Le parolacce del prete, i latinismi dei novelli catto-kaifani affetti da analfabetismo dottrinale e le risate del vecchio Cardinale disincantato

LE PAROLACCE DEL PRETE, I LATINISMI DEI NOVELLI CATTO-KAIFANI AFFETTI DA ANALFABETISMO DOTTRINALE E LE RISATE DEL VECCHIO CARDINALE DISINCANTATO

 

«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».

— Attualità ecclesiale —

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Il tecnico che si occupa dei montaggi è fuori dall’Italia, la audio lettura degli articoli sarà inserita entro fine settembre

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A distanza di tempo un Cardinale con decenni di vita trascorsi nella Curia Romana mi ha confidato che anni fa giunse in Vaticano una lettera sottoscritta da diversi “cattolici integrali” che fece il giro di tutti gli uffici di quella sezione della Segreteria di Stato, facendo sganasciare dalle risate i monsignori che se la girarono tra di loro di scrivania in scrivania. Oggetto della protesta ero io, presentato come prete altamente indegno poiché colpevole di scandalizzare gli immacolati fedeli facendo talora uso di parole colorite non consone a un ministro in sacris. Per questo invocavano severe sanzioni canoniche a mio carico. Latori della petizione erano quei personaggi da sempre noti a noi preti, quelli dotati di una tal vocazione nello straccio delle vesti da far figurare Kaifa che s’incazza dinanzi al Sinedrio come un principiante alle prime armi.

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Questi personaggi si sentono anzitutto nobili soldati posti come alabardieri a difesa della vera tradizione cattolica e della più rigida morale sessuale applicata sempre e di rigore agli altri, giammai a sé stessi e meno che mai ai loro figli, figlie e nipoti, solo a figli e nipoti altrui. Per loro la Chiesa nasce improvvisamente nel 1570 con il Messale Romano promulgato dal Santo Pontefice Pio V, dal quale saltano direttamente agli inizi del Novecento, al pontificato del Santo Pontefice Pio X, colui che condannò quel tremebondo Modernismo che gli Alabardieri conoscono alla stessa stregua del latino del messale tridentino.

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Gli Alabardieri hanno tre fisse: il latino, San Tommaso d’Aquino e la lotta al Modernismo. Per quanto riguarda il latino mi limiterò a ricordare che anni fa, pigliando copiosamente per il culo i membri di un circolo di cosiddetti e impropriamente detti “tradizionalisti”, gli cantai sul metro del prefazio gregoriano la Poesia del Passero di Valerio Gaio Catullo dicendo infine: «Questa sì che è sacra liturgia, mica quel messalaccio di Annibale Bugnini approvato dall’improvvido Santo Pontefice Paolo VI!» [cfr. vedere QUI]. E tutti mi dettero ragione godendo dal settimo cielo. Ebbene, per quanto insolito possa apparire sappiate che persino io sono dotato di comune senso del pudore, per questo evitai di aggiungere il canto di qualche colletta prendendo dai carmina catulliani delle squisitezze del tipo:

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«Pedicabo ego vos et irrumabo, Aureli pathice et cinaede Furi, qui me ex versiculis meis putastis, quod sunt molliculi, parum pudicum»¹.

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Se però lo avessi fatto gli Alabardieri avrebbero ulteriormente confermato che quella sì, che era la lingua degli angeli che dalle panche oltre la balaustra dell’altare ti porta direttamente in Paradiso, mica grazie ai sacri misteri, ma grazie al magico latinorum fine a sé stesso. Per questo mi limitai alla Poesia del Passero spacciata per prefazio evitando di mutare in collette certi carmina lussuriosi, che ovviamente conosco a memoria sin dai tempi del liceo classico.

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Segue San Tommaso d’Aquino, che questi Alabardieri conoscono alla stregua del latino del Messale tridentino, incapaci a comprendere che il Doctor Angelicus e Doctor Communis parla dei misteri della fede e fornisce un efficace e tutt’oggi insuperato metodo speculativo, ma né il suo metodo né la sua straordinaria produzione in sé costituiscono verità immutabili della fede. Prendiamo un esempio tra i tanti: oggi la dottrina cattolica insegna che l’anima è insufflata nell’essere vivente sin dal momento del concepimento. L’Aquinate, che seguiva il metodo speculativo di Aristotele, sostiene che nel corso della crescita del feto si sviluppano in successione: prima un’anima vegetativa, poi un’anima sensitiva, infine, quando lo sviluppo sia adeguato a ricevere l’anima intellettiva, questa è infusa direttamente da Dio al terzo mese di gravidanza [cfr. Summa Theologiae Iª q. 118 a. 2 ad 2].

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Diversa idea aveva l’Aquinate anche riguardo la immacolata concezione della Beata Vergine Maria, ritenendo che non fosse nata senza peccato originale ma che subito dopo il suo concepimento ricevette una straordinaria santificazione nella sua anima che cancellò il peccato originale [cfr. Summa Theologiae IIIa, q. 27, a. 3 ad 3]. Capite bene che tra concezione senza peccato originale e cancellazione del peccato originale, la differenza non è meramente semantica, ma proprio sostanzialmente teologica.

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Altrettanto singolare il modo in cui gli Alabardieri giustificano il fatto che alla base del metodo speculativo dell’Aquinate vi sia il genio e la scienza del paganissimo Aristotele. Presto confezionata e data la risposta: Aristotele era di fatto cristiano, avendo percepito secoli prima, pur senza rendersene conto, il mistero della incarnazione del Verbo di Dio. Si tratta di una affermazione tanto cretina quanto illogica che prese a circolare negli ambiti della neoscolastica decadente di fine Ottocento. I pappagalli della non meglio precisata tradizione che oggi la ripetono e la propagano come una verità di fede, non si rendono neppure conto che a questo modo stanno definendo Aristotele “cristiano anonimo”, secondo la controversa e pericolosa teoria di Karl Rahner, altro loro nemico giurato, sebbene non conoscano neppure il titolo delle sue principali opere. Poco conta, perché la cultura cattolica e teologica dell’Alabardiere della vera e pura tradizione si basa su un castello di «si dice che …».

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Infine lo spettro diabolico del Modernismo, di cui gli Alabardieri parlano prendendo mossa da una mancanza totale di conoscenza, oltre che di spirito critico. Poi, se a loro supporto ci si mette un prete squinternato, scomunicato e dimesso dallo stato clericale, il danno irreparabile è presto fatto. Non tutti i provvedimenti che fecero seguito alla Enciclica Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X furono affatto lungimiranti, anzi favorirono in parte lo sviluppo di un pericoloso Modernismo reattivo, dall’altra cristallizzarono la speculazione teologica in quattro formule stagnanti e rancide della neoscolastica decadente, impedendo di fatto ai teologi di speculare al di fuori di quelle quattro formule sclerotiche e intangibili. Questo mentre sull’altro versante, i Protestanti, portavano avanti studi molto approfonditi sulle scienze bibliche e la esegesi, ai quali decenni dopo fummo costretti a rifarci, dopo essere rimasti paralizzati per decenni in quelle quattro formule sclerotiche e intangibili che costituivano la fallimentare lotta del Santo Pontefice Pio X — o meglio di chi per lui — contro il Modernismo, che a posteriori possiamo affermare che andava sì condannato e contrastato, ma in tutt’altro modo, non nel modo gretto che spesso fu adottato.

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Tra i tanti studiosi protestanti cito a titolo di esempio il grande commento alla Lettera ai Romani del teologo Karl Barth, che rimane tutt’oggi insuperato nell’ambito della esegesi novo testamentaria e alla quale tutti noi dobbiamo di necessità rifarci.

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Non si può parlare del Modernismo se non si conosce e non si è mossi dalla consapevole onestà ch’esso nacque e si sviluppò come pensiero reattivo in seno a una Chiesa che nel corso di tutto l’Ottocento si era incartata in questioni di carattere puramente politico ― indubbiamente giustificate dalla storia e dagli eventi di quegli anni successivi alla Rivoluzione Francese ―, mentre la teologia cattolica languiva e ristagnava in forme di vera e propria ignoranza. Quindi non è possibile parlare del Modernismo se non partendo da un dato di fatto: il francese Alfred Firmin Loisy e l’italiano Ernesto Buonaiuti sono due figure da annoverare nella rosa dei più brillanti pensatori del Novecento. Solo dei bigotti illetterati o qualche prete squinternato possono trattarli con eretical sufficienza dall’alto della loro totale mancanza di conoscenza. E concludo precisando, a onor del vero, che da Santa Madre Chiesa Ernesto Buonaiuti fu trattato con una tale e feroce mancanza di carità cristiana che grida davvero al cielo, piaccia o meno agli Alabardieri in lotta contro lo spettro di quel Modernismo che non conoscono e di cui il Santo Pontefice Pio X, che giustamente e prudentemente lo condannò, al tempo stesso ne favorì lo sviluppo e la diffusione grazie a provvedimenti e azioni repressive tutt’altro che lungimiranti. Ma su questo tema molto complesso e articolato sto preparando un libro, se non crepo prima.

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Forse il Cardinale mio interlocutore aveva voglia di ridere ulteriormente, per questo l’ho esaudito cominciando col dire: È vero, Eminenza, dico parolacce, ahimè! A volte ne dico anche tante e qualche cattolico o cattolica da cupa sacrestia me lo rimprovera sui moderni social media, anzi prendo atto che hanno protestato scrivendo anche a voi, a quanto mi dice. Taluni di questi mi hanno persino detto che sono troppo esplicito, per esempio nei riferimenti ― a mio parere del tutto naturali e scientifici ― alla sessualità umana, perché a loro dire dovrei usare degli eufemismi, per esempio delle terminologie latine, non termini troppo espliciti. E, come risaputo, il latino piace terribilmente a tutti quelli che non lo conoscono, perché fa molto chic.

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Eminenza, il problema non è il latino, che io conosco. Il problema è chi il latino non lo conosce. Mi spiego: per quanto mi riguarda posso anche sbottare dicendo «Mentulam fregistis!». Se però poi non traduco che ciò significa alla lettera «avete rotto il cazzo», chi è che capisce questa aulica espressione ciceroniana in splendido latino?

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Il Cardinale si mette a ridere come non osò fare neppure all’epoca in cui, giovane monsignore di curia che era, negli anni Ottanta vide il film Il Marchese del Grillo assieme a Giovanni Paolo II e altri prelati. Il quale Giovanni Paolo II, a quanto il Cardinale stesso riferisce in camera caritatis, pare abbia commentato la pellicola dicendo che regista e sceneggiatore avevano capito proprio tutto della Roma papale.

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Lascio il Cardinale terminare le sue risate e proseguo: talvolta noi preti siamo come certi premurosi medici della mutua, che prescritta la ricetta dicono al povero ignorante illetterato: «Queste supposte devono essere assunte pro rectale via». Errore gravissimo! Perché a quel punto delle due l’una: o a quel paziente viene detto a chiare lettere che la supposta va spinta dentro il buco del culo, oppure finirà per essere portato al pronto soccorso dopo avere ingurgitato supposte per un mese ingoiandole con un bicchiere d’acqua.

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Perché certe pudibonde orecchie delicate anelano tanto quei latinismi che non capiscono? Forse perché vogliono che la Chiesa usi delle formule magiche che tanto più sono incomprensibili tanto più sarebbero efficaci? Ve lo spiego perché anelano latinismi: perché non hanno mai fatto i confessori, tanto per cominciare. O pensate che a dei Santi confessori come San Leopoldo Mandic e San Pio da Pietrelcina si presentassero, pentiti e pentite, libertini e donne di facili costumi a parlare di fellatio, cunnilingus, ani commercium, fornicationem contra naturam, irrumatio, cheiroerastia …

Si provi a immaginare un uomo che confessa di avere avuto un rapporto sessuale con un altro uomo, oggi va tanto di moda, anzi fa proprio tendenza, al punto che non è più peccato ma alta espressione d’amore (!?). Soprattutto si provi a immaginare me, confessore, che per adempiere a quanto esigono certi cattolici e cattoliche dalle orecchie delicate e per questo anelanti latinismi, mi metto a interloquire con il penitente così:

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«… in manum tuam veretrum alterius acciperes, et alter tuum in suam, et sic alternatim veretra manibus vestris commoveritis, ut sic per illam delectationem semen a te proiiceres? Si fecisti, triginta dies in pane et acqua poenitas!»².

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L’anziano Cardinale ha rischiato a questo punto di cadere dalla sedia disteso sotto il tavolo, mentre proseguivo: … insomma, Eminenza, posso fare anche felici coloro che anelano sentire latinismi, posso anche dirgli pro via rectale, salvo poi ingoiare le supposte per un mese intero anziché mettersele nel buco del culo. Posso anche rispondere a certi sedicenti cattolici altamente arroganti e irriverenti verso noi presbiteri sbottando «Tace. Maxima mentula demens!». Dopodiché, chi gli spiega che gli ho appena detto «stai zitto grandissima testa di cazzo»? O credono forse di poter tradurre le terminologie di una antica lingua morta con il motore di ricerca Google?

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Sorride il Cardinale dall’alto dei suoi ottant’anni da tempo passati, nel corso dei quali ha visto nella Chiesa di tutto e di più, compresi eserciti di farisei, pelagiani e puritani pieni di vizi privati e propagatori delle più rigide pubbliche virtù reclamate sempre e di rigore sulla pelle degli altri. Dicendomi infine con tono tenero e paterno:

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«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».

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Sì, ne abbiamo bisogno, perché dovendo scegliere se piangere o se ridere, tutto sommato è sempre meglio ridere con la santa ironia della fede. E per concludere con una risata. Accadde che dei ragazzi toscani irridenti e irriverenti in vena di scherzi telefonano al Convento dei Frati Minori Cappuccini di Firenze esordendo:

«… pronto? Senta Padre e c’abbiamo sottomano du’ puttane e un si sà che fassene, le possiamo mandà a voi?».

Risponde serio il Cappuccino all’altro capo del telefono:

«… ’o Figliolo, noi qua siamo in sedici, con du’ sole puttane ‘i che voi che ci facciamo, un ci si po’ manco liscià i’ cazzo!».

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E stiamo a parlare dei miti e serafici Cappuccini, immaginate cosa gli avrebbero risposto se avessero chiamato il Convento di quei pitt-bull dei Domenicani. 

Dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2022

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NOTE

¹ Cfr. Catullo (Carme 16) traduzione dal latino classico: «Io ve lo caccerò su per il culo e poi in bocca, Aurelio succhiacazzi e Furio finocchio sfondato, che per dei miei versi (poetici) teneri e gentili, avete pensato ch’io sia un rottinculo».

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² Da un’antica raccolta di Penitenze Tariffate, traduzione dal latino medioevale: «Hai preso in mano il cazzo di un altro uomo e lui il tuo, dopodiché, in questo modo, avete giocato con i rispettivi cazzi attraverso le vostre mani, fino a eiaculare di piacere? Se lo hai fatto, ti impongo trenta giorni a pane e acqua come penitenza».

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È IN DISTRIBUZIONE L’ULTIMO LIBRO DI ARIEL S. LEVI di GUALDO – PER ACCEDERE AL NEGOZIO LIBRARIO CLICCARE SULLA COPERTINA

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I Padri dell’Isola di Patmos

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È in distribuzione “Amoris Tristitia”, ultima opera editoriale di Ariel S. Levi di Gualdo dedicata alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra

È IN DISTRIBUZIONE AMORIS TRISTITIA, ULTIMA OPERA EDITORIALE DI ARIEL S. LEVI di GUALDO DEDICATA ALLA MEMORIA DEL CARDINALE CARLO CAFFARRA

 

«Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva».

— Novità editoriali —

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Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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Il 6 settembre ricorre il V° anniversario della morte del Cardinale Carlo Caffarra che nel 1981 fu incaricato dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II di fondare l’Istituto per studi su matrimonio e famiglia. L’opera di Padre Ariel S. Levi di Gualdo è una disamina critica della Amoris Laetitia in rapporto alla Humanae Vitae. Riguardo la Amoris Laetitia l’Autore scrive:

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«Dopo la chiusura del Sinodo sulla famiglia l’utero dell’elefantessa partorì il 19 marzo 2016 il topolino di campagna della Esortazione Apostolica post sinodale Amoris Laetitia, un marchingegno di ambiguità costruito sul detto e non detto, su frasi ambigue a doppio senso, sentimentalismi emotivi e tanti sociologismi che decretano di fatto la morte di quello che per secoli è stato il linguaggio preciso, deciso e non passibile di equivoci del Magistero della Chiesa sorretto sui più solidi e chiari principi della metafisica classica, da tempo messa in soffitta per lasciare spazio al romanticismo tedesco decadente e al cuoricino che palpita e che guarda all’immediato del proprio soggettivo “io” anziché al futuro e a Dio. Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva, come a volte è accaduto a intervalli ciclici nella storia della Chiesa, anche se mai ai livelli desolanti di questi nostri tempi […] Qualche superficiale potrebbe fraintendere, in buona o anche in mala fede, obiettando che in queste pagine ho rivolto severe critiche a una Esortazione Apostolica data dal Romano Pontefice. Chiunque mi accusi di ciò sarebbe in grave errore, perché non critico affatto una norma data, dinanzi alla quale tacerei ed eseguirei quanto disposto dal sommo magistero. Ciò che critico è una norma non data e delle domande alle quali non è mai stata data risposta, lasciando il tutto avvolto nell’ambiguità. Questo è l’oggetto della mia critica: la mancanza di una norma assieme alla mancanza di chiarezza e di risposta. Il fedele servitore della Chiesa ragiona, dibatte e critica fin quando è consentito. Dopo che la Chiesa ha parlato il suo compito è di eseguire e trasmettere gli insegnamenti e di osservare le norme date, salvo creare in caso contrario scandalo nel Popolo di Dio e fratture della comunione ecclesiale. Nessuno, sacerdote o laico cattolico che qualsivoglia, può dissentire e sostituire le proprie personali opinioni all’autorità della Chiesa, a questo ci pensano i teologi tedeschi, da sempre è loro prerogativa e privilegio pontificio».

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È cosa nota e risaputa quanto Padre Ariel sia un pensatore, un analista e un teologo che quando graffia lascia il segno. E chi il graffio lo riceve, in genere ha due possibilità: o tenerselo e curare la ferita, oppure ritrovarsi in gravi difficoltà a smentire ciò che di vero e incontestabile ha scritto. Questo il motivo per il quale è accaduto nel corso del tempo che più volte, varie persone che si sono sentite ferite dalle sue parole o dai suoi rimproveri, non potendolo smentire né volendo dibattere nel merito delle precise questioni sollevate si sono attaccate alla forma espressiva, che nel caso di questo scrittore è spesso ironica, talvolta persino colorita. Ma d’altronde è noto: a questo modo agivano già a suo tempo i farisei.

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Dibattendo sul delicato tema della Humanae Vitae l’Autore si colloca nel mezzo in un punto di equilibrio tra coloro che vorrebbero relativizzarla e coloro che vorrebbe invece «dogmatizzare un preservativo rinchiudendo al suo interno la morale cattolica e l’intero mistero del male». A tal proposito precisa:

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«Desidero chiarire sin dall’inizio di questa mia esposizione che a certi generi di pensieri e giochi perversi non ci sono mai stato né intendo starci come uomo e come cattolico, come presbitero e come teologo. Questo libro intende esserne prova lucida e obiettiva in aperta critica rivolta sia a coloro che vorrebbero applicare alla Chiesa il carente senso morale del mondo e la sua sessualità disordinata e senza alcuna regola, sia a coloro che sono animati da quelle forme di cupo moralismo che niente ha da spartire con la sana e autentica morale cattolica, retta sulla più importante delle virtù teologali: la carità (cfr. I Cor 13), non certo sul principio della summa lex summa iniuria (la somma giustizia equivale spesso alla somma ingiustizia). E la verità si regge sulla carità, mentre la carità è tale se retta dalla verità (cfr. Caritas in veritate). Perché è sulla carità che saremo giudicati da Dio».

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Dall’Isola di Patmos, 30 agosto 2022

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L’Arcivescovo Vincenzo Paglia non è semplicemente il “fratello idiota” di Don Abbondio ma la meretrice di Babilonia genuflessa dinanzi al Principe di questo mondo

L’ARCIVESCOVO VINCENZO PAGLIA NON È SEMPLICEMENTE IL FRATELLO IDIOTA DI DON ABBONDIO MA LA MERETRICE DI BABILONIA GENUFLESSA DINANZI AL PRINCIPE DI QUESTO MONDO

 

«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» (Augusto Del Noce, 1971)

— Attualità —

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le testuali parole di S.E. Mons. Vincenzo Paglia, cliccare sull’immagine per aprire il video

Dell’Arcivescovo Vincenzo Paglia mi sono già occupato epitetandolo fratello idiota di Don Abbondio, oggi merita il titolo di meretrice di Babilonia genuflessa al Principe di questo mondo [cfr. Gv 14, 30]

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«Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli abomini della terra”» [Ap 17, 5].

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Le dichiarazioni fatte da questo idiota nel senso etimologico del termine ― dal greco ἰδιώτης (idiòtes) che significa “uomo privato” e indica la persona incompetente, inesperta e inetta ― sono di una gravità senza precedenti, tanto più ricoprendo il delicatissimo ruolo di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Partecipando di recente al programma Il tetto che scotta sulla sinistrissima e politicamente corretta Rai Tre ha magnificato la legge 194 del 1978 sull’aborto legalizzato affermando: «Io penso che ormai la Legge 194 sia un pilastro della nostra vita sociale». Dopo essersi arrampicato per 40 secondi sugli specchi, alla secca domanda dell’intervistatrice che lo ha incalzato: «Lei dice che non è in discussione la Legge 194?». L’Idiota ha replicato: «Ma no, assolutamente … assolutamente!».

