Francesco d’Assisi santo mistico, non santino, è una figura molto complicata

FRANCESCO D’ASSISI SANTO MISTICO, NON SANTINO, È UNA FIGURA MOLTO COMPLICATA

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire.

— Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Questo articolo sul Padre Serafico ― che a suo modo potrebbe essere definito “reattivo” in quanto “ispirato da” ― lo devo all’espressione di uno dei vari giovani vescovi di nuova nomina, che rispondendo a un intervistatore ha illustrato la propria personalità e le sue prospettive pastorali affermando che si sarebbe ispirato alla «teologia di San Francesco d’Assisi». Indubbiamente il giovane vescovo avrà cercato di dire qualche cosa di coinvolgente, con trasporto e animo sincero, forse però ignorando che non tanto il Francescanesimo, ma lo stesso Francesco d’Assisi sono qualche cosa di parecchio complesso, per noi francescani per primi.

Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia 1618 – 1682), San Francesco abbraccia Cristo crocifisso, olio su tela, collezione privata – Foto © Christie’s

La redazione dei Padri de L’Isola di Patmos è anche e soprattutto luogo di spirituale confronto pastorale e di discussione teologica tra confratelli. E così, Padre Ariel e Padre Gabriele, entrambi teologi dogmatici di formazione, a me Frate minore cappuccino e presbitero francescano hanno chiesto:

«Quale sarebbe “la teologia di San Francesco”? San Francesco era forse un teologo? E da quando? A noi risulta che i teologi francescani siano stati Antonio da Padova, oggi dottore della Chiesa, che poté esercitare il magistero di teologo con il permesso di Francesco che lo dette con non poca ritrosia iniziale; Bonaventura da Bagnoregio (dottore della Chiesa) che dei teologi è patrono. Per seguire con Arlotto da Prato e Matteo d’Acquasparta, ma soprattutto il grande doctor subtilis Duns Scoto, noto anche come dottore dell’immacolata concezione di Maria».

È sempre nostro dovere spiegare con veritiero rigore storico e teologico cosa è reale e cosa surreale, cosa storicamente autentico e cosa adulterato a livello leggendario, a volte anche ideologico. Per questo è ragionevole e realistico dire che oggi, molti di coloro che si ispirano al nostro Serafico Padre, di San Francesco dimostrano di sapere veramente poco. Purtroppo i fatti dimostrano ― e lo dimostrano i fatti, non i giudizi temerari ― che più che al pauperismo certi soggetti sono molto vicini a quel poverilismo ideologico di stampo socio-politico che sia Francesco d’Assisi sia la sapienza della Chiesa hanno combattuto sin dal XIII secolo, sconfessandolo apertamente e opponendosi a un concetto di povertà che non apriva alla trascendenza e al rapporto con Dio, ma diventava una povertà violenta, accusativa e punitiva verso coloro che possedevano dei beni materiali. Esattamente quella che in epoca post-industriale e post-marxista sarà definita e indicata dai sociologi come invidia sociale.

Per essere precisi bisognerebbe parlare di vecchie eresie di ritorno, a partire da quella di Frate Dolcino, preceduto da Gherardo Segarelli e molti altri più o meno illustri facenti parte di quel movimento ereticale d’inizi XIV secolo noto come Fraticelli. Francesco, a seguire il Francescanesimo che da lui prese vita e poi forma, costituirono la più eclatante sconfessione e implicita lotta contro queste correnti ereticali, nella piena aderenza alla dottrina della Chiesa e all’obbedienza alle sue autorità costituite.

Francesco è estremamente complicato, come Santo e come uomo, pur essendo il Santo da tutti riconosciuto come più semplice, in verità è estremamente complesso. Spesso, i primi a non comprenderlo, siamo stati proprio noi francescani, che più volte lo abbiamo riciclato nel corso della storia a nostro vario uso e consumo, oppure “mitigato” e “addolcito”, come fecero in modi diversi ma di fondo simili Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio.  

Figure complicate da comprendere e interpretare esistono da sempre nella storia della Chiesa, anche se talvolta il popolino le ha snaturate attraverso le proprie devozioni più o meno surreali. Una di queste figure, che in tal senso possiamo portare come esempio, è Padre Pio da Pietrelcina, per capire il quale è necessario interpretarne la figura alla luce della teologia mistica in cui Dio attrae a sé l’uomo nella totalità del suo essere e divenire presente e futuro. In caso contrario San Pio da Pietrelcina diverrà una figura popolare scaramantica alla cui immagine sarà riservato il posto sul tir del camionista rigorosamente meridionale, accanto alle foto erotiche del calendario dell’anno solare in corso dove spiccano le figure di dodici fotomodelle ammalianti. Dico «camionista rigorosamente meridionale» per un discorso puramente sociologico, perché quello altoatesino compie una scelta coerente: o sul proprio camion ci mette San Pio da Pietrelcina oppure il calendario erotico dell’anno solare in corso, ma non tutti e due assieme. 

San Francesco di Assisi suscita da circa nove secoli l’interesse non solo delle persone devote, ma anche di studiosi, storici, letterati, teologi e naturalmente artisti, a motivo della straordinarietà della sua esperienza di vita cristiana; una testimonianza del Vangelo che è stata capace di informare e trasformare la nostra società e, naturalmente, la Chiesa. Le povere parole che seguiranno non hanno alcuna pretesa poiché già tanti, è stato premesso, e di gran levatura culturale hanno parlato di Francesco mettendo in luce tutti gli ambiti della sua vita e la sua singolare personalità. L’intento semplice di questo scritto è quello di mettere in risalto il singolo aspetto della sua esperienza mistica, angolo di visuale attraverso il quale potrebbe anche essere letta tutta la sua esistenza di cristiano e di santo.

È lo stesso Francesco a ricordare l’inizio della sua nuova vita come un’esperienza mistica e un dono di Dio. Vent’anni dopo i fatti della sua conversione descrive nel Testamento ormai morente quell’evento, il suo cambiamento di vita, racchiudendolo entro queste poche, densissime parole:

«Il Signore concesse a me, Frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E poi, stetti un poco, e uscii dal mondo».

Francesco non è un teologo, almeno non come siamo abituati a pensare. Non elabora una concezione sistematizzata dell’esperienza cristiana, né scrive trattati o saggi sulla fede e le sue verità. Ciononostante quando Dante, nella Divina Commedia, parla degli Ordini mendicanti e specificatamente di Francesco, l’elogio di lui viene da colui che è considerato come uno dei più grandi, se non il più grande teologo che la Chiesa abbia avuto: San Tommaso D’Aquino. D’altro canto, l’elogio di San Domenico, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, noti come domenicani, l’altro Ordine mendicante per eccellenza, verrà dalla bocca di San Bonaventura, il teologo per antonomasia dei francescani, colui che stigmatizzò per sempre l’immagine di Francesco fino a farlo apparire praticamente quasi inimitabile. Il grande poeta fiorentino, nei due canti gemelli, l’XI e il XII del Paradiso, mette dolorosamente in risalto che entrambi i movimenti hanno perso lo smalto iniziale, essendosi discostati dagli insegnamenti e dalle regole dei loro fondatori. Perciò Dante, attraverso San Tommaso, fa il racconto della vita di Francesco iscrivendolo tutto in una dimensione mistica e spirituale, come dimostra il lungo preambolo che si muove interamente nell’ambito della metafora. Parla dell’unione dell’assisiate con una donna che, nonostante le sue virtù, era rimasta sola per più di millecento anni dopo la morte del primo «marito» e nessun altro uomo aveva voluto prenderla in sposa e che per amor di lei egli, Francesco, andò incontro all’ira paterna. San Tommaso scioglierà la lunga metafora solo nella terzina dove espliciterà finalmente che i due sposi di cui parla sono Francesco e Monna Povertà.

Questo suo itinerario spirituale, fatto di incontri, abbraccio della povertà, fedeltà estrema al Vangelo e tanta preghiera, Francesco lo leggerà, lo abbiamo già accennato, come un dono del Signore. Ci sono tre verbi nel Testamento che sono a riguardo indicativi. Cinque volte ripeterà che «Dominus dedit mihi» di fare penitenza, di aver fede nelle chiese e nei sacerdoti, di avere dei fratelli e di scrivere la Regola per loro. Di seguito affermerà che sempre il Signore «revelavit mihi» quanto doveva fare e di presentarsi col saluto divenuto celebre: «Il Signore ti dia pace». Ed infine «conduxit me» fra i lebbrosi.

A tal proposito Francesco, come si sa, non offre una risposta politica alle ingiustizie sociali, al problema del male nel mondo. Non ha progetti di fattivi e concreti cambiamenti, non medita lotte e ribellioni; Francesco, per intendersi, non è né un hippy né un Che Guevara del Medioevo, né un contemporaneo di certi odierni preti cosiddetti molto sociali. Francesco risponde con la fede, quando riesce a penetrare fino in fondo, con una adesione totale e impetuosa, il sacrificio di Cristo. Cerchiamo di seguirlo nei suoi pensieri: Dio, l’Altissimo, il padrone dell’universo, di tutto il creato, ha sacrificato il Figlio unico e prediletto per non perdere la sua creatura, l’uomo, capace solo di peccare. E se Cristo che è Dio è venuto sulla terra trascinato da un immenso amore, e si è fatto povero e pellegrino, ha sofferto la fame e il freddo, il tradimento e l’abbandono degli amici, fino a dare la sua vita sulla croce pur di ridare la salvezza all’umanità, la gioia eterna del Paradiso, che altro resta da fare all’uomo se non seguire, per quanto possibile, le orme del Salvatore, il Vangelo, se non rispondere all’amore divino con il povero amore umano, cercando di amarsi l’un l’altro come fratelli? E chi, se non il povero e il derelitto, ripetendo nella sofferenza l’esperienza terrena di Cristo, può meglio capire l’ardente carità divina e accettare con gratitudine angosce e patimenti, rimettersi, come Cristo, alla volontà del Padre?

I Fioretti di san Francesco, una meravigliosa raccolta in volgare dell’ultimo quarto del Trecento di «miracoli ed esempi devoti» della sua vita, gli fanno dire, a proposito di che cosa sia la virtù della perfetta letizia:

«Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo, e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo (Paolo, nella 1Cor 4, 7 n.d.r.): “Che hai tu, che non abbi da Dio? E se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te?”. Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo (sempre Paolo, in Gal 6,14 n.d.r): Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo».

E così la croce fin dall’incontro coi lebbrosi, all’inizio della sua conversione, forma parte dell’esperienza di Francesco, del suo orizzonte spirituale. Se proprio volessimo individuare una teologia di San Francesco, potremmo definirla come una «Scientia Crucis». Egli abbraccia la croce come abbraccia il lebbroso poiché ormai ciò che era amaro gli si era tramutato in dolcezza e può udire la voce di Cristo che dalla croce lo chiama, nella chiesetta di San Damiano. Lì, il Redentore, secondo l’iconografia del Cristo trionfante, senza segni di sofferenza fisica, fissa l’osservatore con quieta dolcezza. Francesco credette che l’immagine si rivolgesse proprio a lui e gli parlasse: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque a ripararla». Ma Francesco fraintende il significato simbolico delle parole, crede di dover salvare dalla rovina l’edificio materiale, non sospetta quale compito lo attenda: salvare l’edificio spirituale, la Chiesa. Esce tutto lieto, gli sembra che la vita abbia finalmente uno scopo. Ora sa cosa fare, le parole misteriose del precedente sogno di Spoleto, quello del palazzo e della sposa che saranno suoi, cominciano a chiarirsi; per questo, può vedere per la prima volta chi lo chiama e sentire pronunciare il proprio nome. Quello è dunque l’ordine che aspettava. E così Francesco, «munendosi col segno della croce», incominciò la sua missione.

L’afflato mistico di Francesco rintracciabile in moltissime sue opere, dalla Regola non bollata, l’Epistola ai fedeli o Le lodi del Dio Altissimo si coniugano da ora in poi con la devozione per la Croce di Cristo. Nelle Lodi conservate nella Chartula fratri Leonis leggiamo queste famosissime parole rivolte al Signore:

«Tu sei santo, o Signore, solo Dio, che compi cose meravigliose. Tu sei forte, tu sei grande, tu sei altissimo, tu sei onnipotente, tu Padre Santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino e uno, Signore, Dio degli dei. Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero. Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza. Tu sei bellezza, tu sei mansuetudine; tu sei protettore, tu sei nostro custode e difensore, tu sei fortezza, tu sei refrigerio. Tu sei la nostra speranza, tu sei la nostra fede, tu sei la nostra carità, tu sei tutta la nostra dolcezza, tu sei la nostra vita eterna, o Signore grande e mirabile, Dio onnipotente, misericordioso salvatore».

Come pure nel capitolo terzo dei Fioretti viene narrata la profonda devozione che il Santo assisiate riservava alla Croce di Gesù:

«Viene il dì della santissima Croce, e Santo Francesco la mattina per tempo, innanzi dì, si getta in orazione dinnanzi all’uscio della sua cella, volgendo la faccia verso l’oriente, e pregava in questa forma: O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti prego che tu mi faccia, innanzi che io muoia; la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione; la seconda, che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quel grandissimo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso per sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori».

Questi aspetti della spiritualità di Francesco saranno poi figurativamente rappresentati dagli artisti, a cui si accennava all’inizio. Se ne potrebbero citare molti e fra questi il Maestro di San Francesco, il cui nome deriva da una tavola con il Santo e due angeli oggi conservata nel Museo della basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Di lui possiamo ricordare l’imponente crocifisso nella Basilica dedicata al Santo, in Arezzo. La Croce dipinta, riprende la tipologia del Christus Patiens, d’ispirazione bizantina, dove il dolore e la morte di Gesù sono sottolineati dalla testa reclinata sulla spalla e dal corpo inarcato. Mentre la maggior parte delle croci dipinte venivano lette dal basso verso l’alto e terminavano con un’Ascensione e un Cristo in gloria, qui il messaggio va letto dall’alto verso il basso, secondo i dettami della spiritualità francescana. Questo Cristo morente, non più Triumphans, è una novità introdotta dai francescani che coltivano l’elemento del patetico, nel senso di invito alla compassione. Ormai la parola misteriosa, depositaria del segreto del Cristianesimo, non è più «amare» ma «soffrire». Invece di apparire in piedi sulla Croce, Risorto e trionfante come in San Damiano, Gesù è raffigurato con gli occhi chiusi e la testa reclinata lateralmente su una spalla. Senza negare la resurrezione, i fedeli si affezionano di più all’Uomo della sofferenza. Il vero messaggio di questa croce è quindi che Gesù è sceso dal cielo e ha sopportato la passione inflittagli da Ponzio Pilato per gli uomini e per la loro salvezza. La devozione lascia spazio alla compassione, alla partecipazione di ciascuno alla sofferenza di Gesù. E il primo di questi devoti è proprio Francesco raffigurato sotto la croce piccolino, che poi così amava chiamarsi, il quale prende fra le mani un piede sanguinante del crocifisso e lo bacia. Un’altra opera a mio avviso capace di descrivere la «Scientia Crucis» francescana è il San Francesco che abbraccia Cristo crocifisso del Murillo. Dipinto realizzato all’incirca nel 1668 e conservato nel Museo di belle arti di Siviglia in Spagna. L’opera faceva parte di un ciclo commissionato al pittore spagnolo dai Cappuccini per una cappella della chiesa del loro convento a Siviglia. Queste opere dovevano esaltare gli elementi distintivi della spiritualità francescana. Il quadro è di una bellezza sconvolgente; commuove lo spettatore che davanti a una simile tela rimane in silenzio, come in preghiera. Il dipinto simboleggia il momento culminante della vita di Francesco: la rinuncia ai suoi beni materiali per abbracciare la vita religiosa. La composizione è armonica. Accanto alla croce, due angeli reggono un libro aperto che reca in latino il passo del Vangelo secondo Luca: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 25-27).

Ai piedi del Santo vi è un mappamondo, un globo terrestre; Francesco sembra allontanarlo con un piede, metafora del suo rifiuto di ogni vanità. Ma veniamo al fatto più eclatante, ed anche il più controverso almeno nelle testimonianze che lo riportano, per il quale l’afflato mistico di San Francesco si coniuga con la sua profonda devozione per la Croce di Cristo Gesù. Sto parlando dell’episodio de La Verna in Toscana, la visione del serafino e l’impressione delle stimmate. Per rendere palpabile la straordinarietà dell’evento riviviamolo attraverso le parole del biografo del Santo, Tommaso da Celano, uno che lo conobbe personalmente, il quale fu chiamato da Papa Gregorio IX a redigerne la biografia raccogliendo testimonianze sugli eventi. Anche e soprattutto su quello delle stimmate, prima che con la Legenda major San Bonaventura da Bagnoregio sostituisse le precedenti Vite, imponendone la distruzione. Come noto e risaputo Bonaventura, ministro generale dell’Ordine, fece pervenire a tutti i conventi francescani un comando preciso e tassativo: distruggere tutti i manoscritti sulla vita e le gesta del Padre Serafico. Diversi di questi manoscritti si trovavano però anche in alcune abbazie e monasteri benedettini e cistercensi, che si guardarono bene dal dare esecuzione a simile comando. È a loro che gli storici debbono grazie se da qualcuna di queste biblioteche monastiche sono stati poi dissepolti secoli dopo i manoscritti delle Vite narrate da altri autori prima di Bonaventura da Bagnoregio, considerato da taluni storici della Chiesa come il secondo fondatore, o cosiddetto ri-fondatore dell’Ordine Francescano.

Tommaso da Celano nella Vita prima conosceva certamente sui fatti de La Verna la versione di Frate Leone e ovviamente anche la lettera di Frate Elia. Il biografo non poteva permettersi di trascurare né il più caro amico del Santo e suo confessore né il potente capo dell’Ordine. Come raccordare due testimonianze così divergenti? Aggirò la difficoltà raccontando con abili aggiustamenti il miracolo delle stimmate due volte, una prima collocandolo sulla Verna, una seconda al momento dell’esposizione della salma di Francesco. Rileggiamo cosa scrive Tommaso da Celano:

«Due anni prima che Francesco morisse, passando un periodo nel romitorio che dal nome del luogo è chiamato Verna, vide in una visione mandata da Dio un uomo, quasi fosse un Serafino con sei ali, stare sopra di sé, con le mani aperte e i piedi congiunti, confitto ad una croce. Due ali salivano sopra il capo, due si stendevano al volo e due infine coprivano tutto il corpo. Vedendo questo il beato servo dell’Altissimo fu invaso da grandissimo stupore ma non riusciva a capire che cosa volesse dire quella visione. Godeva moltissimo e con grande allegrezza si allietava nel sentirsi guardare con uno sguardo benigno e dolce dal Serafino, la cui bellezza era veramente inimmaginabile, ma al tempo stesso era atterrito dall’affissione alla croce e dalla crudezza della sofferenza di lui. Così si alzò, per così dire, triste e lieto, e in Francesco si alternavano gioia e dolore. Continuava a rimuginare con ansia cosa potesse voler dire la visione, e il suo spirito era terribilmente teso a cercare di coglierne il significato. Poiché ragionando non arrivava ad alcuna interpretazione sicura e si sentiva pervaso e moltissimo agitato nel cuore dalla novità di quella visione, cominciarono ad apparire nelle mani e nei piedi i segni dei chiodi come poco prima aveva visto nell’uomo crocifisso sopra di sé. Le sue mani e i suoi piedi sembravano trafitti nel centro da chiodi: nella parte interna delle mani e su quella superiore dei piedi si vedeva la testa dei chiodi, e dalla parte opposta la punta. Quei segni erano rotondi dalla parte interna delle mani e allungati dalla parte opposta e formavano quasi una escrescenza carnosa e rilevata, come fosse la punta dei chiodi ripiegata e ribattuta. Ugualmente nei piedi erano impressi i segni dei chiodi sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro, quasi fosse stato trafitto da una lancia, mostrava un’ampia cicatrice che spesso emetteva sangue cosicché la tunica e i panni da gamba erano macchiati di frequente del suo santo sangue. Ah, quanti pochi finché il servo di Dio crocifisso visse, ebbero la fortuna di potere vedere la sacra ferita del costato! Ma felice Elia che mentre viveva il Santo meritò in qualche modo di vederla e non meno felice Rufino che poté almeno toccarla».

Più avanti sempre Tommaso da Celano, parlando della gioia e della mestizia delle persone e dei frati al cospetto del corpo ormai defunto del Santo così riporta:

«Pure, una gioia inaudita temperava la loro mestizia e la novità del miracolo riempiva le loro menti di straordinario stupore. Così il lutto si cambiò in canto festoso e il pianto in giubilo. Infatti mai avevano udito né letto nelle Scritture quello che ora vedevano con i loro occhi, e a stento ci avrebbero creduto se non ne avessero avuto davanti una testimonianza così probante e sicura […] Si coglieva in lui la forma della croce. Sembrava infatti appena deposto dalla croce con le mani e i piedi trafitti dai chiodi e il lato destro ferito dalla lancia. Vedevano ancora la sua carne, che prima era scura, risplendere ora di un luminoso candore e la bellezza sovrumana comprovava già il premio della beata resurrezione. Il suo volto, infine, era come quello di un angelo […] Mentre risplendeva davanti a tutti per sì meravigliosa bellezza, la sua carne si faceva sempre più luminosa. Era davvero un miracolo scorgere al centro delle mani e dei piedi non i fori dei chiodi ma i chiodi medesimi formati dalla sua stessa carne, del color scuro come il ferro e il costato a destra imporporato di sangue. E quei segni di martirio non incutevano timore e orrore a chi li vedeva, bensì conferivano decoro e ornamento, come tessere nere in un pavimento candido».

