Io ritengo che la maggioranza degli omosessuali sereni e intellettualmente liberi e privi di qualunque ideologizzazione non si preoccupi minimamente di quel che pensa la Chiesa Cattolica. Vivono semplicemente l’espressione della propria affettività e del proprio essere in modo pacifico e riservato, accettando i pro e i contro del loro status, preoccupandosi al contempo di stare ben lontano dai carri allegorici e blasfemi dei vari Pride disseminati nel mese di giugno di ogni singolo anno.

Se invece ci riferiamo agli omosessuali che possiedono una fede e cercano il Signore la situazione cambia, anzitutto sono chiamati ad amare la Chiesa e non la imbrattano di vipereschi improperi, accusando ― anche a mezzo di social e blog ― il Papa, i vescovi e i sacerdoti di essere omofobi, come costume di certi cattolici perfetti che non possono tacere. L’omosessuale cattolico è consapevole del fatto che è necessario portare avanti un cammino di conversione ― che inizia nel battesimo e termina nel momento della morte ed è uguale per tutti i discepoli di Gesù che non sono stati certamente scelti tra i migliori (cfr. Mt 9,36-10,8) ― che è fatto di preghiera e di accompagnamento spirituale; di vittorie e cadute; di tentazione e di grazia; di tormento e di estasi. E come esistono le battaglie spirituali per la gestione e armonizzazione della propria genitalità per un omosessuale cattolico, così questo è vero per un eterosessuale cattolico.

Se però il paradigma della direzione e accompagnamento spirituale delle persone omosessuali è incarnato nel disgraziato ― cioè privo della grazia ― gesuita statunitense James Martin e non nel Magistero della Chiesa e in Cristo Verbo del Padre, ecco che cadiamo nel paradosso della vicenda di Cesena i cui risultati di una colonizzazione ideologica e di lobby non sono certo velati, tanto da poter avanzare la pretesa e il lusso di gridare allo scandalo e costituirsi parte lesa.

Quando leggo di posizioni così piccate che gridano allo scandalo davanti ai presunti casi di omofobia, il più delle volte mi sembrano posizioni di comodo. Spesso gli stessi paladini dei Diritti nutrono scarso interesse verso le persone omosessuali, se non in base a un uso funzionale di esse che tende verso il raggiungimento di un obiettivo, cosa che necessita di una sapiente politica di simbiosi, così da arrivare alla vittoria e annientare l’immaginario nemico, tanto da avere ― per dirla con un proverbio romagnolo ― l’uovo, la gallina e il culo caldo.

Ci ritroveremo così dentro contesti ecclesiali pieni di attivisti e di simpatizzanti LGBT che considerano la Chiesa una maggioranza politica a cui fare opposizione destituendo democraticamente le cose che non piacciono e andando ad occupare posti di potere per poter affermare la omoeresia [sul tema rimando all’opera di Ariel S. Levi di Gualdo: E Satana si fece trino e all’opera mia e sua Dal Prozan al Prozac]. Ma la Chiesa, sappiatelo cari amici Lettori, non è una democrazia e non necessita assolutamente di suffragette arcobalenate che impazzano sui social media e sui video di YouTube come cattolici perfetti che non possono tacere, ai quali si può applicare l’epigrafe scritta da Paolo Giovio su Pietro l’Aretino: «Di tutti parlò mal fuorché di Cristo, scusandosi col dir non lo conosco».  

Giova ricordare che c’è un mondo omosessuale, il più numeroso forse, che riesce ad usare la ragione e che sa riconoscere con non comune senso di obiettività alla Chiesa una accoglienza che da ben poche parti possono vantare, Case del Popolo comprese. Chiedete infatti a un gay se negli anni Settanta o Ottanta del Novecento poteva anche solo mettere piede in una Casa del Popolo, quando una certa sinistra difendeva la famiglia tradizionale con tanto di manifesti di partito in bella mostra e stigmatizzava Pierpaolo Pasolini per i suoi stili di vita frutto della «pederastia tipica dell’alta borghesia». Così scriveva infatti L’Unità, organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, nell’edizione del 29 ottobre 1949:

«Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese».

Mentre a proposito di André Gide, noto letterato e omosessuale francese, Palmiro Togliatti firmando nel 1950 un pezzo su Rinascita scrisse:

«Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente».

Ma torniamo al giovane animatore cui come Padri vogliamo bene, che ha deciso di esprimere così la sua libertà e la sua visione dell’affettività insieme alla ferma decisione a perseguirla e a difenderla. Per questo è degno del nostro rispetto e non possiamo che riconoscerne il coraggio. Ma allo stesso modo il parroco e la Diocesi di Cesena Sarsina possiedono la stessa libertà e lo stesso diritto a decidere di disciplinare i propri animatori, formatori e catechisti pretendendo una certa fedeltà alla Chiesa e al magistero circa le questioni morali e di fede.

Non è infatti l’orientamento omosessuale che è stato qui discriminato ma il fatto di vivere e difendere pubblicamente un pericoloso attivismo di matrice LGBT all’interno di un contesto di Chiesa Cattolica. Sì, perché stando al Corriere della Romagna (vedi QUI) apprendiamo di fratture in seno alla parrocchia a seguito di malumori portati avanti da certi attivisti parrocchiali (?!) a cui ancora non è abbastanza chiaro il pensiero magisteriale della Chiesa Cattolica sull’omosessualità. In quella parrocchia c’è indubbiamente una emergenza educativa di fondo, una situazione di confusione che nel futuro dovrà essere recuperata e informata con una giusta formazione catechetica e con una caritatevole vigilanza. Bravo il parroco che ha ritenuto bene confrontarsi con la Diocesi e chiederne l’appoggio per giungere a una sintesi sulla questione. Almeno per una volta c’è stato un Vescovo che ha saputo esercitare una paternità dimostrando di mantenere diritta la barra, manifestando al contempo la vicinanza al giovane per una situazione che è divenuta incresciosa poiché volutamente montata come caso scandalistico. Dietro c’è solo l’ennesimo tentativo di affermare l’ideologia LGBT dentro la Chiesa con i soliti noti che hanno sparato a palle incatenate sul prete oscurantista e retrogrado, ricorrendo all’ormai usurato luogo comune del Medioevo: l’Arcigay, l’onorevole Zan e il sindaco dei Democratici di Sinistra di Cesena Enzo Lattucca.

Da tutta questa vicenda, lo ribadiamo ancora una volta: al giovane non è stata tolta la possibilità di organizzare il Grest e di parteciparvi generosamente per il bene dei piccoli partecipanti, gli è stato solo fatto notare l’inopportunità di proseguire nella veste di animatore e di educatore nel contesto di un oratorio estivo che non è sponsorizzato dal Partito Democratico, dall’Arcigay o dalla lobby LGBT, ma dalla Chiesa Cattolica che ha il sacrosanto dovere e diritto di ritenere che cosa è giusto o sbagliato per chi si appresta a svolgere una funzione educativa che coincide con la proclamazione di un Credo di fede.

