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Le tifoserie di Maria co-redentrice, una grossolana contraddizione in termini teologici
/3 Commenti/in Theologica/da Padre ArielLE TIFOSERIE DI MARIA CO-REDENTRICE, UNA GROSSOLANA CONTRADDIZIONE IN TERMINI TEOLOGICI
Qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?
— Le pagine di Theologica —
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Articolo dedicato alla memoria del Gesuita Peter Gumpel (Hannover 1923 – Roma 2023) che fu mio formatore e prezioso maestro nell’ambito della storia del dogma
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Frequentando abbastanza i social media, leggendo e ascoltando sacerdoti e laici, su argomenti biblici e teologici, a volte si ha l’impressione che non sia intervenuto alcun progresso su certi temi. Accade così che su questioni che riguardano argomenti di fede sono messe in circolazione molte imprecisioni, oppure si continua su registri vecchi, devozionali ed emozionali.
Il desiderio, forse un po’ utopico, sarebbe che i Lettori si rendano conto, con un minimo impegno, che potrebbero beneficiare di approfondimenti seri e precisi. Perlomeno è nella speranza mia e dei Padri di questa nostra Isola di Patmos, essere di aiuto a coloro che riescono ad andare oltre le quattro o cinque righe lette sui social media, dove oggi pontificano improbabili teologi e mariologi, con le conseguenze che spesso ben sappiamo: la deviazione dalla vera fede. E questo dispiace molto, perché i Social Media potrebbero essere per noi strumento straordinario per la diffusione della sana e solida dottrina cattolica.
Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo da quando, fin dall’epoca del Venerabile Pontefice Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano a un testo scritto. Per citare solo alcuni esempi: l’analisi retorica, la strutturale, la letteraria e la semantica hanno prodotto risultati che forse qualche volta saranno apparsi insoddisfacenti, ma hanno anche permesso di scandagliare in modo nuovo il testo della Sacra Scrittura e ciò ha portato a tutta una serie di studi che ci hanno fatto conoscere meglio e più approfonditamente la Parola di Dio. Oppure di riconsiderare acquisizioni antiche, della tradizione, dei Santi Padri della Chiesa, che pur risultando vere e profonde, nonché opere di alta teologia, tuttavia non avevano il supporto di uno studio moderno dei testi sacri, proprio perché ancóra, certi strumenti, all’epoca delle loro speculazioni mancavano.
Prima di proseguire è necessario un inciso: i “teologi” da social media hanno bisogno della lite, per scatenare la quale è necessario scegliersi e fabbricarsi un nemico. Per certi gruppi il nemico più gettonano è il Modernismo, definito a giusta ragione dal Santo Pontefice Pio X come sintesi di tutte le eresie» (cfr. Pascendi Dominici Gregis). Ciò non vuol dire, però, che l’agire di questo Santo Pontefice, prima ancóra quello e del suo Sommo Predecessore Leone XIII, abbia sempre prodotto effetti benefici nei decenni a seguire. Ovviamente, per fare una analisi critica obbiettiva, è di rigore contestualizzare la condanna del Modernismo e i severi provvedimenti canonici che ne seguirono in quel preciso momento storico, non certo esprimere giudizi usando criteri legati al nostro presente, perché ne uscirebbero fuori solo sentenze fuorvianti e falsanti. Per sintetizzare in breve questo complesso problema al quale mi sono riservato di dedicare un mio prossimo libro, basti dire che la Chiesa di quegli anni, dopo la caduta dello Stato Pontificio avvenuta il 20 settembre 1870, era soggetta a violenti attacchi politici e sociali. Il Romano Pontefice si era ritirato come “volontario prigioniero” tra le mura vaticane dalle quali uscirà fuori solo sei decenni dopo. L’anticlericalismo di matrice massonica era elevato alla massima potenza e la Chiesa doveva fare seriamente i conti con la propria sopravvivenza e con quella della istituzione del papato. Non poteva certo permettersi lo sviluppo di correnti di pensiero che l’avrebbero attaccata e corrosa direttamente dal proprio interno. È in questo delicato contesto che si colloca la lotta del Santo Pontefice Pio X al Modernismo. Con tutte le conseguenze anche negative del caso: la speculazione teologica fu di fatto congelata tra mille paure e la formazione dei preti ridotta a quattro formulette della neo-scolastica decadente, che della scolastica classica di Sant’Anselmo d’Aosta e di San Tommaso d’Aquino non era neppure lontana parente. Ciò produsse nel clero cattolico una impreparazione e una tale ignoranza che per averne chiara prova basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii scritta nel 1935 del Sommo Pontefice Pio XI.
Le conseguenze della lotta al Modernismo furono per certi versi disastrose, basti dire che quando alle soglie degli anni Quaranta del Novecento, all’inizio del pontificato di Pio XII, i teologi e i biblisti cattolici cominciarono a mettere mano su certi materiali e a fare esegesi nell’ambito vetero e novo testamentario, furono costretti, in modo discreto e lavorando prudentemente sottobanco, a rifarsi ad autori protestanti, che su certe tematiche speculavano e portavano avanti già da decenni studi approfonditi, specie nell’ambito delle scienze bibliche. E così oggi, se vogliamo fare uno studio e una analisi del testo della Lettera ai Romani dobbiamo di necessità rifarci al commento del teologo protestante Carl Barth, che rimane fondamentale e soprattutto insuperato. Anche questi furono i frutti della lotta contro il Modernismo, di cui certo non parlano i “teologi” da social media che per esistere hanno bisogno di un nemico da combattere. Come però già detto, questo tema sarà oggetto di un mio prossimo libro, ma era necessario questo inciso per meglio introdurre il nostro tema.
Quello che tutt’oggi seguita a mancare è che questi risultati ottenuti attraverso la moderna esegesi o lo studio dei testi vetero e novo testamentari diventino appannaggio della maggioranza dei credenti. E qui torno a ribadire la straordinaria importanza che potrebbero avere i social media, per diffondere e rendere accessibili certi materiali. Troppo spesso rimangono invece confinati nei testi specialistici e non passano, se non sporadicamente, nella predicazione e nella catechesi, favorendo una consapevolezza nuova dei termini in gioco e quindi una fede cristiana più solida e motivata, non basata soltanto su dati acquisiti spesso fragili e confusi, sul devozionale, sul sentimentale, o peggio: su rivelazioni, su apparizioni vere o presunte, o sui pruriginosi “segreti” tremebondi della logorroica Gospa di Medjugorje (cfr. mia video conferenza, QUI)… e via dicendo a seguire.
Se certe tifoserie madonnolatriche avessero l’umiltà, forse anche la decenza di leggere libri e articoli di autorevoli studiosi, forse potrebbero comprendere che non solo, non hanno compreso, ma che della Maria dei Santi Vangeli non hanno capito proprio niente. Basterebbe prendere ― ne cito uno solo tra i tanti ― l’articolo scritto da Padre Ignace de la Potterie: «La Madre di Gesù e il mistero di Cana» (La Civiltà Cattolica, 1979, IV, pp. 425-440, testo integrale QUI), per comprendere così quale abissale differenza possa correre tra la mariologia e la mariolatria.
Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra certi presbiteri — e a maggior ragione tra certi devoti fedeli — assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali, sino a giungere con il passo degli elefanti dentro una cristalleria al tema molto delicato e discusso di Maria co-redentrice, che come risaputo — e come più volte hanno puntualizzato anche gli ultimi Pontefici —, è un termine che di per sé crea enormi problemi teologici con la cristologia e il mistero stesso della redenzione. Affermare infatti che Maria, creatura perfetta nata senza peccato, ma pur sempre creatura creata, ha cooperato alla redenzione dell’umanità, non è propriamente come affermare che ha co-redento l’umanità. A operare la redenzione è stato Cristo, che non era una creatura creata ma il Verbo di Dio fatto uomo, generato non creato della stessa sostanza di Dio Padre, come recitiamo nel Simbolo di Fede, il Credo, dove professiamo «[…] e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». Nel Simbolo di Fede, la redenzione è tutta quanta incentrata sul Cristo. Ecco perché dire che la Beata Vergine “ha cooperato” e dire “ha co-redento” ha una valenza teologica sostanzialmente e radicalmente diversa. Uno solo è infatti il redentore: Gesù Cristo Dio fatto uomo «generato non creato della stessa sostanza del Padre», che come tale non ha bisogno di alcuna creatura creata che lo supporti o lo sostenga come co-redentore o co-redentrice, compresa la Beata Vergine Maria» (cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, in L’Isola di Patmos, vedere QUI, QUI, QUI). Domanda: alle tifoserie della co-redentrice, come mai non basta che Maria sia colei che di fatto ha cooperato più di qualsiasi creatura affinché si realizzasse il mistero della redenzione? Per quale motivo, ma soprattutto per quale ostinazione, non contenti della sua figura di cooperatrice, vogliono a tutti i costi che sia proclamata co-redentrice con una solenne definizione dogmatica?
Dal punto di vista teologico e dogmatico, il concetto stesso di Maria co-redentrice crea anzitutto grossi problemi alla cristologia, col rischio di dare vita a una sorta di “quatrinità” e di elevare la Madonna, che è creatura perfetta nata senza macchia di peccato originale, a ruolo di vera e propria divinità. Cristo ci ha redenti col suo ipostatico sangue prezioso umano e divino, con il suo corpo glorioso risorto che porta tutt’oggi impressi su di sé i segni della passione. Maria invece, pur ricoprendo un ruolo straordinario nella storia della economia della salvezza, ha cooperato alla nostra redenzione. Dire co-redentrice equivale a dire che siamo stati redenti da Cristo e da Maria. E qui è bene chiarire: Cristo salva, Maria intercede per la nostra salvezza. Non è una differenza di poco conto “salvare” e “intercedere”, salvo creare in caso contrario una religione diversa da quella nata sul mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio (cfr. mio precedente articolo QUI).
La mariologia non è qualche cosa di a sé stante, quasi come se vivesse di vita autonoma. La mariologia non è altro che una appendice della cristologia ed è inserita in una precisa dimensione teologica di cristocentrismo. Se la mariologia è in qualche modo distaccata da questa centralità cristocentrica, si può correre il serio rischio di cadere nel peggiore e più deleterio mariocentrismo. Per non parlare della palese arroganza degli esponenti di qualche giovane e problematica Congregazione di impronta francescana-mariana, che non si sono limitati a fare ipotesi o studi teologici per supportare l’idea peregrina della cosiddetta co-redentrice, ma di fatto ne istituirono il culto e la venerazione.
Chi proclama dogmi che non esistono compie un delitto maggiore rispetto a coloro che i dogmi li negano, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione dopo secoli di studi e speculazioni ― come nel caso del dogma della immacolata concezione e dell’assunzione al cielo di Maria ―, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono, in quel caso entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore. L’ho scritto e spiegato in diversi miei precedenti articoli ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria l’intero mistero del male ― che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto [Cfr. Catechismo n. 1866] ―, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa nel mio libro E Satana si fece trino, spiegando in un mio libro del 2011 in qual modo si sia spesso esagerato oltre misura sul sesto comandamento, spesso dimenticando tutti i peggiori e più gravi peccati contro la carità.