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Parole di per sé nemmeno commentabili dinanzi alle quali torna alla mente una frase del filosofo Augusto Del Noce che dipinse la nostra situazione attuale scrivendo queste parole profetiche quattro decenni fa:

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«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» [Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? Rusconi Editore, Iª ed. 1971]

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Può un vescovo compiacere il mondo con simile piaggeria, anziché contrastare chi proclama l’aborto «diritto sacrosanto» e «grande conquista sociale»? A un vescovo legittimo successore degli Apostoli e membro del Sacro Collegio Apostolico va tributato rispetto, sempre, a prescindere dalle sue debolezze, fragilità e mancanze di meriti oggettivi che possono fare di lui un personaggio anche al di sotto della mediocrità. Come confessore e direttore spirituale di numerosi preti ho udito spesso i lamenti di diversi confratelli che mi spiegavano quanto il loro vescovo fosse un emerito idiota. E avevano ragione, perché tale era nei disastrosi fatti concreti.  E a tutti loro ho sempre risposto:

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«… e a questo emerito idiota devi filiale rispetto e devota obbedienza, sempre e a prescindere. Pertanto cerca di vivere la oggettiva idiozia del tuo vescovo come una prova di fede. Puoi non stimarlo, perché la stima non gli è dovuta, se la vuole quella deve guadagnarsela. Ma il rispetto e l’obbedienza sì, gli è sempre dovuta e non può essere in alcun modo cancellata dai suoi demeriti di cui al momento opportuno dovrà rispondere a Dio come sta scritto: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”» [Lc 12, 48].

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Da una parte raccolgo le lamentele dei preti verso i loro vescovi, dall’altra quelle di diversi vescovi che non ce la fanno più con certi preti. E hanno ragione gli uni e gli altri. Ormai da anni, a preti che si lamentavano dei loro vescovi non particolarmente amabili, paterni o dottrinalmente brillanti replico: «Tra non molto tempo tu e i tuoi confratelli rimpiangerete il vostro vescovo con le lacrime agli occhi». Frase ripetuta a decine di preti a partire dal 2017, quando i massimi vertici della Chiesa Cattolica superarono la soglia del non-ritorno festeggiando i 500 anni della pseudo-riforma di Martin Lutero, che non fu affatto un «riformatore», come lo dipinse La Civiltà Cattolica, né un soggetto sul quale si possa dire: «Credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. Era un riformatore». Perché così il Sommo Pontefice Francesco definì in un suo sproloquio a braccio in aereo ad alta quota questo diabolico eresiarca che dette vita a un drammatico scisma, non certo a una riforma. Quella la fece il Concilio di Trento, non Lutero. Oggi, gli stessi preti, mi scrivono, mi telefonano o a tu per tu mi dicono: «Avevi ragione, potessi riavere il precedente vescovo di cui tanto mi sono lamentato non gli bacerei la mano ma i piedi!».

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Stendo un velo pietoso sui criteri di selezione dei nostri nuovi vescovi sotto questo augusto pontificato, tutti col povero e il migrante sulla bocca, tanto che dopo averne udito uno si sono udite tutte le omelie episcopali pronunciate da nord a sud, da est a ovest dai vescovi italiani.

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Che i nostri non siano tempi di “aquile reali” è chiaro a chiunque abbia anche un minimo lume di ragione. Per questo merita delineare la differenza che corre tra un vescovo idiota al quale sono sempre dovuti filiale rispetto e devota obbedienza, da un vescovo ridotto a una meretrice di Babilonia genuflessa alle ginocchia del Principe di questo mondo. All’Arcivescovo Vincenzo Paglia deve essere pubblicamente tributato tutto quel santo sprezzo che qualsiasi credente è tenuto a riversare su ciò che è male e che come tale costituisce grave peccato, nel caso specifico il delitto di aborto, regolamentato nel nostro Paese da una Legge che non è affatto un «pilastro della nostra vita sociale» ma il peggiore dei crimini legalizzati perpetrati contro la vita. Ecco perché non bisogna prestare filiale rispetto e devota obbedienza all’Arcivescovo Vincenzo Paglia, perché abusando nel modo peggiore dell’episcopato ha espresso dei concetti che contraddicono l’impianto della nostra morale e della nostra etica che si reggono entrambe sui pilastri del deposito della fede cattolica. Rimane un vescovo legittimo rivestito di una importante e delicata carica ecclesiastica, questo è fuori discussione. Però, se la sua potestas che comporta anzitutto la suprema custodia della dottrina della fede la esercita per negare in modo sacrilego i fondamenti della morale e dell’etica cattolica, in tal caso non deve essere né ascoltato, né ubbidito né seguito e meno che mai rispettato, ma bensì reso oggetto di santo sprezzo cristiano.

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Vincenzo Paglia è una vergogna dell’episcopato appartenente a quella nefasta categoria di persone verso la quale tuonano le Sacre Scritture:

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«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» [Ap 3, 15-16].

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Assieme a Vincenzo Paglia rischiano di essere vomitate dalla bocca dell’Onnipotente anche tutte le ambiguità e le doppiezze di questo pontificato al quale va il grave e oggettivo demerito di avere inserito in tutti i più delicati posti chiave soggetti immorali e palesemente eterodossi, correndo a questo modo il rischio di «[…] passare agli annali come un inseguimento eccentrico del nuovo e del sensazionale come surrogato della ricerca di senso, che ha finito col produrre una confusione dottrinale e pastorale mai verificatasi in precedenza nella storia della Chiesa».

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Parole quest’ultime con le quali apro il mio libro dedicato alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra che entrerà in distribuzione i primi di settembre e che vi invito a leggere, non altro per risollevarvi un po’ d’animo, per acquisire fiducia sul fatto che non tutto è perduto e per poter toccare con mano che in mezzo a tanti pavidi conigli in carriera che stanno de-costruendo i fondamenti stessi della dottrina cattolica, esistono sempre anche i leoni che aspirano alla conquista del premio della vita eterna come loro unica ambizione di carriera. Leoni che è bene non andare a infastidire con la parolina di stizzoso rimprovero clericale, perché mordono e sbranano, come si deve e come si conviene ai Leoni di Dio posti a custodia della dottrina della fede e della salute delle anime dei Christi fideles a noi affidate dal Redentore.

 

Dall’Isola di Patmos, 28 agosto 2022

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Cari Lettori,

vi prego di leggere questo articolo [vedere QUI] e di essere sensibili e premurosi per quanto vi è possibile

Vi ringrazio

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La Chiesa Cattolica non prende ordini da nessuno tanto meno dagli ucraini che hanno perduto il contatto col reale in un trionfo di arroganza che produrrà gravi danni a tutte le popolazione dell’Europa

LA CHIESA CATTOLICA NON PRENDE ORDINI DA NESSUNO TANTO MENO DAGLI UCRAINI CHE HANNO PERDUTO IL CONTATTO COL REALE IN UN TRIONFO DI ARROGANZA CHE PRODURRÀ GRAVI DANNI A TUTTE LE POPOLAZIONI DELL’EUROPA

 

Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo.

— Attualità —

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Nel mio libro pubblicato un paio di mesi fa: Guerra e propaganda ideologica, ho anticipato fatti e problemi che stanno venendo alla luce adesso nella loro drammatica gravità politica ed economica.

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Ricordate la scorsa stagione televisiva, dove di talk show in talk show si inneggiava slava Ucraini (gloria all’Ucraina)? Ricordate le voci critiche tacitate? Ricordate in che modo un esperto storico come Franco Cardini — autore di Ucraina, la guerra e la storia — non potendo essere zittito né dichiarato non autorevole, era tacitato con la inderogabile pubblicità da mandare in onda, facendolo poi sparire dallo schermo a stacco pubblicitario terminato? Ma soprattutto: ricordate gli ucraini invitati negli studi televisivi che con arroganza memorabile puntavano il dito verso l’Italia e gli italiani affermando di sera in sera: «Non dovete comprare il gas dalla Russia, dovete fare sacrifici per noi, perché noi lottiamo anche per la vostra libertà»?

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Sotto gli occhi dei conduttori silenziosi, assaliti dalla necessità di mandare in onda la inderogabile pubblicità solo quando parlavano Franco Cardini o altri studiosi e qualificati esperti di storia e geopolitica, abbiamo dovuto sorbirci senza possibilità di replica dei soggetti emotivi drogati dalla propaganda di Vlodimir Zelenski ― che alle droghe pare non sia stato estraneo ― che senza possibilità di replica affermavano in prima serata che noi italiani eravamo obbligati a sacrificare i nostri figli per i figli degli altri che avevano deciso di lottare come dei cerbiatti contro una leonessa, convinti di vincere. Che la leonessa – nel caso specifico la Russia – li abbia aggrediti, è indubbio. Altrettanto indubbio che da una parte c’è un aggressore e un aggredito, in un contesto geopolitico molto complesso, vecchio e delicato nel quale non si può risolvere il problema sentenziando in modo superficiale e inappellabile chi è il buono e chi il cattivo, perché nelle guerre quando si ammazza tutti sono vittime e carnefici.

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I governanti ucraini e buona parte della popolazione, inclusa quella cattolica e purtroppo anche alcuni vescovi di quel Paese, hanno già attaccato in passato la Santa Sede e il Sommo Pontefice dichiarandosi indignati per l’idea di far portare la croce a una donna russa e a una donna ucraina nel corso della Via Crucis durante i riti della Settimana Santa, al punto da oscurarla sulle reti televisive della libera Ucraina, che al contrario della cattiva Russia sarebbe una democrazia, non un regime dittatoriale (!?). In questi giorni ha fatto seguito analoga dura protesta perché il Sommo Pontefice ha osato rivolgere un pensiero e una preghiera a Darya Dygin, figlia di Alexander, famoso e discutibile ideologo russo, uccisa in un attentato:

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«Penso a una povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca. Gli innocenti pagano la guerra» [cfr. QUI]  

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Il Governo Ucraino ha reagito con una protesta diplomatica attraverso il proprio ambasciatore e convocando il Nunzio Apostolico della Santa Sede a Kiev.

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Siamo al delirio di onnipotenza al quale si aggiungono cieca ignoranza e arroganza. Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo sul quale sta scritto:

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«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati […] infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» [Mt 9, 12-13].

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Ciò che dovevo analizzare ed esprimere sul conflitto russo-ucraino l’ho scritto in un libro al quale vi rimando.

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Dopo la pausa estiva stanno riprendendo i vari talk show alle porte di un autunno che si sta delineando molto critico. Questi vari programmi hanno riaperto mandando in onda i lamenti di imprenditori, commercianti e privati che stanno ricevendo delle bollette della luce salite ormai alle stelle e che non riescono a pagare, mentre nessuno sembra avere i virili attributi politici per dire che la guerra è stata un fallimento e peggio ancora l’invio di armi all’Ucraina, dove non si è armato un esercito ma una popolazione civile. Salvo poi mandare in onda sui nostri telegiornali notizie sui brutali soldati russi che uccidevano civili inermi. Anche in questo caso la domanda è rimasta senza risposta: un cosiddetto civile inerme che imbraccia un Kalashnikov e che apre il fuoco sul nemico, siamo davvero sicuri che sia un civile inerme?

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Tra poco, all’arrivo del freddo, ci sarà il problema del gas per gli impianti di riscaldamento. Riusciranno i nostri eroici uomini-azienda che conducono i vari talk show a riportare nuovamente negli studi televisivi gli ucraini per puntare il dito sugli italiani e dir loro che devono sacrificare i propri figli, le proprie famiglie e le proprie aziende per sostenere l’Ucraina nella propria arrogante politica suicida? Sarà interessante udire quel che diranno agli inizi del prossimo inverno i vari conduttori che nella scorsa stagione televisiva inneggiavano slava Ucraini (gloria all’Ucraina), dinanzi agli italiani che in modo molto inglorioso rischiano di ritrovarsi veramente alla canna del gas, mentre già da adesso, i gestori delle case di riposo per anziani e degli asili nido stanno dicendo in toni allarmati che non saranno in grado di pagare le bollette della luce ormai triplicate e quelle del gas che tra non molto arriveranno, ma che al tempo stesso non possono certo triplicare le rette mensili dei loro ospiti.

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Tutto il resto è scritto nel mio libro, con buona pace di chi ha inneggiato per mesi di talk show in talk show: slava Ucraini! Vediamo se lo stesso grido gli uomini-azienda avranno il coraggio di ripeterlo anche questo inverno con gli ucraini in studio che puntano il dito e che di sera in sera ripetono agli italiani ridotti alla canna del gas: «Voi dovete fare dei sacrifici per noi».

 

Dall’Isola di Patmos, 26 agosto 2022

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«Il gioco del lotto è la tassa dei fessi». Stiamo legalizzando tutto: aborto, eutanasia, droga, prostituzione, gioco d’azzardo … perché non legalizzare anche il femminicidio?

«IL GIOCO DEL LOTTO È LA TASSA DEI FESSI». STIAMO LEGALIZZANDO TUTTO: ABORTO, EUTANASIA, DROGA, PROSTITUZIONE, GIOCO D’AZZARDO … PERCHÉ NON LEGALIZZARE ANCHE IL FEMMINICIDIO?

 

Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.

— Attualità —

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Emma Bonino promotrice di varie campagne contro gli obbiettori di coscienza

Nel suo cabaret yiddish il Maestro Moni Ovadia ironizza sulla macchietta di un vecchio ebreo tirchio che pregava con insistenza il Signore di farlo vincere alla lotteria. Dopo assillanti preghiere risuona sul cielo di quello shtetl una voce scocciata: «Shlomo, io ti faccio anche vincere, ma tu spendi due soldi e acquista perlomeno un biglietto!».

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Molti anni fa, quand’ero studente universitario, il montepremi della vecchia lotteria di capodanno era giunto a cinque miliardi delle vecchie lire. Tutti i miei compagni avevano acquistato almeno un biglietto, ad eccezione mia. Un’amica mi domandò perché non ne avessi acquistato uno per il costo di poche lire, meno di quanto costasse un pacchetto di sigarette. Risposi: «Le possibilità di vincita sono talmente remote che se proprio dovessi vincere sarò a tal punto fortunato da trovare il biglietto vincente a terra mentre cammino per strada».

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Il gioco d’azzardo ha sempre costituito un grande giro d’affari per la malavita, in particolare per le associazioni mafiose presenti nel nostro Paese: la Camorra, la ‘ndragheta e Cosa Nostra. Il 27 giugno 1998 entra in vigore la legge che rende legale il gioco d’azzardo nel nostro Paese, regolato e gestito dai Monopoli dello Stato. Negli anni a seguire il Legislatore è intervenuto con altre leggi: nel 2005 promulga la legge n. 266 che definisce il ruolo dell’Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato che si occupa dei giochi che prevedono vincite in denaro e del contrasto della giungla di siti illegali privi di autorizzazione statale per operare in Italia, in particolare quelli del video-poker online, con domiciliazione in un paradiso fiscale e il server provider in qualche sperduto Paese asiatico svincolati da tutte le regole dei vari Stati nazionali. Tra il 2009 e il 2011 il Legislatore si occupa della tutela dei minori di 18 anni, ai quali è vietato giocare d’azzardo ai sensi delle leggi 88/2009 e 98/2011. Queste leggi hanno aumentato le pene nei confronti di coloro che non rispettano le necessarie misure sui divieti imposti per i minorenni, in particolare per i siti internet e i centri di gioco e scommesse. Nel 2012 un decreto legge che prende nome da Renato Balduzzi, all’epoca ministro della salute, si è occupato della dipendenza dal gioco d’azzardo, nota come ludopatia, un disturbo che rientra nella delicata sfera delle competenze psichiatriche.

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Due sono le correnti di pensiero: le persone favorevoli al gioco d’azzardo legale sostengono che vietandolo sarebbe favorita la diffusione di siti non autorizzati e delle sale da gioco clandestine gestite perlopiù dalla criminalità organizzata. I contrari sostengono che la piaga della dipendenza, la ludopatia, può portare alla rovina interi nuclei familiari, al tutto vanno aggiunte le spese non indifferenti a carico del Servizio Sanitario Nazionale per la cura dei giocatori compulsivi.

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È ormai pensiero diffuso che per evitare un male bisogna ricorrere al male dicendo che il male è bene. Chiariamo: la «grande italiana» Senatore Emma Bonino, secondo la infelice definizione pontificia oltre a chiamare l’aborto «grande conquista sociale» e a lamentare al Parlamento Europeo e alla Corte Internazionale di Giustizia la eccessiva presenza di medici obiettori di coscienza nel nostro Paese ― cosa questa che la rende, appunto, una “grande italiana” degna come tale di encomio pontificio ―, sostiene tutt’oggi che l’aborto legalizzato ha debellato quello clandestino, ponendo fine alla piaga delle poverelle che morivano una tantum di setticemia sotto i ferri delle mammane, mentre le ricche andavano nelle cliniche svizzere ad abortire in tutta sicurezza. Perché non applicare la stessa identica logica e affermare che andrebbe legalizzato il femminicidio, o perlomeno depenalizzarlo? Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio su richiesta, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.

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La iperbole è evidente, solo dei ciechi emotivi e degli analfabeti digitali possono non coglierne il senso del tutto provocatorio, paradossale e non ultimo pure grottesco, fraintendendo il chiaro senso e infine accusandomi di avere istigato al femminicidio. E vi posso garantire che non mancheranno questo genere di webeti che leggono solo il titolo e forse il sottotitolo. Non solo perché i webeti non muoiono mai, ma perché se gli fosse anche sparato un colpo di pistola sulla fronte, potete stare certi che il proiettile rimbalzerebbe per andare a uccidere un povero innocente che passava per la strada.

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Questa è però la logica con la quale da decenni, a partire dalla legge sulla legalizzazione dell’aborto, gli italiani sono stati drogati da quel partitino mefistofelico noto come Partito Radicale, la cui logica emotiva è nota: perché costringere una poverella a rischiare la vita sotto i ferri di una mammana, mentre le ricche signore vanno ad abortire in Svizzera? Sì, ma i membri del partitino mefistofelico, in testa a tutti Marco Pannella ed Emma Bonino grande italiana pontificia, non hanno mai risposto a un quesito fondamentale: e chi sarebbe che costringe sia la poverella che la ricca signora a uccidere un essere umano innocente? È forse moralmente lecito, nonché obbligatorio, uccidere le creature innocenti e indifese?  

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Fatto passare questo pensiero ne seguiranno di conseguenza altri. Si sa per esempio che uno dei mestieri più antichi del mondo è la prostituzione. Considerando che non può essere debellata, in tal caso legalizziamola. Altrettanto vale per il consumo delle droghe leggere o pesanti. Una volta legalizzate prostituzione e droga, non avremmo forse tolto alle varie mafie e associazioni criminali un grande giro di affari, sempre secondo il principio dell’aborto legale che avrebbe sconfitto quello clandestino? In fondo è semplice a farsi, basta che lo Stato ― già divenuto ormai infanticida con la legge n. 194 del 1978 ― diventi anche sterminatore di malati terminali, pappone di prostitute, spacciatore di droga e via dicendo a seguire. Altrimenti che genere di Stato civile, che genere di Stato di diritto sarebbe il nostro, qualora negasse il “diritto” a suicidarsi, prostituirsi, drogarsi? In tal modo il male cesserà di essere tale e sarà legalizzato divenendo lecito. Anzi, alle mignotte imporremo l’obbligo di regolare licenza commerciale, daremo loro una partita Iva con aliquota al 22%, l’obbligo di emettere ricevute fiscali cliente dietro cliente e di presentare infine la denuncia dei redditi annuale. Già me le immagino le ricevute delle mignotte con il dettaglio delle prestazioni e relativi prezzi varianti dai rapporti anali sino a quelli sadomaso. Volendo posso immaginare anche la faccia del commercialista, sia della mignotta che del cliente, al quale queste ricevute saranno presentate per la dichiarazione fiscale annuale e da inserire sotto chissà quale voce di deducibilità per il cliente.

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Sarà quindi bene darsi una mossa, in questa italica società cattofobica semi-schiava del Vaticano e per questo lontana dal giungere ai livelli di grande civiltà dei Paesi scandinavi, che da alcuni decenni si disputano col Giappone il felice primato mondiale dei suicidi e del più alto tasso di affetti da sindromi depressive acute.

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Mentre si pensa di ovviare certi problemi con le legalizzazioni, pochi pensano a sostituire il danaro contante con la moneta elettronica, che potrebbe sì portare beneficio fungendo da grande deterrente in un Paese nel quale i dati dell’Istat del 2018 parlano di 110 miliardi di evasione fiscale all’anno, di una economia sommersa pari a 192 miliardi e di attività illegali pari a 19 miliardi. Ovviamente, quello sulle attività illegali è un dato molto approssimativo, perché il giro di affari della criminalità è di parecchio superiore. Con la moneta elettronica che comporta la tracciabilità, come farebbe un puttaniere a pagare una mignotta? Presto detto: o la signora si dota di un improbabile meccanismo per strisciare carte di credito e bancomat tra i seni o tra le natiche, oppure il pagamento sarebbe a dir poco arduo. Altrettanto difficile per un imprenditore delinquente pagare in nero dei lavoratori privi di contribuzioni e coperture assicurative, in un Paese come il nostro dove si registrano di media 3 morti al giorno sul lavoro, secondo i dati statistici del 2019. Altrettanto varrebbe per l’elevato numero di artigiani che nel Meridione d’Italia in modo particolare svolgono attività di muratori, idraulici, elettricisti, antennisti, tecnici informatici … senza risultare in alcun dove come ditte individuali o lavoratori autonomi. E non sono pochi quelli che attualmente stanno pure beneficiando del reddito grillino di cittadinanza, pur mettendosi in tasca alcune migliaia di euro al mese in nero totale senza pagare neppure l’ombra di una tassa o di un contributo. Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo il cittadino li potrebbe pagare? Cosa che vale per l’idraulico come per il libero professionista dalle parcelle salate che sorridente domanda al cliente: «Con o senza fattura?».

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Fatta la legge trovato l’inganno, recita uno dei più noti modi di dire del nostro patrio suol italico. Cosa indubbiamente vera, nella quale noi italiani siamo maestri da sempre. Ci sono però dei limiti anche alla maestria più geniale e fantasiosa: è infatti vero che l’estro truffaldino della macchietta napoletana impersonata da Totò, può anche riuscire a vendere persino la Fontana di Trevi a un turista italo-americano, però neppure il più estroso degli imbroglioni può riuscire a raggirare certe leggi anti-truffa, perché sarebbe come pretendere di riuscire a sfidare le leggi naturali della fisica. Ne sono prova ― per fare un esempio ― gli attuali test per la patente di guida o quelli per l’ammissione alla facoltà di medicina e chirurgia, impossibili da manipolare, perché centralizzati e blindati da un sistema elettronico impenetrabile che rende impossibile poter individuare la persona da favorire per opera del padrino di turno.