Per concludere, mi piace affermare che l’apparente episodio di omofobia in quel di Cesena non è nulla rispetto alla crassa ignoranza storica del suo Primo Cittadino che usa un argomento trito e ritrito mutuato dalla Leggenda Nera con la pretesa di ferire la Chiesa Cattolica. Non bisogna necessariamente avere il curriculum di studi di Franco Cardini o di Alessandro Barbero per capire che quanto dichiarato dal Sindaco di Cesena circa il Medioevo è palesemente e profondamente falso e intellettualmente ingiusto. Nel Medioevo a cui il politico si richiama, il popolo incolto e analfabeta conosceva a memoria le rime di Dante Alighieri. Un giovane mercante della città di Assisi, anche lui venuto dal popolo per poi assurgere alla ricca borghesia mercantile, compose il primo testo poetico in volgare italiano. Lo stesso popolo del Medioevo aveva delle capacità mnemoniche e speculative e di ragionamento che sono del tutto ignote alle masse desolanti dei giovani e giovanissimi attivisti che seguono le idiozie di Fedez, della Ferragni e dei vari influencer, youtuber e TikToker e che il solo verso mandato a memoria è Love is love.  Il popolo del Medioevo andava ad ascoltare volentieri per ore i predicatori del calibro di Antonio di Padova, Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca. Quel popolo semplice ma ben disposto ad ammirare e a studiare visivamente gli affreschi di Giotto dentro le antiche basiliche e che costituivano la Biblia pauperum che non solo educava alla fede ma alla vita sociale, che esaltava le virtù e stigmatizzava l’errore e il vizio. Se ci fosse oggi una minima cultura storica da liceo, ci si dovrebbe auspicare che le nostre popolazioni affette da analfabetismo funzionale e analfabetismo digitale possano tornare quanto prima al Medioevo, una lunga stagione che segnò un grande sviluppo della cultura, delle arti e delle scienze, oltre al recupero e alla conservazione di tutta la filosofia e la letteratura classica che grazie agli uomini del medioevo è giunta sino a noi.

Davanti alle bufale storiche come quelle proferite dal Sindaco di Cesena l’ascoltatore medio del nostro secolo ha ben poche armi di difesa. Del resto, come diceva Don Camillo a Peppone:

«Se hanno creduto a Carlo Marx, qualunque balla gli racconti andrà bene!».

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Laconi, 23 giugno 2023

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Il “Yellow Submarine” e la tragedia. Fino a che punto si è tenuti a salvare la vita umana in tutti i modi?

IL YELLOW SUBMARINE E LA TRAGEDIA. FINO A CHE PUNTO SI È TENUTI A SALVARE LA VITA UMANA IN TUTTI I MODI?

Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti. 

— Attualità —

Autore
Simone Pifizzi

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L’uomo la vita la riceve in comodato d’uso, non ne è arbitrario padrone e non può disporne come reputa opportuno, né togliendo la vita, come nel caso dell’aborto, né togliendosi la vita, come nel caso dell’eutanasia, anche se oggi è difficile parlare del valore salvifico della sofferenza umana, tema al quale il Santo Pontefice Giovanni Paolo II dedicò una propria enciclica: Salvifici Doloris. La vita umana valica la stessa realtà soggettiva dell’uomo che non si dona la vita da sé stesso, ma che come dono la riceve. Quindi non può essere lui a decidere di auto-sopprimersi. È vero che la vita è nelle mani dell’uomo, ma al tempo stesso rimane un dono che va ben oltre le sue mani. Per questo, quello della vita, è un dono sacro di cui si può disporre fino a un certo punto ed entro certi limiti.

Ecco un esempio accademico estremo e terribile che può rendere l’idea: un nutrito gruppo di S.S. sta per attraversare un ponte, valicato il quale farà una strage di civili in quel paese, proprio come avvenne a Sant’Anna di Stazzema. Sospettano infatti che in quel paese siano nascosti dei partigiani, di cui ignorano generalità e identità, per questo hanno deciso di risolvere il problema alla radice uccidendo tutti gli abitanti, senza risparmiare anziani, donne e bambini. L’unica via di accesso a quel paese è un viadotto alto decine di metri costruito tra la parete di un monte e quella dell’altro monte. I membri della resistenza lo hanno minato, pronti a farlo saltare in caso di necessità. Mentre i soldati delle S.S. lo stanno per oltrepassare una madre ignara del tutto lo sta attraversando con il suo bambino per mano. Domanda: il ponte va fatto saltare oppure no?

Dire che le vite degli innocenti non possono essere sacrificate mai e in nessun caso, è una affermazione categorica basata su emotività illogiche e surreali, soprattutto quando il “no a tutti i costi al sacrificio degli esseri umani” viene scandito in nazioni nelle quali ogni giorno sono abortiti bambini, dopo avere deciso che in quel caso non si tratta però di vittime innocenti, perché l’aborto è un vero e proprio diritto, anzi di più: «Una grande conquista sociale».

Una trentina d’anni fa accadde nelle zone della mia Toscana che un giovane eccentrico con l’hobby di conservare nella propria casa dei serpenti molto velenosi, pulendo una delle loro gabbie fu morso. In Italia, dove gli unici serpenti velenosi presenti sul nostro territorio sono le vipere, nessun centro farmaceutico disponeva di un antidoto, che poteva essere reperito solo in Svizzera presso una azienda farmaceutica specializzata a conservare farmaci molto rari. In ospedale riuscirono solo a rallentare l’effetto del veleno entrato in circolo. Nel mentre fu fatto partire dal centro dell’aeronautica Militare di Grosseto un aereo F104 che in una mezz’ora giunse in Svizzera dove un addetto dell’azienda consegnò al pilota l’antidoto senza che questi scendesse neppure dal potente velivolo, quindi tornando alla base, il tutto in poco più di un’ora. A questo caso seguì una polemica quando si seppe quanto costava mettere in moto un F104 e soprattutto che all’epoca, il costo di quell’antidoto, fu pari a 15 milioni delle vecchie Lire, pagati ovviamente dallo Stato, equivalenti a quello che oggi potrebbero essere in valore monetario attuale circa 25.000/30.000 Euro.

Alcuni cinici posero la domanda se era il caso di spendere tutti i soldi che furono spesi per salvare un soggetto che in violazione alle leggi che già all’epoca proibivano di acquistare, conservare e allevare certi rettili, si era andato a cercare un guaio del genere. Ma si trattava appunto di cinici, con l’aggravante della disumanità, perché la vita va salvata sempre e a tutti i costi, per esempio non facendo saltare un ponte a metà del quale si trova una madre con un bambino. Poi, le centinaia di persone che poco dopo saranno trucidate dalle S.S. appena passato quel valico, moriranno in ogni caso felici assieme ai loro bambini, per avere salvato due vite umane.

Da alcuni giorni le televisioni e la stampa internazionale parlano di un gruppo di tre multimilionari, più un quarto che è il figlio di uno di loro, che si sono voluti togliere lo sfizio di scendere alla profondità di 3.800 metri per raggiungere il piroscafo Titanic affondato a largo di Terranova nel 1912 dopo avere colpito un iceberg di ghiaccio. Tragedia nella quale morirono 1.527 persone sui 2.232 passeggeri, solo 705 dei quali sopravvissero.