Potremmo fermarci qui e non aggiungere altro al cospetto di un così commovente racconto. Basti sottolineare che a La Verna Francesco visse infine la sua personale e straordinaria identificazione col Cristo e con questi crocifisso. Ma in quale contesto ciò avvenne? Sul finire della vita Francesco si sentiva sempre più incalzato dalla Chiesa preoccupata di normalizzare un progetto di vita cristiana, praticare la povertà e l’amore evangelici, che, se davvero attuato, sarebbe stato rivoluzionario e pericoloso per la stessa struttura ecclesiastica, se male interpetato. Si sentiva anche incompreso da una grande parte dei frati e questo aumentava il suo scoramento. Cresciuti a dismisura non tutti erano capaci di condividere scelte tanto difficili, uomini a volte di limitate virtù o troppo colti, lontani dai purissimi ideali del loro capo spirituale. Come Cristo sempre più solo al traguardo della croce, a circa quarantaquattro anni Francesco prese con sé pochissimi compagni, intimi e partecipi, e si trasferì, come sappiamo, sulla Verna, per un lungo ritiro di solitaria contemplazione. Contava di superare quella profonda crisi; chiedeva continuamente a Dio di illuminarlo, che gli indicasse come sarebbe stata la fine della sua vita. In effetti cominciò a vedere diradarsi il buio nell’anima solo quando comprese di dover rimettere alla decisione di Dio i problemi dell’Ordine e del suo futuro, sopportando, scrive Tommaso da Celano, che «si compisse in lui totalmente la misericordiosa volontà del Padre celeste». Il biografo pensa al fondatore come a un «altro Cristo» sullo sfondo del Monte degli Ulivi. Il Santo, tuttavia, avrebbe voluto almeno conoscere che fine lo attendesse, pur essendo ormai sicuro di non ribellarvisi. Un giorno, dopo avere a lungo pregato, ricorse alla triplice apertura dei Vangeli, che mostrarono sempre lo stesso passo o uno molto simile. Lo sguardo si posò: «sulla Passione di Cristo, ma solo nel tratto in cui viene predetta». Quando Tommaso da Celano scriveva questa parte dell’opera evidentemente conosceva già il seguito, sapeva che di lì a poco avrebbe raccontato dell’apparizione del Serafino e delle stimmate. Deliberatamente costruì l’episodio della triplice apertura con citazioni evangeliche che si riferiscono all’agonia di Cristo secondo Luca (22, 43-45). Cristo, al colmo della sofferenza chiede al Padre: «Allontana da me questo calice», ma comprende di dover accettare tutte le sofferenze della imminente Passione. Nel Vangelo, dopo la visione dell’angelo Gesù si sentì momentaneamente consolato; ma subito dopo ripiombò in una grande angoscia, tanto da sudare sangue. Anche Francesco è sul monte, il monte de La Verna; vede il Serafino e trova consolazione nel momento in cui accetta tutte le sofferenze che ancora lo attendono prima della morte. L’angoscia porta Cristo a sudare sangue; Francesco, scomparsa la visione del Serafino, sente così vicino il Monte degli Ulivi a tal punto che i chiodi di carne, copia dei chiodi della Croce si rendono visibili. Come tutti i grandi santi mistici anche Francesco su La Verna è immerso nel buio della cosiddetta «notte oscura», neanche supportato dal suo caro amico e compagno Leone che viveva, lui stesso, un momento di crisi. Dopo un lungo periodo di ritiro spirituale Francesco ha finalmente un’illuminazione, intravvede la soluzione: se Cristo, che è Dio, si è rimesso alla volontà del Padre, non dovrà fare altrettanto lui stesso? Si compie così quella immedesimazione col Modello che si inscrive non solo nell’animo del Santo, ma anche nella sua carne. Gesù consola Francesco e gli rivela la giustezza del suo cammino che ebbe scaturigine e prima assicurazione dall’altra croce, quella di San Damiano; e gli fa dono anche del suo amore, adesso nel momento terminale della sua vita ed esperienza cristiana. Da questa conoscenza profonda, non intellettuale, ma mistica, della croce di Cristo sgorgheranno dal cuore di Francesco quelle parole che sopra abbiamo riportato e qui condensiamo. Testimonianza di quella «scientia» del mistero cristiano che ci fa ancora oggi emozionare per il modo come Francesco l’ha compresa e vissuta:

«Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza».

In una lettera di Francesco ad Antonio da Padova in cui si rivolge a lui chiamandolo «Frate Antonio mio vescovo» diceva:

«Fai pure teologia, ma attenzione che questa non spenga lo spirito di orazione e di contemplazione».

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, da spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire. Anche per questo non è facile parlare di «teologia di San Francesco».

 

Sanluri, 17 luglio 2024

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Bibbia, omosessuali e teologia. La sostanziale differenza tra chi specula e discute e chi vuole introdurre un pericoloso cavallo di Troia dentro la Chiesa

BIBBIA, OMOSESSUALI E TEOLOGIA. LA SOSTANZIALE DIFFERENZA TRA CHI SPECULA E DISCUTE E CHI VUOLE INTRODURRE UN PERICOLOSO CAVALLO DI TROIA DENTRO LA CHIESA

«Oggi un numero sempre più vasto di persone, anche all’interno della Chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali» (Joseph Ratzinger, 1986)

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L’omosessualità costituisce da sempre un argomento spinoso, genera discussioni e polarizzazioni destinate, come le famose rette parallele, a non incontrarsi mai. Per portare un esempio potrei citare il polverone sollevato l’anno scorso dalla pubblicazione di un libro scritto da un Generale dell’Esercito Italiano contenente posizioni sue decisamente nette su questo aspetto. Naturalmente l’omosessualità, nel corso degli anni, è stata un capitolo dibattuto anche nella Chiesa Cattolica, sempre di più; fuoriuscito dalla fugace menzione nei vecchi manuali di teologia morale è diventato argomento di pronunciamenti magisteriali, con documenti specifici dedicati, che denotano quanto il tema sia sentito nella società e nelle comunità cristiane che su questo si interrogano. Negli stessi documenti si colgono varie accezioni, aperture decise o timide e chiusure che possono anche essere ascritte alla sensibilità o posizione di quel rappresentante ecclesiastico o pontefice in carica in un particolare momento storico.

Il Concilio Vaticano II ha inoltre chiesto che alla Sacra Scrittura fosse ridata la venerazione che le spetta in quanto fonte della Rivelazione divina e a essa e alla Sacra Tradizione ha dedicato una delle quattro costituzioni dogmatiche uscite da quella assise, col nome di Dei Verbum. Da allora ogni pronunciamento magisteriale, ma si potrebbe dire ogni riflessione teologica o pastorale, ogni singolo atto della Chiesa non può prescindere dal riferimento alla Bibbia. Anche un argomento che parrebbe delicato come quello dell’omosessualità. Ora, ciò che a volte emerge in molti che vogliono riferirsi alla Bibbia parlando o scrivendo di questo argomento, è che difficilmente riescono ad accantonare la voglia di polarizzare o di uscire per forza vincitori dalle controversie, come già notavamo all’inizio di questo discorso. Così, la Sacra Scrittura, nei dibattiti o sugli scritti, cessa di essere quella fonte che alimenta per diventare un’arma brandita sia da chi condanna tout court l’omosessualità, sia da chi invece vorrebbe che la Chiesa chiedesse scusa agli omosessuali per le sue chiusure e per le sofferenze che a essi ha provocato. Come si può uscire da questo empasse? Penso, innanzitutto, riconoscendo il giusto valore della Sacra Scrittura che evidentemente non è un’arma da usare a proprio piacimento o prontuario e bugiardino da aprire a conforto delle proprie idee e posizioni nel mondo. Ho letto alcuni passaggi del voluminoso commentario uscito l’anno scorso col nome di Bibbia queer per i tipi delle edizioni Dehoniane (QUI), dove fra le altre cose, si paventa nei Vangeli una relazione omosessuale fra il centurione romano e il suo servo malato per il quale il primo chiede a Gesù la guarigione, solo perché l’Evangelista Luca dice che «gli era molto caro» (Lc 7, 1-10). La stessa interpretazione è stata rilanciata recentemente da un blog solitamente molto polemico verso l’attuale Pontefice e vertici della Chiesa, ma decisamente indulgente in tema di omosessualità, tanto da affermare in un articolo dedicato al rapporto fra questo argomento e la Sacra Scrittura che:

«Leggendo con attenzione questi testi, quindi, non c’è nulla contro l’omosessualità».

Davvero? Perché sfogliando i documenti del Magistero ecclesiastico, il Catechismo della Chiesa Cattolica per citare un esempio, e naturalmente quei siti o blog di orientamento per così dire più conservatore, sembra invece che per questi la Bibbia sia decisamente posizionata su un atteggiamento a sfavore dell’omosessualità.

Ciò che mi preme qui ricordare è come il Concilio ha voluto che la Bibbia fosse interpretata e di questo ne parla al nr. 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum:

«Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della Sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa».

Questo importante e per certi versi ancora non del tutto recepito passaggio della Dei Verbum ci ricorda, nella sua prima parte, la qualità sacramentale, per così dire, della Sacra Scrittura. Poiché la Parola di Dio si presenta nella forma di scrittura umana che soggiace alle condizioni di tempo e di cultura degli scrittori e alla maniera originale di organizzare quel genio letterario che ogni autore biblico possiede. Come pure sottostà ai loro «modi di sentire, di esprimersi e di raccontare… che erano in uso nei rapporti umani». Nella seconda parte, invece, c’è un invito a uno scavo ulteriore che va nella direzione della ricerca del senso o significato più profondo della medesima Scrittura. Un senso spirituale, non a caso si menziona lo Spirito con la maiuscola, e teologico, in accordo con tutto il deposito della fede, per una intelligenza sempre più piena del testo e perché la Chiesa, in particolare quella parte di essa predisposta alla guida, possa proferire un giudizio sulle cose che interessano l’esperienza cristiana in accordo con la Parola di Dio e la sua tradizione. Alla luce di ciò si capisce che siamo davanti a un lavoro lungo e paziente, tutt’altra cosa che sfoderare la spada della Bibbia e brandirla per far valere, o peggio per imporre le proprie idee.

Tornando al nostro tema, è chiaro che il giudizio della Chiesa sull’omosessualità ha subito un progresso, come pure ha mantenuto ferme alcune considerazioni. Questo si può notare nei documenti, da Persona Humana del 1975 al recente Fiducia Supplicans del 2023, passando dalla Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali del 1986, emanati dalla Congregazione, ora Dicastero, per la dottrina della fede. Quest’ultimo documento è quello che più degli altri fa esplicito riferimento ai passi biblici che condannano l’omosessualità, li elenca tutti e su questa base e su quella della Tradizione e del Magistero, afferma quel documento che la Chiesa:

«Mantiene ferma la sua chiara posizione al riguardo, che non può essere modificata sotto la pressione della legislazione civile o della moda del momento» (nr. 9).

Poco prima il medesimo testo menzionava che:

«Oggi un numero sempre più vasto di persone, anche all’interno della Chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali» (nr. 8).

Anche il più recente documento Fiducia supplicans si appoggia sulla Scrittura, la Tradizione e il Magistero, in particolare dell’ultimo Pontefice.  Questi concede la possibilità di dare la benedizione sotto certe condizioni alle coppie irregolari e a quelle dello stesso sesso perché in questo modo:

«La Chiesa è così il sacramento dell’amore infinito di Dio. Perciò, anche quando il rapporto con Dio è offuscato dal peccato, si può sempre chiedere una benedizione, tendendo la mano a lui, come fece Pietro nella tempesta quando gridò a Gesù: “Signore, salvami!” (Mt 14, 30). Desiderare e ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni» (nr. 43).

Senza dimenticare il Catechismo della Chiesa Cattolica, edito nel 1992, che riguardo le persone omosessuali afferma:

«L’omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati» (cfr. 2357). «Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (cfr. 2358). «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana» (cfr.2359).

Che dire di tutto questo? Evidentemente non si tratta di visioni schizofreniche della medesima realtà. Piuttosto nei documenti suddetti c’è il desiderio di mantenere l’ancoramento alla Parola di Dio, vista proprio come fonte. È chiaro che i diversi estensori hanno voluto premere un certo tipo di registro invece che un altro. Così il documento più recente si è appoggiato sul magistero della misericordia, così caro a Papa Francesco e preferire brani biblici che sottolineano l’accoglienza di Dio invece che la condanna. È probabile che i testi più decisi nel condannare l’omosessualità siano stati interpretati alla luce di quel «senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso», di cui parlava il Concilio. Così alcune espressioni di San Paolo e già del Libro del Levitico che condannano i rapporti omosessuali per alcuni esegeti sono tali in quanto non esisteva «la nozione di omosessualità, ovvero la normale attrazione che può avere una persona verso un’altra dello stesso sesso, Paolo vedeva questo comportamento come una deviazione, basandosi su quello che riteneva fosse il «rapporto naturale». Le sue opinioni in materia hanno lo stesso valore di quando afferma che è «la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli» (1 Cor 11,14) (QUI). Così pure le prescrizioni antico testamentarie del Levitico, non sono in relazione alla sessualità, bensì alla procreazione, in quanto si contravveniva al comandamento divino «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1,28) (QUI). Il testo biblico per eccellenza, poi, sul quale si basa ogni apertura verso la condizione omosessuale e, di recente, viene anche utilizzato per la richiesta dell’ordinazione femminile è il passo paolino della Lettera ai Galati:

«Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Testo variamente interpretato e qualche volta forzato a dire ciò che non vorrebbe proprio dire. Eppure tutti i documenti, sia quelli più chiusi, sia l’ultimo che presenta qualche apertura in merito alla benedizione delle coppie omosessuali, bisogna dirlo e accettarlo, non si dichiarano apertamente Gay-friendly, come si suol dire oggi; tutt’altro. Anche Fiducia supplicans, che parla di misericordia, non recede dalla dottrina tradizionale né desidera creare confusione fra l’unione matrimoniale e altri tipi di unione:

«Questa convinzione è fondata sulla perenne dottrina cattolica del matrimonio. Soltanto in questo contesto i rapporti sessuali trovano il loro senso naturale, adeguato e pienamente umano. La dottrina della Chiesa su questo punto resta ferma» (nr. 4).

C’è ancora un altro aspetto a cui bisogna accennare. Joseph Ratzinger che stese la succitata Lettera del 1986 parlava di fortissime pressioni, addirittura di manipolazione, per far sì che la Chiesa accettasse la condizione omosessuale. Il documento chiariva la posizione della Chiesa a riguardo. Eppure bisogna ammettere che in quel documento e negli altri l’atteggiamento della Chiesa verso gli omosessuali era già cambiato parecchio e questo, non si può negare, perché la sensibilità e l’opinione dei contemporanei a riguardo è profondamente mutata, a tutti i livelli. Così anche la Chiesa oggi deplora l’oppressione delle persone omosessuali, come espresso dal Catechismo della Chiesa Cattolica poc’anzi citato, quindi l’utilizzo di linguaggi e di azioni violente. Ci si appella alla «dignità propria di ogni persona». È sparito il termine sodomia e anziché di «contro natura» si parla piuttosto di tendenza, anche se non viene adottato quello di «orientamento» usato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Le persone omosessuali sono cristiane come tutti gli altri e invitate a vivere la castità.  Ecco, gli atti omosessuali non sono accettati, ma quel documento, nella parte finale, è tutto una promozione dell’accoglienza e della cura pastorale degli omosessuali a cui non sono negati i Sacramenti, alle debite condizioni.

Ma come sempre accade per i temi che interessano la vita cristiana i discorsi non sono mai chiusi, la riflessione continua.  La stessa Lettera di Joseph Ratzinger invita i vescovi affinché sollecitino «la collaborazione di tutti i teologi cattolici» (nr. 17). Questo aspetto è probabilmente il più difficile, il più faticoso, quello che più ci manca e anche il più delicato come accennerò fra poco con un esempio. Ma anche quello di cui abbiamo più bisogno, proprio perché la Bibbia, per tornare al cuore del nostro discorso, non venga usata come prontuario. C’è un passaggio ulteriore e decisivo. Affinché le persone, immerse nella cultura contemporanea, possano apprezzare l’intelligenza della fede, occorre la continua fatica del ricomprendere ermeneuticamente il dato di fede e tradurlo in organizzazioni coerenti di pensiero. La Bibbia deve conservare la sua caratteristica di fonte, ma abbiamo bisogno della riflessione teologica per la quale la Sacra Scrittura, secondo una bellissima espressione della Dei Verbum, è come l’anima che la mantiene sempre giovane:

«La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla Parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le Sacre Scritture contengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia» (nr. 24).

Vengo all’esempio a cui volevo fare riferimento: i teologi e le teologhe conosciuti che hanno riflettuto sul tema dell’omosessualità appartengono quasi tutti all’area anglosassone, spesso con posizioni decisamente aperturiste in questo ambito. Eppure in Italia abbiamo avuto un teologo, un sacerdote, che ha molto riflettuto su questo argomento, ma pochi lo sanno. Mi riferisco al presbitero Gianni Baget Bozzo che tanti conoscono per la sua vocazione orbitante, ovvero capace di fare scelte e manifestare opinioni prima in un verso e poi al contrario. Incarnando in vita un personaggio controverso ora è quasi dimenticato, purtroppo. Ma secondo lui «in Dio i contrari non sono contraddittori» e «nulla vi è di più fascinoso per la fantasia umana che vedere contemporaneamente i due lati di una contraddizione»[1]. Ebbe come professore di religione a Genova Giuseppe Siri, futuro arcivescovo e cardinale della stessa città che l’ordinerà prete, lo vorrà professore di teologia in seminario, gli affiderà la rivista Renovatio, gli toglierà questi due incarichi e lo sospenderà a divinis. Ha cambiato idea su tutto, ma su un argomento egli non ha mai cambiato opinione: sugli omosessuali. I suoi interventi in merito, che datano dal 1976 fino al 2008, perché non cadessero nel dimenticatoio, sono stati raccolti dal vaticanista Luigi Accattoli in un libro intitolato: Per una teologia dell’omosessualità [2].

Si tratta di testi comparsi su giornali, riviste o interventi presso convegni nei quali rivendicò con tenacia, per oltre un trentennio, i diritti di chi vive nella condizione omosessuale. E da teologo incoraggiò i cristiani a ripensare la teologia della sessualità e a svolgere in essa il capitolo inedito dell’omosessualità. Con la sua straordinaria attitudine a parlare di Dio nella lingua della sua epoca si domandava e chiedeva quale sia l’intenzione divina riguardo all’esistenza degli omosessuali. Lo fece con argomenti acuti e citazioni dotte, a tal punto che alla fine dovette anche ripetere in più di una intervista che lui omosessuale non era. Difese gli omosessuali, ma anche la verginità e il celibato e non lesinò critiche al movimento gay, all’organizzazione dei Pride, in particolare quello dell’anno santo del 2000, anno del giubileo, che tanto fece scalpore nella città di Roma. Consigliò agli omosessuali di avere partner stabili, invece che variabili e accusò anche l’unione europea di usare i gay come arma contro la Chiesa Cattolica. Considerò l’omoerotismo casto non incompatibile con la santità e scrisse cose come questa:

«L’omosessualità, in ogni caso, non potrà mai essere considerata dalla società come un modello. Non può esserlo innanzitutto per motivi biologici. Una società che sia biologicamente asettica è incompatibile con l’insegnamento di Cristo. Questo non va dimenticato. La Chiesa non può accettare la parificazione fra la condizione eterosessuale e quella omosessuale. Questo vale sul piano della morale sociale. Per intenderci, sul piano politico. Ma sul piano della morale individuale, il discorso è ancora aperto e sarà necessario affrontarlo» (Il Foglio, Giugno 2020).

Quel che voglio sottolineare qui non è tanto difendere le opinioni di Baget Bozzo, anche se fa piacere che non vengano dimenticate e che ci sia stato un intellettuale italiano che non ha avuto paura di esporsi in questo dibattito, ma che abbiamo bisogno di un tale sforzo culturale e teologico, di menti acute che ci aiutino a pensare sui temi difficili e quindi confrontarci anche con chi non la pensa come noi, ma con la stessa acribia. Le scorciatoie di chi prende la Bibbia e la legge come un prontuario medico lasciamole ai cari fondamentalisti di oltreoceano o a qualche blog di poca fortuna. La tradizione cattolica che non si è mai avvalsa di scorciatoie, men che meno le intellettuali, da sempre invita a pensare, dopo aver meditato sulla Sacra pagina, per dirla con Tommaso d’Aquino, che di essa era magister.

Dall’Eremo, 3 maggio 2024

 

Gianni Baget Bozzo, presbitero genovese (1925 – †2009)

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NOTE

[1] Baget Bozzo G., Vocazione, Rizzoli, 1982, pg 68 e 142).

[2] Baget Bozzo G., Per una teologia dell’omosessualità, a cura di Luigi Accattoli, Ed. Luni, 2020.

 

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L’ultima devozione di Cristo: il Sacro Cuore non è devozionismo ma porta di accesso ai misteri di Dio

L’ULTIMA DEVOZIONE DI CRISTO: IL SACRO CUORE NON È DEVOZIONISMO MA PORTA DI ACCESSO AI MISTERI DI DIO

Per chi sa di cinema è evidente il riferimento al film di Martin Scorsese su Gesù del 1988: «L’ultima tentazione di Cristo». Ma solo per dire che, mentre la finzione cinematografica può anche immaginare che Cristo fu tentato di recedere dal suo cammino, il Vangelo ci ha raccontato che Egli andò fino in fondo, con una devozione verso la sua missione che alla fine ha svelato cosa c’era dentro il suo Cuore colmo di amore.

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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La devozione che più si è diffusa nel popolo cristiano, almeno negli ultimi secoli, è quella rivolta al Sacro Cuore, che, naturalmente, ha attratto a sé anche quella dovuta al Cuore di Sua Madre Maria. Con questo culto la Chiesa Cattolica ha inteso onorare il Cuore di Gesù Cristo, uno degli organi simboleggianti la sua umanità, che per l’intima unione con la Divinità, ha diritto all’adorazione.  

Già praticato nell’antichità cristiana e nel Medioevo, il culto si diffuse molto nel secolo XVII° ad opera di San Giovanni Eudes (1601-1680) e soprattutto di Santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), mentre la festa del Sacro Cuore fu celebrata per la prima volta in Francia, probabilmente nel 1685. La prima delle celebri visioni di Santa Margherita avvenne il 27 dicembre 1673, festa di San Giovanni Evangelista. Gesù le apparve e Margherita si sentì «tutta investita della divina presenza». Egli la invitò a prendere il posto che San Giovanni aveva occupato durante l’Ultima Cena e le disse:

«Il mio divino Cuore è così appassionato d’amore per gli uomini, che non potendo più racchiudere in sé le fiamme della sua ardente carità, bisogna che le spanda. Io ti ho scelta per adempiere a questo grande disegno, affinché tutto sia fatto da me».