Se poi tutto questo è filtrato attraverso emotività di stampo fideistico ― come se un tema così delicato incentrato nelle sfere più complesse della dogmatica fosse una sorta di tifoserie opposte composte da tifosi laziali e tifosi romanisti ―, in quel caso si può cadere nella vera e propria idolatria mariana o nella cosiddetta mariolatria, che equivale a dire: paganesimo allo stato puro. A quel punto Maria potrebbe assumere tranquillamente il nome di qualsiasi dea dell’Olimpo greco o del Pantheon romano.
Le tifoserie da social media della co-redenzione della Beata Vergine affermano come una sorta di prova incontrovertibile che sarebbe stata Maria stessa a chiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano (cfr. tra i tanti articoli, QUI). Cosa sulla quale a loro dire non si discute, lo avrebbe chiesto la Beata Vergine stessa apparendo ad Amsterdam a Ida Peerdeman. Premesso che nessuna apparizione mariana, incluse quelle riconosciute come autentiche dalla Chiesa, Fatima inclusa, può essere oggetto e materia vincolante di fede; premesso altresì che meno ancora lo sono le locuzioni di certi veggenti, possiamo solo sorridere su certe amenità da teologi dilettanti che rendono taluni soggetti difficilmente gestibili per noi preti e soprattutto per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con quella loro ignoranza che li porta a trattare un simile tema come se davvero fosse uno scambio acceso tra tifosi della Lazio e tifosi della Roma che si urlano dalle opposte curve dello stadio. Anche in questo caso la risposta è semplice: qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?
Ecco infine la “prova delle prove”: «diversi Sommi Pontefici hanno fatto uso del termine co-redentrice», detto questo segue l’elenco dei loro vari discorsi, benché il tutto dimostri però l’esatto contrario di ciò che le tifoserie della co-redenzione vorrebbero provare. È sì vero che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, in un suo discorso dell’8 settembre 1982, affermò:
«Maria, pur concepita e nata senza macchia di peccato, ha partecipato in maniera mirabile alle sofferenze del suo divin Figlio, per essere co-redentrice dell’umanità».
Questa espressione dimostra però l’esatto contrario sul piano teologico e mariologico. Chiariamo perché: da allora a seguire Giovanni Paolo II ― che era indubitabilmente un Pontefice di profonda devozione mariana ―, dinanzi a sé ebbe altri 23 anni di pontificato. Come mai, in questo lungo lasso di tempo, oltre a non proclamare il quinto dogma mariano della co-redenzione di Maria, respinse in modo deciso la richiesta, quando per due volte gli fu presentata? La respinse perché tra il 1962 e il 1965, l’allora giovane Vescovo Karol Woytila fu una figura partecipe e attiva al Concilio Vaticano II che in una delle sue costituzioni dogmatiche chiarì come Maria avesse «cooperato in modo unico all’opera del Salvatore» (Lumen gentium, 61). Affermazione introdotta dal precedente articolo dove si precisa che L’unica mediazione del Redentore «non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte» (Lumen gentium 60; CCC 970). E la cooperazione più alta e straordinaria è stata quella della Vergine Maria. Ciò dovrebbe bastare per comprendere che i Sommi Pontefici, quando alcune volte hanno fatto ricorso al termine co-redentrice in loro discorsi, mai in encicliche o atti solenni del sommo magistero, intendevano esprimere con esso il concetto di cooperazione di Maria al mistero della salvezza e della redenzione.
Il termine stesso di co-redentrice è in sé e di per sé una assurdità teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici, lo ha ripetuto per tre volte, nel 2019, 2020 e 2021 anche il Sommo Pontefice Francesco:
«[…] Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola. E c’è un Santo Padre che dice in giro che è più degno il discepolato della maternità. Questioni di teologi, ma discepola. Non ha mai rubato per sé nulla di suo Figlio, lo ha servito perché è madre, dà la vita nella pienezza dei tempi a questo Figlio nato da una donna (cfr. Omelia del 12 dicembre 2019, testo integrale QUI) […] la Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere una quasi-redentrice o una co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia. Soltanto discepola e Madre (cfr. Omelia del 3 aprile 2020, testo integrale QUI) […] la Madonna che, come Madre alla quale Gesù ci ha affidati, avvolge tutti noi; ma come Madre, non come dea, non come corredentrice: come Madre. È vero che la pietà cristiana sempre le dà dei titoli belli, come un figlio alla mamma: quante cose belle dice un figlio alla mamma alla quale vuole bene! Ma stiamo attenti: le cose belle che la Chiesa e i Santi dicono di Maria nulla tolgono all’unicità redentrice di Cristo. Lui è l’unico Redentore. Sono espressioni d’amore come un figlio alla mamma, alcune volte esagerate. Ma l’amore, noi sappiamo, sempre ci fa fare cose esagerate, ma con amore» (cfr. Udienza del 24 marzo 2021, testo integrale QUI).
Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Se quindi non ci redime, perché si insiste affinché sia dogmatizzato un titolo mirato a definire solennemente che ci co-redime?
È probabile che molti tifosi della co-redenzione non abbiano mai prestato attenzione alle invocazioni delle Litanie Lauretane, che non furono certo opera di qualche recente pontefice in odore di modernismo, come direbbero alcuni, furono aggiunte alla recita del Santo Rosario dal Santo Pontefice Pio V dopo la vittoria della Lega Santa a Lepanto nel 1571, sebbene già in uso da diversi decenni nel Santuario della Casa di Loreto, dalla quale traggono nome. Eppure basterebbe porsi questa domanda: come mai, quando all’inizio di queste litanie si invocano Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, diciamo «miserere nobis» (abbi pietà/msericordia di noi)? Mentre appena s’inizia, con l’invocazione Sancta Maria, a enunciare tutti i titoli della Beata Vergine, da quel momento in poi diciamo «Ora pro nobis» (prega per noi)? Semplice: perché Dio Padre che ci ha creati e che ha donato all’umanità sé stesso mediante l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, i quali hanno fatto poi giungere lo Spirito Santo che «procede dal Padre e dal Figlio», con pietosa misericordia donano la grazia del perdono dai peccati mediante una azione trinitaria del Dio uno e trino, la Vergine Maria no, i peccati non ce li rimette e non ce li perdona, perché nella economia della salvezza il suo ruolo è quello di intercedere. Questo il motivo per il quale, quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina, da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci (cfr. mio precedente articolo, QUI). Solo questo dovrebbe di per sé bastare e avanzare per comprendere che il termine stesso co-redentrice è una grossolana contraddizione a livello teologico, quanto basta purtroppo a rendere grossolani quei teologi che insistono nel richiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano, caricando e usando come tifoseria frange di fedeli gran parte dei quali hanno profonde e serie lacune sui fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica.
La persona della Vergine Maria, la Madre di Gesù, viene guardata e indicata con una profondità teologica che la colloca in stretto rapporto con la missione del suo Figlio e unita a noi discepoli, perché questo è il suo ruolo che i Vangeli ci hanno voluto comunicare e ricordare, il tutto con buona pace di quanti pretendono, a volte persino in modo arrogante, di relegare la Donna del Magnificat in un microcosmo di devozionismi emotivi che spesso lasciano persino percepire il fumus del neo-paganesimo. Ha quindi ragione il Sommo Pontefice Francesco, che con il suo stile molto semplice e diretto, a volte persino volutamente provocatorio e per taluni persino indisponente, ma proprio per questo capace a farsi intendere da tutti, ha precisato che Maria «[…] non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice». E non si è presentata come tale perché Maria è la Donna del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»; beata perché mi sono fatta serva, non certo perché ho chiesto, a qualche veggente svalvolato, di essere proclamata co-redentrice.
dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2024
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Dal disorientamento dottrinale della Chiesa al peccato dei preti e al riciclo dei laici. Prospetto di una cultura intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna
/in Theologica/da Padre IvanoDall’amicizia di Gesù con Abramo a Gesù che ci accoglie chiamandoci amici
/in Theologica/da monaco eremitaDALL’AMICIZIA DI DIO CON ABRAMO A GESÙ CHE CI ACCOGLIE CHIAMANDOCI AMICI
Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici».
— Pagine bibliche—
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Sembra che il termine amico non possa esistere senza una sua specifica qualificazione. Abbiamo diverse tipologie declinate, nelle varie arti, che propongono di volta in volta l’immagine di un amico fragile, ritrovato oppure geniale. Se ne potrebbe discorrere all’infinito. Un amico potrà essere vero o falso, esserci sempre o scomparire, di lui o lei ti potrai fidare incondizionatamente o nella peggiore delle ipotesi venir da essi tradito.
La Bibbia che è una letteratura formatasi in un lunghissimo periodo, oltre che parlare del protagonista principale, che è Dio, presenta una variegata serie di situazioni umane. Non a caso il poeta Byron la definì «il grande codice dell’arte», espressione poi ripresa dal critico N. Frye che ne fece un libro[1]. In questa carrellata di umanità disparata non poteva mancare l’interesse per gli amici. È così che il codice della Bibbia è stato capace di suscitare simboli che sono rimasti nell’immaginario di ognuno (Frye le chiamava imagery), anche dei non cultori del libro biblico.
Famoso è il personaggio di Giuda che incarna l’amicizia tradita: «Amico, per questo sei qui» (Mt 26,50), sono le parole che Gesù rivolge al traditore dopo aver ricevuto il suo bacio. Rimanendo ai Vangeli non si può dimenticare l’amicizia di Gesù per la famiglia di Betania: Marta, Maria e Lazzaro. Quando questi muore Gesù dirà: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Come pure la nomea di amico dei pubblicani e dei peccatori che portò Gesù ad essere inviso alle autorità.
Sono tante le espressioni bibliche che fan riferimento all’amicizia, soprattutto nei libri sapienziali. Ecco due menzioni fra tante:
«Un amico fedele è medicina che dà vita:
lo troveranno quelli che temono il Signore» (Sir 6, 16).
«Un amico fedele è rifugio sicuro:
chi lo trova, trova un tesoro» (Sir 6,14).
Un detto divenuto famoso quello che recita «chi trova un amico trova un tesoro». Ma il primo personaggio biblico ad essere definito amico, nientemeno che di Dio, fu Abramo. Il profeta Isaia lo chiamò così: «Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo, mio amico» (Is 41,8). Gli fa eco il libro di Daniele: «Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico, di Isacco, tuo servo, di Israele, tuo santo» (3,35) e il secondo libro delle Cronache: «Non hai scacciato tu, nostro Dio, gli abitanti di questa terra di fronte al tuo popolo Israele e non l’hai data per sempre alla discendenza del tuo amico Abramo?» (20,7). Fino al secondo testamento dove troviamo nella lettera di Giacomo: «E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio» (2,23).