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Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo uno spacciatore di droga o un ricettatore di merci rubate potrebbe darsi al commercio criminale? Qualcuno pensa che potrebbe rivolgersi all’amico macellaio o al tabaccaio compiacente per farsi strisciare delle transazioni inesistenti con bancomat o carta di credito? E se anche lo facesse, in che modo, il macellaio o l’amico tabaccaio potrebbero dargli poi in cambio moneta contante, stile raggiri sul reddito di cittadinanza, se la carta moneta non c’è e tutto procede unicamente per circuiti elettronici tracciabili?

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Siamo stati capaci a legalizzare l’aborto, siamo in procinto di legalizzare l’eutanasia, abbiamo reso il gioco d’azzardo Monopolio di Stato e non siamo capaci a stroncare evasione fiscale, prostituzione, spacci di droga e giri criminali di vario genere perché a dire di alcuni la moneta elettronica sarebbe una lesione delle libertà individuali e un controllo esercitato sui cittadini molto peggiore di quello del Grande Fratello di George Orwell? Ma siamo veramente una società di schizofrenici borderline!

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Un soggetto contrario alla moneta elettronica mi disse in tono stupidamente provocatorio: «E voi preti, come fareste a prendere le offerte per le chiese, per le attività caritative, per la celebrazione delle Sante Messe e via dicendo?». Risposi: «Semplice, con la moneta elettronica. Anzi, sarebbe più comoda e pratica degli spiccioli che quei grandi pidocchi di molti fedeli mettono nel cesto delle offerte, obbligandoci a dover cambiare in pochi pezzi di carta qualche chilo di monetine da 5, 10, 20 centesimi». E seguitai spiegando che per noi preti, membri di una aggregazione religiosa riconosciuta dallo Stato come istituzione di diritto pubblico, la moneta elettronica, per le offerte e altro, non sarebbe affatto un problema, piuttosto una grande e pratica comodità. Un problema lo sarebbe semmai per i Casamonica che nella Capitale d’Italia gestiscono anche il giro dell’accattonaggio. O qualcuno riesce a immaginare una petulante zingara ― o se preferiamo il linguaggio politicamente corretto una rom ― che scoccia i passanti chiedendo soldi con il pos a portata di mano per le transazioni con bancomat e carta di credito? Nelle nostre chiese potremmo tranquillamente installare un meccanismo elettronico per il versamento e la raccolta delle offerte, come quelli che si trovano in tutti i centri e luoghi in cui si può fare pagamenti self-service. Ma noi siamo un ente di diritto pubblico, non il circuito dell’accattonaggio gestito dal clan dei Casamonica, né siamo dei ricettatori né siamo dei trafficanti di droga.

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Eppure la nostra gloriosa Repubblica il sistema per far pagare le tasse lo ha trovato. Tutto sommato è un sistema più vecchio di quanto si possa immaginare: il gioco del lotto, che agli albori dell’Unità d’Italia un grande statista, il Conte Camillo Benso di Cavour, definì «la tassa dei fessi». Stando infatti ai dati riportati in un libro molto interessante edito nel 2017 e scritto da Giulia Migneco e Claudio Forleo, al quale ne seguì un secondo scritto dagli stessi Autori durante il lockdown da Covid-19, con il gioco d’azzardo legalizzato lo Stato ha incassato nel 2018 l’importo di 105 miliardi di euro. Un importo che per ironia della sorte corrisponde a ciò che l’Istat indica come il volume di evasione fiscale nel nostro Paese, pari a 110 miliardi di euro. Aveva quindi ragione il grande statista dell’Ottocento quando indicò il lotto come «la tassa dei fessi». A posteriori aggiungo: l’italiano si sente così furbo e legittimato a evadere le tasse, sino a non pagare quelle imposte utili a tenere in piedi l’impianto del nostro Stato sociale. Però al tempo stesso è così idiota da correre alla ricevitoria del lotto per pagare la «tassa dei fessi», mettendosi davanti a tutti sul tavolo del bar con la monetina in mano a raschiare un biglietto dietro l’altro di gratta&vinci.

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Alla ludopatia in rapporto alla morale cattolica dedicai anni fa una conferenza su richiesta e invito degli amici del Lions Club. Non ho da aggiungere molto a quanto dissi all’epoca, rimando quindi alla registrazione di questa mia conferenza che potete trovare sul Canale YouTube de L’Isola di Patmos.

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Nelle nostre parrocchie e centri Caritas non poche sono le persone che vengono a chiedere aiuto per generi di prima necessità, o perché in procinto di vedersi staccare la luce o il gas, dopo avere dilapidato stipendi e pensioni nel gioco d’azzardo legalizzato. A molti dei miei confratelli dal cuoricino tenero che più volte mi hanno detto «come si fa a non aiutarli?», ho risposto che dare qualsiasi genere di aiuto a un affetto da ludopatia è come comprare droga a un tossico in crisi di astinenza, come pagare le prestazioni di una prostituta a un sessuomane. Non è carità, ma pura incoscienza. Soprattutto è male che si aggiunge al tanto male che questi soggetti recano a sé stessi e alle proprie famiglie. All’affetto da ludopatia, dopo essersi dissanguato per avere pagato «la tassa dei fessi», bisogna dire in tono severo e quasi sempre a brutto muso: che ti stacchino pure la luce o il gas, che tu abbia pure difficoltà a fare la spesa e a mangiare, non m’interessa e non deve interessarmi, meno che mai impietosirmi. L’unico aiuto che posso darti e che in coscienza sono tenuto a darti, è quello di indirizzarti presso un bravo psichiatra in grado di curarti da questa pericolosa dipendenza.

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È una tristezza immane vedere anziani pensionati uscire dalle tabaccherie con file di gratta&vinci e andare poi poco dopo al centro della Caritas a chiedere un po’ di spesa. Altrettanto triste vedere file di persone, giovani e meno giovani, tra i quali tanti padri e madri di famiglia, bruciare somme di danaro per improbabili sistemi numerici, mentre il mega cartellone riporta scritta a caratteri cubitali la stratosferica somma del monte premi, che alla data odierna è pari a 259.600.000 euro. Cifra di fronte alla quale gli evasori fiscali affetti da ludopatia che giustificano le loro frodi allo Stato riparandosi dietro al dito del «non pago lo stipendio ai politici con le mie tasse», non si rendono neppure conto che le tasse le stanno pagando nel modo peggiore, come dei perfetti fessi, schedina dietro schedina, gratta&vinci dietro gratta&vinci. Oltre al fatto che il tanto recriminato stipendio dei politici, nelle tasche del bilancio generale dello Stato equivale a pochi euro nelle tasche nostre, benché da sempre sia la scusa e il risibile dito dietro il quale si riparano piccoli e grandi evasori fiscali.

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Se il monte premi ha raggiunto quella cifra, qualcuno si è chiesto a quanto ammonta la somma di gran lunga superiore raccolta con le giocate dai Monopoli dello Stato? Non è facile vivere in un Paese nel quale l’aborto è considerato «un diritto acquisito» e una «grande conquista sociale», dove si ritiene che l’eutanasia sia «un atto di umanità verso un povero malato terminale», dove lo Stato lucra sul gioco d’azzardo, al quale da una parte istiga, dall’altra invita a essere cauti perché «il gioco può creare dipendenza». Però, una moneta elettronica tracciabile che darebbe un colpo mortale alla criminalità organizzata, allo spaccio di droga, alla prostituzione, al lavoro nero, all’evasione fiscale e via dicendo a seguire, quella no, perché sarebbe una grave lesione delle libertà personali.

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Il Popolo Italiano ha un concetto molto strano di “diritto” e di “libertà”, istigato com’è a grattare nella speranza di vincere, con uno Stato che si pone la coscienza in pace avvisando che «il gioco può creare dipendenza» e che tra non molto ci regalerà l’eutanasia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la possibilità dell’adozione dei bimbi alle coppie di gay e di lesbiche, la droga libera e tanti altri meravigliosi diritti legati ad autentiche aberrazioni mutate in bene ai sensi di legge.

 

Dall’Isola di Patmos, 25 agosto 2022

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Emiliano Mandrone, La moneta elettronica per la lotta all’evasione fiscale? in Rivista online Economia e Politica, edizione del 4 novembre 2019

Ardizzi e P. Giucca, Il costo sociale degli strumenti di pagamento in Italia, Temi Istituzionali, Banca d’Italia, 2012.

GrazziniVerso la moneta digitale pubblica: l’audacia di Christine Lagarde e la prudenza di Mario Draghi, Economia e Politica, 2019.

Mandrone, La banda degli onesti che vuole il denaro elettronico, lavoce.info, 2015.

Mandrone, Il ruolo sociale dell’educazione economica, INAPP, 2017.

Realfonzo, 100 miliardi di sotto-investimento pubblico e deficit di competitività. L’Italia ha bisogno di politiche industriali, Economia e Politica, 2019.

K.S. RogoffLa fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante, Il saggiatore, 2017.

Vellutini, G. Casamatta, L. Bousquet, G. Poniatowski, Estimating International Tax Evasion by Individuals, WP No 76, European Commission, 2019.

Anni 2013-2016 l’economia non osservata nei conti nazionali, Statistiche Report, ISTAT, 2018

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Ci sono sacerdoti che propagandano e raccomandano la lettura dell’opera di Maria Valtorta, ignorando che la Chiesa l’ha dichiara fuorviante e pericolosa

CI SONO SACERDOTI CHE PROPAGANDANO E RACCOMANDANO LA LETTURA DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA, IGNORANDO CHE LA CHIESA L’HA DICHIARATA FUORVIANTE E PERICOLOSA

 

L’Opera della Valtorta «fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita “Vita di Gesù malamente romanzata”. Le disposizioni del Decreto del Sant’Offizio vennero ripubblicate con nota esplicativa il 1° Dicembre 1961. Dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava “tutto il suo valore morale” per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu data alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti»

(Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede)

— Attualità ecclesiale—

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il celebre film di fantascienza degli anni Ottanta: E.T. l’extraterrestre, di Steven Spielberg 

Molte persone semplici e in buona fede si sono rivolte ai Padri de L’Isola di Patmos per chiedere notizie sull’opera di Maria Valtorta e per informarci che è stata consigliata loro in lettura da diversi sacerdoti, alcuni dei quali usano i testi di questa fantasiosa Autrice nelle loro catechesi. Cosa molto grave, perché un pastore in cura d’anime non può ignorare che si tratta di scritti ripetutamente condannati e sconsigliati dalla Chiesa. Qualsiasi sacerdote che ne fa uso o che li consiglia in lettura si grava della responsabilità di somministrare veleno al Popolo di Dio.

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Il mio libero giudizio di studioso su Maria Valtorta è pessimo da sempre. Per poco possa valere considero questa Autrice affetta da misticismo strampalato e da megalomania narcisistica. Un libero giudizio basato sulle assurdità di quello che oggi è conosciuto e indicato in modo gravemente improprio come «Il Vangelo di Maria Valtorta».

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Contrariamente a quanti elevano le proprie opinioni e il soggettivo sentire a verità intangibili della fede, per mia impostazione e formazione teologica, giuridica ed ecclesiale, quando esprimo libere opinioni preciso sempre che sono tali e che come tali lasciano il tempo che trovano. A meno che non annunci delle verità di fede, facendomi voce e fedele strumento della Chiesa che mi ha conferito per Sacramento di grazia il mandato a farlo, adempiendo a questo modo a un dovere al quale non posso né devo sottrarmi. In tal caso, al “cattolico d’arrembaggio” che esordisce dicendo «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …» sono tenuto a replicare che è in grave errore, non perché abbia ragione io, ma perché ho annunciato ciò che insegna la Chiesa, chiarendo quelli che sono i suoi giudizi dati, dinanzi ai quali nessun credente che sia veramente tale può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …». Nessun singolo sacerdote e nessun fedele cattolico può né mai dovrebbe osare arrogarsi di dichiarare autentico ciò che la Chiesa ha dichiarato falso o dire impudentemente di credere in ciò al quale la Chiesa ha chiaramente detto che non bisogna credere né prestare fede. Pertanto ribadisco: è gravissimo che dei sacerdoti diffondano e trasmettano gli scritti di Maria Valtorta in aperta disobbedienza a quelli che sono i giudizi decisi e negativi dati dalla Chiesa su questa opera di fantasia, presentandoli come autentici e come opere edificanti per lo spirito dei credenti.

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Piaccia o meno a certi passionari, dichiarare ai fedeli cattolici che quella di Maria Valtorta non è un’opera di mistica e spiritualità ma una colossale bufala contenente gravi deviazioni dottrinali che danno della fede, della Divina Rivelazione e della mariologia una visione a tratti persino grottesca, non è una libera e soggettiva opinione personale, ma il giudizio della Chiesa, al quale sono tenuto a prestare obbediente ossequio e che come presbitero e teologo sono tenuto a trasmettere al Popolo di Dio, invitandolo a prestare ascolto e ossequio al giudizio che l’Autorità Ecclesiastica ha dato.   

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Chiariti questi fondamentali elementi, non sempre facili da far comprendere a coloro che vivono l’esperienza di fede in modo immaturo, soggettivo ed emozionale, lascio adesso parlare i documenti attraverso i quali l’Autorità Ecclesiastica si è espressa nel corso del tempo sull’opera di Maria Valtorta. Pareri chiari e precisi dinanzi ai quali nessun credente, ma soprattutto nessun pastore preposto alla cura e alla guida delle anime, può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

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UNA VITA DI GESÚ MALAMENTE ROMANZATA

L’Osservatore Romano edizione del 6 gennaio 1960

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In altra parte del nostro Giornale è riportato il Decreto del Sant’Offizio con cui viene messa all’Indice un’Opera in quattro volumi, di autore anonimo (almeno in questa stampa) edita all’Isola del Liri. Pur trattando esclusivamente di argomenti religiosi, detti volumi non hanno alcun imprimatur, come richiede il Can. 1385, 1 n.2 del Codex Iuris Canonici. L’Editore, in cui una breve prefazione, scrive che l’Autore «a somiglianza di Dante ci ha dato un’opera in cui, incorniciati da splendide descrizioni di tempi e di luoghi, si presentano innumerevoli personaggi i quali si rivolgono e ci rivolgono la loro dolce, o forte, o ammonitrice parola. Ne è risultata un’Opera umile ed imponente: l’omaggio letterario di un dolorante infermo al Grande Consolatore Gesù». Invece, a un attento lettore questi volumi appaiono nient’altro che una lunga prolissa vita romanzata di Gesù.

A parte la vanità dell’accostamento a Dante e nonostante che illustri personalità (la cui indubbia buona fede è stata sorpresa) abbiano dato il loro appoggio alla pubblicazione, il Sant’Offizio ha creduto necessario metterla nell’Indice dei Libri proibiti. I motivi sono facilmente individuabili da chi abbia la certosina pazienza di leggere le quasi quattromila pagine di fitta stampa. Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine Santissima; dagli interminabili dialoghi tra i molteplici personaggi che popolano quelle pagine.

I quattro Vangeli ci presentano Gesù umile, riservato; i suoi discorsi sono scarni, incisivi, ma della massima efficacia. Invece, in questa specie di storia romanzata, Gesù è loquace al massimo, quasi reclamistico, sempre pronto a proclamarsi Messia e Figlio di Dio e a impartire lezioni di teologia con gli stessi termini che userebbe un professore dei nostri giorni. Nel racconto dei Vangeli noi ammiriamo l’umiltà e il silenzio della Madre di Gesù; invece per l’autore (o l’autrice) di quest’opera la Vergine Santissima ha la facondia di una moderna propagandista, è sempre presente dappertutto, è sempre pronta a impartire lezioni di teologia mariana, aggiornatissima fino agli ultimissimi studi degli attuali specialisti in materia.

Il racconto si svolge lento, quasi pettegolo; vi troviamo nuovi fatti, nuove parabole, nuovi personaggi e tante, tante, donne al seguito di Gesù. Alcune pagine, poi, sono piuttosto scabrose e ricordano certe descrizioni e certe scene di romanzi moderni, come, per portare solo qualche esempio, la confessione fatta a Maria da una certa Aglae, donna di cattivi costumi (cfr. vol. I, p. 790 ss.), il racconto poco edificante a p. 887 ss. del I vol., un balletto eseguito, non certo pudicamente, davanti a Pilato, nel Pretorio (cfr. vol. IV, p. 75), etc…

A questo punto viene, spontanea una particolare riflessione: L’Opera per la sua natura e in conformità con le intenzioni dell’Autore e dell’Editore, potrebbe facilmente pervenire nelle mani delle religiose e delle alunne dei loro collegi. In questo caso, la lettura di brani del genere, come quelli citati, difficilmente potrebbe essere compiuta senza pericolo o danno spirituale. Gli specialisti di studi biblici vi troveranno certamente molti svarioni storici, geografici e simili. Ma trattandosi di un … romanzo, queste invenzioni evidentemente aumentano il pittoresco e il fantastico del libro. Ma, in mezzo a tanta ostentata cultura teologica, si possono prendere alcune … perle che non brillano certo per l’ortodossia cattolica. Qua e là si esprime, circa il peccato di Adamo ed Eva, un’opinione piuttosto peregrina e inesatta. Nel vol. I a pag. 63 si legge questo titolo: «Maria può essere chiamata la secondogenita del Padre». Affermazione ripetuta nel testo alla pagina seguente. La spiegazione ne limita il significato, evitando un’autentica eresia; ma non toglie la fondata impressione che si voglia costruire una nuova mariologia, che passa facilmente i limiti della convenienza.

Nel II vol. a pag. 772 si legge: «Il Paradiso è Luce, profumo e armonia. Ma se in esso non si beasse il Padre, nel contemplare la Tutta Bella che fa della Terra un paradiso, ma se il Paradiso dovesse in futuro non avere il Giglio vivo nel cui seno sono i Tre pistilli di fuoco della divina Trinità, luce, profumo, armonia, letizia del Paradiso sarebbero menomati della metà». Qui si esprime un concetto ermetico e quanto mai confuso, per fortuna; perché se si dovesse prendere alla lettera, non si salverebbe da severa censura.

Per finire, accenno a un’altra affermazione strana e imprecisa, in cui si dice della Madonna: «Tu, nel tempo che resterai sulla Terra, seconda a Pietro come gerarchia ecclesiastica …».

L’Opera, dunque, avrebbe meritato una condanna anche se si fosse trattato soltanto di un romanzo, se non altro per motivi di irriverenza. Ma in realtà l’intenzione dell’autore pretende di più. Scorrendo i volumi, qua e là si leggono le parole «Gesù dice…», «Maria dice…»; oppure: «Io vedo…» e simili. Anzi, verso la fine del IV volume (pag. 839) l’autore si rivela un’autrice e scrive di essere testimone di tutto il tempo messianico e di chiamarsi Maria. Queste parole fanno ricordare che, circa dieci anni fa, giravano alcuni voluminosi dattiloscritti, che contenevano pretese visioni e rivelazioni. Consta che allora la competente Autorità Ecclesiastica aveva proibito la stampa di questi dattiloscritti e aveva ordinato che fossero ritirati dalla circolazione. Ora li vediamo riprodotti quasi del tutto nella presente Opera. Perciò questa pubblica condanna della Suprema Sacra Congregazione è tanto più opportuna, a motivo della grave disobbedienza.

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RISPOSTA DEL PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE A UNA RICHIESTA DI PARERE SULL’OPERA DI MARIA VALTORTA

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Roma, 31 gennaio 1985 – Prot. n. 144/58

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A Sua Eminenza Reverendissima

Giuseppe Cardinale Siri

Arcivescovo metropolita di Genova

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il Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Con lettera del 18 maggio, il Reverendo Padre Umberto Losacco, Cappuccino, chiedeva a questa Sacra Congregazione una chiarificazione circa gli scritti di Maria Valtorta, raccolti sotto il titolo: Il Poema dell’Uomo-Dio e se esisteva una valutazione del Magistero della Chiesa sulla pubblicazione in questione con il riferimento bibliografico. In merito mi pregio significare all’Eminenza Vostra – la quale valuterà l’opportunità di informare il Reverendo Padre – che effettivamente l’Opera in parola fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita da L’Osservatore Romano del 6 gennaio 1960 «Vita di Gesù malamente romanzata». Le disposizioni del Decreto vennero ripubblicate con nota esplicativa ancora su L’Osservatore Romano del 1° Dicembre 1961, come rilevabile dalla documentazione qui allegata. Avendo poi alcuni ritenuto lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto, dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice, sempre su L’Osservatore Romano (15 giugno 1966) si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava «tutto il suo valore morale» per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu decisa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti.

Grato di ogni Sua cortese disposizione in proposito, profitto dell’occasione per confermarmi con sensi di profonda stima dell’Eminenza vostra reverendissima.

Dev.mo

XJoseph Cardinale Ratzinger

Prefetto

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MESSAGGIO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA ALL’EDITORE DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA

Roma, 6 Maggio 1992 – Prot. N. 324/92

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All’Attenzione del

Centro Editoriale Valtortiano

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Stimatissimo Editore,

il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo metropolita di Milano, all’epoca Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana

in seguito a frequenti richieste, che giungono anche a questa Segreteria, di un parere circa l’atteggiamento dell’Autorità Ecclesiastica sugli scritti di Maria Valtorta, attualmente pubblicati dal Centro Editoriale Valtortiano, rispondo rimandando al chiarimento offerto dalle Note pubblicate da L’Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 e il 15 giugno 1966.

Proprio per il vero bene dei lettori e nello spirito di un autentico servizio alla fede della Chiesa, sono a chiederLe che, in un’eventuale ristampa dei volumi, si dica con chiarezza fin dalle prime pagine che le visioni e i dettati in essi riferiti non possono essere ritenuti di origine soprannaturale, ma devono essere considerati semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a suo modo, la vita di Gesù.

Grato per questa collaborazione, Le esprimo la mia stima e Le porgo i miei rispettosi e cordiali saluti.

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XDionigi Tettamanzi, vescovo

Segretario Generale della C.E.I.