Come per tutte le altre devozioni, affinché non rimanessero semplicemente tali o vuoti contenitori di manifestazioni popolari, la teologia e poi il magistero si sono prodigati di offrire contenuti e motivazioni che potessero non solo mantenere viva la devozione al Cuore di Cristo, ma che fosse anche continuamente alimentata dalle fonti della scrittura e della tradizione ecclesiale. Come spesso accade il devozionismo, che è invece una degenerazione dell’autentico atto di culto, tende a prevalere sui contenuti, così questi faticano a svolgere il loro compito, soprattutto ai nostri giorni, nei quali si fa presto a bollare una devozione come retaggio di un passato pre-moderno e non più attuale, o come si suol dire buona solo per gli anziani o i semplici.

Invece la devozione al Sacro Cuore avrebbe molto da insegnare anche ai moderni, anzi ai post-moderni che siamo noi, perché il simbolo del cuore e i temi a esso collegati sono spontaneamente uniti a quelli dell’affettività e dell’amore, ovvero a tutto quel mondo dei sentimenti e delle emozioni che interessano tantissimo il nostro tempo. Quando sempre più spesso, anche di recente, accadono fatti di cronaca nera che interessano le relazioni amorose, subito si contattano gli esperti che avvertono preoccupati di come il nostro tempo, soprattutto le generazioni più giovani, abbia bisogno di una educazione dei sentimenti, di come bisognerebbe essere a contatto con le proprie emozioni per saperle esprimere in modo adeguato e non violento. Si tratta di quel vocabolario che ci riconduce all’interiorità e quindi al cuore umano, al quale il cuore di Cristo ha ancora molto da insegnare.

Per tornare alle fonti di questa speciale devozione cristiana e per far percepire quanto sia teologicamente fondata e collegata al mistero tutto intero della salvezza apportata da Gesù, vorrei prendere in considerazione, qui, un semplice, si fa per dire, versetto del Vangelo che ha perfetta aderenza con questa devozione del Sacro Cuore. Siccome molte immagini rappresentano Gesù nell’atto di offrire il suo cuore palpitante, quindi di aprire il suo mondo interiore e più intimo, vediamo come il Vangelo descrive questo momento. Lo fa l’Evangelista Giovanni nel capitolo ove riporta da par suo la crocifissione di Gesù, il momento in cui morente dice: «Tutto è compiuto»; e subito dopo un soldato ferisce il suo costato per verificarne la morte. Vediamo come San Giovanni descrive la scena, che dovette essere davvero significativa. Notiamo quante volte ritorna il termine testimonianza, indirizzata alla fede e collegata a due importanti citazioni scritturistiche. A noi interessa la seconda, il versetto che vorremmo prendere in esame – «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» – appunto perché la devozione ci invita a guardare il Cuore di Gesù, ma non possiamo non prendere in considerazione l’immediato contesto nel quale la scena si svolge ed i suoi importanti significati teologici.

«Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”» (Gv 19,33-37).

Il passo citato da Giovanni appartiene a un oracolo profetico che annunciava la salvezza e la restaurazione escatologica di Gerusalemme (Zac 12-14). Nella pericope, 12,1013,1 – si racconta della misteriosa morte di un re pastore che rappresenta il futuro Messia, Dio stesso si percepisce ferito da questa morte, perciò prende l’iniziativa promettendo uno spirito buono e una fontana zampillante per il loro peccato:

«Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito».(Zac 12,10).

Più avanti in 13, 1:

«In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».

A questo versetto si può aggiungere il testo sull’acqua viva del capitolo successivo: «In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mare occidentale: ve ne saranno sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra. In quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome» (14, 8-9).

L’applicazione di questi testi a Gesù in croce è chiara. Gesù aveva annunciato che fiumi di acqua viva sarebbero usciti dal suo intimo, in Gv 7,38, e l’Evangelista spiegava che diceva questo dello Spirito (7,39)[1].

Sintetizzando, la sorgente aperta per gli abitanti di Gerusalemme è il costato aperto di Gesù; le acque vive che escono da Gerusalemme (Zaccaria) sono per Giovanni le acque vive che sgorgano dal suo intimo, che è il nuovo tempio; queste acque portano a oriente e occidente purificazione e vita. Abbiamo qui il tema dell’universalità della salvezza, segnalato, nel racconto della Passione, anche dal titolo della croce che diceva: «Re dei giudei». Eppure la scritta era in ebraico, greco e latino: quindi una regalità proclamata al mondo intero. Si verificava in questo modo anche l’ultima profezia di Zaccaria dove non si parla più di un pastore trafitto, ma del Signore e della sua regalità universale al tempo escatologico: «Sarà Re di tutta la terra» (Zac 14,9). Giovanni dà quindi alla scena della croce un significato storico salvifico molto ampio, in pieno accordo con gli altri grandi tempi teologici che si allacciano a questo versetto 37 preso in esame.

Potremmo anche citare altri due passi della Scrittura dove si parla della Nuova Alleanza. Nel primo, (Ger 31,33-34), questa non sarà più riportata su tavole esteriori di pietra, bensì inscritta nel cuore:

«Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni ― oracolo del Signore ― porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande ― oracolo del Signore ― poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».

Nel secondo, (Ez 36,25-27), si fa riferimento sempre all’alleanza, ma sancita dal dono di uno spirito, simile ad acqua che purifica, da cui anche il dono di un cuore nuovo:

«Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme».

Tutto questo sfondo scritturale ci fa capire cosa intendesse Giovanni quando riportò la frase profetica: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»; che si trova solo nel suo Vangelo, alla fine di un testo che, come abbiamo già sottolineato, è il riferimento preferito quando parliamo di devozione al Sacro Cuore di Gesù. Queste parole sintetizzano il riconoscimento e la comprensione[2] per mezzo della fede di quello che abitava nell’intimo del cuore di Cristo morente che «Avendo amato i suoi… fino alla fine» e avendo ora tutto compiuto, esprime il desiderio interiore di donare lo Spirito. Coloro che indirizzeranno verso Gesù il proprio sguardo non potranno essere più gli astanti o i soldati che hanno assistito alla crocifissione, ma sono ormai le anime credenti che penetrano e conservano con fede il mistero dell’amore di Gesù, in una parola il suo Cuore.

Cerchiamo di comprendere meglio tutto questo, lasciandoci guidare dalla struttura letteraria del brano giovanneo che descrive gli attimi precedenti e seguenti la morte di Gesù in croce. Naturalmente possiamo solo sintetizzare molto. Essa ci permette di evidenziare la presenza di tre binomi: «tutto è compiuto» e «ho sete» al v. 28; «è compiuto» e «rese lo Spirito» del v. 30; infine «sangue e acqua» del v. 34. Da questi tre si dipartono due linee tematiche, verso cui occorre dirigere lo sguardo di fede.

La prima linea che chiameremo cristologica è disegnata dalle espressioni: «tutto è compiuto», «è compiuto» e «sangue». Rappresentano il compendio dell’opera salvifica di Gesù. In questo caso lo sguardo si volge indietro, a ciò che è passato, per cogliere in queste parole la totale obbedienza di Gesù al Padre: ha portato a compimento la sua opera, fino all’effusione del sangue. Ma è anche visione del compimento di quell’amore salvifico per noi, quel «fino alla fine» di Gv 13,1. Quindi vediamo qui, nel costato aperto del Cristo, sia la sua perfetta oblatività, che l’amore all’eccesso per noi.

La seconda linea tematica è rivolta invece al futuro, alla vita della Chiesa che come abbiamo provato a descrivere in un precedente articolo, è lì presente nella persona del discepolo amato e della Donna, la Madre di Gesù, chiamata ad una nuova maternità spirituale verso i discepoli credenti. Questa linea, pneumatologia, è delineata dalle parole: «Ho sete», «rese lo Spirito» ed «acqua».

L’acqua che defluisce dal costato di Cristo è simbolo del dono dello Spirito e proviene dal Cristo stesso: è lui che «diede lo Spirito»; è da lui che parte questo desiderio: «Ho sete». Notiamo infatti una significativa differenza fra la citazione di Zaccaria e il modo come la riporta Giovanni nel Vangelo. Per Giovanni non si tratta più di volgere lo sguardo verso Dio, ma verso «colui», Cristo, che è stato trafitto. Tutta l’attenzione, ovvero lo sguardo credente, è concentrata su di lui e sul momento della uscita dal suo intimo del sangue e dell’acqua. Inoltre l’antica profezia parlava di pentimento, la qual cosa vien sottaciuta da Giovanni che preferisce concentrarsi sul vedere.

Esistono molti studi che confermano i diversi modi di vedere nel quarto Vangelo e come, per Giovanni, quello più perfetto è il vedere che comprende con fede il mistero rivelato e lo conserva nella memoria. Aggiungiamo che questo vedere è finalizzato alla partecipazione dei lettori del Vangelo alla medesima esperienza, come Giovanni stesso confessa nella prima finale della sua opera: «Questi (i segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 31)[3].

Quindi, ancora una volta, l’Evangelista scrive per indirizzare il lettore dalla storia al mistero. Si vede un costato trafitto, del sangue e dell’acqua che escono e vi si contempla tutto il mondo interiore del Cristo e temi di grande, grandissimo spessore teologico, ecclesiale e spirituale, altro che devozionismo magico-esoterico. L’acqua del costato di Gesù è simbolo dello Spirito che sgorga dal suo fianco, Egli diventa il nuovo tempio escatologico (cfr. Ez 47). Nello stesso tempo il sangue rimanda al suo dono oblativo al Padre, alla sua opera compiuta e al suo amore per noi. Lo sguardo di fede che contempla è desiderio di partecipare a tutto questo mondo interiore del Cristo che viene manifestato.

In questo passo giovanneo non si parla esplicitamente del cuore, piuttosto della interiorità di Gesù. Sarà la mistica medievale che identificherà questo mondo interiore come il cuore di Cristo e farà di questo passo del costato trafitto il testo biblico per eccellenza della teologia e della spiritualità del Cuore Divino di Gesù. Sant’Ambrogio diceva:

«La Chiesa sia introdotta nella stanza segreta di Cristo…; la stanza segreta della Chiesa è il Corpo di Cristo; il Re l’ha introdotta all’interno di tutti i (suoi) misteri» (Sant’Ambrogio, In Ps. 218, 1,16 CSEL 62,16).

E Guglielmo di Saint-Thierry:

«Che per la porta aperta noi entriamo tutti interi fino al tuo cuore, o Gesù… fino alla tua anima santa»; domandando al Salvatore: «Di aprire il fianco del suo corpo perché vi entrino coloro che desiderano vedere i segreti del Figlio» (Guglielmo di Saint-Thierry, Meditativae orationes, 6; PL 180, 226A).

Oggi, grazie alla moderna esegesi accurata, diamo a queste bellissime affermazioni una solida base evangelica e le apprezziamo meglio.

Avendo, ancora una volta, sintetizzato temi che avrebbero necessitato una trattazione più lunga e approfondita, l’intento di questo contributo potrebbe essere quello di suscitare, dopo l’assaggio, un vero gusto ed interesse. L’intelligenza della fede non smette mai di approfondire tematiche che sono care al popolo cristiano, anche una devozione può diventare una porta verso una comprensione sempre più larga e profonda dei misteri di Dio e della fede. Quando si avvicinerà il mese di giugno, tradizionalmente dedicato al Cuore di Cristo, diamo un senso nuovo a questa devozione, alle preghiere che sceglieremo o alle immagini che condivideremo sui social. Per esempio, la pratica dei «primi nove Venerdì», dopo quello che si è detto qui, non sia più semplicemente la preghiera e la devozione del singolo, ma sia pensata nel contesto più ampio della comunione ecclesiale e del mistero cristiano, come abbiamo scoperto riflettendo sul Vangelo, ripensando al dono di Gesù della sua vita e del suo Spirito per tutti, non solo per la singola anima.

Questi aspetti furono colti da Papa Giovanni Paolo II che li espresse in una udienza pubblica. Sono passati venticinque anni da quelle parole che riporto adesso di seguito:

«L’Evangelista parla soltanto del colpo di lancia al costato, da cui usci sangue e acqua. Il linguaggio della descrizione è quasi medico, anatomico. La lancia del soldato ha colpito certamente il cuore, per verificare se il Condannato era già morto. Questo cuore – questo cuore umano – ha smesso di lavorare. Gesù ha cessato di vivere. Contemporaneamente, però, questa anatomica apertura del cuore di Cristo dopo la morte – nonostante tutta l’«asprezza» storica del testo – ci spinge a pensare anche a livello di metafora. Il cuore non è soltanto un organo che condiziona la vitalità biologica dell’uomo. Il cuore è un simbolo. Parla di tutto l’uomo interiore. Parla dell’interno spirituale dell’uomo. E la tradizione subito ha riletto questo senso della descrizione giovannea. Del resto, in un certo senso, l’Evangelista stesso ha dato a ciò la spinta, quando, riferendosi all’attestazione del testimone oculare che era lui stesso, si è riferito, nel medesimo tempo, a questa frase della Sacra Scrittura: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Zc 12,10). Così, in realtà, guarda la Chiesa; così guarda l’umanità. Ed ecco, nel Trafitto dalla lancia del soldato tutte le generazioni dei cristiani hanno imparato e imparano a leggere il mistero del Cuore dell’Uomo Crocifisso che era ed è il Figlio di Dio». (San Giovanni Paolo II, Udienza generale del 20 Giugno 1979).

Ho intitolato questo contributo: L’ultima devozione di Cristo. Per chi sa di cinema è evidente il riferimento al film di Martin Scorsese su Gesù del 1988: L’ultima tentazione di Cristo. Ma solo per dire che, mentre la finzione cinematografica può anche immaginare che Cristo fu tentato di recedere dal suo cammino, il Vangelo ci ha raccontato che Egli andò fino in fondo, con una devozione verso la sua missione che alla fine ha svelato cosa c’era dentro il suo Cuore colmo di amore. 

Sanluri 27 febbraio 2024

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Le tifoserie di Maria co-redentrice, una grossolana contraddizione in termini teologici

LE TIFOSERIE DI MARIA CO-REDENTRICE, UNA GROSSOLANA CONTRADDIZIONE IN TERMINI TEOLOGICI

Qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

— Le pagine di Theologica —

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Articolo dedicato alla memoria del Gesuita Peter Gumpel (Hannover 1923 – Roma 2023) che fu mio formatore e prezioso maestro nell’ambito della storia del dogma

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Frequentando abbastanza i social media, leggendo e ascoltando sacerdoti e laici, su argomenti biblici e teologici, a volte si ha l’impressione che non sia intervenuto alcun progresso su certi temi. Accade così che su questioni che riguardano argomenti di fede sono messe in circolazione molte imprecisioni, oppure si continua su registri vecchi, devozionali ed emozionali.

Salvador Dalí, La Madonna di Port Lligat, 1949, Haggerty Museum of Art, Milwaukee, WI, USA. Dettaglio.

Il desiderio, forse un po’ utopico, sarebbe che i Lettori si rendano conto, con un minimo impegno, che potrebbero beneficiare di approfondimenti seri e precisi. Perlomeno è nella speranza mia e dei Padri di questa nostra Isola di Patmos, essere di aiuto a coloro che riescono ad andare oltre le quattro o cinque righe lette sui social media, dove oggi pontificano improbabili teologi e mariologi, con le conseguenze che spesso ben sappiamo: la deviazione dalla vera fede. E questo dispiace molto, perché i Social Media potrebbero essere per noi strumento straordinario per la diffusione della sana e solida dottrina cattolica.

Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo da quando, fin dall’epoca del Venerabile Pontefice Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano a un testo scritto. Per citare solo alcuni esempi: l’analisi retorica, la strutturale, la letteraria e la semantica hanno prodotto risultati che forse qualche volta saranno apparsi insoddisfacenti, ma hanno anche permesso di scandagliare in modo nuovo il testo della Sacra Scrittura e ciò ha portato a tutta una serie di studi che ci hanno fatto conoscere meglio e più approfonditamente la Parola di Dio. Oppure di riconsiderare acquisizioni antiche, della tradizione, dei Santi Padri della Chiesa, che pur risultando vere e profonde, nonché opere di alta teologia, tuttavia non avevano il supporto di uno studio moderno dei testi sacri, proprio perché ancóra, certi strumenti, all’epoca delle loro speculazioni mancavano.

Prima di proseguire è necessario un inciso: i “teologi” da social media hanno bisogno della lite, per scatenare la quale è necessario scegliersi e fabbricarsi un nemico. Per certi gruppi il nemico più gettonano è il Modernismo, definito a giusta ragione dal Santo Pontefice Pio X come sintesi di tutte le eresie» (cfr. Pascendi Dominici Gregis). Ciò non vuol dire, però, che l’agire di questo Santo Pontefice, prima ancóra quello e del suo Sommo Predecessore Leone XIII, abbia sempre prodotto effetti benefici nei decenni a seguire. Ovviamente, per fare una analisi critica obbiettiva, è di rigore contestualizzare la condanna del Modernismo e i severi provvedimenti canonici che ne seguirono in quel preciso momento storico, non certo esprimere giudizi usando criteri legati al nostro presente, perché ne uscirebbero fuori solo sentenze fuorvianti e falsanti. Per sintetizzare in breve questo complesso problema al quale mi sono riservato di dedicare un mio prossimo libro, basti dire che la Chiesa di quegli anni, dopo la caduta dello Stato Pontificio avvenuta il 20 settembre 1870, era soggetta a violenti attacchi politici e sociali. Il Romano Pontefice si era ritirato come “volontario prigioniero” tra le mura vaticane dalle quali uscirà fuori solo sei decenni dopo. L’anticlericalismo di matrice massonica era elevato alla massima potenza e la Chiesa doveva fare seriamente i conti con la propria sopravvivenza e con quella della istituzione del papato. Non poteva certo permettersi lo sviluppo di correnti di pensiero che l’avrebbero attaccata e corrosa direttamente dal proprio interno. È in questo delicato contesto che si colloca la lotta del Santo Pontefice Pio X al Modernismo. Con tutte le conseguenze anche negative del caso: la speculazione teologica fu di fatto congelata tra mille paure e la formazione dei preti ridotta a quattro formulette della neo-scolastica decadente, che della scolastica classica di Sant’Anselmo d’Aosta e di San Tommaso d’Aquino non era neppure lontana parente. Ciò produsse nel clero cattolico una impreparazione e una tale ignoranza che per averne chiara prova basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii scritta nel 1935 del Sommo Pontefice Pio XI.

Le conseguenze della lotta al Modernismo furono per certi versi disastrose, basti dire che quando alle soglie degli anni Quaranta del Novecento, all’inizio del pontificato di Pio XII, i teologi e i biblisti cattolici cominciarono a mettere mano su certi materiali e a fare esegesi nell’ambito vetero e novo testamentario, furono costretti, in modo discreto e lavorando prudentemente sottobanco, a rifarsi ad autori protestanti, che su certe tematiche speculavano e portavano avanti già da decenni studi approfonditi, specie nell’ambito delle scienze bibliche. E così oggi, se vogliamo fare uno studio e una analisi del testo della Lettera ai Romani dobbiamo di necessità rifarci al commento del teologo protestante Carl Barth, che rimane fondamentale e soprattutto insuperato. Anche questi furono i frutti della lotta contro il Modernismo, di cui certo non parlano i “teologi” da social media che per esistere hanno bisogno di un nemico da combattere. Come però già detto, questo tema sarà oggetto di un mio prossimo libro, ma era necessario questo inciso per meglio introdurre il nostro tema.

Quello che tutt’oggi seguita a mancare è che questi risultati ottenuti attraverso la moderna esegesi o lo studio dei testi vetero e novo testamentari diventino appannaggio della maggioranza dei credenti. E qui torno a ribadire la straordinaria importanza che potrebbero avere i social media, per diffondere e rendere accessibili certi materiali. Troppo spesso rimangono invece confinati nei testi specialistici e non passano, se non sporadicamente, nella predicazione e nella catechesi, favorendo una consapevolezza nuova dei termini in gioco e quindi una fede cristiana più solida e motivata, non basata soltanto su dati acquisiti spesso fragili e confusi, sul devozionale, sul sentimentale, o peggio: su rivelazioni, su apparizioni vere o presunte, o sui pruriginosi “segreti” tremebondi della logorroica Gospa di Medjugorje (cfr. mia video conferenza, QUI)… e via dicendo a seguire.

Se certe tifoserie madonnolatriche avessero l’umiltà, forse anche la decenza di leggere libri e articoli di autorevoli studiosi, forse potrebbero comprendere che non solo, non hanno compreso, ma che della Maria dei Santi Vangeli non hanno capito proprio niente. Basterebbe prendere ― ne cito uno solo tra i tanti ― l’articolo scritto da Padre Ignace de la Potterie: «La Madre di Gesù e il mistero di Cana» (La Civiltà Cattolica, 1979, IV, pp. 425-440, testo integrale QUI), per comprendere così quale abissale differenza possa correre tra la mariologia e la mariolatria.  

Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra certi presbiteri — e a maggior ragione tra certi devoti fedeli — assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali, sino a giungere con il passo degli elefanti dentro una cristalleria al tema molto delicato e discusso di Maria co-redentrice, che come risaputo — e come più volte hanno puntualizzato anche gli ultimi Pontefici —, è un termine che di per sé crea enormi problemi teologici con la cristologia e il mistero stesso della redenzione. Affermare infatti che Maria, creatura perfetta nata senza peccato, ma pur sempre creatura creata, ha cooperato alla redenzione dell’umanità, non è propriamente come affermare che ha co-redento l’umanità. A operare la redenzione è stato Cristo, che non era una creatura creata ma il Verbo di Dio fatto uomo, generato non creato della stessa sostanza di Dio Padre, come recitiamo nel Simbolo di Fede, il Credo, dove professiamo «[…] e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». Nel Simbolo di Fede, la redenzione è tutta quanta incentrata sul Cristo. Ecco perché dire che la Beata Vergine “ha cooperato” e dire “ha co-redento” ha una valenza teologica sostanzialmente e radicalmente diversa. Uno solo è infatti il redentore: Gesù Cristo Dio fatto uomo «generato non creato della stessa sostanza del Padre», che come tale non ha bisogno di alcuna creatura creata che lo supporti o lo sostenga come co-redentore o co-redentrice, compresa la Beata Vergine Maria» (cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, in L’Isola di Patmos, vedere QUI, QUI, QUI). Domanda: alle tifoserie della co-redentrice, come mai non basta che Maria sia colei che di fatto ha cooperato più di qualsiasi creatura affinché si realizzasse il mistero della redenzione? Per quale motivo, ma soprattutto per quale ostinazione, non contenti della sua figura di cooperatrice, vogliono a tutti i costi che sia proclamata co-redentrice con una solenne definizione dogmatica?

Dal punto di vista teologico e dogmatico, il concetto stesso di Maria co-redentrice crea anzitutto grossi problemi alla cristologia, col rischio di dare vita a una sorta di “quatrinità” e di elevare la Madonna, che è creatura perfetta nata senza macchia di peccato originale, a ruolo di vera e propria divinità. Cristo ci ha redenti col suo ipostatico sangue prezioso umano e divino, con il suo corpo glorioso risorto che porta tutt’oggi impressi su di sé i segni della passione. Maria invece, pur ricoprendo un ruolo straordinario nella storia della economia della salvezza, ha cooperato alla nostra redenzione. Dire co-redentrice equivale a dire che siamo stati redenti da Cristo e da Maria. E qui è bene chiarire: Cristo salva, Maria intercede per la nostra salvezza. Non è una differenza di poco conto “salvare” e “intercedere”, salvo creare in caso contrario una religione diversa da quella nata sul mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio (cfr. mio precedente articolo QUI).

La mariologia non è qualche cosa di a sé stante, quasi come se vivesse di vita autonoma. La mariologia non è altro che una appendice della cristologia ed è inserita in una precisa dimensione teologica di cristocentrismo. Se la mariologia è in qualche modo distaccata da questa centralità cristocentrica, si può correre il serio rischio di cadere nel peggiore e più deleterio mariocentrismo. Per non parlare della palese arroganza degli esponenti di qualche giovane e problematica Congregazione di impronta francescana-mariana, che non si sono limitati a fare ipotesi o studi teologici per supportare l’idea peregrina della cosiddetta co-redentrice, ma di fatto ne istituirono il culto e la venerazione.

Chi proclama dogmi che non esistono compie un delitto maggiore rispetto a coloro che i dogmi li negano, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione dopo secoli di studi e speculazioni ― come nel caso del dogma della immacolata concezione e dell’assunzione al cielo di Maria ―, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono, in quel caso entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore. L’ho scritto e spiegato in diversi miei precedenti articoli ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria l’intero mistero del male ― che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto [Cfr. Catechismo n. 1866] ―, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa nel mio libro E Satana si fece trino, spiegando in un mio libro del 2011 in qual modo si sia spesso esagerato oltre misura sul sesto comandamento, spesso dimenticando tutti i peggiori e più gravi peccati contro la carità.

Se poi tutto questo è filtrato attraverso emotività di stampo fideistico ― come se un tema così delicato incentrato nelle sfere più complesse della dogmatica fosse una sorta di tifoserie opposte composte da tifosi laziali e tifosi romanisti ―, in quel caso si può cadere nella vera e propria idolatria mariana o nella cosiddetta mariolatria, che equivale a dire: paganesimo allo stato puro. A quel punto Maria potrebbe assumere tranquillamente il nome di qualsiasi dea dell’Olimpo greco o del Pantheon romano.

Le tifoserie da social media della co-redenzione della Beata Vergine affermano come una sorta di prova incontrovertibile che sarebbe stata Maria stessa a chiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano (cfr. tra i tanti articoli, QUI). Cosa sulla quale a loro dire non si discute, lo avrebbe chiesto la Beata Vergine stessa apparendo ad Amsterdam a Ida Peerdeman. Premesso che nessuna apparizione mariana, incluse quelle riconosciute come autentiche dalla Chiesa, Fatima inclusa, può essere oggetto e materia vincolante di fede; premesso altresì che meno ancora lo sono le locuzioni di certi veggenti, possiamo solo sorridere su certe amenità da teologi dilettanti che rendono taluni soggetti difficilmente gestibili per noi preti e soprattutto per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con quella loro ignoranza che li porta a trattare un simile tema come se davvero fosse uno scambio acceso tra tifosi della Lazio e tifosi della Roma che si urlano dalle opposte curve dello stadio. Anche in questo caso la risposta è semplice: qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

Ecco infine la “prova delle prove”: «diversi Sommi Pontefici hanno fatto uso del termine co-redentrice», detto questo segue l’elenco dei loro vari discorsi, benché il tutto dimostri però l’esatto contrario di ciò che le tifoserie della co-redenzione vorrebbero provare. È sì vero che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, in un suo discorso dell’8 settembre 1982, affermò:

«Maria, pur concepita e nata senza macchia di peccato, ha partecipato in maniera mirabile alle sofferenze del suo divin Figlio, per essere co-redentrice dell’umanità».

Questa espressione dimostra però l’esatto contrario sul piano teologico e mariologico. Chiariamo perché: da allora a seguire Giovanni Paolo II ― che era indubitabilmente un Pontefice di profonda devozione mariana ―, dinanzi a sé ebbe altri 23 anni di pontificato. Come mai, in questo lungo lasso di tempo, oltre a non proclamare il quinto dogma mariano della co-redenzione di Maria, respinse in modo deciso la richiesta, quando per due volte gli fu presentata? La respinse perché tra il 1962 e il 1965, l’allora giovane Vescovo Karol Woytila fu una figura partecipe e attiva al Concilio Vaticano II che in una delle sue costituzioni dogmatiche chiarì come Maria avesse «cooperato in modo unico all’opera del Salvatore» (Lumen gentium, 61). Affermazione introdotta dal precedente articolo dove si precisa che L’unica mediazione del Redentore «non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte» (Lumen gentium 60; CCC 970). E la cooperazione più alta e straordinaria è stata quella della Vergine Maria. Ciò dovrebbe bastare per comprendere che i Sommi Pontefici, quando alcune volte hanno fatto ricorso al termine co-redentrice in loro discorsi, mai in encicliche o atti solenni del sommo magistero, intendevano esprimere con esso il concetto di cooperazione di Maria al mistero della salvezza e della redenzione.

Il termine stesso di co-redentrice è in sé e di per sé una assurdità teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici, lo ha ripetuto per tre volte, nel 2019, 2020 e 2021 anche il Sommo Pontefice Francesco:

«[…] Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola. E c’è un Santo Padre che dice in giro che è più degno il discepolato della maternità. Questioni di teologi, ma discepola. Non ha mai rubato per sé nulla di suo Figlio, lo ha servito perché è madre, dà la vita nella pienezza dei tempi a questo Figlio nato da una donna (cfr. Omelia del 12 dicembre 2019, testo integrale QUI) […] la Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere una quasi-redentrice o una co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia. Soltanto discepola e Madre (cfr. Omelia del 3 aprile 2020, testo integrale QUI) […] la Madonna che, come Madre alla quale Gesù ci ha affidati, avvolge tutti noi; ma come Madre, non come dea, non come corredentrice: come Madre. È vero che la pietà cristiana sempre le dà dei titoli belli, come un figlio alla mamma: quante cose belle dice un figlio alla mamma alla quale vuole bene! Ma stiamo attenti: le cose belle che la Chiesa e i Santi dicono di Maria nulla tolgono all’unicità redentrice di Cristo. Lui è l’unico Redentore. Sono espressioni d’amore come un figlio alla mamma, alcune volte esagerate. Ma l’amore, noi sappiamo, sempre ci fa fare cose esagerate, ma con amore» (cfr. Udienza del 24 marzo 2021, testo integrale QUI).

Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Se quindi non ci redime, perché si insiste affinché sia dogmatizzato un titolo mirato a definire solennemente che ci co-redime?

È probabile che molti tifosi della co-redenzione non abbiano mai prestato attenzione alle invocazioni delle Litanie Lauretane, che non furono certo opera di qualche recente pontefice in odore di modernismo, come direbbero alcuni, furono aggiunte alla recita del Santo Rosario dal Santo Pontefice Pio V dopo la vittoria della Lega Santa a Lepanto nel 1571, sebbene già in uso da diversi decenni nel Santuario della Casa di Loreto, dalla quale traggono nome. Eppure basterebbe porsi questa domanda: come mai, quando all’inizio di queste litanie si invocano Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, diciamo «miserere nobis» (abbi pietà/msericordia di noi)? Mentre appena s’inizia, con l’invocazione Sancta Maria, a enunciare tutti i titoli della Beata Vergine, da quel momento in poi diciamo «Ora pro nobis» (prega per noi)? Semplice: perché Dio Padre che ci ha creati e che ha donato all’umanità sé stesso mediante l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, i quali hanno fatto poi giungere lo Spirito Santo che «procede dal Padre e dal Figlio», con pietosa misericordia donano la grazia del perdono dai peccati mediante una azione trinitaria del Dio uno e trino, la Vergine Maria no, i peccati non ce li rimette e non ce li perdona, perché nella economia della salvezza il suo ruolo è quello di intercedere. Questo il motivo per il quale, quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina, da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci (cfr. mio precedente articolo, QUI). Solo questo dovrebbe di per sé bastare e avanzare per comprendere che il termine stesso co-redentrice è una grossolana contraddizione a livello teologico, quanto basta purtroppo a rendere grossolani quei teologi che insistono nel richiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano, caricando e usando come tifoseria frange di fedeli gran parte dei quali hanno profonde e serie lacune sui fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica.

La persona della Vergine Maria, la Madre di Gesù, viene guardata e indicata con una profondità teologica che la colloca in stretto rapporto con la missione del suo Figlio e unita a noi discepoli, perché questo è il suo ruolo che i Vangeli ci hanno voluto comunicare e ricordare, il tutto con buona pace di quanti pretendono, a volte persino in modo arrogante, di relegare la Donna del Magnificat in un microcosmo di devozionismi emotivi che spesso lasciano persino percepire il fumus del neo-paganesimo. Ha quindi ragione il Sommo Pontefice Francesco, che con il suo stile molto semplice e diretto, a volte persino volutamente provocatorio e per taluni persino indisponente, ma proprio per questo capace a farsi intendere da tutti, ha precisato che Maria «[…] non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice». E non si è presentata come tale perché Maria è la Donna del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»; beata perché mi sono fatta serva, non certo perché ho chiesto, a qualche veggente svalvolato, di essere proclamata co-redentrice.

 

dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2024

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La Madre di Gesù, il tesoro nascosto nei Vangeli

LA MADRE DI GESÙ, IL TESORO NASCOSTO NEI VANGELI

«Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque».

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la Teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo almeno da quando, fin dall’epoca di Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano ad un testo scritto.

L’Annuncio – Opera di Salvador Dalì, 1960, Musei Vaticani (cliccare sull’immagine per aprire la pagina)

Quanti sono a conoscenza degli enormi vantaggi che gli studi esegetici hanno recato alla teologia che indaga la figura e il ruolo della Vergine Maria, la cosiddetta mariologia. Quale ricchezza poter dire oggi che il racconto dell’annunciazione (Lc 1, 26-38) per la sua forma letteraria, pur conservando all’interno la comunicazione di una nascita miracolosa, è tuttavia un racconto di vocazione: la vocazione di Maria. Ma chi lo sa? Chi si è accorto che nella versione CEI della Bibbia del 2008, quella che leggiamo attualmente nelle nostre liturgie, l’annuncio dell’angelo a Maria è oggi reso con: «Rallegrati»; quando nella precedente versione del 1974 si leggeva: «Ti saluto»; a causa della grande influenza dovuta alla preghiera dell’Ave Maria? Fu il gesuita Padre Stanislas Lyonnet[1] il primo che nel 1939 fece notare che l’imperativo invito alla gioia («rallegrati», Kayre di Lc 1,28) faceva riferimento ai testi profetici rivolti alla «figlia di Sion» (Sof 3,14). Cambia tutto, non più un semplice saluto, ma a Maria viene comunicato un invito che in passato era rivolto ad Israele verso cui i profeti si rivolgevano come a una donna. Nel medioevo dicevano che per la sua funzione materna Maria era «Figura della sinagoga»[2], oggi, grazie alle acquisizioni esegetiche diamo a questa affermazione una connotazione nuova e più solida dal punto di vista scritturistico.

Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra i presbiteri e a maggior ragione i fedeli, assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali; al massimo ci si spinge a ricalcare il delicato e discusso tema di Maria co-redentrice. Quante omelie volendo spiegare l’episodio di Cana ne parlano ancora come di un semplice miracolo? Nel brano evangelico questa parola non c’è. Si parla invece di «segno» ― «Gesù fece questo come inizio dei segni» (Gv 2,11) ― che nel Quarto Vangelo ha tutt’altra profondità teologica e pregnanza. E lì era presente Maria, che neanche viene chiamata per nome, ma solo identificata come: «Donna». Eppure non si sente altro che parlare della Madonna: La Madonna che ha forzato il miracolo. Chissà quanti sanno che la frase di Gesù a sua Madre è con molta probabilità una interrogativa ― «Non è ancora giunta la mia ora?» ― come ha provato un valente esegeta ormai decine di anni fa[3]. La nuova Bibbia Cei non lo riporta ancora, ma almeno, dalla precedente versione, è stato cambiato il termine miracolo e ora possiamo leggere finalmente la parola «segno» (Gv 2,11).

Un altro interessante cambio di prospettiva che pian piano è avvenuto, mentre si scrutava con attenzione la figura di Maria nei Vangeli, è stato quello di accantonare il tradizionale legame fra Lei e la figura di Eva, protagonista del protovangelo di Genesi. Perché più aderente ai testi e ricco di prospettive teologiche ed ecclesiologiche risultava invece vedere Maria come immagine di quella figlia di Sion biblica (Sal 86 [87],5, 5 LXX), la Gerusalemme nuova che diviene protagonista della nuova Alleanza con Gesù.

Questo emerge con evidenza nei racconti evangelici, soprattutto in due testi giovannei che vedono Maria, mai chiamata col suo nome proprio, ma identificata piuttosto come «La madre di Gesù» o più curiosamente come «Donna». L’episodio delle nozze di Cana (Gv 2, 1-11) e quello della «Madre» sotto la croce (Gv 19,25-27) insieme al discepolo amato, sono direttamente collegati proprio in ragione della presenza in entrambi i momenti di questa «Donna».

Nel primo caso, a Cana, siamo all’inizio della manifestazione di Gesù, nel secondo episodio siamo invece al termine di questa rivelazione, lì: «Tutto era compiuto» (Gv 19,28). Rivelazione che rappresenta il motivo conduttore del Vangelo giovanneo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Cana è il punto culminante di una settimana nella quale Gesù inizia a manifestarsi ai suoi primi discepoli, dopo il primo grande giorno senza tempo del prologo; la croce è il momento finale, prima della risurrezione certo, che vede Gesù rivelare alla Madre e al discepolo, colui che non ha mai smesso di seguire Gesù fin dall’inizio, il grande mistero della Chiesa che guarda con fede ciò che è accaduto e lo testimonia: «Chi ha visto ne da testimonianza» (Gv 19,35).

A Cana, Maria, la Madre di Gesù, è quella Donna che rappresenta l’umanità nell’indigenza e il giudaismo che viveva della speranza messianica. Le parole così apodittiche ― «Essi non hanno vino» (Gv 2,3) ― starebbero a significare il desiderio d’Israele di vedere il diffondersi del vino messianico ovvero la rivelazione definitiva della Nuova Alleanza, secondo il ricco simbolismo del vino nella tradizione biblica e giudaica. Ella invita, perciò, i discepoli a rinnovare quel proposito espresso già nella antica alleanza del Sinai: «Tutto ciò che Jahvè ha detto, noi lo faremo»; «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Es 19,8; cfr anche 24,3.7; Gv 2,5).

San Giovanni evangelista, come spesso fa nel corso della sua opera, per esempio nel racconto della Samaritana al pozzo (Gv 4,13-14), ci chiede di elevarci dal piano umano e storico a quello più spirituale e teologico. Dove spirituale non vuol dire meno aderente al vero, bensì designa e indica il significato più nascosto e profondo celato dentro un racconto, in linea con quello che anche la moderna ermeneutica va scoprendo. Martin Heidegger nei suoi scritti dice che il linguaggio si trova nell’«impronunciabile» e il senso nel «non-detto» del testo, mentre il filosofo Emmanuel Lévinas parla di andare «al di là del versetto», Gregorio Magno, un medievale, diceva addirittura che: «Il testo cresce con colui che lo legge».

Nei riguardi di Maria, il Vangelo ci fa dunque passare dal significato immediato e più evidente di Lei in quanto madre di Gesù perché lo ha portato in grembo e partorito, a quello di rappresentante di un’intera comunità che desidera unirsi a Gesù che, visto il contesto, vuole legarsi a Lui come una Sposa al suo Sposo, poiché Egli è Colui che porta la salvezza, il vino nuovo simbolo della nuova alleanza messianica. Tutto l’insieme del brano e l’uso del termine «Donna» è un invito ad elevarci dal piano storico e letterale al senso più recondito e profondo che è spirituale, teologico e altamente significativo per i credenti. È per questo che l’episodio di Cana si colloca alla fine di una prima settimana di manifestazione di Gesù ai suoi discepoli, curiosi di sapere chi sia, cosa porta di nuovo rispetto a Giovanni che lo ha indicato (Gv 1,36) e dove sta il suo segreto: «Dove rimani? » (Gv 1,38). Non a caso l’evangelista commenta alla fine che proprio a Cana Gesù non fece un semplice miracolo, ma «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli iniziarono a credere in lui» (Gv 2,11).

Se il ruolo materno della Donna verso i discepoli, a Cana, era abbozzato o per meglio dire iniziale, sotto la croce questo appare con evidenza. Maria riceve proprio lì una nuova maternità spirituale che si esplica nella mutua relazione fra lei ed un discepolo: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,25-27).

Si suole dire che quando qualcuno si trova in punto di morte di solito pronuncia parole importanti, definitive. E queste sono le ultime parole di Gesù prima di morire, prima di proferire quel definitivo: «Ho sete». Ma ancora una volta San Giovanni ci avverte che qui è celata una importante rivelazione. Lo fa adoperando uno schema più volte usato nella sua opera, ovvero utilizzando i due verbi: vedere, dire; e poi l’avverbio «ecco», in sequenza. Gli studiosi chiamano questo procedimento: schema di rivelazione; perché sta ad indicare che l’autore ci sta segnalando qualcosa di nuovo che viene illustrato.

Nel raccontare la passione, la crocifissione e la morte di Gesù, Giovanni non si smentisce e vi addensa temi di grande importanza teologica. La regalità di Gesù è universale, come segnalano le lingue del titolo della croce: «Era scritta in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,20); tutti i figli di Dio dispersi sono radunati: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me»  (Gv 12,32); la sua tunica inconsutile rappresenta l’unità della Chiesa, almeno nella esegesi patristica per via del verbo skizo («σχίζω») qui usato, da cui scisma: «Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Egli è l’agnello pasquale integro: «Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso» (Gv 19,36; cfr. Es 12,46). E al culmine di questa rivelazione c’è la consegna da parte di Gesù di «sua madre» al discepolo.

Notiamo infatti nei versetti che la Madre di Gesù che è «sua» (termine ripetuto quattro volte), diventa per le parole di Gesù al discepolo: «Tua madre»; e viceversa lui per Lei: «Tuo figlio». Questo discepolo è amato perché è colui che non ha mai smesso di seguire Gesù fin dall’inizio, da quella iniziale settimana che sfocia nel segno di Cana a cui abbiamo accennato più sopra; cosa che, invece, non era riuscita a Pietro che dovrà riprendere la sequela più avanti. In questo senso rappresenta il discepolo per eccellenza verso cui tutti dovremmo conformarci, è simbolo di ogni vero discepolo di Gesù, capace, chinandosi sul suo petto, di cogliere gli aspetti più intimi di Lui. La Madre, come abbiamo visto a Cana, rappresenta la figlia di Sion, ma adesso nella sua funzione materna pienamente svelata. E’ colei che vede i suoi figli prima dispersi, ora radunarsi (Is 60, 4-5 LXX). Se a Cana, nella fase iniziale, questo rapporto era accennato, qui raggiunge tutta la sua evidenza. La «Donna» ora diventa la madre della Chiesa, rappresentata dal discepolo.

In che consiste questa nuova maternità che chiamiamo spirituale, in ragione del fatto che il vero e unico Figlio che lei ha avuto è Gesù? Proprio per il suo legame indissolubile con Gesù, Lei non potrà che essere da adesso in poi per il nuovo figlio, la chiesa, colei che conduce a Gesù, che invita a entrare nell’alleanza non più iniziale come a Cana, ma definitiva, sancita dalla morte salvifica del Cristo sulla croce. Sarà colei che rinnova nei riguardi dei discepoli quello che è stata per Gesù nell’incarnazione: sarà la Madre. Se già a Cana i discepoli non erano chiamati schiavi, bensì servi, i «diakonoi» di Gv 2,5, a maggior ragione qui essi sono considerati come figli. E questa maternità, donata sotto la croce, si esplica nell’aiutare il discepolo, tutti noi, a capire il significato profondo di quel che è avvenuto fin dall’inizio e di quel che sta accadendo in quel momento sul calvario. È per questo che il discepolo, dice il Vangelo, comprende immediatamente le parole di Gesù e prende quella che ormai è Sua Madre nel suo intimo. Non prende possesso, come se una donna passasse di proprietà da uno ad un altro, ma la accoglie per tutto quello che ora significa, grazie alla parola rivelativa appena detta da Gesù. Per tal motivo commenta l’evangelista: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,27).

Il discepolo, partecipe dell’ora messianica del Signore e grazie alla presenza materna di Maria può volgere verso Gesù in croce lo sguardo di colui che ha compreso, nel senso più ampio del termine, quello di portare con sé e dentro di sé il mistero grande di cui è testimone. Ed infatti queste sono le sue parole: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35).