E se l’Autore della lettera di Giacomo insisté sulle azioni compiute da Abramo come qualificanti la sua fede, dall’altra Paolo di Tarso rovesciò la medaglia, nella lettera ai Romani, ponendo la fede di Abramo avanti le sue opere e grazie a questa e solo per questa fu giustificato.
Qui non vogliamo affrontare l’argomento arduo e complesso della giustificazione e della grazia che attiene alla teologia. Ma vogliamo semplicemente declinare in che modo il racconto biblico ci parla della relazione fra Dio e Abramo. Che tipo di amicizia fu? Abramo meritò questo rapporto così particolare? Vi corrispose sempre? Sembra un argomento interessante visto che è divenuto paramento del dono della vita divina all’uomo di fede e della grazia che salva. Senza tralasciare il fatto che Abramo viene considerato il padre delle tre grandi religioni monoteiste, anche se a taluni appare difficile definire il Cristianesimo come un monoteismo.
Poiché la bibbia ama preferibilmente narrare che esporre teorie, proveremo a risalire la china dei racconti delle vicende di Abramo per capire questo rapporto di amicizia e per comprendere alla fine che Abramo non fu così distante da noi, dalle nostre attese ed emozioni, dai nostri punti di vista che appaiono incrollabili e che vengono messi a dura prova dalle istanze e dalle promesse divine che subito non si svelano.
C’è un episodio della vicenda di Abramo narrata nel libro della Genesi (18, 25-32) che sembra porre in evidenza più di altri, più della stessa chiamata, il rapporto di amicizia particolare fra lui e Dio, ed è il racconto della trattativa circa la distruzione della città di Sodoma. A Dio che aveva già deciso la sorte della città Abramo fa presente la possibile presenza in essa di persone giuste. E di dieci in dieci a scendere riesce a carpire un pezzo di benevolenza di Dio. Questo episodio mette in evidenza una caratteristica del patriarca che ritorna più volte nei racconti, ovvero la sua indiscutibile capacità di negoziare. Si tratti di un pozzo, di divisione del territorio, della terra per la tomba della moglie Sara, di come trovare moglie per Isacco suo figlio o di Dio stesso, come nel caso suddetto, Abramo è imbattibile.
Un po’ meno, parecchio meno, quando si tratta di aver fede nelle parole divine e questo appare incredibile per tutto quello che normalmente si pensa di lui. Ma Dio sembra non preoccuparsene. Come del resto fanno i veri amici.
Anche l’esegesi rabbinica ha guardato con favore la capacità abramitica di trattare, quando serve a salvare persone. I maestri della Torah, infatti, non hanno accordato uguale benevolenza a un altro famoso patriarca, Noè, che ricevette il comando di costruire un’arca a motivo dell’imminente diluvio. Questi, a differenza di Abramo, non fece nulla per contrastare il proposito distruttivo.[2] Noè fu uomo obbediente che non poneva domande, «camminava con Dio» (Gen 6,9) ma con Lui non istaurò alcun rapporto, forse a motivo della fine di ogni cosa che stava per arrivare. Con Abramo che «camminava avanti a Dio» (Gen 17, 1) si richiedeva, invece una relazione attiva, paziente ed amichevole.
E di pazienza con Abramo bisogna averne molta. Un lettore moderno del testo biblico si sorprenderebbe di trovare nella vita del patriarca alcuni tratti imbarazzanti. Questi fanno da contraltare alle evidenti capacità mediatorie già ricordate, al suo essere esperto di armi e di guerriglia (Gen 14, 14-16), di uomini e di alleanze (Gen 17, 17-24) e capace imprenditore del mondo antico (Gen 24, 34-35).
Eppure le prime parole in assoluto di Abramo nella Bibbia, subito dopo la chiamata di Dio, proferiscono una bugia, facendo passare Sara, agli occhi del faraone egiziano, come una sorella invece che la moglie[3]. Un episodio che si ripeterà più avanti con un altro re (cap. 20). Nonostante la reiterata promessa divina che sicuramente avrà una discendenza, acconsentirà, più avanti, al proposito di Sara di avere un figlio con la schiava Agar; ma quando le due donne entreranno in conflitto la scaccerà nel deserto, pur a malincuore, con solo un pane e un otre di acqua. Quando col figlio Isacco salirà verso il monte Moria, luogo del suo sacrificio, caricherà la legna sulle spalle del figlio. Quale padre avrebbe fatto questo sapendo a quale sorte andava incontro?
Ma Abramo, giustamente, è ricordato soprattutto per la fede: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15, 6). Ma questa fede evidentemente è dovuta crescere e maturare, passando al vaglio di prove importanti, oltre al fatto che a suscitarla è stata una parola e una promessa divina, più e più volte ricordata.
Nel Libro della Genesi (cfr. 12) Dio parlò per la prima volta ad Abramo. L’espressione usata in ebraico, è piaciuta molto agli psicanalisti: לֶךְ-לְךָ (lek leka) “Va per te” o “Va verso di te”[4]. Una parola nuova, personale, rivolta ad Abramo figlio di Terack, lo invitava a lasciare il padre e ad andare verso una terra per diventare una nazione benedetta. Partì, ma come spesso accade, l’entusiasmo si perse per strada. Il viaggio fu faticoso, a tappe, le genti ostili e, soprattutto, quale discendenza avrebbe potuto avere se un figlio non arrivava? È così che, vuoi per le difficoltà, vuoi per l’età che avanzava, si accontentò. In fondo il figlio della schiava, Ismaele, era già qualcosa. Così a un certo punto Abramo sbottò davanti a Dio: «Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!» (Gen 17, 18). Finché dinanzi all’ennesima promessa di un figlio loro, Abramo e Sara scoppiarono a ridere. Abramo addirittura si piegò in due dalle risa (Gen 17, 17).
Ma ecco la svolta. Sara partorì davvero un figlio ad Abramo: Isacco, il promesso. Ma quale amico ti fa un regalo simile: Isacco, dall’ebraico יִצְחָק alla lettera “il figlio che ride, che suscita la risata, che si può prendere in giro e dileggiare[5]? Che proprio per questo diventò la causa dell’allontanamento dell’altro figlio, Ismaele, che non aveva difetti?
Abramo rimase senza parole alla nascita del figlio, poiché il testo riporta solo le parole di Sara, che parlavano di riso e risata. Chi è mai questo figlio che l’amico Dio ha mandato? Bisogna accettare questo dono? Poiché Isacco, fra tutti i patriarchi biblici è sui generis. Non ebbe mai il ruolo del protagonista e apparve da subito privo di personalità propria. Non riuscì neanche a trovarsi la moglie da solo e questa, Rebecca, quando lo vide finalmente da vicino, cadde dal cammello. Non a caso diversi commentatori, sia ebrei che cristiani, hanno messo in evidenza che Isacco potesse essere un figlio non perfetto, disabile, figlio autistico di un padre ormai vecchio[6]. Immaginiamo i sentimenti di Abramo se questa doveva essere la realizzazione della promessa. Come accettare tutto questo?
È a questo punto che la narrazione biblica ci presenta uno degli episodi più affascinati e drammatici di tutta la sua letteratura. Il racconto del sacrificio o meglio della עֲקֵדָה (aqedàh, la legatura) di Isacco nel capitolo 22. Un episodio che ha ispirato artisti e commentatori dall’antichità fino ad oggi. Non è possibile qui darne conto, ma possiamo proporre una interpretazione che ben si lega con quello che si è venuto dicendo finora circa il rapporto fra Dio e Abramo.
Innanzitutto fu un nuovo inizio. Ritroviamo al versetto 2 lo stesso “lek leka” (va per te, verso di te) del capitolo 12. Di nuovo un andare verso sé stessi. Ma questa volta la promessa si è realizzata, in maniera inaspettata. Dove deve andare Abramo? La salita al monte Morìa, col solo dialogo circa un ariete da trovare, è straziante. Nonostante l’esito alla fine felice, l’episodio conserverà la sua tragicità: nel silenzio che cala durante il ritorno a casa dei due, nella mancanza di esultanza o di gioia, nella successiva separazione fisica fra il padre e il figlio e nella morte di Sara che un מדרש (midrash)[7] fa discendere dal fatto di essere venuta a sapere ciò che stava per succedere sul monte.
Che cosa dunque era accaduto? Che Abramo era stato chiamato ad accettare la promessa di Dio, nella persona di Isacco, figlio imperfetto. Per questo la sua fede venne provata e ne uscì rafforzata. L’amico aveva compreso finalmente quel che gli era stato chiesto fin dall’inizio, anche se inaspettato e lontano dalle sue prerogative e caratteristiche psicologiche. Ma Abramo andò verso di sé, per aprirsi ad un nuovo sé e al tu del figlio finalmente sciolto e lasciato libero di andare.
Qualcuno, molti secoli dopo avrebbe detto: «Dio sceglie ciò che nel mondo è debole» (1Cor 1,27). Probabilmente è questo che la fede di Abramo doveva drammaticamente comprendere: accogliere nella persona fragile di Isacco la promessa. Solo quando avrà capito sceglierà per Isacco una donna con la quale consolarsi per la morte della madre, gli conferirà ogni suo bene, lo proteggerà dai possibili concorrenti e se ne morirà «sazio di giorni» seppellito dai suoi figli Isacco e Ismaele finalmente riuniti (Gen 25,9).
La vicenda di Abramo e Dio può essere letta in molti modi. La Bibbia al di là dei risvolti che fanno capo alla fede e che passando per San Paolo e Giacomo sopra citati sono arrivati fino ad oggi, la Legge come una storia di amicizia. Con tutti i suoi toni e variazioni, poiché Abramo rimane un uomo con la sua personalità fatta di limiti e grandezze. Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15, 15).
dall’Eremo, 17 giugno 2023
Note
[1] N. Frye, Great code, Bible and literature, 1981 (trad. it.: Einaudi, 1986)
[2] Il parallelo fra il diluvio e la distruzione di Sodoma è stato colto da molti. Si tratta di distruzioni totali. Solo una famiglia si salva in ambedue i casi. La presenza di rapporti incestuosi nei due racconti, da cui nascono tribù non ebree (Cananei da Cam, figlio di Noè e Moabiti e Ammoniti dalle figlie di Lot).
[3] Anche se è vero, poiché erano figli dello stesso padre, ma di madri diverse.