Si tratta dei capricci di ricconi? No, i veri ricchi, quelli che sono tali da generazioni, quelli che conoscono la delicatezza e la volatilità del danaro e quanto sia difficile conservarlo e incrementarlo; i veri ricchi che devono la loro ricchezza al proprio particolare genio imprenditoriale o finanziario, queste cose da spacconi non le fanno, sono gesta tipiche degli arricchiti. Perché solo degli arricchiti capricciosi, certi di potersi permettere qualsiasi cosa, potevano pagare ciascuno 250.000 U.S. $ per scendere alla profondità di quasi 4 chilometri dove si trova il relitto del Titanic, che è un sacrario, un cimitero, che come tale andrebbe rispettato. Quei fondali non possono essere meta di bravate spinte all’estremo a bordo di un mini-sottomarino simile a una supposta subacquea nella quale gli avventori non potevano stare neppure in piedi, neppure inginocchiati, quindi senza potersi muovere, ma solo seduti nello spazio di 5 metri di lunghezza per 1.60 di altezza [cfr. QUI]. Una morte terribile nelle più buie profondità marine, avvenuta per soffocamento all’interno di uno spazio angusto dove è bene non pensare neppure cosa possa essere accaduto nei momenti di panico che si sono manifestati all’interno di uno spazio claustrofobico mentre l’ossigeno mancava e i quattro multimilionari, con il pilota del mezzo, morivano per soffocamento. Lo dettaglia a La Stampa Paolo Narcisi, specialista in rianimazione, non mancando di aggiungere:

«Questa tragedia, pur nel rispetto delle persone coinvolte, ha costretto una mobilitazione nei soccorsi che non c’è stata neppure per i 600 naufraghi di qualche giorno fa». 

Come per il Tizio morso dal serpente domestico, anche in questo caso sono stati impiegati mezzi aerei e marittimi, strumenti tecnologici sofisticati, personale, specialisti e via dicendo. Giusto, per salvare la vita umana si deve tentare di tutto. Senza dimenticare però che i quattro, prima di imbarcarsi, dopo avere versato 250.000 $ a testa hanno firmato un contratto con una precisa liberatoria per la società che ha organizzato la loro eccentrica bravata, nella quale è specificato che l’impresa avrebbe potuto comportare anche la possibilità di morire, il tutto specificato per ben tre volte nel testo sottoscritto e firmato dai quattro ricconi.

Dire che sono andati a cercarsela, non è né mancanza di pietà né di rispetto nei confronti di questi morti in modo peraltro molto tragico. Si tratta di una realtà, non di mancanza di pietà: sono stati loro stessi a sottoscrivere e dichiarare di essere consapevoli che sarebbero potuti anche andare incontro alla morte, che equivale a dire, nero su bianco, che se ciò fosse accaduto, era perché loro stessi se l’erano andata a cercare, dopo essere stati avvisati in tal senso e dopo averlo sottoscritto anche in un contratto.

Occorre molta pietà, fuori discussione, perché anche gli imbecilli spocchiosi meritano in ogni caso cristiana e umana pietà, forse persino più delle persone intelligenti, sapienti e prudenti. 

Firenze, 22 giugno 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Perché i lobbisti LGBT non lasciano parlare gli omosessuali? Sarebbe come se l’Ordine Francescano negasse ai propri frati di parlare su San Francesco d’Assisi

PERCHÉ I LOBBISTI LGBT NON LASCIANO PARLARE GLI OMOSESSUALI? SAREBBE COME SE L’ORDINE FRANCESCANO NEGASSE AI PROPRI FRATI DI PARLARE SU SAN FRANCESCO D’ASSISI

Noi Padri de L’Isola di Patmos che frequentiamo omosessuali e che da sempre abbiamo con loro ottime relazioni, possiamo essere d’accordo con l’istrionica Donatella Rettore, celebre icona gay, provando assieme a lei un certo disagio per le checche isteriche, senza per questo essere tacciati di “omofobia”?

—  Società e politica —

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Ogni Gay Pride, che da oggi non si chiama più così ma solo Pride, finisce con l’essere oggetto di polemiche, vuoi perché certe parate sono una ricerca ostentata della provocazione, specie verso tutto ciò che è cattolico, sia perché la polemica è ricercata e studiata [vedere anche mio precedente articolo QUI].

Ovvio che sia stato ritirato dalla Regione Lazio il patrocinio a questa manifestazione, cosa fatta con una precisa motivazione:

«[…] la firma istituzionale della Regione Lazio non può, né potrà mai, essere utilizzata a sostegno di manifestazioni volte a promuovere comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto» [cfr. QUI].

Dinanzi a questa motivazione, a poco vale urlare “al governo fascista!” qualunque sia il governo. Forse anche sotto un governo di Sinistra sarebbe avvenuta la stessa cosa: un ente pubblico non può promuovere come “diritto rivendicato” ciò che è proibito e condannato dalla Legge, ossia il cosiddetto “utero in affitto”, che in Italia è illegale. Per essere contrari alla barbarie dell’utero in affitto non occorre affatto essere militanti del Centro-destra, non occorre nemmeno essere cattolici, basterebbe ricordare che il Segretario generale del Partito Comunista Marco Rizzo ha definito l’utero in affitto «degno del Doctor Mengele, una cosa molto vicina al Nazismo» precisando che «i desideri non possono diventare diritti» [cfr. QUI], dichiarando in tal senso:

«L’utero in affitto è una barbarie propria della società del capitalismo globalizzato. Si esaudiscono desideri di coppie o singoli e si barattano con i diritti primari dei neonati e delle loro madri, obbligate dalla povertà a fare da incubatrici» [cfr. QUI]. 

La questione è però più complessa: siamo sicuri che gli omosessuali si sentano rappresentati da certe parate oggettivamente grottesche e pressoché di prassi dissacranti verso il Cattolicesimo? [mio precedente articolo, QUI].

Noi Padri Redattori di questa rivista, non solo siamo singolarmente in rapporti di stretta amicizia con vari omosessuali, diversi dei quali personalità di spicco nel mondo delle arti, della cultura e delle scienze, perché c’è di più. Abbiamo pubblicato con le nostre Edizioni L’Isola di Patmos un libro di Francesco Mangiacapra, giovane uomo di rara intelligenza, omosessuale dichiarato ed ex escort gay, analista brillante e onesto che a suo tempo portò allo scoperto un giro di preti frequentatori di certi ambienti che, superfluo a dirsi, dei sacerdoti non dovrebbero mai frequentare. A questo libro un prete ha scritto anche la prefazione: il sottoscritto.

Scrive Francesco Mangiacapra in questo suo libro che costituisce un autentico monumento all’onestà intellettuale e che solo per questo andrebbe letto:

«Un omosessuale che non si identifica nella potente Lobby LGBT finisce ostracizzato dai lobbisti e riceve il plauso di quel pubblico mainstream da loro tanto aborrito. Oggi la cappa di piombo del politically correct grava su una società indifferente alle vere violenze, ma pronta a esporre alla gogna, per una battuta o una satira innocua, chi osa opporsi al pensiero unico. I lobbisti della gaia libertà arcobaleno praticano ormai la tecnica che ha caratterizzato le dittature comuniste e fasciste: “Colpirne uno per educarne cento”».