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Chiarito e documentato il tutto concludo ribadendo che dinanzi a questi chiari, precisi e decisi pareri dati dall’Autorità Ecclesiastica, nessun fedele cattolico, ma soprattutto nessun presbitero preposto alla cura e alla guida delle anime, dovrebbe mai osare replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

Dall’Isola di Patmos, 20 agosto 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Proclamare nuovi dogmi è più grave che de-costruire i dogmi di fede. Maria corredentrice? Una idiozia teologica sostenuta da chi ignora le basi della cristologia

PROCLAMARE NUOVI DOGMI È PIÙ GRAVE CHE DE-COSTRUIRE I DOGMI DI FEDE. MARIA CORREDENTRICE? UNA IDIOZIA TEOLOGICA SOSTENUTA DA CHI IGNORA LE BASI DELLA CRISTOLOGIA

 

La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini. Qualcuno è disposto a credere veramente che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

— Theologica —

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«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica» (Bolla dogmatica Munificentissimus Deus, 1° novembre 1950)

Con la bolla dogmatica Munificentissimus Deus il Pontefice Pio XII proclamò il 1° novembre 1950 il dogma della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria, la cui festa solenne è celebrata il 15 agosto. Con l’occasione offro una riflessione teologica a tutti coloro che strepitano per la proclamazione del dogma di Maria corredentrice, partendo da una domanda: è più grave mettere in discussione e de-costruire i dogmi della Santa Fede Cattolica, o più grave proclamare dei nuovi dogmi? Indubbiamente è più grave la seconda cosa, chi sbagliando e seminando confusione tra il Popolo di Dio mette in discussione i dogmi attraverso la rilettura e la reinterpretazione, sino a giungere alla loro de-costruzione, non è detto sia animato da intenzioni maligne, il tutto può essere anche frutto di quella cattiva formazione teologica trasmessa ormai da oltre mezzo secolo a generazioni di presbiteri e teologi. Molti sono i miei confratelli che usciti preti dai nostri disastrati seminari e abbeveratisi al meglio delle eterodossie insegnate dentro le università ecclesiastiche, sono realmente convinti che il male sia bene, che il vizio sia virtù, che l’eresia sia ortodossia e che l’ortodossia sia eresia. Non pochi, indotti a ragionare, sono giunti ad ammettere di avere ricevuto una pessima formazione teologica e una pessima formazione al sacerdozio, cercando quasi sempre con fatica e sacrificio di porvi rimedio. Coloro che invece nulla di questo ammetterebbero mai, malgrado le loro inquietanti lacune, li stiamo vedendo diventare vescovi uno dietro l’altro.

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Chi proclama dogmi che non esistono compie un errore maggiore, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono e non possono esistere, in quel caso siamo nel diabolico, perché entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore: la superbia intellettuale. L’ho scritto e spiegato in precedenza ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria – che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto – l’intero mistero del male, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa [Vedere Catechismo n. 1866].

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Parto quindi con un esempio avente per oggetto i cosiddetti Soliti Noti, coloro che appena sentono il suono del magico latinorum perdono ogni senso della ragione e ogni genere di senso critico, col conseguente totale stravolgimento della realtà oggettiva. Ecco allora che S.E. Mons. Mario Oliveri, Vescovo emerito di Albenga, a loro difensivo dire non è stato affatto rimosso dalla sua sede episcopale in quanto responsabile ― in parte anche involontario ―, per avere ridotta una diocesi a un autentico lupanare, a un centro di raccolta per omosessuali palesi sbattuti fuori per gravi problemi morali da uno o anche da più seminari, sino a ritrovarsi con un numero considerevole di preti incontrollabili dediti a ogni genere di vizio e a raggiri patrimoniali utili al mantenimento dei loro vizi. Nulla di tutto questo salta minimamente agli occhi dei Soliti Noti, che imperterriti e ostinati proseguono ad affermare e scrivere che il povero Presule è stato perseguitato dalla «Chiesa modernista» perché amava il Vetus Ordo Missae, usava mitrie gemmate alte settanta centimetri e distribuiva la Santa Comunione all’inginocchiatoio sotto il baldacchino sorretto dai cavalieri in frac.

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Altrettanto è accaduto ― affermano i Soliti Noti ―, ai membri della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata, non solo puniti a loro dire per avere organizzato convegni in critica a Karl Rahner, per avere indicata la pericolosità del Modernismo e della Massoneria; ma perseguitati soprattutto perché celebravano anch’essi ― manco a dirsi ― col Vetus Ordo Missae.

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Sulle colonne della nostra rivista L’Isola di Patmos l’accademico pontificio domenicano Giovanni Cavalcoli e io, in seguito il teologo cappuccino Ivano Liguori e il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci abbiamo scritto nel corso degli anni su Karl Rahner, sul Modernismo e i Modernisti, sulla Massoneria e via dicendo, in toni molto critici e duri. Non ci siamo neppure limitati a sparare a raffica, abbiamo proprio esploso ripetuti colpi di mortaio pesante, con una severità assai superiore rispetto a quella usata nei passati convegni promossi dai Francescani dell’Immacolata. Dovreste pertanto domandarvi: perché non ci hanno ancora commissariati? Perché, pur avendo accusato duramente Karl Rahner indicandolo come la fonte originante tutte le eresie di ritorno che invadono oggi la Chiesa, i seminari e le università pontificie, nessuna Autorità Ecclesiastica ci ha mai rivolto alcun sospiro e meno che mai richiami?

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Quando alcuni anni fa ebbi a parlare con uno tra i più insigni mariologi dei Frati Francescani dell’Immacolata, rimasi molto colpito dal suo fanatismo madonnolatrico, a seguire dalla sua superbia, perché egli dava già per proclamato il dogma di Maria Corredentrice. Di conseguenza, all’interno di quella Congregazione, il mai proclamato dogma di Maria Corredentrice era di fatto già iscritto nel depositum fidei con tanto di teologia e di culto promosso e diffuso. Il tutto nella completa indifferenza che tutti i Pontefici del Novecento, inclusi quelli particolarmente devoti alla Beata Vergine Maria, pure se supplicati più volte in tal senso non vollero mai prendere in considerazione la possibile proclamazione di questo nuovo dogma mariano. Tra costoro basti citare il Santo Pontefice Pio X, il Venerabile Pontefice Pio XII, il Santo Pontefice Paolo VI e il Santo Pontefice Giovanni Paolo II che l’emblema della Beata Vergine lo aveva voluto inciso sul proprio stemma pontificio, tanto era devoto alla Mater Dei, infine il Venerabile Pontefice Benedetto XVI, che in sua veste di teologo spiegò e chiarì con la timida mitezza ― forse anche eccessiva ― che lo ha sempre caratterizzato, che già il solo termine “corredentrice” creava problemi sul piano teologico con la cristologia.

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Il Pontefice regnante ― che timido e mite non lo è ― si è espresso per tre volte [1] su questo tema ribadendo un secco e deciso no:

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«La Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere quasi-redentrice o di essere co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia» [2].

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La reazione dei Soliti Noti più radicali non si è fatta attendere: hanno accusato il Sommo Pontefice di essere un blasfemo e un bestemmiatore (!?). A maggior ragione è bene chiarire: se porre in discussione il dogma della immacolata concezione e della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria è sbagliato ed eretico, per altro verso, promulgare il dogma di Maria corredentrice e agire di conseguenza, sino a diffonderne in modo impudente la teologia, è cosa di gran lunga più grave. Poi, se a fronte di queste e altre cose interviene a un certo punto la Santa Sede, inutile gridare «alla persecuzione del Vetus Ordo Missae!». Perché se vogliamo essere obbiettivi e applicare anzitutto criteri di aequitas unitamente al senso delle proporzioni, in modo del tutto ragionevole possiamo affermare che prima di calare la scure sui poveri Francescani dell’Immacolata andavano duramente colpiti i Gesuiti e assieme a loro svariati altri ordini storici e congregazioni con problemi interni assai più gravi, ma soprattutto responsabili di diffondere da decenni in modo pericoloso ― come nel caso dei Gesuiti ―, un pensiero palesemente non cattolico. Cosa questa di cui non possono essere accusati i Francescani dell’Immacolata. Se infatti questi giovani e semplici fratacchioni allevati da Padre Stefano Maria Manelli hanno errato, ciò è avvenuto per gran parte in buonafede e anche per non poca ignoranza, animati indubbiamente da tutte le migliori intenzioni interiori ed esteriori, da amore per la verità e da autentica venerazione alla Santa Chiesa di Cristo.

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I Gesuiti e i membri di altre aggregazioni religiose che diffondono le peggiori teologie distruttive, possono essere duramente criticati per il modo in cui de-costruiscono o aggiornano i dogmi della fede, ma i Francescani dell’Immacolata che hanno proclamato nei concreti fatti un dogma mariano dandolo per esistente e istituendo il culto a Maria corredentrice, sul piano teologico hanno commesso un errore parecchio più grave, sostituendosi a questo modo alla più alta e suprema Autorità della Chiesa. E non si obbietti, come fanno i digiuni totali di teologia che presumono per questo di poter dissertare nelle più delicate sfere della dogmatica: «… ma San Luigi Maria Grignion de Montfort nel suo Trattato sulla vera devozione ha scritto che … ma la Madonna di Amsterdam in una rivelazione privata ha chiesto che … la tal mistica e la tal veggente hanno detto che in una rivelazione privata la Madonna gli ha chiesto che …».

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La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini che rendono taluni soggetti parecchio arroganti e difficilmente gestibili per noi preti e per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con la loro ignoranza. Eppure la risposta è semplice: qualcuno è disposto a credere che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

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Il termine stesso di corredentrice è in sé e di per sé una solenne idiozia teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici. Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa, la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci.

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Già questo dovrebbe bastare a chiudere un discorso del tutto improponibile sul piano teologico come quello di Maria corredentrice. Una autentica idiozia teologica di cui possono nutrirsi soltanto gli ignoranti arroganti e i madonnolatri ignari di che cosa sia la vera devozione alla Beata Vergine, ma soprattutto quale è il vero ruolo affidato da Dio alla Piena di Grazia nella economia della salvezza.

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dall’Isola di Patmos, 15 agosto 2022

Assunzione al cielo della Beata Vergine Maria

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Note

[1] Cfr. 12 dicembre 2019 omelia alla Santa Messa nella festa della Madonna di Guadalupe; 30 aprile 2020, Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae; 24 marzo 2021, nel discorso durante l’udienza generale.

[2] Cfr. Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae.

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )

La «Chiesa cattolica apostolica». Quante parole usiamo e recitiamo senza conoscerne il significato? Alle radici del concetto di «Apostolica»

—  Theologica —

LA «CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA». QUANTE PAROLE USIAMO E RECITIAMO SENZA CONOSCERNE IL SIGNIFICATO? ALLE RADICI DEL CONCETTO DI «APOSTOLICA»

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede. Dunque ultima, ma non per questo ultima quanto a importanza, la nota dell’apostolicità ecclesiale getta un ponte fra l’aspetto personale e comunitario della fede. Tale connotazione, infatti, descrive la fondazione della comunità dei credenti, in un triplice senso:

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  1. La Chiesa è costruita sul fondamento degli apostoli [Ef 2,20], i testimoni scelti e mandati in missione direttamente da Cristo,
  2. Essa custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito Santo che la inabita dall’interno, l’insegnamento di Cristo, il buon deposito della fede e le sane parole udite dagli Apostoli;
  3. «Fino al ritorno di Cristo, la Chiesa continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, coadiuvato dai sacerdoti e unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa» [ CCC n. 857].

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In estrema sintesi questi tre punti offrono una visione di insieme sulla apostolicità della Chiesa Cattolica. Adesso li vedremo analiticamente, a partire dalla Sacra Scrittura dove troviamo dei chiari riferimenti alla presenza e alla scelta di Gesù dei Dodici Apostoli:

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«Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità» [Mt 10, 1-4]. I nomi dei Dodici Apostoli sono questi: il primo, Simone detto Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo d’Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, quello stesso che poi lo tradì.

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Prosegue l’Evangelista:

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«Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni [Mc 3, 13].

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E ancora:

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«In quei giorni egli andò sul monte a pregare, e passò la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» [Lc 6, 12].

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I Dodici Discepoli vengono chiamati apostoli, dal greco ἀπόστολοι (apòstoloi), in ebraico שלוחים (shelichim, plurale di שליח, shaliach, che in entrambe queste lingue significa alla lettera: inviati, perché tramite il loro ministero Gesù continua la sua missione. Nell’accogliere i dodici, si accoglie tutta la persona di Cristo, come leggiamo in «Chi accoglie voi, accoglie me» [Mt 10, 40]. Cristo sceglie proprio Dodici Apostoli. Il numero di dodici simboleggia l’universalità e richiama alle Dodici Tribù d’Israele. La novità maggiore nella sequela di Cristo, consiste non tanto nel numero, quanto nel fatto che è il maestro a scegliere i discepoli: mentre in genere nell’antichità erano i discepoli a scegliere il maestro da cui attingere insegnamenti per la vita spirituale. Dopo averli scelti, Gesù li manda a predicare prima in tutta la terra di Israele e poi successivamente ai pagani (definiti le genti o i gentili). In tal modo essi iniziano a tramandare e trasmettere l’insegnamento autentico di Cristo. A questo modo Gesù forma quindi un collegio, cioè un gruppo stabile di inviati con la missione permanente di trasmettere il suo messaggio e che ha per capo l’Apostolo Pietro. Nello svolgersi di questa missione, lo Spirito Santo dona agli apostoli tutti i mezzi e la forza necessaria che gli occorre, tramite una grazia molto speciale: essi perciò hanno gli stessi poteri di Cristo: gli inviati sono dunque in grado di annunciare e propagare i divini misteri, di perdonare e rimettere i peccati e di guarire e scacciare i demoni. Inoltre lo Spirito Santo gli dona l’intelligenza per approfondire, meditare e meglio annunciare il mistero di Cristo.

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All’interno del gruppo degli apostoli, abbiamo visto che la presenza della figura di Simon Pietro. Egli è investito di un ruolo speciale: è incaricato da Cristo come principio di unità e comunione della fede; egli è perciò capo visibile della Chiesa; gli apostoli devono essere in comunione con lui e sotto di lui per quanto riguarda la dottrina di Cristo: ciò come vedremo si applicherà anche al successore di Pietro, il papa, e ai vescovi che gli sono in obbedienza: cum Petro e sub Petro (con Pietro e sotto Pietro)

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Approfondiamo allora la figura di Pietro: egli è incaricato da Cristo ad una missione speciale. Essa è descritta in un passo molto importante del Vangelo:

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«Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”». [Mt 16, 16-18].

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Simone, a cui Gesù ha cambiato nome in Pietro, è il primo e unico a riconoscere che Cristo è il figlio di Dio, del Dio vivente. Egli ha dunque “anticipato” gli altri apostoli in questo atto di fede: perciò viene posto da Gesù capo del collegio apostolico. Tre poteri molto speciali sono donati a Pietro, che gli altri apostoli non posseggono: innanzitutto lui non verrà mai meno, perché Pietro è la pietra visibile e stabile della comunità dei credenti; in secondo luogo, egli ha il potere delle chiavi del Regno e, terzo, il potere di sciogliere e legare. Con questo intendiamo:

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«Il potere delle chiavi designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesú, il Buon Pastore [Gv 10, 11], ha confermato tale incarico dopo la risurrezione: «Pasci le mie pecorelle» [Gv 21, 15-17]. Il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesú ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [cfr. Mt 18,18] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno» [cfr. CCC n. 553].

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Tradizionalmente sappiamo che Pietro è stato martirizzato a Roma nel 64 dopo Cristo sul Colle Vaticano. In precedenza, era stato imprigionato presso il carcere Mamertino, molto vicino al Campidoglio. Pietro dunque, essendo capo degli apostoli, nel suo martirio presso Roma testimonia anche il primato della sede romana rispetto alle altre comunità di credenti. Un primato che non è di dominio e despotismo, ma di servizio e di coordinamento di tutte le altre diocesi e chiese sparse per il mondo. Anticipiamo sin da ora un concetto importante: il primato petrino non vuole sminuire la collegialità, la sinodalità e l’opera comune e comunitaria: anzi Pietro e i suoi successori sono chiamati a garantire e a conferire la dignità e autorità di tutti gli apostoli e i loro successori, i vescovi. Come infatti vedremo fra poco i vescovi sono i successori degli Apostoli. Chiariamo allora che i successori di Pietro sono coloro posti a capo della Diocesi di Roma, o appunto i vescovi di Roma. Storicamente, il vescovo di Roma, è chiamato con una serie di nomi: Pontefice Massimo, Augusto Pontefice, Sua Santità, Santo Padre, Beatissimo Padre, o con quello più noto di Papa, che secondo una teoria storica sarebbe l’abbreviazione di pastor pastorum, pastore di tutti i pastori, o pater pauperum, padre dei poveri.

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Tornando all’analisi delle figure degli apostoli, sappiamo che tutti gli apostoli, ad eccezione di Giovanni, morto in età molto avanzata, verranno martirizzati durante le loro missioni in Oriente e nel territorio dell’Impero Romano. Anche dal martirio degli apostoli, troviamo conferma che lo scopo della fondazione e della presenza apostolica è quello di portare tutta la comunità ad un fine escatologico e di santità; tutta l’opera apostolica ha la finalità di condurre tutti al regno di Dio.

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Considerando che gli apostoli e i loro primi successori (padri apostolici) morivano martiri, era necessario che il messaggio di Gesù venisse comunque trasmesso: per questo scelsero dei successori per perpetuare la missione di Cristo. Quindi conferirono l’Ordine Sacro dell’Episcopato, consacrandoli quali episcopi (vescovi), con mandato a proseguire la missione apostolica come successori degli Apostoli. In questo senso diremo anche che la Chiesa riceve la professione della fede dagli apostoli medianti i successori di coloro che furono primi aderenti al movimento gesuano.

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Adesso cerchiamo di capire perché i vescovi, ricevendo l’Ordine Sacro, divengono i successori ufficiali degli Apostoli. Se leggiamo in Atti degli Apostoli [cfr. 6, 26] troviamo che gli stessi apostoli si diedero innanzitutto dei successori con il compito di proseguire e consolidare l’opera di evangelizzazione iniziata dagli Apostoli. Quest’opera è chiamata la Traditio da due antichi scrittori della cristianità, Tertulliano e Ireneo di Lione. La Traditio dal latino viene dal verbo tradere e implica l’azione del tramandare e trasmettere la fede predicata dagli Apostoli; perciò i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori e guide della comunità ecclesiale. Questo passaggio di consegne avviene in un atto ben preciso. Dunque, la trasmissione apostolica, si conferisce tramite la ricezione del Sacramento dell’Ordine, attraverso la consacrazione episcopale.

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Chiariamo questo passaggio dell’ordinazione dei vescovi. Cristo istituì i Sacramenti, che non sono nati dalla creatività umana, sono tutti racchiusi nella Rivelazione e nei Vangeli. Questo al fine di chiarire per inciso che certe correnti del Cristianesimo non cattolico, insegnando che i Sette Sacramenti, o parte di essi, sono solo una creazione umana avvenuta in epoca successiva all’Imperatore Costantino, a partire dal IV secolo a seguire, sono in palese errore, perché tutti i Sacramenti sono di istituzione divina. Tra i Sette Sacramenti c’è il Sacramento dell’Ordine Sacro, che è unico, ma diviso al proprio interno in tre gradi: episcopato (o pienezza del sacerdozio apostolico), presbiterato e diaconato. Coloro che ricevono questo Sacramento, nel loro singolo e personale ministero sono chiamati alla missione di condurre tutta la Chiesa al bene comune e alla Santità. È dunque un compito, ad un tempo singolare e allo stesso tempo comunitario. L’azione del conferire l’Ordine Sacro è detta ordinazione: in essa è Gesù che, agendo in persona Christi tramite un vescovo, ordina un sacerdote e lo consacra vescovo: dunque conferisce al presbitero la pienezza del sacerdozio apostolico per portare avanti tale missione. L’episcopato è quindi la pienezza del sacramento dell’Ordine perché contiene la sorgente stessa da cui derivano i tre gradi del Sacramento dell’Ordine stesso. Il vescovo infatti è anche colui che ordina i diaconi e i sacerdoti, e appunto come detto precedentemente, ordina un sacerdote a diventare vescovo.

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Sinteticamente diremo che la linea di successione prevede che un apostolo, ricevuti i pieni poteri da Cristo per trasmettere il suo insegnamento e per amministrare tutti i Sacramenti, ha ordinato un padre apostolico, conferendogli medesimi poteri e missione; a sua volta il padre apostolico ha ordinato un vescovo, per gli stessi scopi. Questo vescovo, a sua volta, ha ordinato un altro vescovo e nel corso della storia, nell’ordinare in successioni tutti i vescovi, si è giunti fino ad oggi. Il tutto viene definito: successione apostolica.

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La trasmissione del mandato di trasmettere e amministrare i Sacramenti a molteplici vescovi sparsi per il mondo, come molteplici in origine erano gli apostoli, mostra che la Chiesa ha natura apostolica, dunque collegiale e comunitaria. La collegialità e apostolicità dei Vescovi implica da un lato l’unità fra il Papa e i Vescovi perché il Collegio Episcopale è legato al suo capo visibile. Il Sommo Pontefice non è tiranno ma garante del ministero stesso dei Vescovi. Infatti egli è garante dell’Unità del corpo ecclesiale ed è il fondamento visibile materiale concreto dell’Unità ecclesiale (Collegialità = elemento di unione nella distinzione).

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Dall’altro lato, la collegialità dei Vescovi implica che tale Collegio ha un alto grado di autorità sulla Chiesa intera. Le singole diocesi collaborano fra di loro, ogni vescovo può prendere delle decisioni sui fedeli che gli sono affidati senza chiedere sempre e comunque l’autorizzazione alla Sede di Roma. Inoltre, i vescovi, collaborano attivamente fra loro e con il Romano Pontefice in alcuni momenti speciali: nei sinodi o, ad esempio, in un concilio ecumenico. Un sinodo o concilio convocati dai vescovi è accettato e confermato dal Romano Pontefice, ma guidato collegialmente: perciò anche queste riunioni ecclesiali non sono mai portate avanti dal Romano Pontefice da solo, al quale però solo spetta, alla fine, decidere.