[4] Ugualmente Noè riceve il comando di fare un’arca di cipresso “per te” (Gen 6, 14)
[5] la radice del nome (zade/chet/qof) con questi sensi, compare 179 volte nella Bibbia di cui 112 volte riferita ad Isacco in Genesi
[6] Marmorini G., Isacco, il figlio imperfetto, Claudiana 2018; Baharier H., La Genesi spiegata da mia figlia, Milano 2015
[7] Nd.R. Midrash, dall’ebraico מדרש, termine che indica un metodo di esegesi biblica della tradizione ebraica
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Le parolacce del prete, i latinismi dei novelli catto-kaifani affetti da analfabetismo dottrinale e le risate del vecchio Cardinale disincantato
/2 Commenti/in Theologica/da Padre ArielLE PAROLACCE DEL PRETE, I LATINISMI DEI NOVELLI CATTO-KAIFANI AFFETTI DA ANALFABETISMO DOTTRINALE E LE RISATE DEL VECCHIO CARDINALE DISINCANTATO
«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».
— Attualità ecclesiale —
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A distanza di tempo un Cardinale con decenni di vita trascorsi nella Curia Romana mi ha confidato che anni fa giunse in Vaticano una lettera sottoscritta da diversi “cattolici integrali” che fece il giro di tutti gli uffici di quella sezione della Segreteria di Stato, facendo sganasciare dalle risate i monsignori che se la girarono tra di loro di scrivania in scrivania. Oggetto della protesta ero io, presentato come prete altamente indegno poiché colpevole di scandalizzare gli immacolati fedeli facendo talora uso di parole colorite non consone a un ministro in sacris. Per questo invocavano severe sanzioni canoniche a mio carico. Latori della petizione erano quei personaggi da sempre noti a noi preti, quelli dotati di una tal vocazione nello straccio delle vesti da far figurare Kaifa che s’incazza dinanzi al Sinedrio come un principiante alle prime armi.
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Questi personaggi si sentono anzitutto nobili soldati posti come alabardieri a difesa della vera tradizione cattolica e della più rigida morale sessuale applicata sempre e di rigore agli altri, giammai a sé stessi e meno che mai ai loro figli, figlie e nipoti, solo a figli e nipoti altrui. Per loro la Chiesa nasce improvvisamente nel 1570 con il Messale Romano promulgato dal Santo Pontefice Pio V, dal quale saltano direttamente agli inizi del Novecento, al pontificato del Santo Pontefice Pio X, colui che condannò quel tremebondo Modernismo che gli Alabardieri conoscono alla stessa stregua del latino del messale tridentino.
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Gli Alabardieri hanno tre fisse: il latino, San Tommaso d’Aquino e la lotta al Modernismo. Per quanto riguarda il latino mi limiterò a ricordare che anni fa, pigliando copiosamente per il culo i membri di un circolo di cosiddetti e impropriamente detti “tradizionalisti”, gli cantai sul metro del prefazio gregoriano la Poesia del Passero di Valerio Gaio Catullo dicendo infine: «Questa sì che è sacra liturgia, mica quel messalaccio di Annibale Bugnini approvato dall’improvvido Santo Pontefice Paolo VI!» [cfr. vedere QUI]. E tutti mi dettero ragione godendo dal settimo cielo. Ebbene, per quanto insolito possa apparire sappiate che persino io sono dotato di comune senso del pudore, per questo evitai di aggiungere il canto di qualche colletta prendendo dai carmina catulliani delle squisitezze del tipo:
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«Pedicabo ego vos et irrumabo, Aureli pathice et cinaede Furi, qui me ex versiculis meis putastis, quod sunt molliculi, parum pudicum»¹.
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Se però lo avessi fatto gli Alabardieri avrebbero ulteriormente confermato che quella sì, che era la lingua degli angeli che dalle panche oltre la balaustra dell’altare ti porta direttamente in Paradiso, mica grazie ai sacri misteri, ma grazie al magico latinorum fine a sé stesso. Per questo mi limitai alla Poesia del Passero spacciata per prefazio evitando di mutare in collette certi carmina lussuriosi, che ovviamente conosco a memoria sin dai tempi del liceo classico.
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Segue San Tommaso d’Aquino, che questi Alabardieri conoscono alla stregua del latino del Messale tridentino, incapaci a comprendere che il Doctor Angelicus e Doctor Communis parla dei misteri della fede e fornisce un efficace e tutt’oggi insuperato metodo speculativo, ma né il suo metodo né la sua straordinaria produzione in sé costituiscono verità immutabili della fede. Prendiamo un esempio tra i tanti: oggi la dottrina cattolica insegna che l’anima è insufflata nell’essere vivente sin dal momento del concepimento. L’Aquinate, che seguiva il metodo speculativo di Aristotele, sostiene che nel corso della crescita del feto si sviluppano in successione: prima un’anima vegetativa, poi un’anima sensitiva, infine, quando lo sviluppo sia adeguato a ricevere l’anima intellettiva, questa è infusa direttamente da Dio al terzo mese di gravidanza [cfr. Summa Theologiae Iª q. 118 a. 2 ad 2].
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Diversa idea aveva l’Aquinate anche riguardo la immacolata concezione della Beata Vergine Maria, ritenendo che non fosse nata senza peccato originale ma che subito dopo il suo concepimento ricevette una straordinaria santificazione nella sua anima che cancellò il peccato originale [cfr. Summa Theologiae IIIa, q. 27, a. 3 ad 3]. Capite bene che tra concezione senza peccato originale e cancellazione del peccato originale, la differenza non è meramente semantica, ma proprio sostanzialmente teologica.
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Altrettanto singolare il modo in cui gli Alabardieri giustificano il fatto che alla base del metodo speculativo dell’Aquinate vi sia il genio e la scienza del paganissimo Aristotele. Presto confezionata e data la risposta: Aristotele era di fatto cristiano, avendo percepito secoli prima, pur senza rendersene conto, il mistero della incarnazione del Verbo di Dio. Si tratta di una affermazione tanto cretina quanto illogica che prese a circolare negli ambiti della neoscolastica decadente di fine Ottocento. I pappagalli della non meglio precisata tradizione che oggi la ripetono e la propagano come una verità di fede, non si rendono neppure conto che a questo modo stanno definendo Aristotele “cristiano anonimo”, secondo la controversa e pericolosa teoria di Karl Rahner, altro loro nemico giurato, sebbene non conoscano neppure il titolo delle sue principali opere. Poco conta, perché la cultura cattolica e teologica dell’Alabardiere della vera e pura tradizione si basa su un castello di «si dice che …».
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Infine lo spettro diabolico del Modernismo, di cui gli Alabardieri parlano prendendo mossa da una mancanza totale di conoscenza, oltre che di spirito critico. Poi, se a loro supporto ci si mette un prete squinternato, scomunicato e dimesso dallo stato clericale, il danno irreparabile è presto fatto. Non tutti i provvedimenti che fecero seguito alla Enciclica Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X furono affatto lungimiranti, anzi favorirono in parte lo sviluppo di un pericoloso Modernismo reattivo, dall’altra cristallizzarono la speculazione teologica in quattro formule stagnanti e rancide della neoscolastica decadente, impedendo di fatto ai teologi di speculare al di fuori di quelle quattro formule sclerotiche e intangibili. Questo mentre sull’altro versante, i Protestanti, portavano avanti studi molto approfonditi sulle scienze bibliche e la esegesi, ai quali decenni dopo fummo costretti a rifarci, dopo essere rimasti paralizzati per decenni in quelle quattro formule sclerotiche e intangibili che costituivano la fallimentare lotta del Santo Pontefice Pio X — o meglio di chi per lui — contro il Modernismo, che a posteriori possiamo affermare che andava sì condannato e contrastato, ma in tutt’altro modo, non nel modo gretto che spesso fu adottato.
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Tra i tanti studiosi protestanti cito a titolo di esempio il grande commento alla Lettera ai Romani del teologo Karl Barth, che rimane tutt’oggi insuperato nell’ambito della esegesi novo testamentaria e alla quale tutti noi dobbiamo di necessità rifarci.
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Non si può parlare del Modernismo se non si conosce e non si è mossi dalla consapevole onestà ch’esso nacque e si sviluppò come pensiero reattivo in seno a una Chiesa che nel corso di tutto l’Ottocento si era incartata in questioni di carattere puramente politico ― indubbiamente giustificate dalla storia e dagli eventi di quegli anni successivi alla Rivoluzione Francese ―, mentre la teologia cattolica languiva e ristagnava in forme di vera e propria ignoranza. Quindi non è possibile parlare del Modernismo se non partendo da un dato di fatto: il francese Alfred Firmin Loisy e l’italiano Ernesto Buonaiuti sono due figure da annoverare nella rosa dei più brillanti pensatori del Novecento. Solo dei bigotti illetterati o qualche prete squinternato possono trattarli con eretical sufficienza dall’alto della loro totale mancanza di conoscenza. E concludo precisando, a onor del vero, che da Santa Madre Chiesa Ernesto Buonaiuti fu trattato con una tale e feroce mancanza di carità cristiana che grida davvero al cielo, piaccia o meno agli Alabardieri in lotta contro lo spettro di quel Modernismo che non conoscono e di cui il Santo Pontefice Pio X, che giustamente e prudentemente lo condannò, al tempo stesso ne favorì lo sviluppo e la diffusione grazie a provvedimenti e azioni repressive tutt’altro che lungimiranti. Ma su questo tema molto complesso e articolato sto preparando un libro, se non crepo prima.
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Forse il Cardinale mio interlocutore aveva voglia di ridere ulteriormente, per questo l’ho esaudito cominciando col dire: È vero, Eminenza, dico parolacce, ahimè! A volte ne dico anche tante e qualche cattolico o cattolica da cupa sacrestia me lo rimprovera sui moderni social media, anzi prendo atto che hanno protestato scrivendo anche a voi, a quanto mi dice. Taluni di questi mi hanno persino detto che sono troppo esplicito, per esempio nei riferimenti ― a mio parere del tutto naturali e scientifici ― alla sessualità umana, perché a loro dire dovrei usare degli eufemismi, per esempio delle terminologie latine, non termini troppo espliciti. E, come risaputo, il latino piace terribilmente a tutti quelli che non lo conoscono, perché fa molto chic.
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Eminenza, il problema non è il latino, che io conosco. Il problema è chi il latino non lo conosce. Mi spiego: per quanto mi riguarda posso anche sbottare dicendo «Mentulam fregistis!». Se però poi non traduco che ciò significa alla lettera «avete rotto il cazzo», chi è che capisce questa aulica espressione ciceroniana in splendido latino?
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Il Cardinale si mette a ridere come non osò fare neppure all’epoca in cui, giovane monsignore di curia che era, negli anni Ottanta vide il film Il Marchese del Grillo assieme a Giovanni Paolo II e altri prelati. Il quale Giovanni Paolo II, a quanto il Cardinale stesso riferisce in camera caritatis, pare abbia commentato la pellicola dicendo che regista e sceneggiatore avevano capito proprio tutto della Roma papale.