Cosa testimonia il discepolo, appena dopo aver ricevuto questa nuova Madre? Che ha udito le ultime parole di Gesù sulla sua opera compiuta e le altre che esprimevano il suo desiderio di donare lo Spirito: «Ho sete» (Gv 19,28b). Sarà dopo la morte di Gesù, che Giovanni descriverà proprio come un consegnare lo Spirito – «tradidit spiritum» (Gv 19,30 Vulgata) – con l’apertura del costato da cui defluisce sangue, cioè la vita di Gesù donata finora, e  l’acqua, simbolo appunto del dono dello Spirito come più volte nel Vangelo era stato preannunciato (Gv 7, 37-38), che il suo sarà finalmente e definitivamente uno sguardo di fede rivolto perennemente a Gesù: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». (Gv 19,37). Scrive un Padre della Chiesa:

«Nessuno può raggiungere il senso (del Vangelo di Giovanni) se non abbia reclinato il capo sul petto di Gesù e da Gesù non abbia ricevuto Maria per madre, E, per essere un altro Giovanni, in modo che si senta designare da Gesù come fosse Gesù stesso. Perché… Maria non ha altri figli che Gesù; quando Gesù dice a sua Madre: “Ecco tuo figlio” e non: “Ecco questo uomo è anche tuo figlio”, è come se le dicesse: “Ecco Gesù che tu hai partorito”. In effetti chiunque è arrivato alla perfezione “non vive più ma Cristo vive in lui” e poiché Cristo vive in lui, Cristo dice di lui a Maria: “Ecco tuo figlio, il Cristo”»[4]

Se oggi rileggendo queste audaci parole di Origene ci accorgiamo di quanta verità teologica e bellezza spirituale esse contengano lo dobbiamo anche al fatto che lo studio di Maria nella Scrittura, che negli ultimi decenni è rifiorito, ci permette di raccogliere i frutti di un lavoro di analisi insieme rigorosa e amorosa dei testi biblici e di gustare affermazioni antiche con rinnovata consapevolezza. E la Chiesa raccomanda non solo che il testo sia studiato dagli specialisti, ma che tutti possano abbeverarsi alla fonte della Sacra Scrittura:

«Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché “quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini”». (Dei Verbum, 25).

Eccoci allora giunti allo scopo di questo piccolo contributo. Instillare nei lettori il desiderio di amare e conoscere la Scrittura in modo serio, ma anche appassionato. Qui abbiamo molto sintetizzato, davvero tanto, perché ogni singolo aspetto avrebbe richiesto una trattazione più diffusa. Speriamo serva almeno da stimolo o da input come si dice in gergo, soprattutto perché l’argomento trattato faceva riferimento alla Vergine Maria. Questo piccolo scritto possa aiutare chi legge a tornare a quella fonte della rivelazione che è la Bibbia che tanto può raccontarci di Maria, più che le narrazioni circolanti, anche sui social, spesso non di eccelsa qualità.  Perché come diceva un antico autore e lo lascio in latino tanto è di immediata comprensione: «Omnis Sacra Scriptura unus liber est, et ille unus liber Christus est»[5]

Sanluri, 6 febbraio 2023

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NOTE

[1]  LYONNET S., Kaire, Kejaritomene, Bíblica 20 (1939)

[2] Glossa interlinearis a Gv 2,1: «Mater figura synagogae», in Biblia sacra cura Glossa ordinaria…, V, Antverpiae, 1617, 1044; SAN   TOMMASO D’AQUINO, Super evang. S. Joannis (ed. Cai.), n. 346: «[…] gerens in hoc figuram synagogae, quac est mater Christi».

[3] VANHOYE A., Interrogation johannique et exégèse de Cana (Gv 2,4), in Biblica 55 (1974).

[4] Origene, Commento su San Giovanni, I,4,23; SC 120,70,72.

[5] Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2, 8: PL 176, 642; cf Ibid. 2, 9: PL 176, 642-643; Catechismo della Chiesa Cattolica, nr 134).

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Dal disorientamento dottrinale della Chiesa al peccato dei preti e al riciclo dei laici. Prospetto di una cultura intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna

DAL DISORIENTAMENTO DOTTRINALE DELLA CHIESA  AL PECCATO DEI PRETI E AL RICICLO DEI LAICI. PROSPETTO DI UNA CULTURA INTRANSIGENTE CHE MENTRE CONDANNA SANTIFICA E SANTIFICANDO CONDANNA

Il “tollerante” moderno, invece, non si sacrifica per le proprie idee come farebbe l’idealista, anzi non si fa scrupoli a immolare chi ha idee contrarie alle sue, così come farebbe un dittatore nei riguardi dei suoi oppositori. Quanti martiri della tolleranza e dei diritti oggi esistono? Ma forse i martiri più numerosi sono coloro che vengono additati quali inconsapevoli seminatori d’odio proprio perché divergenti, portatori di un odio che non si vede perché presente solo nello sguardo del tollerante di turno che ha interesse a usare l’odio come strumento ideologico di controllo delle masse. 

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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I.   UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO

Credo di non rivelare segreti inconfessabili se affermo che mantenersi cristiani cattolici, di questi tempi, non è affatto un’impresa semplice. Non si tratta tanto di conservare solamente una apparente identità tradizionale – per lo meno per quanto concerne il continente europeo – quanto il manifestare che Dio possiede ancora un certo diritto di cittadinanza nella vita degli uomini e che Cristo sia riconosciuto come evento fondativo e definitivo della rivelazione divina.

il crollo della volta della basilica di San Francesco in Assisi nel 1997 [cliccare sull’immagine per aprire il video]

Secondo un sondaggio del Pew Research Center [cf. QUI] condotto nel 2017 su un campione di 1.804 rispondenti, l’80% degli italiani si dichiara cristiano, il dato preoccupante riguarda invece la frequenza, infatti il 23% partecipa alle funzioni religiose almeno una volta a settimana, il 20% una volta al mese e il 34% ha una pratica molto meno assidua. Secondo altri dati relativi a una ricerca Ipsos del 2017, sempre in Italia, su 60.000 intervistati, i cattolici sono in diminuzione. Si passa dall’85,4% del 2007 al 74,4% del 2017. Uno studio più recente del 2018 dell’European Values Study l’84,4% degli italiani afferma genericamente di credere in Dio senza ulteriori utili specificazioni.

Dati alla mano stiamo subendo una diminuzione drastica della fede cristiana ma quello che un sondaggio non potrà mai dire riguarda la motivazione teologica che rappresenta il vero motivo di tale diminuzione. La motivazione teologica che diventa pietra di scandalo su cui si infrangono le impietose statistiche risiede nel fatto che non si è più in possesso dello specifico del cristianesimo, cosicché siamo spesso smarriti, in balia di una forma di Alzheimer che ci rende incapaci di riconoscere la fede e di riconoscerci come credenti pronti a darne ragione, come esprime San Pietro nella sua prima epistola [cfr. 1Pt 3,15-16].

Faccio un esempio per essere più chiaro. Nessun ebreo, di ieri come di oggi, si sognerebbe mai di disconoscere l’Alleanza tra Dio e Abramo e soprattutto l’evento fondativo che ha unificato il popolo eletto durante la Pasqua di liberazione in Egitto. Nessun ebreo, sano di mente, metterebbe in dubbio che Dio è il Goel liberatore e riscattatore del popolo e che in Mosè ha reso possibile la salvezza contro il dominio del faraone d’Egitto. Sebbene questa fede sia stata messa a dura prova davanti ai terribili fatti di Auschwitz, la fede dei nostri fratelli in Abramo resta sostanzialmente immutata da secoli e diventa motivo di identità etnica e religiosa da celebrare con orgoglio in ogni nucleo familiare.

Per noi cristiani, invece, avere una fede certa non è motivo di orgoglio ma di imbarazzo, spesso siamo i primi a considerarci intransigenti e fanatici quando proviamo ad elevarci al di sopra dalla mediocrità. Allora, per essere più digeribili agli occhi di chi ci guarda, preferiamo piuttosto colorarci di rosa e ostentare un amore universale che possiamo bellamente giustificare attraverso il discorso escatologico di Matteo 24,31-46 che — per inciso — secondo una corretta esegesi, non dovrebbe mai essere avulso dai successivi brani — narrati dal Santo Evangelista Matteo, prima la parabola delle Dieci Vergini [cfr. Mt 25,1-13] e poi quella dei Talenti [cfr. Mt 25,14-29] — con il rischio di far dire al testo sacro quello che proprio non intende dire.

A testimonianza di ciò, porto un esempio a sostegno delle mie parole. Quante volte ci è capitato di sentire predicare dai pulpiti sull’amore? Quante volte l’amore è stato usato come slogan e passe-partout per giustificare tutto anche l’ingiustificabile e l’irragionevole? Quante volte nel nome dell’amore si sono operate scelte del tutto scellerate espressione del più emotivo sentimentalismo e della più seducente passionalità? Il termine cristiano di charitas rimanda a Dio, secondo l’insegnamento dell’apostolo Giovanni: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» [cfr. 1Gv 4,7-8]. Triste è la consapevolezza nel verificare che questo “amore” così fortemente pubblicizzato oggi viene deprivato della presenza di Dio Trinità e utilizzato come alibi attraverso cui si normalizza il peccato fino ad esaurirsi in atteggiamento esclusivamente filantropico e utilitaristico. Questo atteggiamento d’impoverire la charitas dalla persona di Dio non è un vizio moderno infatti, forti di quel detto sapienziale nihil novum sub sole [nulla di nuovo sotto il sole] la storia del Cristianesimo ha già conosciuto questa degenerazione del concetto di amore fin dai suoi primi secoli.

Nel 361 d.C. l’imperatore Giuliano l’Apostata, si oppone strenuamente al Cristianesimo operando una politica di paganizzazione del popolo e di ritorno al pensiero neoplatonico. Del cristianesimo conserverà solo l’attività caritatevole e l’attenzione al prossimo che cerca di innestare all’interno dell’anti-Chiesa pagana da lui progettata. La storia ci dice che il tentativo risultò inattuabile, il paganesimo decadente, così come l’ateismo moderno assunto a religiosità d’élite, non poté competere con l’autentico amore di Dio che in Cristo consta della caratteristica dell’eroicità fino al sacrificio della vita e nello Spirito Santo della caratteristica della missionarietà che è la causa prima di ogni azione virtuosa. L’amore, affinché sia autenticamente cristiano, non deve fare solo il bene, ma deve condurre al dono totale di sé, anche con quelle persone e in quelle situazioni non amabili, in virtù del fatto che se la giustizia del discepolo non supera quella del mondo, non c’è quel di più che è indice di perfezione e garanzia della presenza dello Spirito del Padre, come indica il Santo Evangelista Matteo [cfr. Mt 5,20]. L’amore cristiano è quella virtù teologale che si riconosce in Dio e conduce a Lui, annuncia la salvezza all’anima, converte dal peccato e spalanca le porte del paradiso.

Dopo questa necessaria divagazione sulla relazione Dio-amore, ritorniamo alla ricerca delle domande di senso che interpellano la nostra fede. Chi è Gesù? Cosa è venuto a fare nel mondo? Sono le domande fondamentali eppure, nella maggioranza dei casi, restano degli interrogativi inevasi per tanti ragazzi che frequentano il catechismo e per tanti giovani cristiani. La situazione non muta di molto se dovessimo sottoporre tale quesito agli adulti, ai genitori di questi ragazzi, oppure ai loro nonni che, tragico a dirsi, si stanno avviando verso un analfabetismo religioso di ritorno che sfocia verso un vero e proprio ateismo pratico.

Ormai per sapere chi è Gesù Cristo ci rassegniamo ad interrogare i vari laicisti di tendenza che sui social e in televisione con aria sussiegosa dettano la nuova Cristologia à la page con l’aggravante che la Chiesa, quella ufficiale, quella deputata al controllo della retta dottrina, che dovrebbe confermare i fratelli nella fede, tace. E anche quando parla, cercando di mettere assieme una raffazzonata e pallida smentita, lo fa con poco convincimento tanto da far sospettare che certe affermazioni eretiche si siano guadagnate una certa simpatia anche all’interno dei sacri palazzi.

Possiamo dire, a questo punto, che il dogma è andato in crisi? Assolutamente no. Chi è andato in crisi è un certo établissement ecclesiastico fatto di pastori e teologi che hanno perso — loro sì — la bussola della fede e che fanno sempre più ricorso alla categoria di “mistero” cercando di nascondersi dietro a un paravento, visto che non sanno più dare ragione della fede e della speranza che è in loro, il tutto è racchiuso nella prima e seconda epistola di San Pietro e nel Vangelo di San Giovanni [cfr. 1Pt 3,15; 2Pt 1,16-19; 1 Gv1, 1-4]. In questo modo, perse le due virtù teologali di fede e speranza, ciò che rimane, l’amore, assume i connotati della modernità e della ricerca del consenso a qualunque costo. Avete mai fatto caso che l’ammodernamento della persona di Cristo, della Chiesa, del Magistero, della morale, della formazione del clero e della sua identità è sempre stato portato avanti dai paladini dell’amore e nel nome dell’amore? Siamo arrivati al paradossale, in cui la corruzione dottrinale della Chiesa è all’insegna del vessillo dell’amore! Quell’Amore che, è necessario ribadire, si è fatto carne e ha dato la sua vita per l’uomo peccatore, insomma al danno anche la beffa. Al culmine di questo sbandamento dottrinale si somma anche l’atto sacrilego di voler confondere o associare Dio con il peccato. Ma se intendiamo restare fedeli a Cristo e alla Chiesa Cattolica, così come ha fatto San Thomas Becket con il suo martirio, dobbiamo resistere e la resistenza cristiana non si realizza al canto di “Bella Ciao”, ma dell’Exultet Pasquale che ci ricorda che Cristo è Dio, Signore e Sovrano, vincitore del peccato.

Se, in ultima analisi, essere cristiani significa entrare dentro la vita intima di Gesù Cristo, e lasciare che sia Lui a regnare come sovrano indiscusso della mia esistenza – verità ribadita ogni anno durante la solennità di Cristo Re al termine dell’anno liturgico – forse è bene riconoscere che qualche cosa è andato storto oppure ci troviamo davanti a un grande fraintendimento. La fede è innanzi tutto una adesione dell’uomo a Dio e al tempo stesso e in modo inseparabile, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato e che trova in Gesù Cristo la piena, definitiva e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio [cfr. Dominus Iesus].

Perciò, riconosciamo candidamente che sia noi sacerdoti, così come i cosiddetti cristiani impegnati — quelli che per intenderci militano in movimenti ecclesiali, si riconoscono come attivisti all’interno della vita sociale e politica del paese, che aiutano in parrocchia, che praticano una certa carità — nella migliore delle ipotesi stiamo perseguendo un cristianesimo secondario, di confine o di periferia che agli occhi dei più maliziosi si palesa come un cristianesimo di facciata.

Con questo termine individuiamo una certa cultura cristiana estremamente variegata e complessa che trascura il fine ultimo e soprannaturale della fede che consta della salvezza dell’anima, ignora la lotta spirituale al peccato e l’apertura alla grazia divina insieme alla necessità di permanere all’interno di una fede divina cattolica osservata all’interno di una comunità di fede che si riconosce all’interno della Chiesa di Roma.

Tale cristianesimo secondario dissipa largamente la figura del sacerdote reinventandolo come manager, un solerte curatore di museo e impiegato sociale regolarmente retribuito e con orari di lavoro variabili. Stessa dissipazione si riscontra tra i laici, in coloro che non si identificano più nella categoria dei fedeli (fedeli poi a chi e a che cosa? mah!) e che per questo scelgono di ibridarsi in modelli di cristianesimo che trasformano tutti in figure mitologiche difficilmente conciliabili all’interno di un cammino di fede e di una vita che nel battesimo e stata consegnata a Dio.

È senza dubbio urgente ribadire una questione di principio: l’essenza del cristianesimo risiede all’interno di quella parolina che Gesù pronuncia diverse volte nel Vangelo di Giovanni [cfr. Gv 8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5] per designare sé stesso: è quell’Io Sono — in greco ἐγὼ εἰμί, ego eimi, che è garanzia di identità divina [cfr. Es 3,14-15] e di salvezza per ogni creatura.

È la scelta totalizzante di quell’Io divino che mette in crisi e che, come si evince dalla lettura di Jacob Neusner nel suo libro «Un rabbino parla con Gesù», costituisce la grande differenza tra l’Israele Eterno e il Nuovo Israele costituito dal popolo dei battezzati redenti dalla Passione di Cristo e dalla sua Risurrezione.

Il mio io identitario deve essere in grado di riconoscere il mistero di Dio, quell’Io Sono a cui spetta il primo posto [cfr. Lc 14,25-33] e che mi disarciona al suolo [cfr. At 22,8] e atterrisce ogni qual volta presumo di possederlo e gestirlo a mio piacimento [cfr. Gv 18,6], il tutto, si trova racchiuso nei vangeli di San Luca e San Giovanni.

Chi è Gesù? Gesù è Dio, come ci indicano vari passi delle sacre scritture, in particolare il Santo Evangelista Luca, per seguire con il Vangelo di San Giovanni e l’epistolario paolino [cfr. Lc 22,70; Gv 1,1.14; Gv 5,18; Gv 8, 58; Fil 2,6; Col 2, 9; Col 1,15; Eb 1,3], è il Signore [cfr. Rm 10,9; Gv 20, 28; Lc 23,39-43; Fil 2,11], è il rivelatore autentico del Padre [cfr. Gv 10, 30; Gv 5,22-23; Gv 14,8-11], e per tali motivi nessuno può prescindere da tali verità rivelate senza consumare un tradimento, operare un rinnegamento, senza sentirsi scandalizzato o iniziare una guerra santa; il tutto sempre con riferimento al Vangelo di San Giovanni. Questo Uomo-Dio è venuto per salvare il mondo dai peccati [cfr. Mt 1,21], affinché l’uomo abbia la vita bella e non una bella vita [cfr. Gv 10,10] e nel vivere sul serio sia definitivamente privato dal cancro del peccato [cfr. Eb 2,14-15] e reso giusto nel sangue di Lui [cfr. Rm 5,9; 8,33]. Non ci sono alternative, la gelosia divina dell’Antico Testamento [cfr. Dt 5,6-10] si coniuga con la scelta totalizzante di Cristo e la sua persona è l’unica scelta di comunione possibile che produce frutti di novità di vita [cfr. Mt 12,30; Lc 5,38].

Gesù Cristo è così ingombrante che non è possibile metterlo a tacere, da duemila anni il suo nome risuona sulla terra e la sua fedeltà si dimostra stabile quanto il cielo [cfr. Sal 89,3]. Tutto ancora parla di Lui: dal calendario alle feste, dalle tradizioni civili all’etica, dall’arte alla musica; la storia, la geografia, il modo di computare il tempo e perfino il vasto cosmo e la natura testimoniano che Egli è Dio e che è Signore. Anche davanti a coloro che intendono perniciosamente negarlo, rifiutarlo, fino a farlo scomparire del tutto si deve ammettere il merito involontario – così come è stato per i demoni [cfr. Mc 5,6; Lc 4,34; At 19,15] – di un riconoscimento kerigmatico, in cui la sua maestà e potenza non vengono minimamente messe in discussione.

E mentre Cristo si proclama e si afferma, viene ribadita la sua maestà, il suo ruolo chiave che Egli svolge nella storia dell’uomo, sebbene quest’ultimo il più delle volte si nasconda dalla sua presenza come fece Adamo [cfr. Gn 3,9-10] o desideri come Nietzsche compiere un parricidio che spezzi l’angosciosa dipendenza dal partner divino, promettendo più ampie libertà.   

.II. CRISI DI FEDE, CRISI DOTTRINALE, CRISI MORALE

.La questione di principio che ho voluto affrontare nel primo paragrafo di questo articolo ci aiuta a capire meglio la condizione di crisi cronica che da cinquant’anni a questa parte intacca come tarlo la solidità della Chiesa. È una crisi su diversi fronti quella che interessa gli aspetti del credere nell’attuale contingenza storica. Dalla dottrina alla pastorale, dalla morale alla spiritualità, dalla testimonianza quotidiana al modo di interpretare il martirio, tutto poggia su una fede traballante, dove Cristo non è più Dio e il suo ruolo non è più quello di Salvatore. Attenzione bene, affermare l’esistenza di una fede malferma non equivale a dire che non esista più una fede in generale o che coloro che credono lo fanno in modo malizioso o interessato. Le statistiche ci testimoniano come ancora circa l’80% delle persone si dichiara cristiana, ma il fatto di dichiararsi non è ancora ragion sufficiente che conduce al credere. I beati apostoli Pietro, Andrea e Giovanni si sono visti più volte redarguire da Nostro Signore per la loro fede in Lui non ancora sufficientemente matura e aperta alla grazia. E tutti gli altri, sebbene identificati come i discepoli del Nazareno, non hanno esitato ad abbandonarlo al momento della Passione, sconfessando con le opere quello che proclamavano apertamente. Con altre parole possiamo dire che la registrazione del nome sul registro parrocchiale dei battesimi non ci rende cristiani credenti e credibili. Tali considerazioni ci conducono a capire come una fede di tal fatta e un credo di tal genere non aggiungono nulla e non tolgono nulla all’esistenza dell’uomo. Con le parole del Vangelo di Giovanni possiamo dire che la fede conduce essenzialmente verso un dimorare là dove Gesù è presente [cfr. Gv 1,38; 15,4-ss]. Nel dimorare in Lui si verifica quel di più che conduce verso una cristificazione della vita che, sebbene opera della grazia, ha bisogno comunque del concorso umano e dell’esercizio del libero arbitrio.