E qui andiamo a toccare un altro problema che Padre Ivano Liguori e io riassumemmo nella introduzione a un libro scritto a quattro mani nel 2021, Dal Prozan al Prozac, dedicato alla compianta memoria dell’omosessualissimo e indimenticabile Paolo Poli, mio amico caro, di cui vi riproponiamo questo passaggio:

«Noi che siamo due presbiteri e teologi non ci siamo mai tirati indietro ― lo dimostrano le nostre pubblicazioni ―, quando l’ossequio alla verità imponeva di rivolgere pubbliche e severe critiche al mondo ecclesiale ed ecclesiastico. E se qualche volta, per avere detto solo la verità, ne abbiamo pagate le conseguenze, è stato un tributo più che accettabile. Della verità siamo infatti annunciatori e fedeli servitori, con tutto ciò che può comportare. Adesso proviamo a immergerci nella realtà: vi è mai capitato di udire nei vari talk show televisivi ― che non potrebbero essere tali in assenza di quote gay ―, un rappresentante LGBT che rivolge pubbliche e severe critiche al suo mondo? È possibile che il mondo LGBT sia composto unicamente da persone fantastiche e al di sopra di tutte le righe?  È possibile che il mondo LGBT sia abitato solo da povere vittime e da nessun carnefice? È possibile che per un prete indegno affetto da turbe psichiche, reo di avere molestato degli adolescenti, l’intera Chiesa Cattolica sia esposta alla pubblica gogna, mentre gli stessi giornalisti d’inchiesta e conduttori televisivi non oserebbero mai ― e non osano per paura ― di andare a verificare che cosa accade con i minori a caccia di soldi in certi circoli gay? Nel mondo LGBT va tutto bene, è tutto perfetto? Quella che il Santo dottore Agostino indica come la Gerusalemme Celeste, forse ha la propria angelica sede naturale in certi circoli gay? È questo che rende surreali e non credibili certe frange LGBT ideologizzate e radicalizzate. E qualcuno, a gruppi così ripiegati nelle emotività irrazionali, intendeva dare anche una legge per chiudere la bocca e perseguire penalmente chi non la pensa come loro? Rivolgere certi quesiti non costituisce istigazione all’odio verso gay, lesbiche e transessuali. Si tratta semplicemente di considerarli per ciò che sono: esseri umani come tutti gli altri, nel bene e nel male. Ma se fanno lobby e pretendono di presentarsi come persone senza ombra di macchia, o peggio come una corporazione di intoccabili, in quel caso sarà opportuno non dargli in mano certe leggi e lasciarli sguazzare nello stagno della loro onirica perfezione, dove tutto è buono e idillico, perché tutti i cattivi e i persecutori stanno solo dall’altra etero-parte. Noi non esitiamo a mettere in luce i difetti della nostra Chiesa visibile e del suo clero, guardando sempre all’uomo in quanto tale, al quale mai abbiamo chiesto patenti di eterosessualità o di omosessualità, accettandolo e amandolo per quello che è, come Gesù Cristo lo ha accolto e amato. Perché noi viviamo nel mondo del reale, consapevoli che la fede nasce dalla ragione, non dalle emotività irrazionali di un certo mondo arcobaleno».

Nel nostro cattolico linguaggio questa si chiama onestà intellettuale politica. E dico politica perché in ogni caso si tratta di battaglie politiche e come tali sono portate avanti dagli attivisti, ai quali mai risponderemo a colpi di morale cattolica. A qualsiasi linguaggio politico si risponde con appropriato linguaggio politico, perché sia per comunicare che per contrastare legittimamente qualche cosa, si usa il linguaggio idoneo, non è proprio il caso di andare a parlare a certi attivisti dei fondamenti della morale secondo la scuola di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, peggio che mai del Liber Gomorrhianus di San Pier Damiani.

Concludiamo con una icona gay, la cantante Donatella Rettore, colei che felicemente tormentò le nostre estati di adolescenti, ormai lontane nel tempo, con celebri canzoni come Il cobra non è un serpente o Splendido splendente. Ecco un suo stralcio di intervista [cfr. QUI] realizzata dalla cara e ottima Francesca Fagnani — e affettuosamente dico cara perché fu la prima giornalista che nel 2012 mi mise dinanzi a una telecamera per una intervista al programma Servizio Pubblico di Michele Santoro — :

«Io piaccio ai gay non piaccio alle checche, mentre Raffaella Carrà e Patty Pravo sono icone delle checche vintage […] Per me esistono i gay e le checche, esistono i gay che sanno di avere le palle e ci sono gli isterici che parlano e si strappano i capelli, fanno i pettegolezzi… e quelli non li voglio nemmeno sulla soglia di casa» [cfr. QUI, QUI].

Noi Padri de L’Isola di Patmos che frequentiamo omosessuali e che da sempre abbiamo con loro ottime relazioni, possiamo essere d’accordo con l’istrionica Donatella Rettore, celebre icona gay, provando assieme a lei un certo disagio per le checche isteriche, senza essere per questo tacciati di “omofobia”?

dall’Isola di Patmos, 18 giugno 2023

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Apostolicità, verità e tenerezza per le pecore senza pastore

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

APOSTOLICITÀ, VERITÀ E TENEREZZA PER LE PECORE SENZA PASTORE

Apostoli però sono, accanto ma in modo distinto rispetto ai sacerdoti, anche i religiosi e i laici. Anch’essi nella vocazione alla vita consacrata e nel matrimonio, si impegnano a portare la carezza di Gesù al prossimo bisognoso. Per questo che Gesù dice a tutti: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

in questo tempo estivo proviamo a prendere sempre più in mano la Bibbia e leggerla; specialmente i Vangeli possono diventare un compagno di strada per le giornate calde ed afose. Infatti, nel Vangelo, Gesù cammina con noi, ci porge tanta tenerezza ed affetto e chiede così di donare gratuitamente quanto abbiamo ricevuto da Lui. Gesù sceglie la tenerezza perché come diceva lo scrittore tedesco Rudolf Leonard «La tenerezza è il linguaggio segreto dell’anima».

Vediamo. Nel Vangelo di oggi leggiamo:

«In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».

Gesù cammina con le folle e si accorge che si sentono sperdute e senza un punto di riferimento. Le difficoltà esistenziali e il dissidio politico fra ebrei e romani deve aver loro recato molte sofferenze anche da un punto di vista emotivo e morale. Gesù decide di trattarli con compassione, in greco splanchne, che indica la tenerezza della madre che accoglie i figli con amore viscerale. Immaginiamo quindi una mamma che accoglie i figli che piangono e che si sentono disperati.

La stessa cosa fa Gesù con noi oggi. Nelle nostre solitudini esistenziali ci dona la sua tenerezza e compassione, ci fa sentire che nonostante l’instabilità generale, le tante difficoltà spirituali, materiali ed economiche che possiamo trovare Lui è con noi. Ogni volta che ci comunichiamo ci offre una carezza ed un abbraccio intenso, insieme con il Padre e lo Spirito Santo.

Questa carezza ci è offerta in un modo concreto. In un certo senso è una carezza apostolica. Infatti, Gesù stesso ha chiamato per nome i dodici apostoli e li ha istituiti per continuare la sua missione nel corso dei secoli. I dodici apostoli poi hanno istituito i loro successori, e quindi i vescovi e con essi Gesù ha voluto i sacerdoti per una messe numerosa di persone bisognose di Dio. Per questo che il vescovo e il sacerdote, nonostante i loro limiti personali, tendono a donarci la carezza eucaristica del Signore. È importante la loro presenza e la risposta a questa vocazione sacerdotale.