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Lascio il Cardinale terminare le sue risate e proseguo: talvolta noi preti siamo come certi premurosi medici della mutua, che prescritta la ricetta dicono al povero ignorante illetterato: «Queste supposte devono essere assunte pro rectale via». Errore gravissimo! Perché a quel punto delle due l’una: o a quel paziente viene detto a chiare lettere che la supposta va spinta dentro il buco del culo, oppure finirà per essere portato al pronto soccorso dopo avere ingurgitato supposte per un mese ingoiandole con un bicchiere d’acqua.
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Perché certe pudibonde orecchie delicate anelano tanto quei latinismi che non capiscono? Forse perché vogliono che la Chiesa usi delle formule magiche che tanto più sono incomprensibili tanto più sarebbero efficaci? Ve lo spiego perché anelano latinismi: perché non hanno mai fatto i confessori, tanto per cominciare. O pensate che a dei Santi confessori come San Leopoldo Mandic e San Pio da Pietrelcina si presentassero, pentiti e pentite, libertini e donne di facili costumi a parlare di fellatio, cunnilingus, ani commercium, fornicationem contra naturam, irrumatio, cheiroerastia …
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Si provi a immaginare un uomo che confessa di avere avuto un rapporto sessuale con un altro uomo, oggi va tanto di moda, anzi fa proprio tendenza, al punto che non è più peccato ma alta espressione d’amore (!?). Soprattutto si provi a immaginare me, confessore, che per adempiere a quanto esigono certi cattolici e cattoliche dalle orecchie delicate e per questo anelanti latinismi, mi metto a interloquire con il penitente così:
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«… in manum tuam veretrum alterius acciperes, et alter tuum in suam, et sic alternatim veretra manibus vestris commoveritis, ut sic per illam delectationem semen a te proiiceres? Si fecisti, triginta dies in pane et acqua poenitas!»².
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L’anziano Cardinale ha rischiato a questo punto di cadere dalla sedia disteso sotto il tavolo, mentre proseguivo: … insomma, Eminenza, posso fare anche felici coloro che anelano sentire latinismi, posso anche dirgli pro via rectale, salvo poi ingoiare le supposte per un mese intero anziché mettersele nel buco del culo. Posso anche rispondere a certi sedicenti cattolici altamente arroganti e irriverenti verso noi presbiteri sbottando «Tace. Maxima mentula demens!». Dopodiché, chi gli spiega che gli ho appena detto «stai zitto grandissima testa di cazzo»? O credono forse di poter tradurre le terminologie di una antica lingua morta con il motore di ricerca Google?
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Sorride il Cardinale dall’alto dei suoi ottant’anni da tempo passati, nel corso dei quali ha visto nella Chiesa di tutto e di più, compresi eserciti di farisei, pelagiani e puritani pieni di vizi privati e propagatori delle più rigide pubbliche virtù reclamate sempre e di rigore sulla pelle degli altri. Dicendomi infine con tono tenero e paterno:
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«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».
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Sì, ne abbiamo bisogno, perché dovendo scegliere se piangere o se ridere, tutto sommato è sempre meglio ridere con la santa ironia della fede. E per concludere con una risata. Accadde che dei ragazzi toscani irridenti e irriverenti in vena di scherzi telefonano al Convento dei Frati Minori Cappuccini di Firenze esordendo:
«… pronto? Senta Padre e c’abbiamo sottomano du’ puttane e un si sà che fassene, le possiamo mandà a voi?».
Risponde serio il Cappuccino all’altro capo del telefono:
«… ’o Figliolo, noi qua siamo in sedici, con du’ sole puttane ‘i che voi che ci facciamo, un ci si po’ manco liscià i’ cazzo!».
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E stiamo a parlare dei miti e serafici Cappuccini, immaginate cosa gli avrebbero risposto se avessero chiamato il Convento di quei pitt-bull dei Domenicani.
Dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2022
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NOTE
¹ Cfr. Catullo (Carme 16) traduzione dal latino classico: «Io ve lo caccerò su per il culo e poi in bocca, Aurelio succhiacazzi e Furio finocchio sfondato, che per dei miei versi (poetici) teneri e gentili, avete pensato ch’io sia un rottinculo».
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² Da un’antica raccolta di Penitenze Tariffate, traduzione dal latino medioevale: «Hai preso in mano il cazzo di un altro uomo e lui il tuo, dopodiché, in questo modo, avete giocato con i rispettivi cazzi attraverso le vostre mani, fino a eiaculare di piacere? Se lo hai fatto, ti impongo trenta giorni a pane e acqua come penitenza».
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È in distribuzione “Amoris Tristitia”, ultima opera editoriale di Ariel S. Levi di Gualdo dedicata alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra
/in Theologica/da Jorge Facio LinceÈ IN DISTRIBUZIONE AMORIS TRISTITIA, ULTIMA OPERA EDITORIALE DI ARIEL S. LEVI di GUALDO DEDICATA ALLA MEMORIA DEL CARDINALE CARLO CAFFARRA
«Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva».
— Novità editoriali —
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Il 6 settembre ricorre il V° anniversario della morte del Cardinale Carlo Caffarra che nel 1981 fu incaricato dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II di fondare l’Istituto per studi su matrimonio e famiglia. L’opera di Padre Ariel S. Levi di Gualdo è una disamina critica della Amoris Laetitia in rapporto alla Humanae Vitae. Riguardo la Amoris Laetitia l’Autore scrive:
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«Dopo la chiusura del Sinodo sulla famiglia l’utero dell’elefantessa partorì il 19 marzo 2016 il topolino di campagna della Esortazione Apostolica post sinodale Amoris Laetitia, un marchingegno di ambiguità costruito sul detto e non detto, su frasi ambigue a doppio senso, sentimentalismi emotivi e tanti sociologismi che decretano di fatto la morte di quello che per secoli è stato il linguaggio preciso, deciso e non passibile di equivoci del Magistero della Chiesa sorretto sui più solidi e chiari principi della metafisica classica, da tempo messa in soffitta per lasciare spazio al romanticismo tedesco decadente e al cuoricino che palpita e che guarda all’immediato del proprio soggettivo “io” anziché al futuro e a Dio. Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva, come a volte è accaduto a intervalli ciclici nella storia della Chiesa, anche se mai ai livelli desolanti di questi nostri tempi […] Qualche superficiale potrebbe fraintendere, in buona o anche in mala fede, obiettando che in queste pagine ho rivolto severe critiche a una Esortazione Apostolica data dal Romano Pontefice. Chiunque mi accusi di ciò sarebbe in grave errore, perché non critico affatto una norma data, dinanzi alla quale tacerei ed eseguirei quanto disposto dal sommo magistero. Ciò che critico è una norma non data e delle domande alle quali non è mai stata data risposta, lasciando il tutto avvolto nell’ambiguità. Questo è l’oggetto della mia critica: la mancanza di una norma assieme alla mancanza di chiarezza e di risposta. Il fedele servitore della Chiesa ragiona, dibatte e critica fin quando è consentito. Dopo che la Chiesa ha parlato il suo compito è di eseguire e trasmettere gli insegnamenti e di osservare le norme date, salvo creare in caso contrario scandalo nel Popolo di Dio e fratture della comunione ecclesiale. Nessuno, sacerdote o laico cattolico che qualsivoglia, può dissentire e sostituire le proprie personali opinioni all’autorità della Chiesa, a questo ci pensano i teologi tedeschi, da sempre è loro prerogativa e privilegio pontificio».
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È cosa nota e risaputa quanto Padre Ariel sia un pensatore, un analista e un teologo che quando graffia lascia il segno. E chi il graffio lo riceve, in genere ha due possibilità: o tenerselo e curare la ferita, oppure ritrovarsi in gravi difficoltà a smentire ciò che di vero e incontestabile ha scritto. Questo il motivo per il quale è accaduto nel corso del tempo che più volte, varie persone che si sono sentite ferite dalle sue parole o dai suoi rimproveri, non potendolo smentire né volendo dibattere nel merito delle precise questioni sollevate si sono attaccate alla forma espressiva, che nel caso di questo scrittore è spesso ironica, talvolta persino colorita. Ma d’altronde è noto: a questo modo agivano già a suo tempo i farisei.
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Dibattendo sul delicato tema della Humanae Vitae l’Autore si colloca nel mezzo in un punto di equilibrio tra coloro che vorrebbero relativizzarla e coloro che vorrebbe invece «dogmatizzare un preservativo rinchiudendo al suo interno la morale cattolica e l’intero mistero del male». A tal proposito precisa:
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«Desidero chiarire sin dall’inizio di questa mia esposizione che a certi generi di pensieri e giochi perversi non ci sono mai stato né intendo starci come uomo e come cattolico, come presbitero e come teologo. Questo libro intende esserne prova lucida e obiettiva in aperta critica rivolta sia a coloro che vorrebbero applicare alla Chiesa il carente senso morale del mondo e la sua sessualità disordinata e senza alcuna regola, sia a coloro che sono animati da quelle forme di cupo moralismo che niente ha da spartire con la sana e autentica morale cattolica, retta sulla più importante delle virtù teologali: la carità (cfr. I Cor 13), non certo sul principio della summa lex summa iniuria (la somma giustizia equivale spesso alla somma ingiustizia). E la verità si regge sulla carità, mentre la carità è tale se retta dalla verità (cfr. Caritas in veritate). Perché è sulla carità che saremo giudicati da Dio».
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Dall’Isola di Patmos, 30 agosto 2022
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L’Arcivescovo Vincenzo Paglia non è semplicemente il “fratello idiota” di Don Abbondio ma la meretrice di Babilonia genuflessa dinanzi al Principe di questo mondo
/2 Commenti/in Theologica/da Padre ArielL’ARCIVESCOVO VINCENZO PAGLIA NON È SEMPLICEMENTE IL FRATELLO IDIOTA DI DON ABBONDIO MA LA MERETRICE DI BABILONIA GENUFLESSA DINANZI AL PRINCIPE DI QUESTO MONDO
«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» (Augusto Del Noce, 1971)
— Attualità —
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Dell’Arcivescovo Vincenzo Paglia mi sono già occupato epitetandolo fratello idiota di Don Abbondio, oggi merita il titolo di meretrice di Babilonia genuflessa al Principe di questo mondo [cfr. Gv 14, 30]
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«Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli abomini della terra”» [Ap 17, 5].
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Le dichiarazioni fatte da questo idiota nel senso etimologico del termine ― dal greco ἰδιώτης (idiòtes) che significa “uomo privato” e indica la persona incompetente, inesperta e inetta ― sono di una gravità senza precedenti, tanto più ricoprendo il delicatissimo ruolo di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Partecipando di recente al programma Il tetto che scotta sulla sinistrissima e politicamente corretta Rai Tre ha magnificato la legge 194 del 1978 sull’aborto legalizzato affermando: «Io penso che ormai la Legge 194 sia un pilastro della nostra vita sociale». Dopo essersi arrampicato per 40 secondi sugli specchi, alla secca domanda dell’intervistatrice che lo ha incalzato: «Lei dice che non è in discussione la Legge 194?». L’Idiota ha replicato: «Ma no, assolutamente … assolutamente!».