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Ora abbiamo capito in che modo il Vescovo di Roma e i Vescovi del mondo, in quanto successori degli Apostoli hanno ricevuto il mandato di Cristo. Diremo che in tale mandato essi si sono impegnati specificamente in tre compiti specifici rispetto al popolo di Dio: questi compiti prendono nome di munera (da latino dovere, compito e anche dono) e sono il munus docendi, il munus sanctificandi e il munus regendi / gubernandi.

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Munus docendi è il dovere di insegnare, trasmettere l’insegnamento di Cristo; è detto anche il magistero ordinario del vescovo. Questo magistero / insegnamento è concretizzato dal vescovo quando insegna con autorità, che deriva da Cristo, e si attua quando il vescovo insegna concretamente nelle materie di dottrina e di morale e tali insegnamenti sono in comunione con il Sommo Pontefice e la Chiesa Universale. Questo è magistero di origine divina; quindi il munus docendi è primo compito del vescovo e concretamente con esso si intende di predicare di insegnare queste verità ai fedeli. I fedeli, da parte loro, sono chiamati ad ascoltare in obbedienza attiva con un’adesione filiale sincera al loro vescovo anche ponendo delle domande, dei dubbi e dei chiarimenti per comprendere meglio questi insegnamenti, per approfondire la dottrina e viverla meglio.

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Con munus sanctificandi: si indica il dovere di condurre alla Santità tutto il popolo di Dio. Il vescovo è l’economo, cioè colui che distribuisce in parti uguali la grazia di Cristo e dello Spirito Santo nella Chiesa; ciò avviene nella amministrazione dei Sacramenti e ancora più in particolare nella celebrazione eucaristica, dove è l’Eucaristia che fa la Chiesa, la santifica e la unisce nella cattolicità; dunque la presenza vera, reale, sostanziale di Cristo nelle specie del pane e del vino rende uniti tutti i fedeli (clero e fedeli); allo stesso tempo è la Chiesa che fa l’Eucaristia, dunque la Chiesa che  la amministra e la celebra.

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Con munus regendi/ gubernandi si indica il dovere dei vescovi di reggere e governare le singole Chiese locali o le diocesi; esse hanno una loro giurisdizione propria viene esercitata per sé da ogni vescovo in modo ordinario. Con questo si intende che il potere Divino che ogni vescovo possiede in modo immediato non prevede l’obbligatoria delegazione ad altre persone: a livello concreto, però, i vescovi possono comunque stabilire di nominare dei mediatori e delegati per gestire al meglio il territorio, per esempio sacerdoti che svolgono il ruolo vicari episcopali, foranei, giudiziali e che dunque esercitano varie mansioni nel nome del vescovo.

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In conclusione questi tre munera /doveri vengono attuati mediante l’ausilio dei presbiteri o i sacerdoti, che pur non avendo la pienezza dell’ordine sacro come il vescovo, anche loro partecipano e sono corresponsabili dei tre munera. Il munus docendi ad esempio quando essi predicano, insegnano e governano il popolo di Dio, specialmente nella parrocchia. Qui il parroco è anche colui che accompagna e dunque governa il Popolo di Dio alla santità (esercizio del munus gubernandi); infine il sacerdote celebra il culto quindi amministra i Sacramenti e prega per i bisogni del Popolo e allo stesso tempo anche amministra il Sacramento della confessione (esercizio del munus sanctificandi).

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Volendo anche analizzare sinteticamente il primo grado dell’ordine, possiamo velocemente descrivere l’attività dei diaconi. Anch’essi rientrano nella gerarchia ecclesiale perché sono chiamati al servizio: diàconos è parola greca traducibile con servitore. Rientrano ancora nell’apostolicità della Chiesa, perché sono assistenti alla liturgia, possono avere i compiti catechetici e para liturgici, sebbene il loro compito principale, la loro vocazione non è la chiamata ad amministrare i Sacramenti allo stesso modo dei presbiteri. I diaconi partecipano dell’apostolicità in quanto sono chiamati al servizio, specialmente le opere di carità, la gestione di attività amministrative della Chiesa. In qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.  qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.

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Roma, 18 gennaio 2022

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Per chi volesse approfondire il tema consiglio la lettura di questi libri:

Catechismo della Chiesa Cattolica, 553; 857 – 865.

Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,18 – 23.

  1. McDowell, The fate of the apostles. Examining the martyrdom accounts of the closesest followers of Jesus, Routledge, 2016.
  2. Virgili, La resurrezione di Gesù, Crocevia, Amazon publishing, 2020.

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Lezione quasi certamente inutile per certi cattolici autodidatti sulla laicità dello Stato: il concetto di Diritto Naturale dei neoscolastici redivivi, oltre a non servire Dio e la verità, è in radicale conflitto con i due fondamenti della creazione dell’uomo: libertà e libero arbitrio

— Theologica —

LEZIONE QUASI CERTAMENTE INUTILE PER CERTI CATTOLICI AUTODIDATTI SULLA LAICITÀ DELLO STATO: IL CONCETTO DI DIRITTO NATURALE DEI NEOSCOLASTICI REDIVIVI, OLTRE A NON SERVIRE DIO E LA VERITÀ, È IN RADICALE CONFLITTO CON I DUE FONDAMENTI DELLA CREAZIONE DELL’UOMO, LIBERTÀ E LIBERO ARBITRIO

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Per noi uomini di fede, ragione e scienza è indubitabile che Dio ha instillato nel cuore dell’uomo il senso naturale del bene e del male, quindi i fondamenti di quelle leggi che in modo forse improprio, ma corretto, sono definiti come Legge Naturale. Il problema subentra al momento in cui si cerca di mutare la Legge Naturale o Legge Divina in Legge Positiva, in Leggi dello Stato che vincolano tutti i consociati. Perché a quel punto il peccato diventa reato, con conseguenze devastanti e assolutamente non auspicabili.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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PDF  articolo formato stampa
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Norberto Bobbio, giurista e filosofo del diritto

La decadenza ecclesiale ed ecclesiastica che stiamo vivendo, afflitti da quel senso di impotenza generata dall’aver superato la soglia del non ritorno, ha originato una crisi della dottrina e della morale senza precedenti nella storia della Chiesa. Non pochi sono i fedeli animati da buona volontà spinti per processo reattivo a seguire insegnamenti di cattivi maestri, facendo proprie idee errate in materia di dottrina, di fede, di morale. Per catturare queste persone che appaiono come «pecore senza pastore» [cfr. Mc 6, 34], i cattivi maestri mettono sempre avanti: «vera tradizione» e «difesa della vera dottrina». Parole magiche dinanzi alle quali gli smarriti non ragionano più e in modo acritico e illogico si bevono tutto ciò che gli viene offerto dentro il cocktail. Più grandi sono le scempiaggini che certi cattivi maestri dicono più numerosi i fedeli smarriti che in loro cercheranno sicurezza. Purtroppo, quando si cerca di porli dinanzi all’evidenza dell’errore, il rischio più probabile è di ritrovarsi dinanzi a persone chiuse a ogni ragionamento, perché il loro mondo è quello dell’emotivo e il loro agire quello delle passioni. Ciò li rende incapaci a esercitare il lucido senso critico e al tempo stesso convinte di avere raggiunto la luce della autentica verità.

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Il tema che adesso tratterò è in sé complesso, può divenire però accessibile a tutti coloro che non sono specialisti nell’ambito filosofico, giuridico e teologico, chiarendo anzitutto due concetti: giusnaturalismo e giuspositivismo. In modo semplicistico, forse persino un po’ grezzo, ma comprensibile a tutti, si può dire che il giusnaturalismo si regge sul concetto di Legge di Dio e il giuspositivismo sulla Legge dell’uomo. Entrambe implicano adesione da parte di tutti i consociati, perché è questo che le leggi richiedono per loro natura e struttura: l’obbedienza e l’osservanza da parte dell’uomo.

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Da un punto di vista filosofico-giuridico assunsi a suo tempo il pensiero di Norberto Bobbio che si definì: «giusnaturalista nello spirito e giuspositivista nella applicazione». È Bene chiarirlo subito, anche perché, quando si ha la grazia di non essere gesuiti, sempre e di rigore si gioca lealmente a carte scoperte. Sicché ripeto: la mia impostazione giuridico-filosofica si fonda sulla scuola e sul pensiero di Norberto Bobbio.

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La Legge dello Stato, nota come giuspositivismo, dinanzi alla disobbedienza che si muta in reato prevede la condanna del reo a una pena da scontare in carcere, oppure una sanzione che obbliga a un risarcimento in danaro. Se mancasse la sanzione per chi trasgredisce, la Legge non sarebbe tale ma una sorta di proposta, di invito ad agire in un certo modo.

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La Legge Naturale o Legge Divina, nota come giusnaturalismo, prevede anch’essa delle pene, legate però all’ambito della sfera spirituale. Pene che possono variare dall’obbligo alla riparazione del torto inferto alla penitenza espiativa, sino alla pena più severa e drastica, la scomunica, che comporta la esclusione dalla comunità dei fedeli.

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Con queste prime descrizioni è stato chiarito quel fondamentale elemento sul quale molti filosofi e teologi per hobby fanno enorme confusione. E qui chiariamo un concetto fondamentale: la Legge naturale o Legge Divina condanna il peccato, la Legge positiva degli uomini condanna il reato. Nel corso di questa trattazione sarà spiegato e dimostrato quali enormi squilibri e danni possono derivare dalla mancata separazione di queste due distinte sfere, che possono avere preziosi interscambi tra di loro traendo anche spunti e ispirazioni l’una dall’altra, ma senza cadere mai nella commistione.

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Tutto questo potrebbe apparire chiaro e lineare, invece non lo è, perché delineato il significato dei due concetti, a seguire prende forma il problema: se le Leggi dell’uomo, che sono quelle degli Stati laici, entrano in conflitto con quelle che taluni considerano Leggi Divine, che sono quelle della Chiesa, che cosa ne deriverebbe? I fideisti pseudo-cattolici non esitano a rispondere: «Le Leggi Divine devono prevalere su quelle dello Stato. Ovvio, provengono da Dio». Ma si tratta appunto di fideisti pseudo-cattolici. Per meglio chiarire ricordo che esistono pagine e pagine di miei articoli e libri pubblicati, per seguire con numerose conferenze, dove accuso l’Europa di essere malata di odio verso sé stessa, sino a rigettare l’innegabile evidenza delle sue radici cristiane. E le radici cristiane dell’Europa non sono un concetto astratto, ma un dato di fatto storico innegabile che non dovrebbe recare disturbo ad alcun laicista radicale nord-europeo, a prescindere dalle leggende nere sulla Chiesa Cattolica confezionate maliziosamente e falsamente a tavolino in totale spregio ai dati di fatto storici, prima in ambito luterano e calvinista, poi illuminista e a seguire liberal-massonico. Beninteso, mai, come modesta mente speculativa giunta alla maturità, mi sono sognato di invocare che gli Stati laici mutassero in leggi vincolanti per tutti i cittadini i fondamenti della Divina rivelazione, della teologia dogmatica, della morale cattolica e della disciplina dei Sacramenti. La Legge Positiva non può imporre di credere in Dio, né può perseguire come reato l’ateismo, anche se ad alcuni fideisti irrazionali ciò piacerebbe, ma sono appunto fideisti irrazionali. Il peccato non può essere confuso con il reato né si può dichiarare reato il rifiuto di Dio. Il peccato, o il rifiuto di Dio, non può divenire reato perseguibile dalle leggi positive, facendolo si cadrebbe nel paradosso, non tanto giuridico ma proprio teologico, sino a vanificare il mistero della creazione dell’uomo. E chi per ragioni ideologiche dettate da un mal inteso concetto di Legge Naturale non accetta questo criterio di decisa separazione tra le due distinte sfere, oggi più necessaria ancora rispetto alle epoche segnate dall’Illuminismo ottocentesco, purtroppo è destinato a vivere male come cattolico e come cittadino, dando della fede cattolica un’idea adulterata ed illogico-grottesca.  

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LA VOCE DI UN ANGELO DISSE A SANT’AGOSTINO «TOLLE LEGE», PRENDI E LEGGI, NON GLI DISSE: COLLEGATI A INTERNET E FATTI UNA CULTURA SUI SOCIAL MEDIA

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Il problema che ammorba la società contemporanea è che le persone non studiano più, non leggono e non riflettono, spulciano e scorrono velocemente credendo infine di avere capito. Sono capaci a usare con disinvoltura la parola metafisica, se però domandiamo loro che cosa significa secondo l’etimo greco, da chi nasce, chi l’ha coniata, a quale scopo e in quale contesto storico-filosofico si sviluppa questo pensiero scientifico, quali le principali opere metafisiche nella storia della filosofia e le relative scuole, eccoli cadere dall’alto a terra come frutti marci dall’albero secco della loro desolante ignoranza. Purtroppo, internet e i social media hanno favorito nell’uomo moderno la distruzione del senso critico, lo spirito speculativo e la capacità di studio. È la nuova forma di analfabetismo digitale di cui hanno parlato i Padri de L’Isola di Patmos nella loro ultima pubblicazione: La Chiesa e il coronavirus. Tra supercazzole e prove di fede [cfr. QUI].

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Proseguo a chiarire: quando mi richiamo alla scolastica sono costretto a precisare che quella classica — mi si passi, quella sulla quale mi sono formato — non va confusa con la sua parodia, la neoscolastica decadente, quella insegnata e spacciata a formulette nel formato I Pensieri dei Baci Perugina. Perché è quella che conoscono a pezzi e bocconi coloro che vi si richiamano a sproposito, illudendosi e illudendo di conoscerla, avendo memorizzato quattro formulette a pappagallo da spacciare per ogni uso. Infatti, il padre della scolastica Sant’Anselmo d’Aosta e a seguire San Tommaso d’Aquino, stanno alle quattro formulette della neoscolastica decadente del tardo Ottocento inizi Novecento come può starvi una filastrocca cantata in girotondo dai bambini della scuola materna.

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Temi complessi dunque, che non possono essere argomenti di dibattito e diffusione di idee sbagliate da parte di cattolici impreparati che ignorano la profondità di temi così articolati che implicano conoscenze specialistiche profonde nell’ambito storico, filosofico, teologico e giuridico, ma che si mutano in diffusori di idee che rischiano di spaziare tra l’assurdo e l’aberrante, sino a giungere alla vera e propria blasfemia inconsapevole tutta quanta tipica dei dotti ignoranti, perché ― giusto per fare un esempio ― non si può mettere il concetto filosofico di motore immobile di Aristotele come essere e fondamento dell’intero agire cristiano. Questi soggetti, mossi di prassi da grette forme di chiusura alla ragione e al confronto, finiscono sempre col procacciare incomprensione e odio verso il Cattolicesimo e i cattolici da parte di pensatori laicisti sempre più suscettibili e agguerriti.

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La voce di un Angelo disse a Sant’Agostino «Tolle lege», prendi e leggi, ossia studia. Non gli disse: collegati a internet e fatti una cultura sui social media saltando da un blog all’altroPurtroppo, i dilettanti senza adeguata formazione giuridica, filosofica e teologica, che ritengono d’aver capito tutto e di possedere il bene della divina e assoluta verità, si lanciano nei temi più complessi per poi esordire con affermazioni semplicistiche che riducono la scolastica e la metafisica a un gioco delle banalità: «… è verità metafisica che la legge divina è scritta nel cuore dell’uomo e quindi è superiore alla legge degli Stati». Presto detto: essendo per definizione etimologica ignorante colui che ignora, per logica conseguenza si rivelerà ignaro di cos’ha comportato, anche in feroci persecuzioni nei confronti della Chiesa Cattolica, a partire dall’epoca pre-costantiniana sino ai peggiori regimi dittatoriali del Novecento, l’avere espresso con inaudita leggerezza che: «Le leggi di Dio sono superiori alle leggi dell’uomo, quindi che «la Legge Divina deve prevalere sulla Legge degli Stati che alla Legge Divina deve essere assoggettata».

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DATE A CESARE QUEL CHE È DI CESARE E A DIO QUEL CHE È DI DIO È QUEL PRINCIPIO DI LAICA SEPARAZIONE TRA POTERE POLITICO E RELIGIOSO CHE SARÀ COMPRESO SOLO DICIANNOVE SECOLI DOPO

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Per comprendere bisogna partire da lontano: perché, durante le persecuzioni di Decio e di Diocleziano del II e III secolo molti cristiani morirono martiri nelle arene romane? Principalmente per quell’equivoco oggi riproposto dall’ignoranza digitale dei fideisti apprendisti stregoni che pur non capendo niente di filosofia, teologia, diritto e morale si ostinano a non capire niente neppure di storia. Il motivo è presto detto e spiegato: i romani erano convinti di ciò che mai i cristiani avevano rivendicato: che il loro Dio era superiore a Cesare. Nulla di ciò sostenevano le comunità cristiane, tanto erano consapevoli che non si può paragonare Dio all’uomo e l’uomo a Dio e mettere in competizione sullo stesso piano l’uno con l’altro, quindi non si può mettere in conflitto le leggi divine con le leggi umane. Soprattutto erano consapevoli che Cristo stesso aveva comandato «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» [cfr. Mt 22, 21]. Leggendo bene questa frase, qualsiasi mente veramente filosofica e teologica, quindi speculativa, comprende che la separazione tra potere politico e potere religioso il Verbo di Dio l’aveva già delineata molti secoli prima che nascessero l’Illuminismo, il Liberalismo e la Rivoluzione Francese con le sue ghigliottine azionate dopo farseschi processi sommari celebrati in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Quel «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», all’epoca non poteva essere compreso né dal tollerante Imperatore Costantino né dalle prime comunità cristiane, perché avrebbe richiesta una maturazione di molti secoli. Non a caso i primi grandi concili dogmatici della storia della Chiesa, a partire dal grande Concilio di Nicea dell’anno 325, furono convocati e presieduti dall’Imperatore, l’ultimo in ordine di serie, il Secondo Concilio di Nicea del 787, fu convocato dall’Imperatrice Irene su umile richiesta molto cortese del Sommo Pontefice Adriano I, della serie: Se Vostra Maestà è d’accordo e se ciò non le reca disturbo, oserei proporre un concilio.

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Si domandino i sostenitori di un Diritto Naturale in bilico tra onirico e strampalato: perché tutti i primi grandi concili furono convocati e presieduti dagli Imperatori d’Oriente? Semplice, perché non esisteva alcuna separazione tra potere politico e religioso e perché in Oriente il potere politico prevaleva totalmente su quello religioso. Questa sudditanza, più ancora che commistione, ha persino un nome preciso, si chiama cesaropapismo. Per questo gli imperatori erano molto interessati a sapere cosa fosse eresia, perché l’eresia era considerata un grave reato e gli eretici erano perseguiti e condannati dalla legge. Dinanzi a questi fatti storici, i sostenitori di un Diritto Naturale in bilico tra onirico e strampalato, per i quali la storia è evidentemente un accessorio del tutto inutile, dovrebbero chiedersi: ma veramente si può aspirare a tornare a quei tempi così “felici” e “idilliaci” nei quali il peccato era reato e l’eresia un crimine perseguito dalla Legge dello Stato?

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La commistione tra Diritto Naturale e Diritto Positivo, se in Oriente assoggettò totalmente la Chiesa allo Stato, in Occidente comportò invece un incessante braccio di ferro tra potere politico e potere religioso, che a intervalli di tempo prevalevano l’uno sull’altro, giocando su intrighi e ricatti, nonché sulla vita di intere popolazioni, sempre e di rigore con risultati e conseguenze auspicabili solo da coloro che, oltre a non conoscere la storia, si sono creati al presente una storia passata che non è mai esistita, il tutto per giustificare il pensare sbagliato del loro triste presente fatto di verità digitali acquisite principalmente presso la grande accademia dei social media.

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Dinanzi a un interlocutore che affermava in modo deciso e indiscutibile il primato assoluto della Divina Legge Naturale, affermando che lo Stato avrebbe il dovere di applicarla, sulle prime replicai: «Ti rendi conto che facendo simili affermazioni a una società laica e sempre più ostile verso le dimensioni della trascendenza, l’unico risultato che puoi ottenere è di far odiare il Cattolicesimo e i cattolici?». La risposta fu più sconcertante ancora: «E che problema c’è? Noi dobbiamo essere odiati, lo dice chiaramente anche il Vangelo». Inutile dire che discorsi di questo genere portano alle forme peggiori di integralismo religioso, senza considerare che il Santo Vangelo non ci invita affatto a farci odiare, meno che mai a desiderare l’odio come una sorta di bene da conseguire, dopo averlo stimolato attraverso inutili e pericolose provocazioni, perché stimolare all’odio vuol dire istigare al peccato, vale a dire commettere un peccato peggiore di chi poi scatena odio per processo reattivo. Cristo Dio afferma:

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«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» [Gv 15, 18-21].

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Si presti attenzione: Cristo Divino Maestro spiega agli Apostoli di ieri e a quelli di oggi come e perché può accadere che il mondo nutra verso di noi odio. Ma si tratta di una spiegazione data, non di un invito a farsi odiare. Leggere questa frase pensando che attraverso aggressioni di pensiero o provocazioni si abbia il dovere di farsi odiare dal mondo, vuol dire avere la totale incapacità di leggere e di comprendere il Santo Vangelo.