Apostoli però sono, accanto ma in modo distinto rispetto ai sacerdoti, anche i religiosi e i laici. Anch’essi nella vocazione alla vita consacrata e nel matrimonio, si impegnano a portare la carezza di Gesù al prossimo bisognoso. Per questo che Gesù dice a tutti:

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

La modalità in cui tutti noi credenti clero, religiosi e laici siamo mandati dal Signore è la dimensione del dono di sé. Esattamente come senza nessun diritto, abbiamo ricevuto il dono dell’amore e della tenerezza del Signore, così possiamo portarlo a tutti gli altri. Così quando incontreremo il nostro prossimo che non si sente amato da nessuno, e anzi forse si sente abbandonato ed isolato da tutti, allora in quel momento potremo fargli il dono della tenerezza e carità del Signore. Cioè un amore che non è melenso e privo di valore, ma che appunto comunica a chi si sente disperato che Dio lo ama e fa qualcosa di concreto per lui.

Chiediamo al Signore di entrare fortemente sempre più nel suo cuore trinitario per fare entrare tutto il mondo nell’abbraccio di Dio, e offrire senso e gioia anche agli abbandonati e agli isolati dalla cultura del mondo.

Santa Maria Novella in Firenze, 18 giugno 2023

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Dall’amicizia di Gesù con Abramo a Gesù che ci accoglie chiamandoci amici

DALL’AMICIZIA DI DIO CON ABRAMO A GESÙ CHE CI ACCOGLIE CHIAMANDOCI AMICI

Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici».

— Pagine bibliche—

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Sembra che il termine amico non possa esistere senza una sua specifica qualificazione. Abbiamo diverse tipologie declinate, nelle varie arti, che propongono di volta in volta l’immagine di un amico fragile, ritrovato oppure geniale. Se ne potrebbe discorrere all’infinito. Un amico potrà essere vero o falso, esserci sempre o scomparire, di lui o lei ti potrai fidare incondizionatamente o nella peggiore delle ipotesi venir da essi tradito.

La Bibbia che è una letteratura formatasi in un lunghissimo periodo, oltre che parlare del protagonista principale, che è Dio, presenta una variegata serie di situazioni umane. Non a caso il poeta Byron la definì «il grande codice dell’arte», espressione poi ripresa dal critico N. Frye che ne fece un libro[1]. In questa carrellata di umanità disparata non poteva mancare l’interesse per gli amici. È così che il codice della Bibbia è stato capace di suscitare simboli che sono rimasti nell’immaginario di ognuno (Frye le chiamava imagery), anche dei non cultori del libro biblico.

Famoso è il personaggio di Giuda che incarna l’amicizia tradita: «Amico, per questo sei qui» (Mt 26,50), sono le parole che Gesù rivolge al traditore dopo aver ricevuto il suo bacio. Rimanendo ai Vangeli non si può dimenticare l’amicizia di Gesù per la famiglia di Betania: Marta, Maria e Lazzaro. Quando questi muore Gesù dirà: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Come pure la nomea di amico dei pubblicani e dei peccatori che portò Gesù ad essere inviso alle autorità.

Sono tante le espressioni bibliche che fan riferimento all’amicizia, soprattutto nei libri sapienziali. Ecco due menzioni fra tante:

«Un amico fedele è medicina che dà vita:
lo troveranno quelli che temono il Signore» (Sir 6, 16).

«Un amico fedele è rifugio sicuro:
chi lo trova, trova un tesoro» (Sir 6,14).

Un detto divenuto famoso quello che recita «chi trova un amico trova un tesoro». Ma il primo personaggio biblico ad essere definito amico, nientemeno che di Dio, fu Abramo. Il profeta Isaia lo chiamò così: «Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo, mio amico» (Is 41,8). Gli fa eco il libro di Daniele: «Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico, di Isacco, tuo servo, di Israele, tuo santo» (3,35) e il secondo libro delle Cronache: «Non hai scacciato tu, nostro Dio, gli abitanti di questa terra di fronte al tuo popolo Israele e non l’hai data per sempre alla discendenza del tuo amico Abramo?» (20,7). Fino al secondo testamento dove troviamo nella lettera di Giacomo: «E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio» (2,23).

E se l’Autore della lettera di Giacomo insisté sulle azioni compiute da Abramo come qualificanti la sua fede, dall’altra Paolo di Tarso rovesciò la medaglia, nella lettera ai Romani, ponendo la fede di Abramo avanti le sue opere e grazie a questa e solo per questa fu giustificato.

Qui non vogliamo affrontare l’argomento arduo e complesso della giustificazione e della grazia che attiene alla teologia. Ma vogliamo semplicemente declinare in che modo il racconto biblico ci parla della relazione fra Dio e Abramo. Che tipo di amicizia fu? Abramo meritò questo rapporto così particolare? Vi corrispose sempre? Sembra un argomento interessante visto che è divenuto paramento del dono della vita divina all’uomo di fede e della grazia che salva. Senza tralasciare il fatto che Abramo viene considerato il padre delle tre grandi religioni monoteiste, anche se a taluni appare difficile definire il Cristianesimo come un monoteismo.

Poiché la bibbia ama preferibilmente narrare che esporre teorie, proveremo a risalire la china dei racconti delle vicende di Abramo per capire questo rapporto di amicizia e per comprendere alla fine che Abramo non fu così distante da noi, dalle nostre attese ed emozioni, dai nostri punti di vista che appaiono incrollabili e che vengono messi a dura prova dalle istanze e dalle promesse divine che subito non si svelano.

C’è un episodio della vicenda di Abramo narrata nel libro della Genesi (18, 25-32) che sembra porre in evidenza più di altri, più della stessa chiamata, il rapporto di amicizia particolare fra lui e Dio, ed è il racconto della trattativa circa la distruzione della città di Sodoma. A Dio che aveva già deciso la sorte della città Abramo fa presente la possibile presenza in essa di persone giuste. E di dieci in dieci a scendere riesce a carpire un pezzo di benevolenza di Dio. Questo episodio mette in evidenza una caratteristica del patriarca che ritorna più volte nei racconti, ovvero la sua indiscutibile capacità di negoziare. Si tratti di un pozzo, di divisione del territorio, della terra per la tomba della moglie Sara, di come trovare moglie per Isacco suo figlio o di Dio stesso, come nel caso suddetto, Abramo è imbattibile.

Un po’ meno, parecchio meno, quando si tratta di aver fede nelle parole divine e questo appare incredibile per tutto quello che normalmente si pensa di lui. Ma Dio sembra non preoccuparsene. Come del resto fanno i veri amici.

Anche l’esegesi rabbinica ha guardato con favore la capacità abramitica di trattare, quando serve a salvare persone. I maestri della Torah, infatti, non hanno accordato uguale benevolenza a un altro famoso patriarca, Noè, che ricevette il comando di costruire un’arca a motivo dell’imminente diluvio. Questi, a differenza di Abramo, non fece nulla per contrastare il proposito distruttivo.[2] Noè fu uomo obbediente che non poneva domande, «camminava con Dio» (Gen 6,9) ma con Lui non istaurò alcun rapporto, forse a motivo della fine di ogni cosa che stava per arrivare. Con Abramo che «camminava avanti a Dio» (Gen 17, 1) si richiedeva, invece una relazione attiva, paziente ed amichevole.