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Parole di per sé nemmeno commentabili dinanzi alle quali torna alla mente una frase del filosofo Augusto Del Noce che dipinse la nostra situazione attuale scrivendo queste parole profetiche quattro decenni fa:
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«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» [Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? Rusconi Editore, Iª ed. 1971]
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Può un vescovo compiacere il mondo con simile piaggeria, anziché contrastare chi proclama l’aborto «diritto sacrosanto» e «grande conquista sociale»? A un vescovo legittimo successore degli Apostoli e membro del Sacro Collegio Apostolico va tributato rispetto, sempre, a prescindere dalle sue debolezze, fragilità e mancanze di meriti oggettivi che possono fare di lui un personaggio anche al di sotto della mediocrità. Come confessore e direttore spirituale di numerosi preti ho udito spesso i lamenti di diversi confratelli che mi spiegavano quanto il loro vescovo fosse un emerito idiota. E avevano ragione, perché tale era nei disastrosi fatti concreti. E a tutti loro ho sempre risposto:
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«… e a questo emerito idiota devi filiale rispetto e devota obbedienza, sempre e a prescindere. Pertanto cerca di vivere la oggettiva idiozia del tuo vescovo come una prova di fede. Puoi non stimarlo, perché la stima non gli è dovuta, se la vuole quella deve guadagnarsela. Ma il rispetto e l’obbedienza sì, gli è sempre dovuta e non può essere in alcun modo cancellata dai suoi demeriti di cui al momento opportuno dovrà rispondere a Dio come sta scritto: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”» [Lc 12, 48].
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Da una parte raccolgo le lamentele dei preti verso i loro vescovi, dall’altra quelle di diversi vescovi che non ce la fanno più con certi preti. E hanno ragione gli uni e gli altri. Ormai da anni, a preti che si lamentavano dei loro vescovi non particolarmente amabili, paterni o dottrinalmente brillanti replico: «Tra non molto tempo tu e i tuoi confratelli rimpiangerete il vostro vescovo con le lacrime agli occhi». Frase ripetuta a decine di preti a partire dal 2017, quando i massimi vertici della Chiesa Cattolica superarono la soglia del non-ritorno festeggiando i 500 anni della pseudo-riforma di Martin Lutero, che non fu affatto un «riformatore», come lo dipinse La Civiltà Cattolica, né un soggetto sul quale si possa dire: «Credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. Era un riformatore». Perché così il Sommo Pontefice Francesco definì in un suo sproloquio a braccio in aereo ad alta quota questo diabolico eresiarca che dette vita a un drammatico scisma, non certo a una riforma. Quella la fece il Concilio di Trento, non Lutero. Oggi, gli stessi preti, mi scrivono, mi telefonano o a tu per tu mi dicono: «Avevi ragione, potessi riavere il precedente vescovo di cui tanto mi sono lamentato non gli bacerei la mano ma i piedi!».
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Stendo un velo pietoso sui criteri di selezione dei nostri nuovi vescovi sotto questo augusto pontificato, tutti col povero e il migrante sulla bocca, tanto che dopo averne udito uno si sono udite tutte le omelie episcopali pronunciate da nord a sud, da est a ovest dai vescovi italiani.
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Che i nostri non siano tempi di “aquile reali” è chiaro a chiunque abbia anche un minimo lume di ragione. Per questo merita delineare la differenza che corre tra un vescovo idiota al quale sono sempre dovuti filiale rispetto e devota obbedienza, da un vescovo ridotto a una meretrice di Babilonia genuflessa alle ginocchia del Principe di questo mondo. All’Arcivescovo Vincenzo Paglia deve essere pubblicamente tributato tutto quel santo sprezzo che qualsiasi credente è tenuto a riversare su ciò che è male e che come tale costituisce grave peccato, nel caso specifico il delitto di aborto, regolamentato nel nostro Paese da una Legge che non è affatto un «pilastro della nostra vita sociale» ma il peggiore dei crimini legalizzati perpetrati contro la vita. Ecco perché non bisogna prestare filiale rispetto e devota obbedienza all’Arcivescovo Vincenzo Paglia, perché abusando nel modo peggiore dell’episcopato ha espresso dei concetti che contraddicono l’impianto della nostra morale e della nostra etica che si reggono entrambe sui pilastri del deposito della fede cattolica. Rimane un vescovo legittimo rivestito di una importante e delicata carica ecclesiastica, questo è fuori discussione. Però, se la sua potestas che comporta anzitutto la suprema custodia della dottrina della fede la esercita per negare in modo sacrilego i fondamenti della morale e dell’etica cattolica, in tal caso non deve essere né ascoltato, né ubbidito né seguito e meno che mai rispettato, ma bensì reso oggetto di santo sprezzo cristiano.
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Vincenzo Paglia è una vergogna dell’episcopato appartenente a quella nefasta categoria di persone verso la quale tuonano le Sacre Scritture:
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«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» [Ap 3, 15-16].
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Assieme a Vincenzo Paglia rischiano di essere vomitate dalla bocca dell’Onnipotente anche tutte le ambiguità e le doppiezze di questo pontificato al quale va il grave e oggettivo demerito di avere inserito in tutti i più delicati posti chiave soggetti immorali e palesemente eterodossi, correndo a questo modo il rischio di «[…] passare agli annali come un inseguimento eccentrico del nuovo e del sensazionale come surrogato della ricerca di senso, che ha finito col produrre una confusione dottrinale e pastorale mai verificatasi in precedenza nella storia della Chiesa».
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Parole quest’ultime con le quali apro il mio libro dedicato alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra che entrerà in distribuzione i primi di settembre e che vi invito a leggere, non altro per risollevarvi un po’ d’animo, per acquisire fiducia sul fatto che non tutto è perduto e per poter toccare con mano che in mezzo a tanti pavidi conigli in carriera che stanno de-costruendo i fondamenti stessi della dottrina cattolica, esistono sempre anche i leoni che aspirano alla conquista del premio della vita eterna come loro unica ambizione di carriera. Leoni che è bene non andare a infastidire con la parolina di stizzoso rimprovero clericale, perché mordono e sbranano, come si deve e come si conviene ai Leoni di Dio posti a custodia della dottrina della fede e della salute delle anime dei Christi fideles a noi affidate dal Redentore.
Dall’Isola di Patmos, 28 agosto 2022
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La Chiesa Cattolica non prende ordini da nessuno tanto meno dagli ucraini che hanno perduto il contatto col reale in un trionfo di arroganza che produrrà gravi danni a tutte le popolazione dell’Europa
/1 Commento/in Theologica/da Padre ArielLA CHIESA CATTOLICA NON PRENDE ORDINI DA NESSUNO TANTO MENO DAGLI UCRAINI CHE HANNO PERDUTO IL CONTATTO COL REALE IN UN TRIONFO DI ARROGANZA CHE PRODURRÀ GRAVI DANNI A TUTTE LE POPOLAZIONI DELL’EUROPA
Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo.
— Attualità —
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Nel mio libro pubblicato un paio di mesi fa: Guerra e propaganda ideologica, ho anticipato fatti e problemi che stanno venendo alla luce adesso nella loro drammatica gravità politica ed economica.
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Ricordate la scorsa stagione televisiva, dove di talk show in talk show si inneggiava slava Ucraini (gloria all’Ucraina)? Ricordate le voci critiche tacitate? Ricordate in che modo un esperto storico come Franco Cardini — autore di Ucraina, la guerra e la storia — non potendo essere zittito né dichiarato non autorevole, era tacitato con la inderogabile pubblicità da mandare in onda, facendolo poi sparire dallo schermo a stacco pubblicitario terminato? Ma soprattutto: ricordate gli ucraini invitati negli studi televisivi che con arroganza memorabile puntavano il dito verso l’Italia e gli italiani affermando di sera in sera: «Non dovete comprare il gas dalla Russia, dovete fare sacrifici per noi, perché noi lottiamo anche per la vostra libertà»?
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Sotto gli occhi dei conduttori silenziosi, assaliti dalla necessità di mandare in onda la inderogabile pubblicità solo quando parlavano Franco Cardini o altri studiosi e qualificati esperti di storia e geopolitica, abbiamo dovuto sorbirci senza possibilità di replica dei soggetti emotivi drogati dalla propaganda di Vlodimir Zelenski ― che alle droghe pare non sia stato estraneo ― che senza possibilità di replica affermavano in prima serata che noi italiani eravamo obbligati a sacrificare i nostri figli per i figli degli altri che avevano deciso di lottare come dei cerbiatti contro una leonessa, convinti di vincere. Che la leonessa – nel caso specifico la Russia – li abbia aggrediti, è indubbio. Altrettanto indubbio che da una parte c’è un aggressore e un aggredito, in un contesto geopolitico molto complesso, vecchio e delicato nel quale non si può risolvere il problema sentenziando in modo superficiale e inappellabile chi è il buono e chi il cattivo, perché nelle guerre quando si ammazza tutti sono vittime e carnefici.
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I governanti ucraini e buona parte della popolazione, inclusa quella cattolica e purtroppo anche alcuni vescovi di quel Paese, hanno già attaccato in passato la Santa Sede e il Sommo Pontefice dichiarandosi indignati per l’idea di far portare la croce a una donna russa e a una donna ucraina nel corso della Via Crucis durante i riti della Settimana Santa, al punto da oscurarla sulle reti televisive della libera Ucraina, che al contrario della cattiva Russia sarebbe una democrazia, non un regime dittatoriale (!?). In questi giorni ha fatto seguito analoga dura protesta perché il Sommo Pontefice ha osato rivolgere un pensiero e una preghiera a Darya Dygin, figlia di Alexander, famoso e discutibile ideologo russo, uccisa in un attentato:
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«Penso a una povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca. Gli innocenti pagano la guerra» [cfr. QUI]
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Il Governo Ucraino ha reagito con una protesta diplomatica attraverso il proprio ambasciatore e convocando il Nunzio Apostolico della Santa Sede a Kiev.
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Siamo al delirio di onnipotenza al quale si aggiungono cieca ignoranza e arroganza. Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo sul quale sta scritto:
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«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati […] infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» [Mt 9, 12-13].
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Ciò che dovevo analizzare ed esprimere sul conflitto russo-ucraino l’ho scritto in un libro al quale vi rimando.
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Dopo la pausa estiva stanno riprendendo i vari talk show alle porte di un autunno che si sta delineando molto critico. Questi vari programmi hanno riaperto mandando in onda i lamenti di imprenditori, commercianti e privati che stanno ricevendo delle bollette della luce salite ormai alle stelle e che non riescono a pagare, mentre nessuno sembra avere i virili attributi politici per dire che la guerra è stata un fallimento e peggio ancora l’invio di armi all’Ucraina, dove non si è armato un esercito ma una popolazione civile. Salvo poi mandare in onda sui nostri telegiornali notizie sui brutali soldati russi che uccidevano civili inermi. Anche in questo caso la domanda è rimasta senza risposta: un cosiddetto civile inerme che imbraccia un Kalashnikov e che apre il fuoco sul nemico, siamo davvero sicuri che sia un civile inerme?