Come non riconoscere in Karl Rahner e nella trovata dei “cristiani anonimi” la magistrale furbizia di una moderna religiosità apparente che, di fronte a una malferma proposta di fede, ha portato molti a ritenere che è molto meglio tenersi quanto più lontano possibile da tutto ciò che è cristiano (e forse anche cattolico) preferendo impiegare il tempo in modo più fruttuoso invece di ricorrere ad un Dio che non si conosce più per nome e che si è conservato solo come presenza formale. Queste persone più che “cristiani anonimi” — anonimi poi per chi visto che Dio chiama sempre tutti per nome [cfr. Is 43,1; 45,4] — dovrebbero essere detti “atei dogmatici”, in quanto non sentendo l’esigenza di credere nel Dio di Gesù Cristo vivono già dentro una fede atea che si alimenta e campa di dogmatisti propri. Fateci caso, nessuno è più dogmatico e intransigente dell’ateo convinto, che afferma strenuamente ciò che per lui non dovrebbe esistere, e combatte ciò in cui non crede più. Così come nessuno e più attaccato alle tradizioni cristiane di colui che ha dismesso la pratica religiosa da anni e vive di lontani ricordi e nostalgie. Dogmatismi, rigidità, nostalgie e stili sclerotici di fede sono gli alimenti di scarto di cui il cristianesimo secondario voracemente si nutre, ma poiché indigesti vengono quanto prima rigurgitati all’approssimarsi di ogni evangelica novità.

Bisogna ribadire che la fede cristiana tout court è una pia illusione, se non consta di una teologia della salvezza ben consolida. Cristo non è solo il Dio verso cui credere ma è il Salvatore e il Redentore dell’uomo, colui per il quale la salvezza entra nel mondo e l’uomo si affranca dalla schiavitù del peccato [cfr. Mt 1,21; Mc 2,7]. La fede priva della salvezza è mutilata e per sopravvivere viene indirizzata e identificata verso altre discipline del sapere umano, come la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la medicina, verso un nuovo umanesimo di impronta atea che manifesta la sua hýbris nel presumere di salvare la fisicità dell’individuo ― lotta alla povertà, alla fame, alle malattie, alle guerre ― e di conservare il creato ― gretinismo, ecologismo, pseudo francescanesimo comunista ― ricostituendo una verginità primigenia oramai perduta, tutto a scapito di un’anima divina immortale che è stata creata da Dio e che a Dio ritornerà dopo la morte. Anzi se vogliamo dirla tutta, questa falsa hýbris che ha combattuto in passato il peccato originale e ancora oggi lo combatte, sottrae all’uomo il senso stesso del peccato introducendo dei luoghi di controllo esterni in cui ricercare il capro espiatorio buono a giustificare ogni avversità e contrarietà. Purtroppo, l’uomo è creato per Dio e senza di lui il suo cuore non trova la pace [cf. Agostino, Le Confessioni, 1,1.5], senza senso del peccato e senza bisogno di redenzione, quello che avanza è il senso di colpa che schiaccia e deprime la povera umanità moderna. Molti deresponsabilizzati, sono incapaci di operare un vero e sincero esame di coscienza — anche in vista di una confessione sacramentale — che induca al riconoscimento della colpa e alla ricerca di redenzione dall’unico che è in grado di darla.

Alcuni preferiscono scaricare sul Diavolo la colpa di tutti i rovesci personali, liquidando ingenuamente la questione sulle spalle dello spirito del male ― che qui si assume come luogo di controllo esterno ― senza ricordarsi che il tentatore [cfr. Gn 3, ss] per consumare la caduta dell’uomo ha avuto bisogno del suo consenso. Insomma, attenuanti su attenuanti, facili e improbabili per una umanità oltre il limite dello sbando.

Per distogliere l’attenzione da questa triste verità che conduce verso un pessimismo che definire leopardiano suonerebbe come un eufemismo, si inventano delle opposizioni, delle distrazioni di massa in lotta tra loro. E come al tempo degli antichi romani si gareggiava nel Colosseo per tenere buono il popolo affamato, così oggi si gareggia tra fazioni contrapposte per divagare le menti: i tradizionalisti contro progressisti, i papisti contro i sedevacantisti, i lefebvriani contro i modernisti, i guelfi contro ghibellini, i cristiani di destra contro i cristiani di sinistra, i sacerdoti secolari contro i sacerdoti regolari, insomma l’elenco potrebbe ancora allungarsi e continuare all’infinito con l’inclusione dei movimenti ecclesiali che concorrono per aggiudicarsi la palma del migliore se già la questione non fosse di per sé stessa sufficientemente tragica.

Davanti a questo panorama la Chiesa gerarchica, quella dei pastori con l’odore delle pecore, dei sacerdoti pauperisti, delle lobby che speculano su migranti, integrazione e accoglienza spinta cosa fa? L’esercizio della leadership più avvalorata oggi dal clero non poggia più sull’autorevolezza della fede ragionevole, che apporta motivazioni fondate sulla necessità credere e del perché è necessario credere. La leadership di molti tra noi sacerdoti — basta ascoltare qualche omelia o catechesi per rendersene conto — è infarcita da buonismo democratico e da uno stile che definirei “parlamentare” in cui le cose vengono decise per elezione attraverso l’autorità della maggioranza e se qualche cosa mette in pericolo il pensiero dominante è subito pronta una mozione o una interpellanza per ribaltare la situazione a proprio favore.

Stile politico parlamentare è anche quello dei nostri vescovi che sono pronti a dissociarsi dai propri sacerdoti, visti come battitori da inquisizione, quando cercano di educare i fedeli ai principi della dottrina e della morale, anche semplicemente citando il catechismo. Accanto agli atti di dissociazione spinta si annoverano le scuse facili verso tutte quelle categorie di persone che non collimano con il pensiero del Vangelo. La tecnica di tramutare il nemico in amico attraverso un love bombing [bombardamento d’amore] che si fa carico dell’assunzione di colpe facili e inesistenti è il nuovo paradigma per essere inclusivi nella carità. Poco importa se l’apostolo ci ricorda che la carità deve fuggire le finzioni [cfr. Rm 12,9] ed esercitarsi nella Verità anche quando questa risulta scomoda e inopportuna ai più.

Noi sacerdoti 3.0 nella nuova versione aggiornata, assorbiti dal ruolo manageriale di curatori di museo con stipendio fisso, senza la paternità da parte dei nostri pastori e senza una fede solida che ci contraddistingua come profeti davanti al mondo, siamo facile preda del fomite della sensualità. I sensi obnubilati da una vita più in sintonia con il mondo che con Cristo Salvatore del mondo, ci espongono a delle criticità che si individuano attraverso l’esercizio di una sessualità disordinata, di una possessività che esprime il peggio di sé nella gestione del denaro, e nell’incapacità di portare avanti relazioni significative con le persone senza contare il mantenimento dispotico del potere che si avvicina molto alla conservazione dei privilegi della peggior casta.

Parlando di sessualità è necessario fare un distinguo. Ho parlato di sessualità proprio per diversificarla dalla genitalità, infatti i due termini nella morale cristiana si ascrivono a due aspetti diversi. Sebbene gli aggettivi sessuale e genitale vengono oggi usati come sinonimi, non lo sono. Identifichiamo con il termine sessuale la persona nel suo essere maschio o femmina, nei suoi comportamenti maschili o femminili, nel suo modo di esprimere la mascolinità o la femminilità e nel differente e originale stile di comunicare l’amore. Con il termine genitale, invece, si intende ciò che si riferisce più propriamente agli apparati genitali, alla loro anatomia e fisiologia, al compito unitivo e procreativo che la dottrina cattolica continua risolutamente a considerare uniti.

La realtà genitale, così osannata dalla modernità, è compresa in quella sessuale la quale è più ampia, completa e tipicamente umana. Siamo troppo preoccupati di cogliere in fallo i sacerdoti per un abuso riguardante la genitalità da non accorgerci che esiste un grande scollamento nella pratica di quella sessualità che è parte integrante e imprescindibile della figura del presbitero. Tanto è vero che il termine “padre”, con cui chiamiamo comunemente i sacerdoti del clero regolare, è indice proprio dell’esercizio di una sana sessualità maschile come dimostrazione di una paternità spirituale che è tesa all’accompagnamento e alla santificazione del popolo di Dio. Ecco perché dai sacerdoti si richiede anzitutto una acclarata e comprovata mascolinità che permetta loro di esprimere al meglio l’esercizio della loro sessualità nell’essere padri amorosi e autorevoli.

Il modo di amare che conosce nella sessualità e nella mascolinità il proprio linguaggio, può esprimersi attraverso due modi differenti e antitetici: attraverso una possessività asfissiante che vuole consumare l’altro e operarne un controllo oppure attraverso una libertà dialogante che non teme l’altro e si propone di amarlo così com’è, tanto da farlo maturare e crescere così come vediamo accadere nell’incontro tra Gesù e la Samaritana [cfr. Gv 4,1-26]. Gesù nel relazionarsi con il sesso femminile è diverso dalla maggioranza degli uomini del suo tempo che usano, abusano e oggettivizzano la donna per avere da lei qualcosa in cambio. In Cristo si concretizza quell’amore libero e liberante del Padre che testimonia il vero amore per ogni realtà creata. Il prete, come alter Christus, non può mortificare questo amore liberante e libero che è costituzionale alla propria sessualità e natura. È necessario evitare i compromessi che alternano tra sublimazioni compensative, disordini e deviazioni patologiche. La libertà del sacerdote nell’amore, che è esplicitazione di una vita celibataria, casta, povera e obbediente ad immagine del Redentore, è condizione teologica e profetica che non si può comprendere se non in funzione del Regno e di quella vita escatologica piena in cui tutte le relazioni saranno assunte e trasfigurate in Dio [cfr. Mt 19,12; Mc 12,25].

Anche nell’utilizzo del denaro e nell’esercizio del potere è possibile rintracciare un’espressione della sessualità umana che può rivelarsi equilibrata, matura e informata dalla grazia oppure dispotica, narcisistica e assoggettata ai desideri egoistici del mondo. Il modo di gestire e custodire i beni che ci sono stati affidati — dalla cura del creato al modo di lavorare all’interno del creato — comunica o meno l’incontro totalizzante con Dio che si ama e serve a partire da tutto ciò che c’è stato affidato in funzione del bene comune. Ostentare il successo e il potere, attraverso un uso disumano e strumentale delle ricchezze, è una costante che ritroviamo abbastanza diffusa nella storia dell’uomo, a volte si tratta di una gratificazione immediata, altre volte di un vero e proprio culto idolatrico verso le cose e verso il proprio io. Tra i discepoli di Gesù Cristo, però, non vige la logica del regno umano ma sovrasta incontrastato l’imperativo: «Fra voi non è così» [cfr. Mc 10,43]. Non dobbiamo essere così ingenui da pensare che la ricchezza e il potere costituiscano oggettivamente dei mali in sé — così come è avvenuto in alcuni movimenti pauperistici o in certe ideologie dell’Ottocento e del Novecento —, è necessario valutare con attenzione l’utilizzo che se ne fa. Il Vangelo non accusa mai il ricco in quanto tale, se non in riferimento a una non condivisione e a un uso solipsistico che dimentica i gemiti del povero [cfr. Lc 16,19-31], e gli stenti della vedova [cfr. Mc 12,41-44]. Così, mentre la ricchezza umana diviene funzionale all’onesto sostentamento e mantenimento, la ricchezza del Regno spalanca le porte del paradiso e assicura il possesso di Dio [cfr. Lc 12,16-21].

Ogni potere e autorità deriva da Dio ed è dono suo [cfr. Sir 33,23; Ger 1,10; Gv 19,10-11; Rm 13,1-2; Ap 2,28]. Questo concetto era piuttosto conosciuto nell’antichità tanto da avvalorare la tesi — che alcuni autori hanno sostenuto [cfr. S. Paolo, S. Agostino, De Civitate Dei, Jacques-Bénigne Bossuet] — secondo la quale era possibile costruire un vero e proprio principio giuridico che legittimasse i governanti a governare sugli uomini facendo le veci di Dio. Sia nel governo civile come in quello religioso l’obbedienza a colui che deteneva il potere era interpretata come obbedienza diretta a Dio. Questa tesi così formulata consta di due imprecisioni. La prima consiste nel non considerare il fatto che qualunque potere e autorità terrena non è immune da quella ferita del peccato originale che corrompe ogni potere e autorità in dispotismo e dittatura. La seconda imprecisione consiste nel tralasciare l’aspetto trinitario della questione considerando solamente la persona del Padre come detentore esclusivo dell’autorità e del potere escludendo la partecipazione del Figlio e dello Spirito Santo.

Solo facendosi obbedienti al Padre, così come lo è stato Cristo, è possibile trovare la strada sicura per evitare le corruzioni del potere e le deviazioni dell’autorità [cf. Mt 4,1-11]. Il sacerdote, partecipando dell’autorità di Cristo derivante dalla sacra ordinazione, è anch’esso ammesso al governo e all’esercizio di un potere che esprime un’autorità. Così come, dopo il battesimo, Cristo è condotto nel deserto dallo Spirito Santo per divenire messia di salvezza secondo lo Spirito del Padre e non secondo lo spirito del mondo, così il sacerdote nell’esercizio del potere e dell’autorità è chiamato ad imitare il Maestro che nel servire l’altro si è reso servo, culminando la sua diaconia con il sacrificio della vita a favore degli uomini [cfr. Mc 10,42-45] e rimettendo nell’orto degli ulivi qualsiasi potere nelle mani del Padre [cfr. Mt 26,39; 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42] dando compimento a quella kenosis che iniziò con l’incarnazione. L’autorità sacerdotale ripercorre la diaconia del Figlio, si alimenta della volontà del Padre e possiede l’unzione dello Spirito Santo per la santificazione dei fratelli e per la conferma della fede ricevuta con il battesimo.

III. UNA SOCIETÀ LIQUIDA, DEBOLE E IMPERFETTA

La società occidentale in cui viviamo, dove il cristiano è chiamato a compiere il suo pellegrinaggio terreno e dove manifesta la sua coraggiosa testimonianza di fede, assomiglia sempre più a un terribile Moloch che domanda l’appagamento di continui sacrifici e che si auto attribuisce il diritto di essere adorato come una divinità. Poco importa se poi tali sacrifici si pagano attraverso il prezzo di vite umane sconclusionate e di anime oramai frammentate e smarrite, perse nel non senso dell’esistenza. Una società strana, la nostra, che si compiace di essere narcisisticamente contemplata tanto da assomigliare a una terribile matrigna che pretende dai suoi figli molto di più di quanto riesce effettivamente a dare.

Una matrigna anaffettiva, perché di grembo sterile, che si adorna di parole così come farebbe con monili che sbrilluccicano di significati altisonanti come nel caso dell’amore, della tolleranza, della benevolenza, della comprensione e dei diritti. Tale visione fallimentare di mondo era stata già preannunziata da Cristo ai suoi discepoli nel Vangelo: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» [cfr. Gv 15,18-19]. Cristo e i suoi discepoli non sono del mondo, pur vivendo la dimensione temporale del mondo ma non la sua essenza. Il segno efficace consiste nel fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne [cfr. Gv 1,14], la Parola divina si è resa umana, al contrario di quanto capita oggi in cui molte delle parole umane vengono divinizzate e assolutizzate. Tuttavia, questo Moloch societario apparentemente invincibile e divinizzato possiede già un termine stabilito, proprio per il semplice fatto che il “principe e dio di questo mondo” [cfr. Gv 12,31; 2Cor 4,4] è stato definitivamente sconfitto.

A questo punto del discorso è utile introdurre il tema dell’idolatria, questo ci servirà a comprendere alcune criticità societarie importanti che quotidianamente viviamo. Parlare di idolatria, nel tessuto sociale, non è per nulla secondario, anzi possiamo dire che tale atteggiamento si ripresenta ciclicamente e sistematicamente proprio quando diminuisce il senso del “Sacro” che include orizzonti molto più ampi e diversificati rispetto al semplice riferimento al divino. A questo proposito sarebbe interessante studiare la decadenza dei popoli proprio in relazione alla crisi e alla scomparsa del “Sacro” dalla vita dell’uomo. Per il momento è sufficiente solo accennarlo in attesa di un più puntuale e competente approfondimento futuro.

Chiariamo subito un fatto: l’idolatria, in realtà, è una delle tante maschere con cui l’ateismo si dissimula davanti alla società e al mondo. Parlare di idolatria e ateismo sembra un controsenso ma non lo è. Nella Bibbia, per esempio, si conosce bene il peccato di idolatria ma non quello di ateismo, come mai? La risposta è semplice: l’uomo antico così come quello biblico non è assolutamente un uomo ateo. È necessario partire della lapalissiana constatazione che nessun’uomo nasce naturalmente ateo, la scintilla della sua origine divina pungola l’uomo dalla sua nascita, fino alla sua morte e lo spinge alla ricerca del senso della propria esistenza e di una verità che lo trascende.

L’ateismo visibile, quello praticato di questi tempi, è la degenerazione dell’idolatria che dismette le vesti del sacro. L’ateismo è il frutto ingannevole che si è costituito all’interno di alcune epoche storiche e che attraverso la Rivoluzione Francese, l’Età dei Lumi, il pensiero Positivista si è andato sempre più concretizzando attraverso le filosofie dell’Ottocento e del Novecento assieme a ben determinati movimenti gnostici che hanno dichiarato guerra al Cristianesimo e in modo specifico al Cristianesimo Cattolico.

L’ateismo, paradossalmente, si nutre di quel modo di vivere dissociato che è ben visibile ai nostri giorni e che sempre più assume dei tratti patologici, illudendosi di condurre tutti verso un progresso illimitato. L’uomo moderno occidentale si trova ad annaspare in questo modello societario ― illudendosi spesso e volentieri di aver raggiunto traguardi eccelsi di civiltà e di umanizzazione ― un volto di una comunità umana che si delinea sempre più nitidamente come il volto di una societas imperfecta e che ha già iniziato a presentare un conto salatissimo.

Questa società imperfetta che si definisce e si fa conoscere proprio a partire dai suoi dogmatisti così intransigenti e dalle sue consapevolezze marcatamente fideistiche da rivelarsi spesso scriteriate. Lo sdoganamento del relativismo gnoseologico ed etico con cui leggere e interpretare la realtà che ci circonda, l’ottimismo diffuso di una certa tipologia di scienza che pretende di rispondere ai gemiti di senso più intimi del cuore dell’uomo, le rivoluzioni nell’ambito della tecnologia e della comunicazione, insieme alla presunzione di costituire un nuovo ordine mondiale che possa unificare ogni credo, conducono inesorabilmente al fallimento poiché di fatto si ripercorre in chiave moderna quel peccato antico che commisero i costruttori della Torre di Babele [cfr. Gn 11,1-9]. L’ateismo è così il distillato di una volontà idolatrica privata del senso del sacro che pretende di farsi un nome prescindendo dal proprio Creatore [cfr. Gn 11,4].

Questa panoramica sociale, così dolorosamente concreta ma purtuttavia reale, si può spiegare attraverso una frase del teologo domenicano Réginald Garrigou-Lagrange [1877-1964] che dice: «La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono invece tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori, i nemici della Chiesa assolvono i peccati» [cf. Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725]. Quale senso dare a queste parole del buon Réginald Garrigou-Lagrange in relazione a una società liquida e destabilizzata come la nostra? Quale filo conduttore unisce i tratti della debolezza, dell’imperfezione, dell’idolatria atea tanto da produrre una realtà apparentemente liberale ma segretamente intransigente e a tratti spietata e contraddittoria?

Il ragionamento del teologo domenicano aiuta a comprendere come questa società prima di essere nemica di Dio e della Chiesa è anzitutto nemica di sé stessa. Difatti, è più propensa ad intraprendere più facilmente la ricerca di una tolleranza che uniforma e appiattisce i propri simili che non una ricerca della verità che conduce verso differenti alterità, fino a raggiungere l’alterità trascendentale che rappresenta l’autentico nucleo della fede e del rapporto con Dio. Oggi, se avete fatto caso al modo di condurre alcuni dibattiti e discussioni, il modo più sicuro per mettere l’avversario alle corde e quindi farlo tacere, consiste essenzialmente nel tacciarlo di intolleranza. L’accusa di mancata tolleranza è quel capo d’imputazione che non ammette verità oggettiva, che non tiene conto del vissuto personale, della storia e della tradizione dei popoli. L’accusa di intolleranza si declina attraverso la censura, il divieto su realtà che non possono essere dette, conosciute o semplicemente testimoniate. Oggi, è possibile essere considerati intolleranti in molti modi ed essere provocati su diversi ambiti quali ad esempio la fede e la religione, la razza e l’etnia, la sessualità e la genitalità, i costumi e le tradizioni, la politica e il mondo civile e tanto altro ancora.

Nel gioco delle contrapposizioni, escamotage che ho già avuto modo di analizzare in questo articolo, professare la fede mi rende ad esempio una persona intollerante e violenta. Affermare la legge morale naturale sul matrimonio mi dona una visibilità da fanatico integralista medievale, coltivare e potenziare le radici tradizioni e culturali di un popolo mi rende un pericoloso nemico della globalizzazione e dell’inculturazione. Coloro che noi oggi chiamiamo con l’appellativo di intolleranti sono in realtà dei divergenti, eroi che non si allineano al pensiero unico e perciò necessitano di essere visti come nemici da neutralizzare. Se ci fate caso i migliori esponenti del pensiero liberale, tollerante e garantista peccano innumerevoli volte di atteggiamenti illiberali, violenti e intransigenti degni del miglior regime dispotico dittatoriale.

Il “tollerante” moderno, invece, non si sacrifica per le proprie idee come farebbe l’idealista, anzi non si fa scrupoli a immolare chi ha idee contrarie alle sue, così come farebbe un dittatore nei riguardi dei suoi oppositori. Quanti martiri della tolleranza e dei diritti oggi esistono? Ma forse i martiri più numerosi sono coloro che vengono additati quali inconsapevoli seminatori d’odio proprio perché divergenti, portatori di un odio che non si vede perché presente solo nello sguardo del tollerante di turno che ha interesse a usare l’odio come strumento ideologico di controllo delle masse. La tolleranza moderna non rivendica perciò solo i diritti ma anche la dispersione dell’odio. Da meno di un decennio, la tolleranza ha contratto un felice matrimonio con il termine di derivazione greca fobìa. Attraverso questo termine vengono generati i migliori cavalli di battaglia della tollerante societas imperfecta quali l’omofobia, l’islamofobia, la xenofobia e altri ancora. Cito questi tre esempi solo perché sono quelli più praticati dai mezzi di comunicazione sociale, televisione, radio e giornali … Ci rendiamo conto che tutto questa impalcatura non ha il minimo senso è che non è possibile portare avanti un discorso di tolleranza che sia legato esclusivamente a un diritto deprivato dei doveri e di un timore che sia antidoto all’odio? Invocare la tolleranza facendo leva sui diritti ed escludendo i doveri costituisce una visione di mondo che si regge sull’egocentrismo, in cui tutto diventa lecito basta che assecondi i diritti personali veri o presunti.