E di pazienza con Abramo bisogna averne molta. Un lettore moderno del testo biblico si sorprenderebbe di trovare nella vita del patriarca alcuni tratti imbarazzanti. Questi fanno da contraltare alle evidenti capacità mediatorie già ricordate, al suo essere esperto di armi e di guerriglia (Gen 14, 14-16), di uomini e di alleanze (Gen 17, 17-24) e capace imprenditore del mondo antico (Gen 24, 34-35).

Eppure le prime parole in assoluto di Abramo nella Bibbia, subito dopo la chiamata di Dio, proferiscono una bugia, facendo passare Sara, agli occhi del faraone egiziano, come una sorella invece che la moglie[3]. Un episodio che si ripeterà più avanti con un altro re (cap. 20). Nonostante la reiterata promessa divina che sicuramente avrà una discendenza, acconsentirà, più avanti, al proposito di Sara di avere un figlio con la schiava Agar; ma quando le due donne entreranno in conflitto la scaccerà nel deserto, pur a malincuore, con solo un pane e un otre di acqua. Quando col figlio Isacco salirà verso il monte Moria, luogo del suo sacrificio, caricherà la legna sulle spalle del figlio. Quale padre avrebbe fatto questo sapendo a quale sorte andava incontro?

Ma Abramo, giustamente, è ricordato soprattutto per la fede: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15, 6). Ma questa fede evidentemente è dovuta crescere e maturare, passando al vaglio di prove importanti, oltre al fatto che a suscitarla è stata una parola e una promessa divina, più e più volte ricordata.

Nel Libro della Genesi (cfr. 12) Dio parlò per la prima volta ad Abramo. L’espressione usata in ebraico, è piaciuta molto agli psicanalisti: לֶךְ-לְךָ (lek leka) “Va per te” o “Va verso di te”[4]. Una parola nuova, personale, rivolta ad Abramo figlio di Terack, lo invitava a lasciare il padre e ad andare verso una terra per diventare una nazione benedetta. Partì, ma come spesso accade, l’entusiasmo si perse per strada. Il viaggio fu faticoso, a tappe, le genti ostili e, soprattutto, quale discendenza avrebbe potuto avere se un figlio non arrivava? È così che, vuoi per le difficoltà, vuoi per l’età che avanzava, si accontentò. In fondo il figlio della schiava, Ismaele, era già qualcosa. Così a un certo punto Abramo sbottò davanti a Dio: «Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!» (Gen 17, 18). Finché dinanzi all’ennesima promessa di un figlio loro, Abramo e Sara scoppiarono a ridere. Abramo addirittura si piegò in due dalle risa (Gen 17, 17).

Ma ecco la svolta. Sara partorì davvero un figlio ad Abramo: Isacco, il promesso. Ma quale amico ti fa un regalo simile: Isacco, dall’ebraico יִצְחָק alla lettera “il figlio che ride, che suscita la risata, che si può prendere in giro e dileggiare[5]?  Che proprio per questo diventò la causa dell’allontanamento dell’altro figlio, Ismaele, che non aveva difetti?

Abramo rimase senza parole alla nascita del figlio, poiché il testo riporta solo le parole di Sara, che parlavano di riso e risata. Chi è mai questo figlio che l’amico Dio ha mandato? Bisogna accettare questo dono? Poiché Isacco, fra tutti i patriarchi biblici è sui generis. Non ebbe mai il ruolo del protagonista e apparve da subito privo di personalità propria. Non riuscì neanche a trovarsi la moglie da solo e questa, Rebecca, quando lo vide finalmente da vicino, cadde dal cammello. Non a caso diversi commentatori, sia ebrei che cristiani, hanno messo in evidenza che Isacco potesse essere un figlio non perfetto, disabile, figlio autistico di un padre ormai vecchio[6]. Immaginiamo i sentimenti di Abramo se questa doveva essere la realizzazione della promessa. Come accettare tutto questo?

È a questo punto che la narrazione biblica ci presenta uno degli episodi più affascinati e drammatici di tutta la sua letteratura. Il racconto del sacrificio o meglio della עֲקֵדָה (aqedàh, la legatura) di Isacco nel capitolo 22. Un episodio che ha ispirato artisti e commentatori dall’antichità fino ad oggi. Non è possibile qui darne conto, ma possiamo proporre una interpretazione che ben si lega con quello che si è venuto dicendo finora circa il rapporto fra Dio e Abramo.

Innanzitutto fu un nuovo inizio. Ritroviamo al versetto 2 lo stesso “lek leka” (va per te, verso di te) del capitolo 12. Di nuovo un andare verso sé stessi. Ma questa volta la promessa si è realizzata, in maniera inaspettata. Dove deve andare Abramo?  La salita al monte Morìa, col solo dialogo circa un ariete da trovare, è straziante. Nonostante l’esito alla fine felice, l’episodio conserverà la sua tragicità: nel silenzio che cala durante il ritorno a casa dei due, nella mancanza di esultanza o di gioia, nella successiva separazione fisica fra il padre e il figlio e nella morte di Sara che un מדרש (midrash)[7] fa discendere dal fatto di essere venuta a sapere ciò che stava per succedere sul monte.

Che cosa dunque era accaduto? Che Abramo era stato chiamato ad accettare la promessa di Dio, nella persona di Isacco, figlio imperfetto.  Per questo la sua fede venne provata e ne uscì rafforzata. L’amico aveva compreso finalmente quel che gli era stato chiesto fin dall’inizio, anche se inaspettato e lontano dalle sue prerogative e caratteristiche psicologiche. Ma Abramo andò verso di sé, per aprirsi ad un nuovo sé e al tu del figlio finalmente sciolto e lasciato libero di andare.

Qualcuno, molti secoli dopo avrebbe detto: «Dio sceglie ciò che nel mondo è debole» (1Cor 1,27). Probabilmente è questo che la fede di Abramo doveva drammaticamente comprendere: accogliere nella persona fragile di Isacco la promessa. Solo quando avrà capito sceglierà per Isacco una donna con la quale consolarsi per la morte della madre, gli conferirà ogni suo bene, lo proteggerà dai possibili concorrenti e se ne morirà «sazio di giorni» seppellito dai suoi figli Isacco e Ismaele finalmente riuniti (Gen 25,9).

La vicenda di Abramo e Dio può essere letta in molti modi. La Bibbia al di là dei risvolti che fanno capo alla fede e che passando per San Paolo e Giacomo sopra citati sono arrivati fino ad oggi, la Legge come una storia di amicizia. Con tutti i suoi toni e variazioni, poiché Abramo rimane un uomo con la sua personalità fatta di limiti e grandezze. Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15, 15).

dall’Eremo, 17 giugno 2023

 

Note

[1] N. Frye, Great code, Bible and literature, 1981 (trad. it.: Einaudi, 1986)

[2] Il parallelo fra il diluvio e la distruzione di Sodoma è stato colto da molti. Si tratta di distruzioni totali. Solo una famiglia si salva in ambedue i casi. La presenza di rapporti incestuosi nei due racconti, da cui nascono tribù non ebree (Cananei da Cam, figlio di Noè e Moabiti e Ammoniti dalle figlie di Lot).