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Tra poco, all’arrivo del freddo, ci sarà il problema del gas per gli impianti di riscaldamento. Riusciranno i nostri eroici uomini-azienda che conducono i vari talk show a riportare nuovamente negli studi televisivi gli ucraini per puntare il dito sugli italiani e dir loro che devono sacrificare i propri figli, le proprie famiglie e le proprie aziende per sostenere l’Ucraina nella propria arrogante politica suicida? Sarà interessante udire quel che diranno agli inizi del prossimo inverno i vari conduttori che nella scorsa stagione televisiva inneggiavano slava Ucraini (gloria all’Ucraina), dinanzi agli italiani che in modo molto inglorioso rischiano di ritrovarsi veramente alla canna del gas, mentre già da adesso, i gestori delle case di riposo per anziani e degli asili nido stanno dicendo in toni allarmati che non saranno in grado di pagare le bollette della luce ormai triplicate e quelle del gas che tra non molto arriveranno, ma che al tempo stesso non possono certo triplicare le rette mensili dei loro ospiti.
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Tutto il resto è scritto nel mio libro, con buona pace di chi ha inneggiato per mesi di talk show in talk show: slava Ucraini! Vediamo se lo stesso grido gli uomini-azienda avranno il coraggio di ripeterlo anche questo inverno con gli ucraini in studio che puntano il dito e che di sera in sera ripetono agli italiani ridotti alla canna del gas: «Voi dovete fare dei sacrifici per noi».
Dall’Isola di Patmos, 26 agosto 2022
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«Il gioco del lotto è la tassa dei fessi». Stiamo legalizzando tutto: aborto, eutanasia, droga, prostituzione, gioco d’azzardo … perché non legalizzare anche il femminicidio?
/4 Commenti/in Theologica/da Padre Ariel«IL GIOCO DEL LOTTO È LA TASSA DEI FESSI». STIAMO LEGALIZZANDO TUTTO: ABORTO, EUTANASIA, DROGA, PROSTITUZIONE, GIOCO D’AZZARDO … PERCHÉ NON LEGALIZZARE ANCHE IL FEMMINICIDIO?
Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.
— Attualità —
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Nel suo cabaret yiddish il Maestro Moni Ovadia ironizza sulla macchietta di un vecchio ebreo tirchio che pregava con insistenza il Signore di farlo vincere alla lotteria. Dopo assillanti preghiere risuona sul cielo di quello shtetl una voce scocciata: «Shlomo, io ti faccio anche vincere, ma tu spendi due soldi e acquista perlomeno un biglietto!».
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Molti anni fa, quand’ero studente universitario, il montepremi della vecchia lotteria di capodanno era giunto a cinque miliardi delle vecchie lire. Tutti i miei compagni avevano acquistato almeno un biglietto, ad eccezione mia. Un’amica mi domandò perché non ne avessi acquistato uno per il costo di poche lire, meno di quanto costasse un pacchetto di sigarette. Risposi: «Le possibilità di vincita sono talmente remote che se proprio dovessi vincere sarò a tal punto fortunato da trovare il biglietto vincente a terra mentre cammino per strada».
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Il gioco d’azzardo ha sempre costituito un grande giro d’affari per la malavita, in particolare per le associazioni mafiose presenti nel nostro Paese: la Camorra, la ‘ndragheta e Cosa Nostra. Il 27 giugno 1998 entra in vigore la legge che rende legale il gioco d’azzardo nel nostro Paese, regolato e gestito dai Monopoli dello Stato. Negli anni a seguire il Legislatore è intervenuto con altre leggi: nel 2005 promulga la legge n. 266 che definisce il ruolo dell’Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato che si occupa dei giochi che prevedono vincite in denaro e del contrasto della giungla di siti illegali privi di autorizzazione statale per operare in Italia, in particolare quelli del video-poker online, con domiciliazione in un paradiso fiscale e il server provider in qualche sperduto Paese asiatico svincolati da tutte le regole dei vari Stati nazionali. Tra il 2009 e il 2011 il Legislatore si occupa della tutela dei minori di 18 anni, ai quali è vietato giocare d’azzardo ai sensi delle leggi 88/2009 e 98/2011. Queste leggi hanno aumentato le pene nei confronti di coloro che non rispettano le necessarie misure sui divieti imposti per i minorenni, in particolare per i siti internet e i centri di gioco e scommesse. Nel 2012 un decreto legge che prende nome da Renato Balduzzi, all’epoca ministro della salute, si è occupato della dipendenza dal gioco d’azzardo, nota come ludopatia, un disturbo che rientra nella delicata sfera delle competenze psichiatriche.
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Due sono le correnti di pensiero: le persone favorevoli al gioco d’azzardo legale sostengono che vietandolo sarebbe favorita la diffusione di siti non autorizzati e delle sale da gioco clandestine gestite perlopiù dalla criminalità organizzata. I contrari sostengono che la piaga della dipendenza, la ludopatia, può portare alla rovina interi nuclei familiari, al tutto vanno aggiunte le spese non indifferenti a carico del Servizio Sanitario Nazionale per la cura dei giocatori compulsivi.
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È ormai pensiero diffuso che per evitare un male bisogna ricorrere al male dicendo che il male è bene. Chiariamo: la «grande italiana» Senatore Emma Bonino, secondo la infelice definizione pontificia oltre a chiamare l’aborto «grande conquista sociale» e a lamentare al Parlamento Europeo e alla Corte Internazionale di Giustizia la eccessiva presenza di medici obiettori di coscienza nel nostro Paese ― cosa questa che la rende, appunto, una “grande italiana” degna come tale di encomio pontificio ―, sostiene tutt’oggi che l’aborto legalizzato ha debellato quello clandestino, ponendo fine alla piaga delle poverelle che morivano una tantum di setticemia sotto i ferri delle mammane, mentre le ricche andavano nelle cliniche svizzere ad abortire in tutta sicurezza. Perché non applicare la stessa identica logica e affermare che andrebbe legalizzato il femminicidio, o perlomeno depenalizzarlo? Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio su richiesta, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.
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La iperbole è evidente, solo dei ciechi emotivi e degli analfabeti digitali possono non coglierne il senso del tutto provocatorio, paradossale e non ultimo pure grottesco, fraintendendo il chiaro senso e infine accusandomi di avere istigato al femminicidio. E vi posso garantire che non mancheranno questo genere di webeti che leggono solo il titolo e forse il sottotitolo. Non solo perché i webeti non muoiono mai, ma perché se gli fosse anche sparato un colpo di pistola sulla fronte, potete stare certi che il proiettile rimbalzerebbe per andare a uccidere un povero innocente che passava per la strada.
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Questa è però la logica con la quale da decenni, a partire dalla legge sulla legalizzazione dell’aborto, gli italiani sono stati drogati da quel partitino mefistofelico noto come Partito Radicale, la cui logica emotiva è nota: perché costringere una poverella a rischiare la vita sotto i ferri di una mammana, mentre le ricche signore vanno ad abortire in Svizzera? Sì, ma i membri del partitino mefistofelico, in testa a tutti Marco Pannella ed Emma Bonino grande italiana pontificia, non hanno mai risposto a un quesito fondamentale: e chi sarebbe che costringe sia la poverella che la ricca signora a uccidere un essere umano innocente? È forse moralmente lecito, nonché obbligatorio, uccidere le creature innocenti e indifese?
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Fatto passare questo pensiero ne seguiranno di conseguenza altri. Si sa per esempio che uno dei mestieri più antichi del mondo è la prostituzione. Considerando che non può essere debellata, in tal caso legalizziamola. Altrettanto vale per il consumo delle droghe leggere o pesanti. Una volta legalizzate prostituzione e droga, non avremmo forse tolto alle varie mafie e associazioni criminali un grande giro di affari, sempre secondo il principio dell’aborto legale che avrebbe sconfitto quello clandestino? In fondo è semplice a farsi, basta che lo Stato ― già divenuto ormai infanticida con la legge n. 194 del 1978 ― diventi anche sterminatore di malati terminali, pappone di prostitute, spacciatore di droga e via dicendo a seguire. Altrimenti che genere di Stato civile, che genere di Stato di diritto sarebbe il nostro, qualora negasse il “diritto” a suicidarsi, prostituirsi, drogarsi? In tal modo il male cesserà di essere tale e sarà legalizzato divenendo lecito. Anzi, alle mignotte imporremo l’obbligo di regolare licenza commerciale, daremo loro una partita Iva con aliquota al 22%, l’obbligo di emettere ricevute fiscali cliente dietro cliente e di presentare infine la denuncia dei redditi annuale. Già me le immagino le ricevute delle mignotte con il dettaglio delle prestazioni e relativi prezzi varianti dai rapporti anali sino a quelli sadomaso. Volendo posso immaginare anche la faccia del commercialista, sia della mignotta che del cliente, al quale queste ricevute saranno presentate per la dichiarazione fiscale annuale e da inserire sotto chissà quale voce di deducibilità per il cliente.
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Sarà quindi bene darsi una mossa, in questa italica società cattofobica semi-schiava del Vaticano e per questo lontana dal giungere ai livelli di grande civiltà dei Paesi scandinavi, che da alcuni decenni si disputano col Giappone il felice primato mondiale dei suicidi e del più alto tasso di affetti da sindromi depressive acute.
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Mentre si pensa di ovviare certi problemi con le legalizzazioni, pochi pensano a sostituire il danaro contante con la moneta elettronica, che potrebbe sì portare beneficio fungendo da grande deterrente in un Paese nel quale i dati dell’Istat del 2018 parlano di 110 miliardi di evasione fiscale all’anno, di una economia sommersa pari a 192 miliardi e di attività illegali pari a 19 miliardi. Ovviamente, quello sulle attività illegali è un dato molto approssimativo, perché il giro di affari della criminalità è di parecchio superiore. Con la moneta elettronica che comporta la tracciabilità, come farebbe un puttaniere a pagare una mignotta? Presto detto: o la signora si dota di un improbabile meccanismo per strisciare carte di credito e bancomat tra i seni o tra le natiche, oppure il pagamento sarebbe a dir poco arduo. Altrettanto difficile per un imprenditore delinquente pagare in nero dei lavoratori privi di contribuzioni e coperture assicurative, in un Paese come il nostro dove si registrano di media 3 morti al giorno sul lavoro, secondo i dati statistici del 2019. Altrettanto varrebbe per l’elevato numero di artigiani che nel Meridione d’Italia in modo particolare svolgono attività di muratori, idraulici, elettricisti, antennisti, tecnici informatici … senza risultare in alcun dove come ditte individuali o lavoratori autonomi. E non sono pochi quelli che attualmente stanno pure beneficiando del reddito grillino di cittadinanza, pur mettendosi in tasca alcune migliaia di euro al mese in nero totale senza pagare neppure l’ombra di una tassa o di un contributo. Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo il cittadino li potrebbe pagare? Cosa che vale per l’idraulico come per il libero professionista dalle parcelle salate che sorridente domanda al cliente: «Con o senza fattura?».