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I dilettanti della fede che senza maestri e guide, senza scuola, senza adeguati percorsi formativi spirituali, prendono in mano le Sacre Scritture, poi, saltando da un blog all’altro si fanno una “cultura religiosa”, se non peggio filosofica, teologica, morale e giuridica, recano grave danno a sé stessi, agli altri e all’immagine della Chiesa dinanzi ai laici, che spesso identificano certe forme di cieco e ignorante fideismo da madonnari d’assalto con “lo spirito dei cattolici”. I miei amici laici e non credenti, vivendo a contatto con me conoscono bene questa nostra triste realtà. Sanno, che se noi cerchiamo di riprendere, correggere e istruire questi soggetti, per tutta risposta loro si irrigidiscono, poi si rivoltano contro di noi, sino a ribatterci in faccia che dei fondamenti della fede e della dottrina cattolica noi preti e teologi non abbiamo capito niente. Infatti, avendo letto da un blog all’altro testi che parlano dei messaggi e delle rivelazioni di santi e mistici, o essendo particolarmente devoti a quella Madonna che dette a dei veggenti dei segreti tremebondi che loro hanno compreso, grazie a un altro grande “accademico teologo” che sul canale You Tube ha pubblicato un video nel quale spiega il vero terzo segreto di Fatima, a suo dire taroccato e poi tenuto nascosto dalla Chiesa … ebbene, acquisito tutto questo ben dell’intelletto e della scienza nell’ambito della dottrina e della fede, non hanno bisogno di ascoltare le parole di sacerdoti e teologi, che inutilmente cercano di riprenderli e guidarli, ma soprattutto di recuperarli alla vera fede. Per questo i miei amici laici e non credenti che conoscono questa nostra triste realtà, mi offrono sempre comprensione e solidarietà, senza perdere occasione per dirmi: «Non vorrei essere al tuo posto, perché avere a che fare con una simile pletora di fedeli, deve essere davvero frustrante». E proprio discutendo mesi fa su questa realtà con un celebre virologo italiano, l’insigne clinico e accademico mi rispose: «Durante una conferenza fui contestato da una estetista-massaggiatrice che prese parola affermando delle assurde scempiaggini illogiche e anti-scientifiche sui vaccini, dopo essersi fatta una “cultura” sui siti e sui blog complottisti degli anti-vax. Vede, caro Padre, lei è un uomo di fede, io purtroppo no, però condividiamo entrambi le identiche tristi sorti, le medesime frustrazioni, in questo nostro pianeta degli imbecilli».

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QUEL RAPPORTO INSCINDIBILE TRA LEGGE NATURALE, GRAZIA E LIBERTÀ

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Per noi uomini di fede, di ragione e di scienza, è indubitabile che Dio ha instillato nel cuore dell’uomo il senso naturale del bene e del male, quindi i fondamenti di quelle leggi che in modo forse improprio, ma corretto, sono definiti come Legge Naturale. Il problema subentra al momento in cui si cerca di mutare la Legge Naturale o Legge Divina in Legge Positiva, in Leggi dello Stato che vincolano tutti i consociati. Perché a quel punto il peccato diventa reato, con conseguenze devastanti e assolutamente non auspicabili.

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A queste spiegazioni ribatté un interlocutore: «Il peccato non è un diritto!». Affermazione che costituisce la frase vincente con la quale i cattivi maestri della «vera tradizione» e della difesa «della vera dottrina» pensano da sempre di chiudere la bocca a qualsiasi interlocutore. Risposi che lo sapevo benissimo, spiegando di seguito che il peccato nasce però dalla libertà e dal libero arbitrio dell’uomo, che sono i due suffissi della sua creazione. Dinanzi al peccato di Adamo ed Eva sarebbe di rigore chiedersi: perché Dio non ha impedito di commetterlo? Se non per i due, poteva farlo per il bene dell’umanità incolpevole, che per causa loro avrebbe ereditata una natura corrotta. E qui è necessario ricordare a tutti coloro che credono di conoscere in modo approfondito la dottrina cattolica, che quello originale non è un peccato da noi commesso, ma un peccato contratto a noi trasmesso con la natura corrotta in origine dal peccato altrui. E come mai Dio non impedì ai nostri progenitori di compiere un peccato che si sarebbe ripercosso con simili conseguenze su tutta l’umanità futura? Se prima di procedere oltre non si dà risposta chiara e precisa a questo, ne potremmo dedurre che Dio spazia tra l’ingiusto e il volubile spirito irresponsabile. La risposta è semplice, per chi è abituato a ragionare sui criteri della vera metafisica: se Dio non ha impedita la commissione di quel peccato è perché non si contraddice, essendo Egli divina coerenza allo stato puro. Per questo Dio non si sarebbe mai messo contro la libertà dell’uomo, neppure dinanzi alle conseguenze devastanti del peccato originale, che sono del tutto logico-consequenziali.

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I giusnaturalisti specializzati all’accademia di internet che invocano la supremazia assoluta della Legge Naturale e che ritengono dovere degli Stati applicarla in quanto legge superiore, sono affetti da una pericolosa malattia tipica di chi pretenderebbe di imporre ciò che neppure Dio ha osato imporre all’uomo. Loro però sì, lo farebbero eccome! Ma c’è di peggio: lo farebbero in nome di Dio e della Legge di Dio, incuranti che Dio non ha mai violata né limitata in alcun modo la libertà dell’uomo. L’uomo non ha il diritto di peccare, perché il peccato non è un diritto. Però ha la piena libertà di peccare, perché Dio gliel’ha concesso in virtù della libertà e del libero arbitrio che gli ha donato. Questo è il passaggio fondamentale che sfugge al falso giusnaturalista, che di fondo mira soltanto a sostituirsi a Dio nel pretestuoso nome di Dio. Proprio come più volte è stato fatto nel corso della storia dell’umanità, a costo di vite umane e a prezzo dello scempio di molte menti brillanti ignobilmente castrate.

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In filosofia e in teologia, ma anche in diritto, non ci si può nascondere dietro a un dito, salvo cadere in caso contrario nei sofismi o nei farisaismi che non giovano a chi ne fa maldestro uso e meno che mai a coloro dai quali si pretenderebbe di essere ascoltati. Pertanto la chiarezza impone di precisare quell’ovvio che a taluni reca spavento e che altri vorrebbero tenere nascosto. Nei cittadini di uno Stato o in qualsiasi comunità di consociati, una concezione morale può essere imposta solamente in due modi: o mediante la forza della grazia soprannaturale, che però agisce e produce i suoi frutti se accolta dalla libertà e dal libero arbitrio dell’uomo in virtù della sua mente razionale, oppure attraverso la coercizione dello Stato. In questo secondo caso, il principio di grazia si muta in terribile disgrazia. Una terza possibilità non esiste. Ecco perché da sempre, chi cerca di mitigare queste due uniche e opposte realtà, si arrampica sugli specchi per nascondere la conseguenza inevitabile che deriverebbe dalla applicazione della legge naturale attraverso il “braccio armato” della Legge Positiva: lo Stato assoggettato alla Legge Naturale o Legge Divina perseguirebbe il peccato come reato. Ribadisco: nel primo caso, attraverso l’azione di grazia accolta, l’osservanza della Legge Naturale procede attraverso la libertà dell’uomo, nel secondo caso, l’osservanza della Legge Naturale, avviene attraverso una vera e propria violenza compiuta sulla libertà dell’uomo, che neppure Dio ha mai limitato o annullato. È presto detto: nel secondo caso siamo dinanzi al vero e proprio disprezzo della grazia che opera solo attraverso la libertà dell’uomo. È infatti la grazia che sta alla base della Legge Naturale, con buona pace di chi fa poesia dicendo con risibile vaghezza che la Legge Naturale si basa sul cuore e sull’intelligenza, pur di non confrontarsi con il mistero della grazia che non può essere scissa dalla libertà e dal libero arbitrio dell’uomo. Per questo coloro che propagandano una idea a dir poco distorta di Legge Naturale devono di necessità arrampicarsi sugli specchi, cosa questa che caratterizza da sempre le limitatezze delle menti non speculative, non filosofiche e non teologiche, che però presumono di poter speculare sui massimi sistemi. Ecco allora l’arrampicata sugli specchi scivolosi e il lancio di quel che ritengono essere il grande dardo vincente, la frase fatta e già due volte ripetuta: «Il peccato non è un diritto!». È vero, però sarebbe di rigore aggiungere che nessuno può rivendicare il diritto di impedire a un uomo, con la violenza privata o con la coercizione della Legge positiva di commettere peccato, perché Dio stesso non ha impedito all’uomo di peccare. E per il suo peccato l’uomo raccolse tutte le conseguenze, ricadute per causa sua sull’umanità intera. 

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La battuta non è di rigore ma proprio pertinente: se anziché Dio, che all’epoca agì in un certo modo, avessimo avuto certi fideisti pseudo-giusnaturalisti, tutt’oggi l’umanità vivrebbe felice nel Giardino di Eden, senza conoscere la sofferenza, la malattia, il decadimento fisico e la morte, che sono ― ricordiamo ― tutte conseguenze del peccato originale. Pertanto, se anziché Dio avessimo avuto certi fideisti pseudo-giusnaturalisti saremmo sempre nel Giardino di Eden, perché loro avrebbero impedito in modo deciso, con tutta la coercizione del caso, ad Adamo ed Eva, di commettere il peccato originale, dopo avere confuso in modo grottesco la libertà che l’uomo ha di peccare con il peccato che invece non può essere considerato un diritto.

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SAN TOMMASO D’AQUINO CHE TANTO PIACE A CHI NON LO CONOSCE FACENDOGLI DIRE QUEL CHE MAI HA DETTO E QUEI DOCUMENTI DEL SOMMO MAGISTERO RIVOLTI AGLI UOMINI DI UN MONDO E DI UNA SOCIETÀ CHE NON ESISTE PIÙ.

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Dinanzi a queste argomentazioni, i giusnaturalisti onirici cominciano di prassi a tirare fuori come prove inconfutabili a sostegno di quanto affermano documenti del Magistero della Chiesa tanto splendidi quanto datati. Nel fare questo mostrano un’altra forma di crassa ignoranza che li porta a dogmatizzare documenti e atti che contengono espressioni di grande afflato e di alta levatura, riferite però a contesti politici, sociali e pastorali legati a una società e a un mondo che non esiste più. Questa è un’altra patologia dalla quale nasce poi una grave malattia: il fissismo sul passato che impedisce di affrontare la realtà del presente. A questa malattia se ne aggiunge una terza più grave: la dogmatizzazione di questi documenti, che erano opportuni e preziosi nei reali contesti storici di una società e di una storia che oggi non esiste più. E così finiscono per conferire rango di dogma ai pronunciamenti di un sommo magistero rivolto a uomini e società di un mondo passato, convinti di essere più che mai nel giusto quando, a sostegno dello loro tesi errate, illogiche e anti-storiche, esordiscono: «Ah, ma è scritto in un documento del sommo magistero!». 

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Anche in questo caso gli esempi sono sempre necessari per far comprendere il tutto. Partiamo allora da San Tommaso d’Aquino, che piace terribilmente a coloro che non lo conoscono e che per questo, più che usarlo, lo abusano nel peggiore dei modi. Dissertando sul giusnaturalismo San Tommaso si muove su delle quaestiones filosofico-teologiche. Sul tema non sancisce degli assoluti né delle verità di fede. Per comprendere quelle quaestiones bisogna però conoscere anzitutto la storia, la politica e la società del XIII secolo, soprattutto i grandi glossatori bolognesi che operarono tra l’XI e il XII secolo, perché a loro si rifà l’Aquinate disputando su certe quaestiones, quindi conoscere qual era il loro concetto di diritto naturale e di diritto positivo. Tutto questo sfugge però al selvaggio fideista pseudo-giusnaturalista che pensa di conoscere l’Aquinate e di poterlo spacciare a dosi di pillole omeopatiche.

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Per il grande dottore della Chiesa la legge naturale sussiste eccome, ma può essere respinta dall’uomo a causa dell’esistenza di vizi o decise chiusure alle azioni di grazia. E per inciso, quando l’Aquinate parla di grazia, si rifà perlopiù all’opera di Sant’Agostino, De natura et gratia. Pertanto, nel linguaggio dell’Aquinate, quando si parla di “vizio” s’intende ch’esso può essere sia intellettuale e intellettivo sia morale, quindi un habitus che può portare l’uomo a scegliere il male, sempre sul principio della libertà e del libero arbitrio a lui concesso da Dio. Quindi, per il Doctor Angelicus, la Legge Morale dà dei valori che non possono essere intesi in maniera opprimente e meno che mai coercitiva. Si tratta di valori che vengono dalla natura razionale dell’uomo e che gradualmente possono essere attuati attraverso i principi e le azioni della grazia. Ma soprattutto di un percorso da fare nella storia per l’applicazione della Legge Naturale, secondo le diverse accezioni di persona, di tempo e di luogo [cfr. De regimine principium, Summa Theologiae q. 77, a.2 e a.4]. Questo, afferma l’Aquinate, con buona pace di chi non lo conosce ma tenta di usarlo e abusarlo come meglio crede, proprio come se San Tommaso d’Aquino fosse una parola magico-cabbalistica tipo hocus pocus o abracadabra, con la quale si cerca di risolvere qualsiasi arcano; con la quale anche l’ultimo degli ignoranti che ritiene di poter disquisire a sproposito su scienze e specialità molto complesse, crede di poter legittimare i propri immani spropositi. 

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Allo stesso modo è errato e fuorviante rifarsi al magistero dei Sommi Pontefici che si sono espressi sulla specifica materia della Legge Naturale nel XIX secolo, in piena epoca illuminista, con la Chiesa duramente attaccata e aggredita dalle correnti del liberalismo nato sulle ceneri della Rivoluzione Francese. Tentare di applicare quei documenti alla contemporaneità è un gioco all’assurdo. Altrettanto vale per coloro che usano e abusano il magistero del Sommo Pontefice Pio XII, a partire dal suo memorabile radio messaggio al quale certi soggetti si rifanno per supportare le loro tesi sul Diritto Naturale scritto da Dio nel cuore dell’uomo. Quel radio messaggio risale al 1942 e fu dato nel corso del pieno svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, quando il nazismo si stava divorando un pezzo per volta tutti i Paesi europei e dall’altra parte c’era il Soviet di Stalin. E Hitler per un verso, Stalin per altro verso, avevano dato vita a un giusnaturalismo pagano e ateo, usando per la sua realizzazione gli stili tipici dei peggiori integralismi religiosi, che si rifanno sempre ai criteri di applicazione della Legge Divina che è al di sopra di qualsiasi legge umana, compresi i regimi atei, che hanno creato nel tempo le forme di giusnaturalismo religioso in assoluto peggiori, ora divinizzando il popolo e la sua razza, ora divinizzando il marxismo e la classe operaia. 

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Certi documenti hanno un grande valore se collocati nella loro storia, tentare però di attualizzarli oggi, è qualche cosa di veramente bizzarro. Esiste infatti un magistero che parla all’eterno, quello che definisce i dogmi della fede, o che in modo definitivo enuncia delle dottrine o delle discipline ecclesiastiche rette sui fondamenti dogmatici della fede, ed esiste un magistero che parla alle società, agli uomini, alla politica e alla storia di una precisa epoca, conclusa la quale il discorso è chiuso. Ecco, non c’è cosa peggiore di chi non sa leggere il magistero e non lo sa collocare nel suo preciso contesto dogmatico, dottrinale, storico, pastorale, politico e sociale, ma che presume di saperlo leggere sino a farne abuso con dei maldestri taglia e cuci, copia e incolla, infine trasformando tutto quanto in dogma, ovviamente a uso e supporto delle proprie tesi strampalate.

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Per comprendere ciò che il magistero ha espresso basterebbe analizzare il diverso linguaggio e approccio col quale si affronta il tema del giuspositivismo o della Legge Naturale nella enciclica Veritatis Splendor del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, o nella sua enciclica Fides et Ratio. Basterebbe leggere il documento della Commissione Teologica Internazionale del 2009, racchiuso sotto il titolo: Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale. A maggior ragione si capisce a quali errori possano andare incontro le persone che prive di scuola, formazione e metodo presumono di affrontare con leggerezza tematiche che per molti hanno comportato una vita intera di studio e di ricerca, non certo di taglia e cuci, di copia e incolla …

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QUELLA INSANA VOGLIA SERPEGGIANTE DEL CONNUBIO TRA ALTARE E TRONO

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Cerchiamo adesso di individuare il vero problema di fondo, perché ciò che a certe menti contorte e distorte rode, è che nel 1929 la Chiesa Cattolica riconosce attraverso i Patti Lateranensi la piena e legittima sovranità dello Stato laico e liberale del Regno d’Italia. Per tutta risposta, con la firma di un Capo del Governo che era un ex socialista rimasto per tutta la vita un anticlericale e un bestemmiatore romagnolo, alla Chiesa è concesso il contentino di “religione di Stato”, con il suo insegnamento obbligatorio nelle scuole, il matrimonio religioso che produce anche effetti civili e piattini di lenticchie varie a seguire. Però, come tutte le lenticchie date al povero Esaù che per una minestra si vendette la primogenitura [cfr. Gen 25, 29-33], tali sono e tali restano, lenticchie. Per inciso: mentre tutti i Paesi liberali dell’Europa avevano già varate delle leggi sul divorzio civile, il Regno d’Italia, per non giocarsi la definitiva chiusura della Questione Romana con i Patti Lateranensi, rinunciò a varare quella Legge. E quella real casa di anticlericali furenti tali erano i Savoia, assieme a un Regio Parlamento formato a maggioranza da fascisti miscredenti, fecero finta di credere che il sacro matrimonio è scritto nella eterna Legge Naturale assieme alla sua divina indissolubilità. Rode quindi ancora, a certe menti contorte e distorte, che la Chiesa, dopo ulteriori contentini, abbia in seguito riconosciuto la legittima laicità dello Stato Repubblicano nell’immediato dopoguerra, nella sapiente consapevolezza che questa laicità, in un regime di netta separazione tra potere politico e potere religioso, tra giusnaturalismo e giuspositivismo, che possono avere interscambi ma senza fondersi mai in un’unica essenza o espressione di legge universale, giovava molto anzitutto alla missione stessa della Chiesa, giovava al giusnaturalismo e giovava al giuspositivismo.

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Il giuspositivismo abbonda di istituti giuridici che nascono perché ispirati alla Legge Naturale o perché hanno tratto fondamento direttamente dalle Sacre Scritture. Si pensi solo al concetto di “persona giuridica”, oggi presente in tutti i codici civili del mondo. Si tratta infatti di un istituto interamente modulato dal principio paolino di “corpo mistico”, laddove il Beato Apostolo raffigura la Chiesa come corpo unitario di cui Cristo è capo e noi tutti membra [Col 1, 18]. Trarre però spunto, o talora anche fondamento, non vuol dire che lo Stato, attraverso la Legge Positiva, debba trasformare le Sacre Scritture o la morale cattolica in leggi vincolanti per tutti i cittadini.

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Eppure seguitano a esistere soggetti rosi di fondo da questa netta separazione e che tutt’oggi sognano il nefasto connubio tra trono e altare, con l’altare che cerca di prevalere in ogni modo sul trono e che nel corso della storia ci ha portato solamente a situazioni disastrose e di grande degrado morale, prodotte all’interno della Chiesa e del clero proprio a causa di questa velenosa commistione tra potere politico e potere religioso. Un esempio tra i tanti? Questo: a quali bassi e infimi livelli era ridotto l’episcopato del Regno Borbonico, all’epoca in cui i vescovi erano scelti ed eletti seguendo il gradimento del sovrano e del potere politico? Il basso e infimo livello ce lo spiega e documenta nei suoi scritti un vescovo in persona, divenuto in seguito santo e dottore della Chiesa, Alfonso Maria de’ Liguori. 

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PERCHÉ SONO FAVOREVOLE AL DIVORZIO CIVILE PUR CONSIDERANDO IL MATRIMONIO SACRAMENTALE INDISSOLUBILE? COERENZA O CONTROSENSO?

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Certi cattolici italiani compiono un grave errore quando pongono sullo stesso piano il divorzio e l’aborto, rifacendosi ai due referendum che videro entrare in vigore le rispettive leggi che ne regolavano l’uso. Dire divorzio e aborto ponendo sullo stesso piano queste due realtà, equivale ad abbinare assieme sullo stesso piano l’illecito civile di insolvenza di pagamento e il reato di omicidio volontario premeditato. Si tratta di due elementi distinti sui quali mi espressi in termini reputati inaccettabili da certi cattolici che mi stavano ascoltando, perché convinti che sulla Legge Naturale impressa nel cuore dell’uomo siano scritte anche le cose più impensabili. Questo il motivo della controversia: affermai che come cattolico e come prete non oserei mai impedire a due non cattolici, a due non credenti, o a persone appartenenti a una delle diverse confessioni religiose che riconoscono la legittimità del divorzio, di annullare attraverso questo istituto giuridico un matrimonio civile contratto dinanzi a un pubblico ufficiale dello Stato, perché considero il tutto un atto legittimo. Come cattolico e come prete non mi sognerei mai di obbligare dei laici e dei non credenti a sottostare alla indissolubilità che comporta il Sacramento del Matrimonio, appellandomi a una Legge Naturale da imporre erga omnes a colpi di leggi positive. Infatti, nel primo caso siamo dinanzi a un contratto stipulato da due contraenti ai sensi delle leggi positive, o cosiddette leggi civili, nel secondo caso siamo dinanzi a un Sacramento di istituzione divina, presupposto del quale è proprio l’impossibilità di poterlo sciogliere. E il concetto di Sacramento di istituzione divina caratterizzato come il matrimonio dall’elemento della indissolubilità, si regge in piedi benissimo da sé, non è necessario ricorrere a ulteriori incentivi, affermando in modo martellante che il matrimonio è scritto nella Legge Naturale, proprio perché il matrimonio è nella sua profonda sostanza un Sacramento di istituzione divina.