[3] Anche se è vero, poiché erano figli dello stesso padre, ma di madri diverse.

[4] Ugualmente Noè riceve il comando di fare un’arca di cipresso “per te” (Gen 6, 14)

[5] la radice del nome (zade/chet/qof) con questi sensi, compare 179 volte nella Bibbia di cui 112 volte riferita ad Isacco in Genesi

[6] Marmorini G., Isacco, il figlio imperfetto, Claudiana 2018; Baharier H., La Genesi spiegata da mia figlia, Milano 2015

[7] Nd.R. Midrash, dall’ebraico מדרש, termine che indica un metodo di esegesi biblica della tradizione ebraica

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Grandiosa omelia dell’Arcivescovo Metropolita di Milano: «Chi era Silvio Berlusconi? Un uomo»

GRANDIOSA OMELIA DELL’ARCIVESCOVO METROPOLITA DI MILANO: «CHI ERA SILVIO BERLUSCONI? UN UOMO»

«Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».

— Pastorale liturgica —

Autore
Simone Pifizzi

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PDF  articolo formato stampa

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Noi pastori in cura d’anime abituati a salire sui pulpiti e a predicare, sappiamo che ci sono momenti e situazioni particolari nelle quali non è facile pronunciare un’omelia che sia opportuna, come nel caso dei funerali di Silvio Berlusconi celebrati oggi nella Cattedrale di Milano. Qualcuno potrebbe pensare che la delicatezza possa essere data dalla complessa personalità del defunto, un uomo che per alcuni decenni ha cavalcato la scena politica nazionale e internazionale. Per seguire con la presenza delle massime autorità dello Stato, dal Presidente della Repubblica al Primo Ministro. Situazioni nelle quali non è ammessa, non dico una parola, ma neppure un sospiro sbagliato. La difficoltà non è però questa, anche se in circostanze più o meno simili diversi vescovi e preti hanno ovviato il problema dicendo più o meno tutto senza dire niente, evitando a questo modo qualsiasi eventuale problema.

L’Arcivescovo Metropolita di Milano, S.E. Mons. Mario Delpini, ha saputo fare invece un’omelia davvero grandiosa che ha riportato tutti con i piedi per terra in quest’aria di beatificazione del defunto Cavaliere, la cui figura è parte della storia d’Italia e per questo sarà oggetto di studi approfonditi da parte degli storici e degli esperti di geopolitica per decenni e decenni. L’Arcivescovo ambrosiano ha puntato su altro: sull’uomo Silvio Berlusconi che è stato indubbiamente un imprenditore di successo, un politico che ha presieduto per quattro mandati la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, un personaggio istrionico dotato di un senso raro e straordinario dell’auto-ironia, tanto che più volte dichiarò: «Molti si affaticano a prendermi in giro, dimenticando che mi prendo in giro da solo e che nessuno può riuscirci bene come me».

Dinanzi a questa figura complessa e anche controversa, l’Arcivescovo ambrosiano non si è nascosto dietro il “non dire niente”, ma ha detto tutto costruendo il proprio intero discorso su questa domanda retorica: «Cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi?». Dando subito la risposta: «È stato un uomo». E dell’uomo l’Arcivescovo ambrosiano ha parlato con una poetica cristiana che può essere applicata sia a una celebrità come Silvio Berlusconi, sia all’ultimo degli anziani morto dimenticato in un reparto di geriatria: un uomo.

Firenze, 14 giugno 2023

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Testo integrale dell’omelia dell’Arcivescovo Metropolita di Milano

Vivere

Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.

Amare ed essere amato

Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande. Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.

Essere contento

Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. Godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento

Cerco l’uomo

Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari. Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta. Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio.

Cattedrale Metropolitana di Milano, 14 giugno 2023

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Felici e anche onorati di lavorare gratis, però cerchiamo di non esagerare …

FELICI E ANCHE ONORATI DI LAVORARE GRATIS, PERÒ CERCHIAMO DI NON ESAGERARE … 

«Non sapete che quelli che fanno il servizio sacro mangiano ciò che è offerto nel tempio? E che coloro che attendono all’altare hanno parte all’altare? Similmente, il Signore ha ordinato che coloro che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo» [I Cor 9, 13-14].

 

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Cari Lettori,

La rivista L’Isola di Patmos compirà 10 anni di attività pubblicistica ed editoriale nell’ottobre del 2024. Quando cominciammo la nostra attività, furono diversi a darci meno di un anno di vita. Il risultato è stato che siamo andati avanti con un numero sempre in crescendo superando nel 2022 i duecento milioni di visitatori in 8 anni.

Nel 2018 aprimmo anche le Edizioni L’Isola di Patmos, i cui libri seguitano a essere venduti con buoni esiti in un mercato costituito da un pubblico di nicchia, non certo da quei “cattolici” ben più numerosi che si acculturano saltando da un blog all’altro dove si nutrono di “profezie” e “rivelazioni”, o che su Facebook ti chiedono di spiegargli in quattro righe il Prologo del Vangelo di Giovanni e l’incarnazione del Verbo di Dio, perché su un sito di ufologia gestito da un anonimo hanno letto che Gesù Cristo era un alieno.

Non abbiamo mai chiesto niente, ci siamo solo limitati a inserire il collegamento al comodo e sicuro conto PayPal e il numero del nostro conto corrente presso la BPM di Roma, certi che coloro che avessero voluto sostenere la nostra opera lo avrebbero fatto senza bisogno di essere sollecitati in tal senso.

Alla fine dell’estate dobbiamo pagare il server-dedicato e i vari abbonamenti annuali per un importo complessivo di 5.800 euro. Ciò di cui al momento disponiamo sul conto PayPal e sul conto corrente è però una somma risibile:

 

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Mi sono consultato con i confratelli e abbiamo deciso di ricordare il monito dell’Apostolo: 

«Non sapete che quelli che fanno il servizio sacro mangiano ciò che è offerto nel tempio? E che coloro che attendono all’altare hanno parte all’altare? Similmente, il Signore ha ordinato che coloro che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo» [I Cor 9, 13-14].

Perché nascondere l’amarezza, specie quando si ha per indole un temperamento generoso? Ritengo per questo doveroso aggiungere qualche precisazione sotto forma di domanda: alcuni, o forse molti, pensano che i preti siano limoni da spremere? Perché la logica del non meglio precisato “cattolico” è la seguente: quando cade nel bisogno si rivolge ai buoni preti, che trova, perché ci sono ancora, forse sempre di meno, ma ci sono. Però, se deve mettersi le mani in tasca e contribuire al lavoro pastorale dei buoni sacerdoti, in tal caso comincia a pubblicare sui social media post e foto del peggio che tra i preti si può trovare e che nessuno ha mai negato che esista e che ci sia. Strana logica, non vi pare? Quando dai buoni preti si deve prendere, si prende a piene mani, ma quando l’opera dei buoni preti necessita di essere sostenuta, allora si sigilla il portafogli e si va a cercare il peggio che può esserci nel clero, come ovunque, pubblicando pianti e lamenti sui social media al fine di giustificare il proprio egoismo e la propria avarizia.