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Fatta la legge trovato l’inganno, recita uno dei più noti modi di dire del nostro patrio suol italico. Cosa indubbiamente vera, nella quale noi italiani siamo maestri da sempre. Ci sono però dei limiti anche alla maestria più geniale e fantasiosa: è infatti vero che l’estro truffaldino della macchietta napoletana impersonata da Totò, può anche riuscire a vendere persino la Fontana di Trevi a un turista italo-americano, però neppure il più estroso degli imbroglioni può riuscire a raggirare certe leggi anti-truffa, perché sarebbe come pretendere di riuscire a sfidare le leggi naturali della fisica. Ne sono prova ― per fare un esempio ― gli attuali test per la patente di guida o quelli per l’ammissione alla facoltà di medicina e chirurgia, impossibili da manipolare, perché centralizzati e blindati da un sistema elettronico impenetrabile che rende impossibile poter individuare la persona da favorire per opera del padrino di turno.
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Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo uno spacciatore di droga o un ricettatore di merci rubate potrebbe darsi al commercio criminale? Qualcuno pensa che potrebbe rivolgersi all’amico macellaio o al tabaccaio compiacente per farsi strisciare delle transazioni inesistenti con bancomat o carta di credito? E se anche lo facesse, in che modo, il macellaio o l’amico tabaccaio potrebbero dargli poi in cambio moneta contante, stile raggiri sul reddito di cittadinanza, se la carta moneta non c’è e tutto procede unicamente per circuiti elettronici tracciabili?
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Siamo stati capaci a legalizzare l’aborto, siamo in procinto di legalizzare l’eutanasia, abbiamo reso il gioco d’azzardo Monopolio di Stato e non siamo capaci a stroncare evasione fiscale, prostituzione, spacci di droga e giri criminali di vario genere perché a dire di alcuni la moneta elettronica sarebbe una lesione delle libertà individuali e un controllo esercitato sui cittadini molto peggiore di quello del Grande Fratello di George Orwell? Ma siamo veramente una società di schizofrenici borderline!
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Un soggetto contrario alla moneta elettronica mi disse in tono stupidamente provocatorio: «E voi preti, come fareste a prendere le offerte per le chiese, per le attività caritative, per la celebrazione delle Sante Messe e via dicendo?». Risposi: «Semplice, con la moneta elettronica. Anzi, sarebbe più comoda e pratica degli spiccioli che quei grandi pidocchi di molti fedeli mettono nel cesto delle offerte, obbligandoci a dover cambiare in pochi pezzi di carta qualche chilo di monetine da 5, 10, 20 centesimi». E seguitai spiegando che per noi preti, membri di una aggregazione religiosa riconosciuta dallo Stato come istituzione di diritto pubblico, la moneta elettronica, per le offerte e altro, non sarebbe affatto un problema, piuttosto una grande e pratica comodità. Un problema lo sarebbe semmai per i Casamonica che nella Capitale d’Italia gestiscono anche il giro dell’accattonaggio. O qualcuno riesce a immaginare una petulante zingara ― o se preferiamo il linguaggio politicamente corretto una rom ― che scoccia i passanti chiedendo soldi con il pos a portata di mano per le transazioni con bancomat e carta di credito? Nelle nostre chiese potremmo tranquillamente installare un meccanismo elettronico per il versamento e la raccolta delle offerte, come quelli che si trovano in tutti i centri e luoghi in cui si può fare pagamenti self-service. Ma noi siamo un ente di diritto pubblico, non il circuito dell’accattonaggio gestito dal clan dei Casamonica, né siamo dei ricettatori né siamo dei trafficanti di droga.
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Eppure la nostra gloriosa Repubblica il sistema per far pagare le tasse lo ha trovato. Tutto sommato è un sistema più vecchio di quanto si possa immaginare: il gioco del lotto, che agli albori dell’Unità d’Italia un grande statista, il Conte Camillo Benso di Cavour, definì «la tassa dei fessi». Stando infatti ai dati riportati in un libro molto interessante edito nel 2017 e scritto da Giulia Migneco e Claudio Forleo, al quale ne seguì un secondo scritto dagli stessi Autori durante il lockdown da Covid-19, con il gioco d’azzardo legalizzato lo Stato ha incassato nel 2018 l’importo di 105 miliardi di euro. Un importo che per ironia della sorte corrisponde a ciò che l’Istat indica come il volume di evasione fiscale nel nostro Paese, pari a 110 miliardi di euro. Aveva quindi ragione il grande statista dell’Ottocento quando indicò il lotto come «la tassa dei fessi». A posteriori aggiungo: l’italiano si sente così furbo e legittimato a evadere le tasse, sino a non pagare quelle imposte utili a tenere in piedi l’impianto del nostro Stato sociale. Però al tempo stesso è così idiota da correre alla ricevitoria del lotto per pagare la «tassa dei fessi», mettendosi davanti a tutti sul tavolo del bar con la monetina in mano a raschiare un biglietto dietro l’altro di gratta&vinci.
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Alla ludopatia in rapporto alla morale cattolica dedicai anni fa una conferenza su richiesta e invito degli amici del Lions Club. Non ho da aggiungere molto a quanto dissi all’epoca, rimando quindi alla registrazione di questa mia conferenza che potete trovare sul Canale YouTube de L’Isola di Patmos.
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Nelle nostre parrocchie e centri Caritas non poche sono le persone che vengono a chiedere aiuto per generi di prima necessità, o perché in procinto di vedersi staccare la luce o il gas, dopo avere dilapidato stipendi e pensioni nel gioco d’azzardo legalizzato. A molti dei miei confratelli dal cuoricino tenero che più volte mi hanno detto «come si fa a non aiutarli?», ho risposto che dare qualsiasi genere di aiuto a un affetto da ludopatia è come comprare droga a un tossico in crisi di astinenza, come pagare le prestazioni di una prostituta a un sessuomane. Non è carità, ma pura incoscienza. Soprattutto è male che si aggiunge al tanto male che questi soggetti recano a sé stessi e alle proprie famiglie. All’affetto da ludopatia, dopo essersi dissanguato per avere pagato «la tassa dei fessi», bisogna dire in tono severo e quasi sempre a brutto muso: che ti stacchino pure la luce o il gas, che tu abbia pure difficoltà a fare la spesa e a mangiare, non m’interessa e non deve interessarmi, meno che mai impietosirmi. L’unico aiuto che posso darti e che in coscienza sono tenuto a darti, è quello di indirizzarti presso un bravo psichiatra in grado di curarti da questa pericolosa dipendenza.
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È una tristezza immane vedere anziani pensionati uscire dalle tabaccherie con file di gratta&vinci e andare poi poco dopo al centro della Caritas a chiedere un po’ di spesa. Altrettanto triste vedere file di persone, giovani e meno giovani, tra i quali tanti padri e madri di famiglia, bruciare somme di danaro per improbabili sistemi numerici, mentre il mega cartellone riporta scritta a caratteri cubitali la stratosferica somma del monte premi, che alla data odierna è pari a 259.600.000 euro. Cifra di fronte alla quale gli evasori fiscali affetti da ludopatia che giustificano le loro frodi allo Stato riparandosi dietro al dito del «non pago lo stipendio ai politici con le mie tasse», non si rendono neppure conto che le tasse le stanno pagando nel modo peggiore, come dei perfetti fessi, schedina dietro schedina, gratta&vinci dietro gratta&vinci. Oltre al fatto che il tanto recriminato stipendio dei politici, nelle tasche del bilancio generale dello Stato equivale a pochi euro nelle tasche nostre, benché da sempre sia la scusa e il risibile dito dietro il quale si riparano piccoli e grandi evasori fiscali.
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Se il monte premi ha raggiunto quella cifra, qualcuno si è chiesto a quanto ammonta la somma di gran lunga superiore raccolta con le giocate dai Monopoli dello Stato? Non è facile vivere in un Paese nel quale l’aborto è considerato «un diritto acquisito» e una «grande conquista sociale», dove si ritiene che l’eutanasia sia «un atto di umanità verso un povero malato terminale», dove lo Stato lucra sul gioco d’azzardo, al quale da una parte istiga, dall’altra invita a essere cauti perché «il gioco può creare dipendenza». Però, una moneta elettronica tracciabile che darebbe un colpo mortale alla criminalità organizzata, allo spaccio di droga, alla prostituzione, al lavoro nero, all’evasione fiscale e via dicendo a seguire, quella no, perché sarebbe una grave lesione delle libertà personali.
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Il Popolo Italiano ha un concetto molto strano di “diritto” e di “libertà”, istigato com’è a grattare nella speranza di vincere, con uno Stato che si pone la coscienza in pace avvisando che «il gioco può creare dipendenza» e che tra non molto ci regalerà l’eutanasia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la possibilità dell’adozione dei bimbi alle coppie di gay e di lesbiche, la droga libera e tanti altri meravigliosi diritti legati ad autentiche aberrazioni mutate in bene ai sensi di legge.
Dall’Isola di Patmos, 25 agosto 2022
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Emiliano Mandrone, La moneta elettronica per la lotta all’evasione fiscale? in Rivista online Economia e Politica, edizione del 4 novembre 2019
Ardizzi e P. Giucca, Il costo sociale degli strumenti di pagamento in Italia, Temi Istituzionali, Banca d’Italia, 2012.
Grazzini, Verso la moneta digitale pubblica: l’audacia di Christine Lagarde e la prudenza di Mario Draghi, Economia e Politica, 2019.
Mandrone, La banda degli onesti che vuole il denaro elettronico, lavoce.info, 2015.
Mandrone, Il ruolo sociale dell’educazione economica, INAPP, 2017.
Realfonzo, 100 miliardi di sotto-investimento pubblico e deficit di competitività. L’Italia ha bisogno di politiche industriali, Economia e Politica, 2019.
K.S. Rogoff, La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante, Il saggiatore, 2017.
Vellutini, G. Casamatta, L. Bousquet, G. Poniatowski, Estimating International Tax Evasion by Individuals, WP No 76, European Commission, 2019.
Anni 2013-2016 l’economia non osservata nei conti nazionali, Statistiche Report, ISTAT, 2018
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«ALTIUS CÆTERIS DEI PATEFECIT ARCANA»
(in modo più alto degli altri, Giovanni ha trasmesso alla Chiesa, gli arcani misteri di Dio)
La lunetta usata come copertina della nostra home-page è un affresco del Correggio del XVI sec. conservato nella Chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma
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