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Premesso che la Legge Naturale data da Dio esiste da sempre, se non ho letto male il Libro della Genesi mi pare di ricordare che Dio li creò maschio e femmina e disse loro «Siate fecondi e moltiplicatevi» [Gen 1, 28]. Dov’è scritto che li unì in matrimonio indissolubile? La Legge Mosaica prevedeva il ripudio della moglie da parte del marito e la possibilità di sposarne un’altra — leggasi divorzio unilaterale dell’uomo —, il tutto codificato e racchiuso nell’Antico Testamento [cfr. Lv 22,3]. Così sta scritto, a meno che qualche giusnaturalista dubiti che l’antica Legge sia stata data veramente da Dio a Mosè. A questo punto, il giusnaturalista internetico addottorato in scienze bibliche previa consultazione di ben tre diversi blog che assicurano “tutto sulla Bibbia”, quindi forte della sua dialettica invincibile replica: «Errore, anzi: eresia! In Genesi è scritto che l’uomo si unirà a sua moglie» [cfr. Gen 2, 24]. Sì, è vero, ma il termine «moglie» è usato nelle traduzioni moderne. Se il giusnaturalista internetico già addottorato in scienze bibliche consultasse anche il forum specialistico “impara l’ebraico biblico in sole tre ore”, scoprirà che nel testo originale, quello ebraico, ciò che viene tradotto come «moglie», suona diversamente, a livello semantico …

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Fu Cristo Dio ad affermare che la possibilità di lasciare la moglie fu data «Per la durezza del vostro cuore […] ma da principio non fu così» [Mt 19, 8]. È evidente che «da principio» è riferito a prima del peccato originale, a quella che era la perduta dimensione dell’eterna armonia perfetta del creato. Non a caso il termine usato da Cristo è בראשית, da principio [Cfr. Gen. בראשית ברא אלהים את השמים ואת הארץ] poi tradotto fedelmente in greco come “prima”, “nell’antichità” [Cfr. Gen. ἐν ἀρχῇ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν]. E da principio non c’era il peccato originale. Quindi Cristo Dio chiarì: «Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» [Mt 19, 6]. Riflettiamo, se la Legge Naturale esiste da sempre e in essa è da sempre racchiuso il matrimonio, da sempre avrebbe dovuto essere indissolubile e soprattutto monogamo, o no? Cosa fa Dio, prima fa un Decreto Legislativo provvisorio e poi una Legge di rango costituzionale vera e propria? Alla prova dei fatti impressi nelle sacre scritture pare che per la Legge dell’Antico Testamento non fosse così e che il matrimonio diventa indissolubile attraverso la rivelazione del Verbo di Dio. Quindi delle due l’una — ma a questo devono rispondere i fideisti pseudo-giusnaturalisti della eterna Legge Naturale —, o la Legge Naturale, che esiste e che è data da Dio, ha avuto una evoluzione nella storia dell’uomo, oppure Cristo Dio ha dato una nuova legge con effetto retroattivo a partire dagli inizi dei tempi. Non vedo molte altre soluzioni. 

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A parte le battute mirate a incentivare la serietà del tema e i meccanismi di ragionamento in coloro che al ragionamento non sono chiusi: la Legge Naturale non è qualche cosa di magicamente immobile come la intendono taluni, giacché incapaci a comprendere che il Creatore è anche il Sommo Pedagogo Divino. La Legge Naturale si è evoluta mediante la grazia e la misericordia di Dio nel corso della storia dell’uomo attraverso un processo di gradualità. Come in modo graduale Dio si è rivelato all’uomo, dal Roveto Ardente di Mosè [cfr. Es 3, 1-6] sino all’incarnazione del Verbo di Dio [Gv 1, 1-18]. Esempio di evoluzione della Legge Naturale è la frase di Cristo Dio che chiarisce perché l’istituto del ripudio fu concesso: «Per la durezza del vostro cuore» [Mt 19, 8]. Una gradualità riassunta da San Tommaso d’Aquino nella sua Summa contra Gentiles, dove tratta e spiega, sempre attraverso il principio di gradualità storica, l’elemento della indissolubilità del matrimonio. E questo tema è trattato con alta competenza specialistica dal nostro teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci, uno dei Padri de L’Isola di Patmos, in una sua pregevole opera alla quale rimando e che tanto meriterebbe di essere letta: Questo mistero grande: il Sacramento del Matrimonio in San Tommaso d’Aquino» [vedere, QUI].

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Chiarito il tutto divenni anche molto critico proseguendo col dire che il Santo Pontefice Paolo VI, a mio modesto parere, sbagliò a non chiedere immediatamente, dopo l’entrata in vigore nel 1975 della legge civile sul divorzio, la modifica del Concordato tra Stato e Chiesa, rinunciando alla possibilità regolamentata dai Patti Lateranensi che concedono di celebrare il matrimonio religioso con effetti anche civili. Sarebbe stato coerente ritornare anche in questo a una netta separazione. I fedeli avrebbero potuto ricevere nelle chiese il Sacramento, poi si sarebbero recati presso il Comune per firmare il loro contratto di matrimonio, celebrando a questo modo due distinti matrimoni: quello che per la Chiesa e i credenti è un Sacramento che comporta la indissolubilità; quello che per lo Stato e che per i laici e i non credenti è invece solo un contratto che all’occorrenza può essere sciolto. Dunque due atti distinti e separati, senza alcuna commistione e legame tra di loro. Purtroppo la Chiesa non poteva, per antico spirito di cesaropapismo, rinunciare a tenere la punta del piedino nel politico e nell’amministrativo. E qui la verità storica impone di ricordare che a firmare negli anni Settanta, non tanto la legge sul divorzio ― sulla cui legittimità non discuto, sempre entro i termini spiegati chiaramente poc’anzi ―, bensì quella sulla legalizzazione dell’aborto nel 1978, furono i politici della Democrazia Cristiana, a nessuno dei quali passò per la mente di sollevare problemi di coscienza, dimettersi dalle loro cariche politiche, aprire una crisi di governo e lasciare che quella legge fosse varata da altri. Rimasero tutti ai loro posti e vi apposero le loro firme, tentando di nascondersi dietro al dito de “l’atto dovuto”, a partire da Giulio Andreotti, che navigò tutte le acque e attraversò tutti i ponti, dalle sacrestie fino ai tribunali. Tutt’altra storia quella del sovrano del Belgio, Re Baldovino, un vero credente e un vero cattolico, che in quanto tale si rifiutò di firmare la legge sull’aborto, tanto che il Parlamento ricorse a un espediente insolito: il sovrano abdicò per 48 ore. Quella legge passò, non però con l’approvazione e la firma sua.

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IL RIFIUTO DELLA LEGGE SULL’ABORTO SI BASA SU PROFONDI PROBLEMI DI COSCIENZA CHE VEDONO COINVOLTO IL BENE NON DISPONIBILE DELLA VITA UMANA, PER QUESTO LO STATO PROVVIDE ANCHE A UNA LEGGE SULLA OBBIEZIONE DI COSCIENZA

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È bene tornare a ribadire che se per un verso sono solito fare una netta distinzione tra il Sacramento indissolubile e il contratto civile di matrimonio, riconoscendo a non cattolici, non credenti o appartenenti ad altre confessioni religiose, il diritto a poter divorziare, giudicando a tal fine legittima e volendo persino opportuna una legge sul divorzio civile, per altro verso non posso, a livello morale, etico e teologico, esprimere analogo concetto per quanto riguarda la legge sull’aborto, perché lì entra in gioco la vita umana, che non è un bene disponibile né della madre né dello Stato. Urlino pure le femministe radicali «l’utero è mio e ne faccio quel che voglio!», perché nessuna può rivendicare che la vita umana altrui è sua e che può farne ciò che vuole, compreso sopprimerla. L’aborto non è un diritto perché nessuno può legittimamente sopprimere un essere umano innocente. Per questo le due cose, divorzio e aborto, sono totalmente distinte, perché dinanzi all’aborto non si può applicare il rispettoso principio che induce a dire: non posso impedire a un non cattolico, a un non credente o a un appartenente ad altre religioni che considerano lecito l’aborto, la libertà o il diritto a poter abortire un essere umano, perché questo è moralmente inaccettabile. Uccidere un essere umano innocente, non può mai rientrare nella sfera dei diritti e delle libertà umane. Motivo questo per il quale, contestualmente a quella legge terrificante, il legislatore si premurò di varare anche una apposita legge sulla obbiezione di coscienza, consapevole che la legalizzazione dell’aborto avrebbe toccato profondamente molte coscienze. E si noti, non solo le coscienze dei cattolici, perché posso testimoniare di conoscere non pochi non credenti, atei inclusi, che sono decisamente contrari all’aborto, semmai mentre non pochi cattolici sono in questo parecchio permissivi. Se così non fosse stato, il referendum per l’approvazione di quella legge, come sarebbe potuto passare, in un Paese come l’Italia, dove all’epoca il 96% degli italiani erano dei battezzati? Il referendum ebbe la maggioranza e la legge fu varata sotto un democristianissimo governo, perché i primi a votare a favore furono eserciti di cattolici baciapile.

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Come cittadino soffro che nel mio Paese esista questa legge attraverso la quale ogni anno sono uccisi decine di migliaia di bambini nel ventre delle loro madri. Sarei il primo ad andare a votare e a invitare ad andare a votare se fosse proposto un referendum per la abrogazione di questa legge. Ma purtroppo, se i cattolici italiani del 1978 votarono a favore dell’aborto nel segreto dell’urna, salvo tornare poi la domenica dopo a baciare le pile dell’acquasanta o a portare le figlie-spose all’altare con tre metri di strascico bianco tra cascate di fiori e sviolinate, quel che resta dei cattolici nel 2020 scenderebbe in massa direttamente sulla piazza a difendere il “diritto” all’aborto.

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A CHE COSA POTREBBE PORTARE L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE NATURALE COME TALUNI LA INTENDONO?

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Torno all’inizio per spiegare in conclusione che dall’epoca post-costantiniana a seguire, la Chiesa non è andata incontro a momenti felici per la commistione tra altare e trono, tra potere politico e potere religioso fusi assieme in modo indistinto. Ovviamente stiamo parlando di altre epoche storiche, dove elementi che oggi appaiono dannosi, o persino nefasti ai nostri occhi, avevano una loro profonda ragione d’essere. Proviamo a chiarire con un esempio: è un elemento del tutto ovvio dire oggi che la sovranità appartiene al popolo che la concede in delega ai propri governanti attraverso il meccanismo delle libere elezioni [cfr. Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1]. Ma un simile concetto espresso nel IV secolo all’epoca del Concilio di Nicea, ma anche nel XVI secolo all’epoca del Concilio di Trento, sarebbe apparso in parte incomprensibile e in parte assurdo, ed i maestri della Legge Naturale e del giusnaturalismo avrebbero gridato all’orrore, se non all’eresia! Non dimentichiamo infatti che sino a epoche non poi così remote, nel rituale romano esisteva il sacro rito della consacrazione del Re, con tanto di invocazione allo Spirito Santo. Forse è bene ricordare che quel mezzo anticristo di Napoleone è incoronato nella cattedrale di Notre Dame di Parigi nel 1804, presente il benedicente Sommo Pontefice Pio VII che dovette subire una grande umiliazione, quando questo ex caporale della Corsica prese la corona e se la depose sulla testa da solo, dicendo nella sostanza al Romano Pontefice: sei solo una comparsa alla mia rappresentazione. Viene perciò da sorridere a pensare che nel 2020 si debba ancora dibattere con cattolici per hobby, paladini della «vera tradizione» e difensori «della vera dottrina» che affermano con inquietante disinvoltura che la Legge Positiva deve sottostare alla Legge Naturale e che gli Stati avrebbero l’obbligo di applicare le leggi scritte da Dio nel cuore dell’uomo. Bramano forse ritornare ai “felici” tempi in cui il re, tiranno assoluto e all’occorrenza sanguinario, era consacrato dal Romano Pontefice nella sua alta veste di re dei re della Terra? Con l’altare che cerca di mettere i piedi sulla testa al trono e col trono che mette sotto i piedi l’altare per un piatto di lenticchie?

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Che ne conseguirebbe da uno Stato che mutasse il peccato in reato? In tal caso va detto che lo Stato dovrebbe anzitutto rendere obbligatorio il Battesimo. O potrebbe forse, uno Stato assoggettato alla suprema e divina Legge Naturale scritta nel cuore dell’uomo, impedire che un bambino sia lavato dalla macchia del peccato originale? E un politico, un magistrato e un pubblico amministratore non in linea con i principi fondamentali della fede e della morale cattolica, potrebbe ricoprire certi uffici? Ovvio che no, perché un mezzo miscredente messo in certi ruoli potrebbe recare dei danni enormi alla Santa Fede e alla Legge Naturale eterna scritta nel cuore dell’uomo. Quindi una delle materie d’esame fondamentali per il concorso di accesso in magistratura dovrebbe essere la perfetta e approfondita conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. E per essere candidati alla Camera dei deputati o al Senato della Repubblica, non occorrerebbe il certificato anti-mafia ma quello della Conferenza Episcopale Italiana che attesta la cattolicità del candidato. E se due giovani decidessero di convivere al di fuori del matrimonio? Quale raccapricciante violazione della Legge Naturale scritta da Dio nel cuore dell’uomo compirebbero? In quel caso bisognerebbe far correre a casa loro i carabinieri per impedirne la convivenza, poi sanzionarli adeguatamente per quel peccato-reato contro la Legge Naturale che ha impresso nel cuore dell’uomo il matrimonio e la sua indissolubilità, o no? Perché i rapporti sessuali prima del matrimonio sono proibiti dalla Legge Naturale eterna scritta nel cuore dell’uomo sin dall’inizio dei tempi, vero? D’altronde, i fideisti pseudo-giusnaturalisti, sono convinti che Dio non aveva neppure finito di creare gli organi genitali ad Adamo ed Eva che già aveva impresso sulla Legge Naturale eterna scritta nel cuore dell’uomo il divieto dei rapporti sessuali prima del matrimonio, è naturale, anzi, è verità di fede! E se due uomini liberi, adulti e consenzienti decidessero di avere tra di loro rapporti sessuali? In quel caso lo Stato dovrebbe applicare pene severissime, dinanzi a quello che per la morale cattolica è il grave peccato contro natura che secondo l’arcaica espressione biblica grida vendetta al cospetto di Dio. E su questa scia potremmo continuare con numerosi altri esempi, tutti quanti logici e conseguenti, circa la supremazia della Legge Naturale scritta da Dio nel cuore dell’uomo rispetto alle Leggi Positive dello Stato.

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A chiusura di discorso riporto un quesito da me posto a un interlocutore al quale domandai: qualora si realizzasse il tuo auspicio che la Legge Positiva sia sottomessa alla Legge Naturale scritta da Dio nel cuore dell’uomo, mi spieghi che cosa ne sarebbe dei protestanti, eredi e diffusori dell’eresia luterana, in un siffatto contesto “idilliaco”? La risposta fu davvero inquietante, vi invito però a riderci sopra, come si ride su una barzelletta grottesca: «Lo Stato ha il dovere di difendere la verità dall’errore, perché l’errore non può essere accettato e tollerato in nome della libertà». Ovverosia: i non cattolici, i laici e i non credenti vanno obbligati a credere alle Verità annunciate dalla Chiesa che lo Stato avrebbe il dovere di difendere dall’errore. E si noti: coloro che ragionano a questo modo, non solo si sentono dei veri cattolici, ma se la prendono pure con noi quando cerchiamo di spiegargli i loro errori grossolani e pericolosi.

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E con questo è detto che da certe male intese idee di Legge Naturale, per ovvia conseguenza può nascere solo il regime dell’Ayatollah Khomeini, che si rifaceva anche lui, come molti altri dittatori, a una Divina Legge Naturale data da Dio: il Corano. Tutte le peggiori e le più violente teocrazie dei Paesi islamici si rifanno a una Legge Naturale di derivazione divina, superiore come tale a qualsiasi legge positiva. Ecco perché dico che bisogna ridere dinanzi a certe convinzioni errate, ridere per non piangere. Certo, mi dispiace e mi fa soffrire quando certi discorsi li sento fare da cattolici intestarditi nell’errore, che fieri più che mai del loro errore non accettano alcuna ragionevole correzione, tanto si sentono nel giusto e nella verità, semmai tirando in ballo una metafisica che non conoscono e un povero San Tommaso d’Aquino che non ha mai neppure vagamente pensato ciò che loro gli attribuiscono, tanto specializzati sono a tagliare un pezzo da una quaestio della Summa Theologiae, isolarlo dal contesto, fraintenderlo totalmente, fargli dire ciò che nel testo non è scritto e infine, a chi conoscendo l’Aquinate li smentisce, rispondere in modo cieco è testardo: «Ah, lo ha detto San Tommaso d’Aquino!». E semmai, a te che l’Aquinate lo pratichi da una vita, ti intimano pure: «Se però San Tommaso d’Aquino tu non lo conosci, allora studialo!». Per questo mi trovo costretto a dare ragione a un laico ateo, ben poco tenero verso la Chiesa Cattolica e il Cattolicesimo, che parlando con i giornalisti poco prima che a Torino gli conferissero l’ennesima laurea honoris causa, disse:

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«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

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Questa frase non l’ha detta la Santa Madre Teresa di Calcutta quando nel 1979 ritirò a Stoccolma il Premio Nobel per la pace, l’ha detta nel 2015 il ben poco santo Umberto Eco, commentando che nei concreti fatti, l’ultimo dei complottisti che pubblica su You Tube un video anonimo nel quale dimostra che la terra è piatta, sarà più seguito e ascoltato di un Premio Nobel per la fisica. Esattamente come accade a noi sacerdoti e teologi, che da molti nostri fedeli non siamo presi in minima considerazione e meno che mai ascoltati, tanto sono impegnati a seguire le panzane pseudo-teologiche proferite dall’ultimo degli imbecilli sui social media, o dai giornalisti in pensione che si sono messi a fare gli ecclesiologi in bilico tra gossip e fanta-teologia. Come possiamo dar torto a quell’ateo anticlericale di Umberto Eco, noi preti e teologi in modo particolare, che con i nostri fedeli addottorati su internet in filosofia, scienze bibliche, teologia, dogmatica sacramentaria e morale cattolica, siamo costretti a subire quello che subiamo e a prenderci scariche di bastonate se osiamo tentate di correggerli?

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dall’Isola di Patmos, 15 dicembre 2020

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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L’indovino Tiresia e il Cristianesimo: la realtà della disabilità, tra gioia e speranza

—  Theologica —

L’INDOVINO TIRESIA E IL CRISTIANESIMO: LA REALTÀ DELLA DISABILITÀ, TRA SPERANZA E GIOIA

La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Ulisse e l’indovino Tiresia

Uno dei temi forti che coinvolgono molto a livello emotivo e intellettuale ogni fedele, dal singolo credente, al sacerdote, dall’uomo di cultura al teologo, è certamente il tema della disabilità. A essere precisi non esiste la disabilità in astratto, ma esistono persone con disabilità fisiche o mentali, che possono essere congenite, innate o acquisite.

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Vorrei abbozzare delle riflessioni biblico-teologiche sul tema della disabilità. Sono consapevole, insieme a tutta la tradizione cristiana, che il mistero del male e della sofferenza umana rimane mistero e non può mai essere dischiuso completamente. Però può essere contemplato, scrutato con occhio di fede, speranza e di carità e essere inserito nel piano più alto e più grande del Piano di Dio.

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In questo articolo faremo innanzitutto alcune considerazioni storiche su uno dei più noti e antichi disabili della storia, l’indovino Tiresia. Successivamente, ci sposteremo sul tema della sofferenza nell’ambito cristiano.

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UN DISABILE NOTO ALL’ANTICHITA’. TIRESIA, INDOVINO CIECO.

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La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema. Tanto che recentemente si è lasciata interrogare dalla disabilità, provando a costruirne una riflessione. Anzitutto vorrei segnalare il testo di Gian Antonio Stella: DiversiLa lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, recentemente edito dal noto giornalista del Corriere della Sera. Con un taglio giornalistico, Stella cerca di fare un excursus a partire da diverse figure storiche di persone con disabilità che hanno davvero proposto la loro esperienza innovativa per il tempo della storia in cui hanno vissuto. Non vorrei soffermarmi su questo testo però [1].

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Da qualche tempo la cultura siciliana ha perso uno dei suoi scrittori più fecondi, Andrea Camilleri. Quasi come un testamento, insieme ad alcuni libri ora in uscita, l’autore di Porto Empedocle, noto per aver creato il personaggio del commissario Montalbano, ha pubblicato un testo intitolato Conversazioni su Tiresia. Si tratta di un piccolo libriccino che riporta fedelmente il testo dello spettacolo omonimo andato in scena lo scorso giugno 2018 e interpretato dallo stesso Camilleri.

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Il tema centrale del testo, come dice il titolo, è la figura dell’indovino Tiresia. Figura leggendaria, di cui si sanno poche cose. Certamente, di lui, si sa che è originario di Tebe, ha una figlia di nome Manto, anche lei indovina, ma soprattutto che è cieco, o come si direbbe oggi: non vedente. Il testo teatrale è un piccolo excursus fra ironia, scherno e qualche frecciatina al mondo attuale, di come questa figura sia stata descritta, schernita e al tempo stesso amata e rispettata nel corso dei secoli. Notoriamente, l’antichità greca ha prodotto una serie di fonti su Tiresia. La cosa più interessante da notare è che in una antichità precristiana, che ha avuto un rapporto difficilissimo con i disabili, una figura di disabile fisico come Tiresia è invece rimasta viva nella scrittura di questi autori. Certamente, la figura dell’indovino tebano, è interessante innanzitutto per una riflessione culturale sulla disabilità.

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Lo Pseudo Apollodoro provò a spiegare da dove si originava la cecità di Tiresia. Dunque riportò tre narrazioni, nella sua Biblioteca; sono particolarmente interessanti la seconda e la terza narrazione[2], raccontate teatralmente anche nel testo di Camilleri. Nella seconda narrazione, quella secondo Apollodoro, Tiresia è figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo: la cecità viene dalla punizione di Atena che Tiresia vide nuda farsi il bagno; allora intervenne Cariclo che chiese pietà per il figlio. Atena non tolse la cecità allo sciagurato voyer, ma vi unì la capacità di essere indovino. La terza narrazione Apollodoro la riprende dal poeta greco Esiodo, ed è la più complessa, perché inserisce altri elementi. Tiresia meditava mentre camminava sul monte Citerone: qui vide due serpenti nell’atto della unione sessuale e allora schifato decise di calpestare e uccidere la femmina. Non appena l’aspide lascivo fu schiacciato, magicamente Tiresia si trasformò da uomo a donna. Questa immagine, induce Camilleri a mettere sulla bocca di Tiresia una considerazione teologica legata ai serpenti:

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«A me adolescente piaceva molto fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi avviticchiate nell’atto della riproduzione. Ero sovrappensiero, per questo reagii come mai avrei dovuto. Perché coi serpenti, sul Citerone, bisognava andarci cauti. Zeus per possedere Persefone si mutava in serpe e anche Cadmo “s’asserpentava” per le sue scappatelle. Quindi in quei rettili poteva celarsi un dio»[3].