Da anni mi dedico all’apostolato con i sacerdoti e da questo osservatorio privilegiato conosco e tocco con mano casi di presbiteri anziani e ammalati che dopo una vita dedicata ad assistere e accudire il Popolo di Dio versano oggi in condizioni di solitudine e abbandono, sperimentando anzitutto l’ingratitudine delle numerose persone alle quali hanno fatto del bene finché hanno avuta la forza fisica per farlo. Se però richiami il cattolico-si-fa-per-dire alle sue responsabilità verso i preti, per tutta risposta lui ti pubblica sui social media la foto del prete che celebra la Santa Messa al mare in costume da bagno sul materassino inserendo semmai la didascalia: «… dovremmo anche finanziare questa gente?». Non ti racconta, però, del vecchio e santo parroco, oggi dimenticato in una casa di riposo con il catetere attaccato addosso, che gli salvò il matrimonio e che convinse sua moglie a non abortire un figlio che poi nacque e che cresciuto e divenuto adulto gli ha dato la gioia di diventare nonno. Certe cose no, quelle non si raccontano né con foto né con didascalie sui social media.

Tra le varie forme di ingratitudine confesso che mi hanno colpito in modo particolare quelle persone che oltre ad avere le mani solo per prendere ritengono che dal prete si debba persino pretendere, in testa a tutti quelli che sono finiti nei giri dei vari santoni e delle varie sedicenti veggenti in stretto contatto con le molteplici madonne parlanti o piangenti che rivelano tremebondi segreti catastrofici ai vari ciarlatani che impazzano sulla piazza. E oggi, le persone che cadono in queste reti, sono sempre di più. Fin quando numerosi di questi raggirati e spennati come polli finiscono per rivolgersi a noi, che facendo il nostro dovere, ossia i preti, i pastori in cura d’anime, nel corso degli anni abbiamo aiutato e sostenuto persone disperate, raggirate e tradite, cercando opportune e prudenti soluzioni, non limitandoci al mero conforto spirituale ma cercando spesso di aiutarle anche attraverso specialisti o consulenti legali di nostra fiducia e conoscenza, i quali non di rado li hanno aiutato a titolo persino gratuito, considerando che i dementi piangenti erano stati ridotti a cosciotti di pollo spolpati dai più voraci dei peggiori imbonitori.

Qualcuno di loro ha avuto per caso la sensibilità di versare 5 o 10 euro sul nostro conto a sostegno della nostra opera, semmai dopo avere elargito per anni soldi a certa gente? Certo che no, i soldi si mollano senza esitazione a quelli che raccontano di parlare con la Madonna, che vantano doni sensitivi, di preveggenza o di guarigione, o che a distanza di 55 anni dalla sua morte si presentano come figli spirituali di Padre Pio da Pietrelcina, ai quali il Santo Cappuccino, manco a dirsi, rivelò cose sensazionali che costoro, a loro volta, rivelano solo a pochi eletti, ovviamente paganti, beninteso!

Con i numeri ho da sempre un pessimo rapporto, però, pur non sapendo fare le divisioni senza calcolatrice, a dei calcoli elementari ci arrivo anch’io: come possono, un Tale o una Tale di neppure sessant’anni d’età essere stati figli spirituali prediletti di questo Santo Frate morto nel 1968 e avere ricevuto da lui confidenze straordinarie? Padre Pio da Pietrelcina andava forse a prendersi i propri figli spirituali all’asilo nido o alla scuola materna per farne dei depositari privilegiati dei suoi segreti?

Il mio parlare è nudo e crudo? Sì, perché tale deve essere con tutta l’amarezza del caso da parte di un prete che assieme ai propri confratelli redattori ha impiegato tempo, energie, risorse umane e spirituali per tante persone, inclusi quelli che dopo essersi fatti togliere persino le mutande di dosso dai peggiori ciarlatani sono venuti a piangere aiuto da noi. E lo hanno avuto l’aiuto, immediato e senza risparmio alcuno di noi stessi, che spesso siamo stati sino a tarda notte a rispondere e a farci carico dei loro problemi. Però, in cambio, non ci hanno offerto nemmeno un caffè, cosa questa che duole, parecchio.

Più che chiedere – cosa che mai abbiamo fatto – vi confido amarezza, che ritengo abbia la propria ragione di essere, per il resto facciano coloro che del nostro duro lavoro hanno beneficiato e beneficiano, pur dimenticando che «coloro che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo».

dall’Isola di Patmos, 13 giugno 2023

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È morto Silvio Berlusconi, uomo amato e odiato, ma indubbio pezzo della storia patria d’Italia

Notizie brevi

È MORTO SILVIO BERLUSCONI, UOMO AMATO E ODIATO, MA INDUBBIO PEZZO DELLA STORIA PATRIA D’ITALIA 

Al di là delle posizioni politiche e delle convinzioni personali di ciascuno, al Presidente Silvio Berlusconi va riconosciuto il merito del coraggio e della intraprendenza, il merito di aver lavorato intensamente, possiamo dire fino all’ultimo, nella creazione della propria azienda e nell’ideazione di un progetto politico che ha saputo intercettare l’interesse e l’apprezzamento di milioni di italiani. 

Autore
Anna Monia Alfieri, I.M. 
Cavaliere della Repubblica Italiana

             

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– Notizie brevi –

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Silvio Berlusconi è morto questa mattina presso l’ospedale San Raffaele di Milano dove era stato nuovamente ricoverato lo scorso venerdì 9 giugno, dopo un precedente ricovero a causa di una polmonite e di una leucemia mielomonocitica. Il feretro è stato trasportato dall’ospedale alla villa di Arcore alle ore 12. Domani sarà allestita la camera ardente nella sede di Mediaset nello studio 20 di Cologno Monzese. I funerali si svolgeranno mercoledì nella Cattedrale di Milano.

Al di là delle posizioni politiche e delle convinzioni personali di ciascuno, al Presidente Silvio Berlusconi va riconosciuto il merito del coraggio e della intraprendenza, il merito di aver lavorato intensamente, possiamo dire fino all’ultimo, nella creazione della propria azienda e nell’ideazione di un progetto politico che ha saputo intercettare l’interesse e l’apprezzamento di milioni di italiani. 

La sua “discesa in campo”, per mutuare una sua espressione, in un’Italia che stava vivendo una profonda crisi politica legata agli effetti di Tangentopoli e delle bombe della Mafia, con la conseguente crisi dei tre partiti che, fino ad allora, avevano guidato la scena politica, aveva dato nuova determinazione alla schiera dei moderati rimasti delusi dalle vicende di quegli anni.

Credo che uno dei grandi meriti del Presidente Berlusconi sia stato quello di non essersi mai abbassato alle accuse e alle polemiche contro gli avversari politici, di aver sempre mantenuto toni educati e rispettosi e di aver contribuito a fare dell’Italia uno degli attori economici e politici più importanti a livello europeo e mondiale. Ci uniamo, quindi, alla preghiera di suffragio per lui e nella vicinanza alla sua famiglia.

Milano, 12 giugno 2023

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