D’altro canto, chiamare in causa la tolleranza davanti all’odio facendo leva sul sentimento del timore dell’altro è da stolti, in quanto questo significherebbe dire che basta generare un allarme per scongiurare un male. In questo imponente zibaldone è difficile riuscire a trovare il bandolo della matassa tanto da ricondurre tutto a un’origine certa e sicura. Il prospetto di una cultura sociale intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna appare più simile a un paradosso che rammenta il dio romano Giano il quale, avendo una “doppia faccia”, è l’immagine perfetta del compromesso, del trasformismo, dell’unione degli opposti.

Oggi la maschera di Giano trionfa sui volti del mondo che percorrono le strade delle nostre città e paesi, delle nostre piazze e centri commerciali, dei palazzi del potere e delle chiese. Un Giano senza età che si veste in abiti maschili e femminili o all’occorrenza neutri, che indossa il velo, la talare, il saio, la sottana filettata di viola o di rosso ma che è sempre lui, il serpente antico che non si stanca di muovere guerra con l’empia pretesa di dimostrare che Dio si è sbagliato nel dare fiducia all’uomo.

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Sanluri, 27 novembre 2023

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Dall’amicizia di Gesù con Abramo a Gesù che ci accoglie chiamandoci amici

DALL’AMICIZIA DI DIO CON ABRAMO A GESÙ CHE CI ACCOGLIE CHIAMANDOCI AMICI

Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici».

— Pagine bibliche—

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Sembra che il termine amico non possa esistere senza una sua specifica qualificazione. Abbiamo diverse tipologie declinate, nelle varie arti, che propongono di volta in volta l’immagine di un amico fragile, ritrovato oppure geniale. Se ne potrebbe discorrere all’infinito. Un amico potrà essere vero o falso, esserci sempre o scomparire, di lui o lei ti potrai fidare incondizionatamente o nella peggiore delle ipotesi venir da essi tradito.

La Bibbia che è una letteratura formatasi in un lunghissimo periodo, oltre che parlare del protagonista principale, che è Dio, presenta una variegata serie di situazioni umane. Non a caso il poeta Byron la definì «il grande codice dell’arte», espressione poi ripresa dal critico N. Frye che ne fece un libro[1]. In questa carrellata di umanità disparata non poteva mancare l’interesse per gli amici. È così che il codice della Bibbia è stato capace di suscitare simboli che sono rimasti nell’immaginario di ognuno (Frye le chiamava imagery), anche dei non cultori del libro biblico.

Famoso è il personaggio di Giuda che incarna l’amicizia tradita: «Amico, per questo sei qui» (Mt 26,50), sono le parole che Gesù rivolge al traditore dopo aver ricevuto il suo bacio. Rimanendo ai Vangeli non si può dimenticare l’amicizia di Gesù per la famiglia di Betania: Marta, Maria e Lazzaro. Quando questi muore Gesù dirà: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Come pure la nomea di amico dei pubblicani e dei peccatori che portò Gesù ad essere inviso alle autorità.

Sono tante le espressioni bibliche che fan riferimento all’amicizia, soprattutto nei libri sapienziali. Ecco due menzioni fra tante:

«Un amico fedele è medicina che dà vita:
lo troveranno quelli che temono il Signore» (Sir 6, 16).

«Un amico fedele è rifugio sicuro:
chi lo trova, trova un tesoro» (Sir 6,14).

Un detto divenuto famoso quello che recita «chi trova un amico trova un tesoro». Ma il primo personaggio biblico ad essere definito amico, nientemeno che di Dio, fu Abramo. Il profeta Isaia lo chiamò così: «Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo, mio amico» (Is 41,8). Gli fa eco il libro di Daniele: «Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico, di Isacco, tuo servo, di Israele, tuo santo» (3,35) e il secondo libro delle Cronache: «Non hai scacciato tu, nostro Dio, gli abitanti di questa terra di fronte al tuo popolo Israele e non l’hai data per sempre alla discendenza del tuo amico Abramo?» (20,7). Fino al secondo testamento dove troviamo nella lettera di Giacomo: «E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio» (2,23).

E se l’Autore della lettera di Giacomo insisté sulle azioni compiute da Abramo come qualificanti la sua fede, dall’altra Paolo di Tarso rovesciò la medaglia, nella lettera ai Romani, ponendo la fede di Abramo avanti le sue opere e grazie a questa e solo per questa fu giustificato.

Qui non vogliamo affrontare l’argomento arduo e complesso della giustificazione e della grazia che attiene alla teologia. Ma vogliamo semplicemente declinare in che modo il racconto biblico ci parla della relazione fra Dio e Abramo. Che tipo di amicizia fu? Abramo meritò questo rapporto così particolare? Vi corrispose sempre? Sembra un argomento interessante visto che è divenuto paramento del dono della vita divina all’uomo di fede e della grazia che salva. Senza tralasciare il fatto che Abramo viene considerato il padre delle tre grandi religioni monoteiste, anche se a taluni appare difficile definire il Cristianesimo come un monoteismo.

Poiché la bibbia ama preferibilmente narrare che esporre teorie, proveremo a risalire la china dei racconti delle vicende di Abramo per capire questo rapporto di amicizia e per comprendere alla fine che Abramo non fu così distante da noi, dalle nostre attese ed emozioni, dai nostri punti di vista che appaiono incrollabili e che vengono messi a dura prova dalle istanze e dalle promesse divine che subito non si svelano.

C’è un episodio della vicenda di Abramo narrata nel libro della Genesi (18, 25-32) che sembra porre in evidenza più di altri, più della stessa chiamata, il rapporto di amicizia particolare fra lui e Dio, ed è il racconto della trattativa circa la distruzione della città di Sodoma. A Dio che aveva già deciso la sorte della città Abramo fa presente la possibile presenza in essa di persone giuste. E di dieci in dieci a scendere riesce a carpire un pezzo di benevolenza di Dio. Questo episodio mette in evidenza una caratteristica del patriarca che ritorna più volte nei racconti, ovvero la sua indiscutibile capacità di negoziare. Si tratti di un pozzo, di divisione del territorio, della terra per la tomba della moglie Sara, di come trovare moglie per Isacco suo figlio o di Dio stesso, come nel caso suddetto, Abramo è imbattibile.

Un po’ meno, parecchio meno, quando si tratta di aver fede nelle parole divine e questo appare incredibile per tutto quello che normalmente si pensa di lui. Ma Dio sembra non preoccuparsene. Come del resto fanno i veri amici.

Anche l’esegesi rabbinica ha guardato con favore la capacità abramitica di trattare, quando serve a salvare persone. I maestri della Torah, infatti, non hanno accordato uguale benevolenza a un altro famoso patriarca, Noè, che ricevette il comando di costruire un’arca a motivo dell’imminente diluvio. Questi, a differenza di Abramo, non fece nulla per contrastare il proposito distruttivo.[2] Noè fu uomo obbediente che non poneva domande, «camminava con Dio» (Gen 6,9) ma con Lui non istaurò alcun rapporto, forse a motivo della fine di ogni cosa che stava per arrivare. Con Abramo che «camminava avanti a Dio» (Gen 17, 1) si richiedeva, invece una relazione attiva, paziente ed amichevole.

E di pazienza con Abramo bisogna averne molta. Un lettore moderno del testo biblico si sorprenderebbe di trovare nella vita del patriarca alcuni tratti imbarazzanti. Questi fanno da contraltare alle evidenti capacità mediatorie già ricordate, al suo essere esperto di armi e di guerriglia (Gen 14, 14-16), di uomini e di alleanze (Gen 17, 17-24) e capace imprenditore del mondo antico (Gen 24, 34-35).

Eppure le prime parole in assoluto di Abramo nella Bibbia, subito dopo la chiamata di Dio, proferiscono una bugia, facendo passare Sara, agli occhi del faraone egiziano, come una sorella invece che la moglie[3]. Un episodio che si ripeterà più avanti con un altro re (cap. 20). Nonostante la reiterata promessa divina che sicuramente avrà una discendenza, acconsentirà, più avanti, al proposito di Sara di avere un figlio con la schiava Agar; ma quando le due donne entreranno in conflitto la scaccerà nel deserto, pur a malincuore, con solo un pane e un otre di acqua. Quando col figlio Isacco salirà verso il monte Moria, luogo del suo sacrificio, caricherà la legna sulle spalle del figlio. Quale padre avrebbe fatto questo sapendo a quale sorte andava incontro?

Ma Abramo, giustamente, è ricordato soprattutto per la fede: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15, 6). Ma questa fede evidentemente è dovuta crescere e maturare, passando al vaglio di prove importanti, oltre al fatto che a suscitarla è stata una parola e una promessa divina, più e più volte ricordata.

Nel Libro della Genesi (cfr. 12) Dio parlò per la prima volta ad Abramo. L’espressione usata in ebraico, è piaciuta molto agli psicanalisti: לֶךְ-לְךָ (lek leka) “Va per te” o “Va verso di te”[4]. Una parola nuova, personale, rivolta ad Abramo figlio di Terack, lo invitava a lasciare il padre e ad andare verso una terra per diventare una nazione benedetta. Partì, ma come spesso accade, l’entusiasmo si perse per strada. Il viaggio fu faticoso, a tappe, le genti ostili e, soprattutto, quale discendenza avrebbe potuto avere se un figlio non arrivava? È così che, vuoi per le difficoltà, vuoi per l’età che avanzava, si accontentò. In fondo il figlio della schiava, Ismaele, era già qualcosa. Così a un certo punto Abramo sbottò davanti a Dio: «Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!» (Gen 17, 18). Finché dinanzi all’ennesima promessa di un figlio loro, Abramo e Sara scoppiarono a ridere. Abramo addirittura si piegò in due dalle risa (Gen 17, 17).

Ma ecco la svolta. Sara partorì davvero un figlio ad Abramo: Isacco, il promesso. Ma quale amico ti fa un regalo simile: Isacco, dall’ebraico יִצְחָק alla lettera “il figlio che ride, che suscita la risata, che si può prendere in giro e dileggiare[5]?  Che proprio per questo diventò la causa dell’allontanamento dell’altro figlio, Ismaele, che non aveva difetti?

Abramo rimase senza parole alla nascita del figlio, poiché il testo riporta solo le parole di Sara, che parlavano di riso e risata. Chi è mai questo figlio che l’amico Dio ha mandato? Bisogna accettare questo dono? Poiché Isacco, fra tutti i patriarchi biblici è sui generis. Non ebbe mai il ruolo del protagonista e apparve da subito privo di personalità propria. Non riuscì neanche a trovarsi la moglie da solo e questa, Rebecca, quando lo vide finalmente da vicino, cadde dal cammello. Non a caso diversi commentatori, sia ebrei che cristiani, hanno messo in evidenza che Isacco potesse essere un figlio non perfetto, disabile, figlio autistico di un padre ormai vecchio[6]. Immaginiamo i sentimenti di Abramo se questa doveva essere la realizzazione della promessa. Come accettare tutto questo?

È a questo punto che la narrazione biblica ci presenta uno degli episodi più affascinati e drammatici di tutta la sua letteratura. Il racconto del sacrificio o meglio della עֲקֵדָה (aqedàh, la legatura) di Isacco nel capitolo 22. Un episodio che ha ispirato artisti e commentatori dall’antichità fino ad oggi. Non è possibile qui darne conto, ma possiamo proporre una interpretazione che ben si lega con quello che si è venuto dicendo finora circa il rapporto fra Dio e Abramo.

Innanzitutto fu un nuovo inizio. Ritroviamo al versetto 2 lo stesso “lek leka” (va per te, verso di te) del capitolo 12. Di nuovo un andare verso sé stessi. Ma questa volta la promessa si è realizzata, in maniera inaspettata. Dove deve andare Abramo?  La salita al monte Morìa, col solo dialogo circa un ariete da trovare, è straziante. Nonostante l’esito alla fine felice, l’episodio conserverà la sua tragicità: nel silenzio che cala durante il ritorno a casa dei due, nella mancanza di esultanza o di gioia, nella successiva separazione fisica fra il padre e il figlio e nella morte di Sara che un מדרש (midrash)[7] fa discendere dal fatto di essere venuta a sapere ciò che stava per succedere sul monte.

Che cosa dunque era accaduto? Che Abramo era stato chiamato ad accettare la promessa di Dio, nella persona di Isacco, figlio imperfetto.  Per questo la sua fede venne provata e ne uscì rafforzata. L’amico aveva compreso finalmente quel che gli era stato chiesto fin dall’inizio, anche se inaspettato e lontano dalle sue prerogative e caratteristiche psicologiche. Ma Abramo andò verso di sé, per aprirsi ad un nuovo sé e al tu del figlio finalmente sciolto e lasciato libero di andare.

Qualcuno, molti secoli dopo avrebbe detto: «Dio sceglie ciò che nel mondo è debole» (1Cor 1,27). Probabilmente è questo che la fede di Abramo doveva drammaticamente comprendere: accogliere nella persona fragile di Isacco la promessa. Solo quando avrà capito sceglierà per Isacco una donna con la quale consolarsi per la morte della madre, gli conferirà ogni suo bene, lo proteggerà dai possibili concorrenti e se ne morirà «sazio di giorni» seppellito dai suoi figli Isacco e Ismaele finalmente riuniti (Gen 25,9).

La vicenda di Abramo e Dio può essere letta in molti modi. La Bibbia al di là dei risvolti che fanno capo alla fede e che passando per San Paolo e Giacomo sopra citati sono arrivati fino ad oggi, la Legge come una storia di amicizia. Con tutti i suoi toni e variazioni, poiché Abramo rimane un uomo con la sua personalità fatta di limiti e grandezze. Questa famosa storia biblica ci dice che essere amici non è sicuramente una diminuzione o una sottrazione rispetto al rapporto di fede, perché richiama la condiscendenza, la complicità e l’attesa quando, per esempio, un amico è in difficoltà. Non a caso, molto tempo dopo la storia di Abramo in Genesi, una delle più belle espressioni che troviamo nella Scrittura riguardo il rapporto fra l’inviato di Dio, Gesù, e chi lo seguiva fu: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15, 15).

dall’Eremo, 17 giugno 2023

 

Note

[1] N. Frye, Great code, Bible and literature, 1981 (trad. it.: Einaudi, 1986)

[2] Il parallelo fra il diluvio e la distruzione di Sodoma è stato colto da molti. Si tratta di distruzioni totali. Solo una famiglia si salva in ambedue i casi. La presenza di rapporti incestuosi nei due racconti, da cui nascono tribù non ebree (Cananei da Cam, figlio di Noè e Moabiti e Ammoniti dalle figlie di Lot).

[3] Anche se è vero, poiché erano figli dello stesso padre, ma di madri diverse.

[4] Ugualmente Noè riceve il comando di fare un’arca di cipresso “per te” (Gen 6, 14)

[5] la radice del nome (zade/chet/qof) con questi sensi, compare 179 volte nella Bibbia di cui 112 volte riferita ad Isacco in Genesi

[6] Marmorini G., Isacco, il figlio imperfetto, Claudiana 2018; Baharier H., La Genesi spiegata da mia figlia, Milano 2015

[7] Nd.R. Midrash, dall’ebraico מדרש, termine che indica un metodo di esegesi biblica della tradizione ebraica

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Le parolacce del prete, i latinismi dei novelli catto-kaifani affetti da analfabetismo dottrinale e le risate del vecchio Cardinale disincantato

LE PAROLACCE DEL PRETE, I LATINISMI DEI NOVELLI CATTO-KAIFANI AFFETTI DA ANALFABETISMO DOTTRINALE E LE RISATE DEL VECCHIO CARDINALE DISINCANTATO

 

«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».

— Attualità ecclesiale —

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Il tecnico che si occupa dei montaggi è fuori dall’Italia, la audio lettura degli articoli sarà inserita entro fine settembre

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A distanza di tempo un Cardinale con decenni di vita trascorsi nella Curia Romana mi ha confidato che anni fa giunse in Vaticano una lettera sottoscritta da diversi “cattolici integrali” che fece il giro di tutti gli uffici di quella sezione della Segreteria di Stato, facendo sganasciare dalle risate i monsignori che se la girarono tra di loro di scrivania in scrivania. Oggetto della protesta ero io, presentato come prete altamente indegno poiché colpevole di scandalizzare gli immacolati fedeli facendo talora uso di parole colorite non consone a un ministro in sacris. Per questo invocavano severe sanzioni canoniche a mio carico. Latori della petizione erano quei personaggi da sempre noti a noi preti, quelli dotati di una tal vocazione nello straccio delle vesti da far figurare Kaifa che s’incazza dinanzi al Sinedrio come un principiante alle prime armi.

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Questi personaggi si sentono anzitutto nobili soldati posti come alabardieri a difesa della vera tradizione cattolica e della più rigida morale sessuale applicata sempre e di rigore agli altri, giammai a sé stessi e meno che mai ai loro figli, figlie e nipoti, solo a figli e nipoti altrui. Per loro la Chiesa nasce improvvisamente nel 1570 con il Messale Romano promulgato dal Santo Pontefice Pio V, dal quale saltano direttamente agli inizi del Novecento, al pontificato del Santo Pontefice Pio X, colui che condannò quel tremebondo Modernismo che gli Alabardieri conoscono alla stessa stregua del latino del messale tridentino.

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Gli Alabardieri hanno tre fisse: il latino, San Tommaso d’Aquino e la lotta al Modernismo. Per quanto riguarda il latino mi limiterò a ricordare che anni fa, pigliando copiosamente per il culo i membri di un circolo di cosiddetti e impropriamente detti “tradizionalisti”, gli cantai sul metro del prefazio gregoriano la Poesia del Passero di Valerio Gaio Catullo dicendo infine: «Questa sì che è sacra liturgia, mica quel messalaccio di Annibale Bugnini approvato dall’improvvido Santo Pontefice Paolo VI!» [cfr. vedere QUI]. E tutti mi dettero ragione godendo dal settimo cielo. Ebbene, per quanto insolito possa apparire sappiate che persino io sono dotato di comune senso del pudore, per questo evitai di aggiungere il canto di qualche colletta prendendo dai carmina catulliani delle squisitezze del tipo:

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«Pedicabo ego vos et irrumabo, Aureli pathice et cinaede Furi, qui me ex versiculis meis putastis, quod sunt molliculi, parum pudicum»¹.

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Se però lo avessi fatto gli Alabardieri avrebbero ulteriormente confermato che quella sì, che era la lingua degli angeli che dalle panche oltre la balaustra dell’altare ti porta direttamente in Paradiso, mica grazie ai sacri misteri, ma grazie al magico latinorum fine a sé stesso. Per questo mi limitai alla Poesia del Passero spacciata per prefazio evitando di mutare in collette certi carmina lussuriosi, che ovviamente conosco a memoria sin dai tempi del liceo classico.

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Segue San Tommaso d’Aquino, che questi Alabardieri conoscono alla stregua del latino del Messale tridentino, incapaci a comprendere che il Doctor Angelicus e Doctor Communis parla dei misteri della fede e fornisce un efficace e tutt’oggi insuperato metodo speculativo, ma né il suo metodo né la sua straordinaria produzione in sé costituiscono verità immutabili della fede. Prendiamo un esempio tra i tanti: oggi la dottrina cattolica insegna che l’anima è insufflata nell’essere vivente sin dal momento del concepimento. L’Aquinate, che seguiva il metodo speculativo di Aristotele, sostiene che nel corso della crescita del feto si sviluppano in successione: prima un’anima vegetativa, poi un’anima sensitiva, infine, quando lo sviluppo sia adeguato a ricevere l’anima intellettiva, questa è infusa direttamente da Dio al terzo mese di gravidanza [cfr. Summa Theologiae Iª q. 118 a. 2 ad 2].

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Diversa idea aveva l’Aquinate anche riguardo la immacolata concezione della Beata Vergine Maria, ritenendo che non fosse nata senza peccato originale ma che subito dopo il suo concepimento ricevette una straordinaria santificazione nella sua anima che cancellò il peccato originale [cfr. Summa Theologiae IIIa, q. 27, a. 3 ad 3]. Capite bene che tra concezione senza peccato originale e cancellazione del peccato originale, la differenza non è meramente semantica, ma proprio sostanzialmente teologica.

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Altrettanto singolare il modo in cui gli Alabardieri giustificano il fatto che alla base del metodo speculativo dell’Aquinate vi sia il genio e la scienza del paganissimo Aristotele. Presto confezionata e data la risposta: Aristotele era di fatto cristiano, avendo percepito secoli prima, pur senza rendersene conto, il mistero della incarnazione del Verbo di Dio. Si tratta di una affermazione tanto cretina quanto illogica che prese a circolare negli ambiti della neoscolastica decadente di fine Ottocento. I pappagalli della non meglio precisata tradizione che oggi la ripetono e la propagano come una verità di fede, non si rendono neppure conto che a questo modo stanno definendo Aristotele “cristiano anonimo”, secondo la controversa e pericolosa teoria di Karl Rahner, altro loro nemico giurato, sebbene non conoscano neppure il titolo delle sue principali opere. Poco conta, perché la cultura cattolica e teologica dell’Alabardiere della vera e pura tradizione si basa su un castello di «si dice che …».