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Torneremo su questo particolare fra poco. Osserviamo come Tiresia è davvero saggio: è cioè in grado di andare oltre l’aspetto materiale e cogliere la natura divina anche di un atto così animalesco come l’unione sessuale. Comunque, procedendo con la narrazione, sappiamo che in seguito l’indovino tebano tornò uomo, ma la sua malasorte non era terminata. Infatti, in un tempo indeterminato, Zeus ed Era litigavano e spesso si trovarono divisi da una controversia: se nell’atto dell’amplesso provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscivano a giungere a nessuna conclusione perché infatti le due posizioni principali si fronteggiavano fortemente: Zeus, sosteneva infatti che fosse la donna, mentre Era che fosse l’uomo. Per dirimere la disputa decisero di rivolgersi Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolverla poiché aveva saggiato sia la natura maschile sia femminile. Forse sarebbe stato meglio se Tiresia avesse seguito il vecchio adagio di non mettere il dito fra moglie e marito[4]. Ma, per quella volta, non fu prudente su questo. Dunque, una volta chiamato in causa dai due dèi litigiosi per risolvere la vexata quaestio, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. Tiresia pensò di rispondere così facendo un piacere ad Era, ritenendo che la dea avesse risposto secondo il suo stesso ragionamento. La dea, invece, rimase infuriata perché Tiresia aveva svelato quel segreto: e così lo accecò. Invece Zeus, contrario alla reazione della moglie, decise di riparare al danno subìto, e diede facoltà a Tiresia di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. E Questo, nell’ottica greca, implicava avere una vita praticamente eterna.

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Ecco allora i tre elementi sottolineati nella disabilità di Tiresia: la cecità segue la punizione di aver saputo un segreto profondo dell’uomo. Tiresia, un po’ come Prometeo, ha la colpa di essersi azzardato a intuire e ragionare, arrivare oltre l’arrivabile: dunque di essere entrato nelle sfere più alte della intimità dell’uomo e della donna. Di aver saputo sciogliere il segreto stesso della donazione totale dell’uomo alla donna e viceversa, dunque della loro identità profonda. Al tempo stesso, Tiresia è entrato nel segreto profondo del piacere corporeo e della origine della vita.  Era davvero non può reggere questo affronto. Così, pensa di fare un dispiacere a Tiresia, accecandolo: ma così facendo in realtà lo toglie dalla visione delle cose materiali e lasciandolo per sempre alla visione di informazioni, nozioni e concetti più alti. Oserei dire che Tiresia può essere quello schiavo nella caverna platonica che liberato dai lacci delle visioni materiali vede finalmente la luce delle Idee, nella eternità della verità senza tempo. Non voglio però entrare in una analisi platonica.

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Tornando invece alla disabilità di Tiresia si aggiunge, con l’azione di Zeus, il dono della preveggenza e della vita eterna. Il capolavoro antropologico di Tiresia il tebano è definitivamente compiuto. La disabilità, tanto condannata, tanto stigmatizzata nel mondo greco, è invece, in Tiresia, carica di un insieme di doni straordinari donati dagli dei[5]. E poco importa dunque la mancanza di luce sulle cose quotidiane.

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Tiresia conosce il dato presente nei suoi segreti più intimi. Lo stesso dicasi per gli eventi futuri: conosce ciò che è più profondo, ciò che è più ricercato da ogni uomo greco, filosofo, matematico, astronomo o storico che sia. Scrive a questo proposito lo studioso Paolo Scarpi:

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«[…] La cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino […] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, […], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. […] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco […] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista)»[6]

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A conferma di questo ci sembra interessante notare cosa pensa la Odissea dell’indovino tebano. Omero offre un compito importante a Tiresia, nel canto decimo infatti leggiamo:

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«per chiedere all’anima del tebano Tiresia,

il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:

a lui solo Persefone diede anche da morto,

la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti»[7]

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Ulisse, nell’Ade, è costretto a cercare Tiresia, per venire a conoscenza della strada per il ritorno ad Itaca. Nei versi del poema omerico, leggiamo fra le righe che solo a Tiresia sono concessi i doni straordinari che lo rendono così saggio. Aggiungo ancora un paio di elementi: nella Tebaide, il poeta Stazio descrive che Tiresia, sordomuto e cieco allo stesso tempo, conserva i suoi poteri straordinari. Qui, la disabilità fisica, è ancora più accentuata, non di meno però la saggezza e la profezia rimangono. E avranno un ruolo drammatico in Sofocle.

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Nell’Edipo Re, Tiresia è chiamato profetizzare anche il celeberrimo incesto fra Edipo e Giocasta e l’uccisione di Laio: in questa tragedia la profezia del cieco è addirittura un elemento di aiuto alla scoperta circa una azione morale condannata dal tempo. L’apporto di Tiresia diventa fondamentale nello scioglimento del dramma di Edipo.

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Tornando e concludendo la lettura del testo di Camilleri, trovo una splendida poesia dedicata a Tiresia a opera del poeta Thomas Sterne Elliott

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«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,

vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere

all’ora viola, l’ora della sera che volge

al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,

posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,

accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.

Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare

Le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,

sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate

calze, pantofole, camiciole e corsetti.

Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,

percepii la scena, e predissi il resto –

anch’io attesi l’ospite aspettato.

Lui, il giovane pustoloso, arriva,

impiegato di una piccola agenzia di locazione, con un solo sguardo

baldanzoso,

uno del popolo a cui la sicumera sta

come un cilindro a un cafone arricchito.

Il momento è ora propizio, come lui congettura,

il pranzo è finito, lei è annoiata e stanca,

cerca di impegnarla in carezze

che non sono respinte, anche se indesiderate.

Eccitato e deciso, lui assale d’un colpo;

mani esploranti non incontrano difesa;

la sua vanità non richiede risposta

e prende come un benvenuto l’indifferenza.

(E io Tiresia ho presofferto tutto

Quello che è stato fatto su questo stesso divano o letto;

io che sedetti sotto le mura di Tebe

e camminai fra i più umili morti).

[…]

A Cartagine poi venni

Ardendo ardendo ardendo ardendo

O Signore Tu mi cogli

O Signore Tu cogli

Ardendo[8]

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L’analisi della disabilità di Tiresia mostra dunque come la disabilità abbia una valenza contraddittoria nel mondo pre-cristiano: nel quale si evidenzia un rapporto di dannazione, stigma, allontanamento e, dall’altro, quasi invece uno stato di elevazione a conoscenza superiore. Il tema della disabilità, per i greci richiamava dunque una conoscenza sapienziale del presente, una conoscenza profetica del futuro, un richiamo a una vita eterna (certo non delle stesse caratteristiche del Regno di Dio cristiano). Ovviamente, l’aspetto totalmente assente nella disabilità di Tiresia, come del resto a tutta la riflessione greca prima della venuta di Cristo, è ovviamente il legame fra attività divina e umana: quel rapporto fra grazia e natura che verrà solo successivamente scandagliato dalla teologia cattolica.

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Tiresia subisce infatti la disabilità nella sua natura umana come castigo: non è spiegato dai miti greci in quale modo, dopo aver ottenuto la disabilità, la sua persona sia portata, tramite la disabilità, a un cammino di perfezionamento e di elevazione morale con l’aiuto degli Dei. La disabilità, in Tiresia, è insomma una speciale metodologia epistemologica ma non di santificazione. Uno speciale modo di conoscere ma non di elevarsi ad un rapporto con il sacro. Di segno completamente diverso è invece, il senso della sofferenza fisica, e dunque anche una disabilità visiva, dall’avvento di Gesù Cristo: tutte le disabilità rientrano nell’afflizione e nell’amore sofferente di Cristo. Si possono dunque riunire sotto la grande categoria della sofferenza.

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AFFLITTI MA INTIMAMENTE UNITI NELL’AMORE SOFFERENTE DI GESU

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È certa una cosa. Riguardo il cristianesimo, esso è fondato da Gesù ed è una religione della gioia; infatti, il cristianesimo, è iniziato con un imperativo gioioso. «Kaire/Rallegrati Maria!» [9] così l’arcangelo Gabriele salutò l’adolescente Maria. Certamente riconosciamo con Joseph Ratzinger che «Il cristianesimo è dunque la fede della gioia»[10]. Eppure, all’interno del cammino di una fede cattolica che sia gioiosa, essa non fugge da alcune tematiche particolarmente delicate come la sofferenza, la penitenza e il dolore. Pensiamo per un momento che nel cammino della Chiesa Cattolica esiste un grande periodo di penitenza e ascesi: la Quaresima. Questo perché la Quaresima è innanzitutto tempo di conversione, ma anche tempo di deserto e riflessione. In quel periodo c’è un invito a soffermarsi, nella nostra preghiera o meditazione personale, su quelle tematiche che risultato ordinariamente di difficile assimilazione e trattazione, come il peccato, la morte, la malattia, il dolore. La sofferenza è un tema molto delicato. Soprattutto è delicato perché è vissuto da uomini e donne. Tema che tutti quanti in prima persona abbiamo toccato. Questi uomini sono sofferenti. Dunque sono afflitti. In effetti uno dei temi di cui anche l’Antico Testamento ci parla è proprio la sofferenza. Pensiamo ad esempio alla storia presente nel libro di Giobbe. Uomo giusto, oggi diremo un pio, una persona perbene e molto devota. Il Signore, allora, permette al diavolo che Giobbe sia provato nella sofferenza morale, ricordiamo infatti che furono uccisi tutti i suoi figli; quindi, materiale, ricordiamo che perse tutti i suoi averi; infine fisica, ricordiamo che si ammala gravemente di lebbra e viene isolato da tutti, tranne che da quattro amici.

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In Giobbe, secondo gli esegeti, troviamo quatto reazioni tipicamente umane. La prima è  l’accettazione (cfr. Gb 1,22). Egli accetta pacificamente che tutto questa gli venga da Dio. Allo stesso tempo pretende da Lui anche una specie di contraccambio in futuro. La seconda reazione, è la ribellione (cfr. Gb 3, 1). Egli desidererà addirittura morire. È reazione tipica anche dei malati di oggi: è desiderio di tranquillità e di pace. La terza reazione è l’affidamento (cfr. Gb 40). Giobbe si affida a Dio riconoscendo la sua piccolezza, il proprio essere creatura creata, rispetto a Dio creatore increato. Quindi si affida veramente al Creatore perché riconosce di essere stato orgoglioso e pretestuoso nei suoi confronti. Quarta reazione, la ricompensa ultraterrena (Gb 42,7). A Giobbe viene restituito tutto ciò che aveva perso in modo raddoppiato [11].

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Giobbe è un afflitto. Dio dopo un cammino di conversione, di purificazione e crescita viene consolato da Dio. Rimasi molto colpito quando anche io ascoltalo la voce di un afflitto. Un afflitto di qualche anno fa: ma che nel suo oggi, come oggi è stato abbandonato da tutti. Per questo vorrei adesso farvi ascoltare la voce di quel genere di afflitto che, al contrario di Giobbe, non ce l’ha fatta.

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«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.  […]  Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. […] Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.  […] Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene»[12].

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È terribile leggere righe del genere. È quasi impossibile empatizzare il dolore di un giovane che vuole togliersi la vita. È assolutamente impossibile comprendere il dolore di quei genitori che hanno perso un figlio in questo modo.  Eppure, questo giovane era un afflitto. Un afflitto lasciato solo da tutti: abbandonato alla mentalità e alla moda del mondo, che crede e inculca a tutti che il suicidio sia l’unica via per vivere la propria libertà. Questa è la libertà che il mondo di oggi vuole convincere anche noi cattolici che sia quella da vivere: una libertà che non è liberta vera. Quella libertà che si esprimerebbe nelle tecniche di suicidio assistito e di eutanasia, come avvenuto per il caso, salito alla ribalta dei telegiornali, di Dj Fabio. Anche Dj Fabio era un sofferente, uno che biblicamente chiameremo afflitto[13]. Il mondo, invece che donargli la vera libertà, lo ha abbandonato definitivamente. Lo stato di diritto gli offre addirittura ragione e giurisprudenza per fondare il convincimento che dalla sofferenza si esce solo suicidandosi. Come se il suicidio fosse espressione massima di una “libertà”[14]. Quella libertà che elimina la sofferenza e l’afflizione. Perché una vita sofferente e afflitta non ha valore, allora si elimina. Si prende e si butta via. E si maschera tutto con la parolina magica: li–ber–tà. Tre sillabe con cui oggi si cavalca l’onda e si permette tutto.

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«Noi viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita»[15]

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C’è un’unica risposta a questa terribile convinzione della cultura odierna. La vera risposta che ognuno di noi può dare è questa: la gioia di Gesù Cristo. Si risponde ad una logica di morte, di cultura dello scarto, di necrocultura semplicemente mostrando la gioia e l’amore che Gesù ebbe nei confronti degli afflitti. Perché Gesù Cristo stesso si è spesso incontrato con la sofferenza. Gesù ha cioè incontrato persone sofferenti e afflitti: chi nel corpo e chi nello spirito. E si è messo al servizio loro e dei loro parenti e amici. Per questo ha potuto relegare un posto speciale nelle beatitudini proprio ai sofferenti: «Beati gli afflitti… perché saranno consolati»[16].

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Se diamo un’occhiata al Vangelo della resurrezione di Lazzaro, vediamo subito come Gesù si relaziona di fronte alla morte del suo caro amico Lazzaro. Gesù stesso piange. È afflitto, e vive questo momento insieme ad altri afflitti. Proviamo a seguire il testo del Vangelo da vicino:

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«Gesù voleva molto bene (agapan = amava con misericordia) a Marta, a sua sorella [Maria] e a Lazzaro. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (= pepisteuka, il verbo greco esprime un forte atto di fede) Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente (embrimastai = prendere in collera), si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!”. Dopo aver riposto la pietra in cui Lazzaro era stato posto, Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”»[17].

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Proviamo a leggere il testo in modo analitico. Al versetto 5 vediamo innanzitutto che Gesù compie l’azione dell’agapan cioè amava profondamente Marta, Maria e Lazzaro. Agapao è il verbo greco da cui viene agapè, che noi appunto traduciamo con Misericordia. Quindi li amava con misericordia. Inoltre ai versetti 20 – 27 Gesù viene rimproverato da Marta, in seguito anche da Maria, di non essere stato presente al momento della morte di Lazzaro. Ottiene da loro un atto di fede nella vita eterna che avviene tramite la Sua Presenza: la presenza di Gesù, Figlio di Dio nel mondo. Successivamente (cfr. V.33) quando poi viene a sapere della morte di Lazzaro, Gesù si commuove: ha un moto di passione collerico (così il verbo greco embrimastai), di avversione nei confronti della morte che è uno degli effetti provocati dal peccato originale a sua volta generato dal diavolo. Gesù stesso, dunque, esprime avversione e ostilità nei confronti della morte. Commentando i versetti 41 – 42, l’esegeta Brown scrive:

«Attraverso l’esercizio del potere di Gesù, che è il potere del Padre, essi conosceranno il Padre e così riceveranno la vita essi stessi. Gesù non otterrà niente per sé, egli vuole solo che i suoi ascoltatori conoscano il Padre che lo ha mandato. […] La cosa cruciale è che Gesù ha dato la vita fisica come segno del suo potere di dare la vita eterna su questa terra e come promessa che nell’ultimo giorno resusciterà i morti»[18].

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Marta, Maria e Lazzaro sono afflitti. Gesù gli fa scoprire, proprio nell’afflizione, un rapporto vero e reale con Dio. La sofferenza allora diventa uno dei possibili “luoghi” dove incontrare veramente l’Amore del Signore e riceverne consolazione. Come Dio fece con Giobbe e come adesso fa Gesù con Lazzaro. In effetti, l’afflizione, può generare un senso di isolamento: come abbiamo visto finora, la sofferenza, se per un verso è un’esperienza, per altro verso è al tempo stesso una esperienza solitaria, permessa da Dio al singolo e solo al singolo. In maniera indiretta va a colpire anche i parenti, gli amici e i vicini dell’afflitto, ma serve innanzitutto alla singola persona. Questi afflitti non sono così lontani nel tempo e nello spazio dalle nostre vite.

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Anche noi possiamo essere misericordiosi e mostrare l’amore di Dio agli afflitti. La gioia e vitalità di Gesù possiamo esprimere e comunicarla attraverso questi nostri fratelli sofferenti? Tramite l’esercizio delle opere di misericordia materiali e corporali è possibile esprimere il senso biblico della consolazione. Ecco il nesso fra consolazione e senso di fratellanza: saper entrare nel dramma di qualcuno e supportarlo. Essere davvero con– fratelli tramite la Misericordia/Agape di Dio per l’altro. Vivere aiutando chi è afflitto significa essergli di supporto. Nell’essere supporto allora ci sono tre derive che vanno assolutamente evitate:

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α) il compiangere l’afflitto. Si rischia cioè di creare una vittimizzazione. Tramite questa dinamica, la persona rimane incastrata nel proprio dolore e chiudendosi in un narcisismo che le impedisce di stare meglio [19].

β) L’effetto narcotico. Cioè il cercare di togliere di mezzo il dolore addormentando la coscienza su esso. La persona quindi è spinta dalla società a vivere come se non esistesse il dolore. Questo spinge a una superficialità, che è pericolosa perché rimanda il problema del dolore e lo aggrava[20]. In effetti fuggire da un problema significa aggravarlo.

γ) Invitare l’afflitto a guardare chi sta peggio di lui: non c’è di peggio che fare dell’esistenza come una classifica della serie A e dire chi sta meglio e chi sta peggio. Non ha senso consolare una persona dicendogli “siccome c’è chi sta peggio di te, devi stare bene” [21].

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Vediamo un po’, allora, l’opera di misericordia di consolare gli afflitti in cosa consiste per davvero. Ci saranno di aiuto le parole del presbitero Fabio Rosini che scrive:

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«Il dolore fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione si sostiene, il cuore è sereno; se però, il dolore è senza spiegazione diventa allora insostenibile. L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, che la indirizzi, di un’indicazione che ne orienti la comprensione» [22]

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La stessa parola consolazione (in ebraico nacham), biblicamente si rende coi verbi di riposare, fermarsi, trovare tranquillità o anche dare rifugio[23]. È quello che poco fa abbiamo visto fare Gesù con gli afflitti parenti di Lazzaro.  Pacificare una persona significa donargli quella parola di pienezza, di comprensione, di senso che il dolore sembra avergli sottratto.

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«Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore, lo sguardo, lo spirito a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà completezza»[24].

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In un certo senso tutti i cristiani sono chiamati a consolare, ricordare che sono proprio loro i chiamati a dare questa completezza. Dunque questa è la chiamata a essere coloro che ricordano che Dio è innanzitutto speranza nella sofferenza. Ricordare al mondo e alla cultura attuale che sperare è un atto tipicamente umano, ma allo stesso tempo elevante: perché permette anche al peggiore degli afflitti di elevarsi oltre il proprio dolore. Come scrive sempre Fabio Rosini, consolare, dare speranza significa in fondo, fare un atto di misericordia che “faccia presente l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore”[25]. Questo permetterà anche a noi di riprendere anzitutto a sperare. E sperare è atto tipicamente cristiano. Di più, sperare è l’atto tipicamente cattolico! Perché il credente è colui che ha riposto ogni fiducia in Gesù. E proprio come Marta e Maria, esprime ad alta voce questa sua speranza proprio nel dolore. Tenete sempre a mente questo, mentre preparate i panini per gli indigenti, mentre preparate la barella spinale, mentre risistemate i presidi di protezione civile. Sperare significa innanzitutto accendere l’attesa di un Dio che è il bene assoluto immensamente buono.

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Ciascuno di noi può essere portatore di speranza, portatori della gioia anche all’afflitto dei quartieri più poveri, all’afflitto per un lutto o per una depressione, o appunto di una disabilità. Ecco allora che rapportando queste riflessioni alla disabilità, diremo che anche la persona con disabilità, nonostante le sue afflizioni e i suoi dolori fisici, è chiamato a un cammino di gioia e di santificazione. C’è sempre un piano superiore a cui Dio Padre orienta, come ha orientato le sofferenze di Gesù della Passione, alla gioia della Resurrezione. Anche noi saremo così trasportati nella gioia della consolazione. Perché quando consoleremo un afflitto, questo ci farà scoprire davvero la gioia della nostra vita. Tutta la nostra vita sarà saper far riscoprire la presenza di un Dio Trinitario, che è con noi anche nel dolore. È amando chi è afflitto, facendo riscoprire a lui questa gioia di vivere, potremo dire insieme al poeta Giacomo Leopardi «Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando» [26].

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Roma, 4 novembre 2020

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NOTE

[1] Il lettore può consultare per approfondimenti: G. A. Stella, Diversi – La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, Solferino, 2019, Milano.

[2] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7.

[3] A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Sellerio, Palermo, 2019.

[4] A. Camilleri, op.cit.

[5] Su questa stessa linea si pone M. Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, 40.

[6] Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduz. di M.G. Ciani, Monadori, Milano, 1996, 55.

[7] Odissea X, 492 e sgg., Traduzione di G. Aurelio Privitera

[8] T.S. Elliott, Terra desolata citato in A. Cammileri, Conversazioni su Tiresia, 41 – 42. Ricontrollare pagina.

[9] Luca 1, 26.

[10]J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, Morcelliana, Brescia, 69.

[11] S. Pinto, I segreti della Sapienza, Introduzione ai libri sapienziali e poetici , San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, 21 – 23.

[12] Lettera di M., un suicida trentenne, tratto da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837 ultimo accesso 10/01/20 ore 18.07.

[13] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2017/02/28/fidanzata-dj-fabo-vorrei-notte-non-finisse_n_15055120.html ultimo accesso 23 marzo 2017 ore 16.43).

[14] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/25/news/consulta_cappato_dj_fabo_sentenza-236870232/ ultimo accesso 10/01/10 ore 18.16.

[15]A. D’AVENIA, L’arte di essere fragili, 2016, 147.

[16] Mt 5,4

[17] Vangelo secondo Giovanni, capitolo 11.

[18] R. E. Brown, Giovanni, 2014, pp 567 – 568

[19] Fabio ROSINI, Solo l’amore crea, 2016, p. 121.

[20] Ibidem.

[21] Fabio ROSINI, op,cit, p. 122.

[22] Fabio ROSINI, p. 120.

[23] Fabio ROSINI, p. 127.

[24] Fabio ROSINI p. 129.

[25] Fabio ROSINI, p. 129.

[26] (Zibaldone 1819 – 1820.)

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