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Infine lo spettro diabolico del Modernismo, di cui gli Alabardieri parlano prendendo mossa da una mancanza totale di conoscenza, oltre che di spirito critico. Poi, se a loro supporto ci si mette un prete squinternato, scomunicato e dimesso dallo stato clericale, il danno irreparabile è presto fatto. Non tutti i provvedimenti che fecero seguito alla Enciclica Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X furono affatto lungimiranti, anzi favorirono in parte lo sviluppo di un pericoloso Modernismo reattivo, dall’altra cristallizzarono la speculazione teologica in quattro formule stagnanti e rancide della neoscolastica decadente, impedendo di fatto ai teologi di speculare al di fuori di quelle quattro formule sclerotiche e intangibili. Questo mentre sull’altro versante, i Protestanti, portavano avanti studi molto approfonditi sulle scienze bibliche e la esegesi, ai quali decenni dopo fummo costretti a rifarci, dopo essere rimasti paralizzati per decenni in quelle quattro formule sclerotiche e intangibili che costituivano la fallimentare lotta del Santo Pontefice Pio X — o meglio di chi per lui — contro il Modernismo, che a posteriori possiamo affermare che andava sì condannato e contrastato, ma in tutt’altro modo, non nel modo gretto che spesso fu adottato.

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Tra i tanti studiosi protestanti cito a titolo di esempio il grande commento alla Lettera ai Romani del teologo Karl Barth, che rimane tutt’oggi insuperato nell’ambito della esegesi novo testamentaria e alla quale tutti noi dobbiamo di necessità rifarci.

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Non si può parlare del Modernismo se non si conosce e non si è mossi dalla consapevole onestà ch’esso nacque e si sviluppò come pensiero reattivo in seno a una Chiesa che nel corso di tutto l’Ottocento si era incartata in questioni di carattere puramente politico ― indubbiamente giustificate dalla storia e dagli eventi di quegli anni successivi alla Rivoluzione Francese ―, mentre la teologia cattolica languiva e ristagnava in forme di vera e propria ignoranza. Quindi non è possibile parlare del Modernismo se non partendo da un dato di fatto: il francese Alfred Firmin Loisy e l’italiano Ernesto Buonaiuti sono due figure da annoverare nella rosa dei più brillanti pensatori del Novecento. Solo dei bigotti illetterati o qualche prete squinternato possono trattarli con eretical sufficienza dall’alto della loro totale mancanza di conoscenza. E concludo precisando, a onor del vero, che da Santa Madre Chiesa Ernesto Buonaiuti fu trattato con una tale e feroce mancanza di carità cristiana che grida davvero al cielo, piaccia o meno agli Alabardieri in lotta contro lo spettro di quel Modernismo che non conoscono e di cui il Santo Pontefice Pio X, che giustamente e prudentemente lo condannò, al tempo stesso ne favorì lo sviluppo e la diffusione grazie a provvedimenti e azioni repressive tutt’altro che lungimiranti. Ma su questo tema molto complesso e articolato sto preparando un libro, se non crepo prima.

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Forse il Cardinale mio interlocutore aveva voglia di ridere ulteriormente, per questo l’ho esaudito cominciando col dire: È vero, Eminenza, dico parolacce, ahimè! A volte ne dico anche tante e qualche cattolico o cattolica da cupa sacrestia me lo rimprovera sui moderni social media, anzi prendo atto che hanno protestato scrivendo anche a voi, a quanto mi dice. Taluni di questi mi hanno persino detto che sono troppo esplicito, per esempio nei riferimenti ― a mio parere del tutto naturali e scientifici ― alla sessualità umana, perché a loro dire dovrei usare degli eufemismi, per esempio delle terminologie latine, non termini troppo espliciti. E, come risaputo, il latino piace terribilmente a tutti quelli che non lo conoscono, perché fa molto chic.

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Eminenza, il problema non è il latino, che io conosco. Il problema è chi il latino non lo conosce. Mi spiego: per quanto mi riguarda posso anche sbottare dicendo «Mentulam fregistis!». Se però poi non traduco che ciò significa alla lettera «avete rotto il cazzo», chi è che capisce questa aulica espressione ciceroniana in splendido latino?

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Il Cardinale si mette a ridere come non osò fare neppure all’epoca in cui, giovane monsignore di curia che era, negli anni Ottanta vide il film Il Marchese del Grillo assieme a Giovanni Paolo II e altri prelati. Il quale Giovanni Paolo II, a quanto il Cardinale stesso riferisce in camera caritatis, pare abbia commentato la pellicola dicendo che regista e sceneggiatore avevano capito proprio tutto della Roma papale.

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Lascio il Cardinale terminare le sue risate e proseguo: talvolta noi preti siamo come certi premurosi medici della mutua, che prescritta la ricetta dicono al povero ignorante illetterato: «Queste supposte devono essere assunte pro rectale via». Errore gravissimo! Perché a quel punto delle due l’una: o a quel paziente viene detto a chiare lettere che la supposta va spinta dentro il buco del culo, oppure finirà per essere portato al pronto soccorso dopo avere ingurgitato supposte per un mese ingoiandole con un bicchiere d’acqua.

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Perché certe pudibonde orecchie delicate anelano tanto quei latinismi che non capiscono? Forse perché vogliono che la Chiesa usi delle formule magiche che tanto più sono incomprensibili tanto più sarebbero efficaci? Ve lo spiego perché anelano latinismi: perché non hanno mai fatto i confessori, tanto per cominciare. O pensate che a dei Santi confessori come San Leopoldo Mandic e San Pio da Pietrelcina si presentassero, pentiti e pentite, libertini e donne di facili costumi a parlare di fellatio, cunnilingus, ani commercium, fornicationem contra naturam, irrumatio, cheiroerastia …

Si provi a immaginare un uomo che confessa di avere avuto un rapporto sessuale con un altro uomo, oggi va tanto di moda, anzi fa proprio tendenza, al punto che non è più peccato ma alta espressione d’amore (!?). Soprattutto si provi a immaginare me, confessore, che per adempiere a quanto esigono certi cattolici e cattoliche dalle orecchie delicate e per questo anelanti latinismi, mi metto a interloquire con il penitente così:

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«… in manum tuam veretrum alterius acciperes, et alter tuum in suam, et sic alternatim veretra manibus vestris commoveritis, ut sic per illam delectationem semen a te proiiceres? Si fecisti, triginta dies in pane et acqua poenitas!»².

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L’anziano Cardinale ha rischiato a questo punto di cadere dalla sedia disteso sotto il tavolo, mentre proseguivo: … insomma, Eminenza, posso fare anche felici coloro che anelano sentire latinismi, posso anche dirgli pro via rectale, salvo poi ingoiare le supposte per un mese intero anziché mettersele nel buco del culo. Posso anche rispondere a certi sedicenti cattolici altamente arroganti e irriverenti verso noi presbiteri sbottando «Tace. Maxima mentula demens!». Dopodiché, chi gli spiega che gli ho appena detto «stai zitto grandissima testa di cazzo»? O credono forse di poter tradurre le terminologie di una antica lingua morta con il motore di ricerca Google?

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Sorride il Cardinale dall’alto dei suoi ottant’anni da tempo passati, nel corso dei quali ha visto nella Chiesa di tutto e di più, compresi eserciti di farisei, pelagiani e puritani pieni di vizi privati e propagatori delle più rigide pubbliche virtù reclamate sempre e di rigore sulla pelle degli altri. Dicendomi infine con tono tenero e paterno:

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«Un bravo prete dal cuore veramente sacerdotale si riconosce persino dalle parolacce. Solo un autentico uomo di Dio può dire parolacce con schietta purezza di cuore senza mai essere volgare. Grazie per le risate che mi hai donato, di questi tempi ne abbiamo disperato bisogno».

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Sì, ne abbiamo bisogno, perché dovendo scegliere se piangere o se ridere, tutto sommato è sempre meglio ridere con la santa ironia della fede. E per concludere con una risata. Accadde che dei ragazzi toscani irridenti e irriverenti in vena di scherzi telefonano al Convento dei Frati Minori Cappuccini di Firenze esordendo:

«… pronto? Senta Padre e c’abbiamo sottomano du’ puttane e un si sà che fassene, le possiamo mandà a voi?».

Risponde serio il Cappuccino all’altro capo del telefono:

«… ’o Figliolo, noi qua siamo in sedici, con du’ sole puttane ‘i che voi che ci facciamo, un ci si po’ manco liscià i’ cazzo!».

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E stiamo a parlare dei miti e serafici Cappuccini, immaginate cosa gli avrebbero risposto se avessero chiamato il Convento di quei pitt-bull dei Domenicani. 

Dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2022

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NOTE

¹ Cfr. Catullo (Carme 16) traduzione dal latino classico: «Io ve lo caccerò su per il culo e poi in bocca, Aurelio succhiacazzi e Furio finocchio sfondato, che per dei miei versi (poetici) teneri e gentili, avete pensato ch’io sia un rottinculo».

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² Da un’antica raccolta di Penitenze Tariffate, traduzione dal latino medioevale: «Hai preso in mano il cazzo di un altro uomo e lui il tuo, dopodiché, in questo modo, avete giocato con i rispettivi cazzi attraverso le vostre mani, fino a eiaculare di piacere? Se lo hai fatto, ti impongo trenta giorni a pane e acqua come penitenza».

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È IN DISTRIBUZIONE L’ULTIMO LIBRO DI ARIEL S. LEVI di GUALDO – PER ACCEDERE AL NEGOZIO LIBRARIO CLICCARE SULLA COPERTINA

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I Padri dell’Isola di Patmos

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È in distribuzione “Amoris Tristitia”, ultima opera editoriale di Ariel S. Levi di Gualdo dedicata alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra

È IN DISTRIBUZIONE AMORIS TRISTITIA, ULTIMA OPERA EDITORIALE DI ARIEL S. LEVI di GUALDO DEDICATA ALLA MEMORIA DEL CARDINALE CARLO CAFFARRA

 

«Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva».

— Novità editoriali —

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Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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Il 6 settembre ricorre il V° anniversario della morte del Cardinale Carlo Caffarra che nel 1981 fu incaricato dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II di fondare l’Istituto per studi su matrimonio e famiglia. L’opera di Padre Ariel S. Levi di Gualdo è una disamina critica della Amoris Laetitia in rapporto alla Humanae Vitae. Riguardo la Amoris Laetitia l’Autore scrive:

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«Dopo la chiusura del Sinodo sulla famiglia l’utero dell’elefantessa partorì il 19 marzo 2016 il topolino di campagna della Esortazione Apostolica post sinodale Amoris Laetitia, un marchingegno di ambiguità costruito sul detto e non detto, su frasi ambigue a doppio senso, sentimentalismi emotivi e tanti sociologismi che decretano di fatto la morte di quello che per secoli è stato il linguaggio preciso, deciso e non passibile di equivoci del Magistero della Chiesa sorretto sui più solidi e chiari principi della metafisica classica, da tempo messa in soffitta per lasciare spazio al romanticismo tedesco decadente e al cuoricino che palpita e che guarda all’immediato del proprio soggettivo “io” anziché al futuro e a Dio. Chi di noi si è formato in ambito teologico sulle pagine del recente sommo magistero dei Pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, facendo tesoro della grande omiletica di Benedetto XVI, degna dei sermoni del Santo Pontefice Gregorio Magno, nel leggere certi documenti recenti o udendo taluni predicozzi giornalieri da curato di campagna svaporato, può giungere ragionevolmente a dire che dalle aquile reali si è passati ai polli d’allevamento in batteria intensiva, come a volte è accaduto a intervalli ciclici nella storia della Chiesa, anche se mai ai livelli desolanti di questi nostri tempi […] Qualche superficiale potrebbe fraintendere, in buona o anche in mala fede, obiettando che in queste pagine ho rivolto severe critiche a una Esortazione Apostolica data dal Romano Pontefice. Chiunque mi accusi di ciò sarebbe in grave errore, perché non critico affatto una norma data, dinanzi alla quale tacerei ed eseguirei quanto disposto dal sommo magistero. Ciò che critico è una norma non data e delle domande alle quali non è mai stata data risposta, lasciando il tutto avvolto nell’ambiguità. Questo è l’oggetto della mia critica: la mancanza di una norma assieme alla mancanza di chiarezza e di risposta. Il fedele servitore della Chiesa ragiona, dibatte e critica fin quando è consentito. Dopo che la Chiesa ha parlato il suo compito è di eseguire e trasmettere gli insegnamenti e di osservare le norme date, salvo creare in caso contrario scandalo nel Popolo di Dio e fratture della comunione ecclesiale. Nessuno, sacerdote o laico cattolico che qualsivoglia, può dissentire e sostituire le proprie personali opinioni all’autorità della Chiesa, a questo ci pensano i teologi tedeschi, da sempre è loro prerogativa e privilegio pontificio».

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È cosa nota e risaputa quanto Padre Ariel sia un pensatore, un analista e un teologo che quando graffia lascia il segno. E chi il graffio lo riceve, in genere ha due possibilità: o tenerselo e curare la ferita, oppure ritrovarsi in gravi difficoltà a smentire ciò che di vero e incontestabile ha scritto. Questo il motivo per il quale è accaduto nel corso del tempo che più volte, varie persone che si sono sentite ferite dalle sue parole o dai suoi rimproveri, non potendolo smentire né volendo dibattere nel merito delle precise questioni sollevate si sono attaccate alla forma espressiva, che nel caso di questo scrittore è spesso ironica, talvolta persino colorita. Ma d’altronde è noto: a questo modo agivano già a suo tempo i farisei.

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Dibattendo sul delicato tema della Humanae Vitae l’Autore si colloca nel mezzo in un punto di equilibrio tra coloro che vorrebbero relativizzarla e coloro che vorrebbe invece «dogmatizzare un preservativo rinchiudendo al suo interno la morale cattolica e l’intero mistero del male». A tal proposito precisa:

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«Desidero chiarire sin dall’inizio di questa mia esposizione che a certi generi di pensieri e giochi perversi non ci sono mai stato né intendo starci come uomo e come cattolico, come presbitero e come teologo. Questo libro intende esserne prova lucida e obiettiva in aperta critica rivolta sia a coloro che vorrebbero applicare alla Chiesa il carente senso morale del mondo e la sua sessualità disordinata e senza alcuna regola, sia a coloro che sono animati da quelle forme di cupo moralismo che niente ha da spartire con la sana e autentica morale cattolica, retta sulla più importante delle virtù teologali: la carità (cfr. I Cor 13), non certo sul principio della summa lex summa iniuria (la somma giustizia equivale spesso alla somma ingiustizia). E la verità si regge sulla carità, mentre la carità è tale se retta dalla verità (cfr. Caritas in veritate). Perché è sulla carità che saremo giudicati da Dio».

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Dall’Isola di Patmos, 30 agosto 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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L’Arcivescovo Vincenzo Paglia non è semplicemente il “fratello idiota” di Don Abbondio ma la meretrice di Babilonia genuflessa dinanzi al Principe di questo mondo

L’ARCIVESCOVO VINCENZO PAGLIA NON È SEMPLICEMENTE IL FRATELLO IDIOTA DI DON ABBONDIO MA LA MERETRICE DI BABILONIA GENUFLESSA DINANZI AL PRINCIPE DI QUESTO MONDO

 

«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» (Augusto Del Noce, 1971)

— Attualità —

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le testuali parole di S.E. Mons. Vincenzo Paglia, cliccare sull’immagine per aprire il video

Dell’Arcivescovo Vincenzo Paglia mi sono già occupato epitetandolo fratello idiota di Don Abbondio, oggi merita il titolo di meretrice di Babilonia genuflessa al Principe di questo mondo [cfr. Gv 14, 30]

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«Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli abomini della terra”» [Ap 17, 5].

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Le dichiarazioni fatte da questo idiota nel senso etimologico del termine ― dal greco ἰδιώτης (idiòtes) che significa “uomo privato” e indica la persona incompetente, inesperta e inetta ― sono di una gravità senza precedenti, tanto più ricoprendo il delicatissimo ruolo di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Partecipando di recente al programma Il tetto che scotta sulla sinistrissima e politicamente corretta Rai Tre ha magnificato la legge 194 del 1978 sull’aborto legalizzato affermando: «Io penso che ormai la Legge 194 sia un pilastro della nostra vita sociale». Dopo essersi arrampicato per 40 secondi sugli specchi, alla secca domanda dell’intervistatrice che lo ha incalzato: «Lei dice che non è in discussione la Legge 194?». L’Idiota ha replicato: «Ma no, assolutamente … assolutamente!».

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Parole di per sé nemmeno commentabili dinanzi alle quali torna alla mente una frase del filosofo Augusto Del Noce che dipinse la nostra situazione attuale scrivendo queste parole profetiche quattro decenni fa:

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«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» [Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? Rusconi Editore, Iª ed. 1971]

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Può un vescovo compiacere il mondo con simile piaggeria, anziché contrastare chi proclama l’aborto «diritto sacrosanto» e «grande conquista sociale»? A un vescovo legittimo successore degli Apostoli e membro del Sacro Collegio Apostolico va tributato rispetto, sempre, a prescindere dalle sue debolezze, fragilità e mancanze di meriti oggettivi che possono fare di lui un personaggio anche al di sotto della mediocrità. Come confessore e direttore spirituale di numerosi preti ho udito spesso i lamenti di diversi confratelli che mi spiegavano quanto il loro vescovo fosse un emerito idiota. E avevano ragione, perché tale era nei disastrosi fatti concreti.  E a tutti loro ho sempre risposto:

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«… e a questo emerito idiota devi filiale rispetto e devota obbedienza, sempre e a prescindere. Pertanto cerca di vivere la oggettiva idiozia del tuo vescovo come una prova di fede. Puoi non stimarlo, perché la stima non gli è dovuta, se la vuole quella deve guadagnarsela. Ma il rispetto e l’obbedienza sì, gli è sempre dovuta e non può essere in alcun modo cancellata dai suoi demeriti di cui al momento opportuno dovrà rispondere a Dio come sta scritto: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”» [Lc 12, 48].

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Da una parte raccolgo le lamentele dei preti verso i loro vescovi, dall’altra quelle di diversi vescovi che non ce la fanno più con certi preti. E hanno ragione gli uni e gli altri. Ormai da anni, a preti che si lamentavano dei loro vescovi non particolarmente amabili, paterni o dottrinalmente brillanti replico: «Tra non molto tempo tu e i tuoi confratelli rimpiangerete il vostro vescovo con le lacrime agli occhi». Frase ripetuta a decine di preti a partire dal 2017, quando i massimi vertici della Chiesa Cattolica superarono la soglia del non-ritorno festeggiando i 500 anni della pseudo-riforma di Martin Lutero, che non fu affatto un «riformatore», come lo dipinse La Civiltà Cattolica, né un soggetto sul quale si possa dire: «Credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. Era un riformatore». Perché così il Sommo Pontefice Francesco definì in un suo sproloquio a braccio in aereo ad alta quota questo diabolico eresiarca che dette vita a un drammatico scisma, non certo a una riforma. Quella la fece il Concilio di Trento, non Lutero. Oggi, gli stessi preti, mi scrivono, mi telefonano o a tu per tu mi dicono: «Avevi ragione, potessi riavere il precedente vescovo di cui tanto mi sono lamentato non gli bacerei la mano ma i piedi!».

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Stendo un velo pietoso sui criteri di selezione dei nostri nuovi vescovi sotto questo augusto pontificato, tutti col povero e il migrante sulla bocca, tanto che dopo averne udito uno si sono udite tutte le omelie episcopali pronunciate da nord a sud, da est a ovest dai vescovi italiani.

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Che i nostri non siano tempi di “aquile reali” è chiaro a chiunque abbia anche un minimo lume di ragione. Per questo merita delineare la differenza che corre tra un vescovo idiota al quale sono sempre dovuti filiale rispetto e devota obbedienza, da un vescovo ridotto a una meretrice di Babilonia genuflessa alle ginocchia del Principe di questo mondo. All’Arcivescovo Vincenzo Paglia deve essere pubblicamente tributato tutto quel santo sprezzo che qualsiasi credente è tenuto a riversare su ciò che è male e che come tale costituisce grave peccato, nel caso specifico il delitto di aborto, regolamentato nel nostro Paese da una Legge che non è affatto un «pilastro della nostra vita sociale» ma il peggiore dei crimini legalizzati perpetrati contro la vita. Ecco perché non bisogna prestare filiale rispetto e devota obbedienza all’Arcivescovo Vincenzo Paglia, perché abusando nel modo peggiore dell’episcopato ha espresso dei concetti che contraddicono l’impianto della nostra morale e della nostra etica che si reggono entrambe sui pilastri del deposito della fede cattolica. Rimane un vescovo legittimo rivestito di una importante e delicata carica ecclesiastica, questo è fuori discussione. Però, se la sua potestas che comporta anzitutto la suprema custodia della dottrina della fede la esercita per negare in modo sacrilego i fondamenti della morale e dell’etica cattolica, in tal caso non deve essere né ascoltato, né ubbidito né seguito e meno che mai rispettato, ma bensì reso oggetto di santo sprezzo cristiano.

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Vincenzo Paglia è una vergogna dell’episcopato appartenente a quella nefasta categoria di persone verso la quale tuonano le Sacre Scritture:

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«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» [Ap 3, 15-16].

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Assieme a Vincenzo Paglia rischiano di essere vomitate dalla bocca dell’Onnipotente anche tutte le ambiguità e le doppiezze di questo pontificato al quale va il grave e oggettivo demerito di avere inserito in tutti i più delicati posti chiave soggetti immorali e palesemente eterodossi, correndo a questo modo il rischio di «[…] passare agli annali come un inseguimento eccentrico del nuovo e del sensazionale come surrogato della ricerca di senso, che ha finito col produrre una confusione dottrinale e pastorale mai verificatasi in precedenza nella storia della Chiesa».

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Parole quest’ultime con le quali apro il mio libro dedicato alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra che entrerà in distribuzione i primi di settembre e che vi invito a leggere, non altro per risollevarvi un po’ d’animo, per acquisire fiducia sul fatto che non tutto è perduto e per poter toccare con mano che in mezzo a tanti pavidi conigli in carriera che stanno de-costruendo i fondamenti stessi della dottrina cattolica, esistono sempre anche i leoni che aspirano alla conquista del premio della vita eterna come loro unica ambizione di carriera. Leoni che è bene non andare a infastidire con la parolina di stizzoso rimprovero clericale, perché mordono e sbranano, come si deve e come si conviene ai Leoni di Dio posti a custodia della dottrina della fede e della salute delle anime dei Christi fideles a noi affidate dal Redentore.

 

Dall’Isola di Patmos, 28 agosto 2022

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