L’ultima devozione di Cristo: il Sacro Cuore non è devozionismo ma porta di accesso ai misteri di Dio

L’ULTIMA DEVOZIONE DI CRISTO: IL SACRO CUORE NON È DEVOZIONISMO MA PORTA DI ACCESSO AI MISTERI DI DIO

Per chi sa di cinema è evidente il riferimento al film di Martin Scorsese su Gesù del 1988: «L’ultima tentazione di Cristo». Ma solo per dire che, mentre la finzione cinematografica può anche immaginare che Cristo fu tentato di recedere dal suo cammino, il Vangelo ci ha raccontato che Egli andò fino in fondo, con una devozione verso la sua missione che alla fine ha svelato cosa c’era dentro il suo Cuore colmo di amore.

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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La devozione che più si è diffusa nel popolo cristiano, almeno negli ultimi secoli, è quella rivolta al Sacro Cuore, che, naturalmente, ha attratto a sé anche quella dovuta al Cuore di Sua Madre Maria. Con questo culto la Chiesa Cattolica ha inteso onorare il Cuore di Gesù Cristo, uno degli organi simboleggianti la sua umanità, che per l’intima unione con la Divinità, ha diritto all’adorazione.  

Già praticato nell’antichità cristiana e nel Medioevo, il culto si diffuse molto nel secolo XVII° ad opera di San Giovanni Eudes (1601-1680) e soprattutto di Santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), mentre la festa del Sacro Cuore fu celebrata per la prima volta in Francia, probabilmente nel 1685. La prima delle celebri visioni di Santa Margherita avvenne il 27 dicembre 1673, festa di San Giovanni Evangelista. Gesù le apparve e Margherita si sentì «tutta investita della divina presenza». Egli la invitò a prendere il posto che San Giovanni aveva occupato durante l’Ultima Cena e le disse:

«Il mio divino Cuore è così appassionato d’amore per gli uomini, che non potendo più racchiudere in sé le fiamme della sua ardente carità, bisogna che le spanda. Io ti ho scelta per adempiere a questo grande disegno, affinché tutto sia fatto da me».

Come per tutte le altre devozioni, affinché non rimanessero semplicemente tali o vuoti contenitori di manifestazioni popolari, la teologia e poi il magistero si sono prodigati di offrire contenuti e motivazioni che potessero non solo mantenere viva la devozione al Cuore di Cristo, ma che fosse anche continuamente alimentata dalle fonti della scrittura e della tradizione ecclesiale. Come spesso accade il devozionismo, che è invece una degenerazione dell’autentico atto di culto, tende a prevalere sui contenuti, così questi faticano a svolgere il loro compito, soprattutto ai nostri giorni, nei quali si fa presto a bollare una devozione come retaggio di un passato pre-moderno e non più attuale, o come si suol dire buona solo per gli anziani o i semplici.

Invece la devozione al Sacro Cuore avrebbe molto da insegnare anche ai moderni, anzi ai post-moderni che siamo noi, perché il simbolo del cuore e i temi a esso collegati sono spontaneamente uniti a quelli dell’affettività e dell’amore, ovvero a tutto quel mondo dei sentimenti e delle emozioni che interessano tantissimo il nostro tempo. Quando sempre più spesso, anche di recente, accadono fatti di cronaca nera che interessano le relazioni amorose, subito si contattano gli esperti che avvertono preoccupati di come il nostro tempo, soprattutto le generazioni più giovani, abbia bisogno di una educazione dei sentimenti, di come bisognerebbe essere a contatto con le proprie emozioni per saperle esprimere in modo adeguato e non violento. Si tratta di quel vocabolario che ci riconduce all’interiorità e quindi al cuore umano, al quale il cuore di Cristo ha ancora molto da insegnare.

Per tornare alle fonti di questa speciale devozione cristiana e per far percepire quanto sia teologicamente fondata e collegata al mistero tutto intero della salvezza apportata da Gesù, vorrei prendere in considerazione, qui, un semplice, si fa per dire, versetto del Vangelo che ha perfetta aderenza con questa devozione del Sacro Cuore. Siccome molte immagini rappresentano Gesù nell’atto di offrire il suo cuore palpitante, quindi di aprire il suo mondo interiore e più intimo, vediamo come il Vangelo descrive questo momento. Lo fa l’Evangelista Giovanni nel capitolo ove riporta da par suo la crocifissione di Gesù, il momento in cui morente dice: «Tutto è compiuto»; e subito dopo un soldato ferisce il suo costato per verificarne la morte. Vediamo come San Giovanni descrive la scena, che dovette essere davvero significativa. Notiamo quante volte ritorna il termine testimonianza, indirizzata alla fede e collegata a due importanti citazioni scritturistiche. A noi interessa la seconda, il versetto che vorremmo prendere in esame – «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» – appunto perché la devozione ci invita a guardare il Cuore di Gesù, ma non possiamo non prendere in considerazione l’immediato contesto nel quale la scena si svolge ed i suoi importanti significati teologici.

«Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”» (Gv 19,33-37).

Il passo citato da Giovanni appartiene a un oracolo profetico che annunciava la salvezza e la restaurazione escatologica di Gerusalemme (Zac 12-14). Nella pericope, 12,1013,1 – si racconta della misteriosa morte di un re pastore che rappresenta il futuro Messia, Dio stesso si percepisce ferito da questa morte, perciò prende l’iniziativa promettendo uno spirito buono e una fontana zampillante per il loro peccato:

«Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito».(Zac 12,10).

Più avanti in 13, 1:

«In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».

A questo versetto si può aggiungere il testo sull’acqua viva del capitolo successivo: «In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mare occidentale: ve ne saranno sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra. In quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome» (14, 8-9).

L’applicazione di questi testi a Gesù in croce è chiara. Gesù aveva annunciato che fiumi di acqua viva sarebbero usciti dal suo intimo, in Gv 7,38, e l’Evangelista spiegava che diceva questo dello Spirito (7,39)[1].

Sintetizzando, la sorgente aperta per gli abitanti di Gerusalemme è il costato aperto di Gesù; le acque vive che escono da Gerusalemme (Zaccaria) sono per Giovanni le acque vive che sgorgano dal suo intimo, che è il nuovo tempio; queste acque portano a oriente e occidente purificazione e vita. Abbiamo qui il tema dell’universalità della salvezza, segnalato, nel racconto della Passione, anche dal titolo della croce che diceva: «Re dei giudei». Eppure la scritta era in ebraico, greco e latino: quindi una regalità proclamata al mondo intero. Si verificava in questo modo anche l’ultima profezia di Zaccaria dove non si parla più di un pastore trafitto, ma del Signore e della sua regalità universale al tempo escatologico: «Sarà Re di tutta la terra» (Zac 14,9). Giovanni dà quindi alla scena della croce un significato storico salvifico molto ampio, in pieno accordo con gli altri grandi tempi teologici che si allacciano a questo versetto 37 preso in esame.

Potremmo anche citare altri due passi della Scrittura dove si parla della Nuova Alleanza. Nel primo, (Ger 31,33-34), questa non sarà più riportata su tavole esteriori di pietra, bensì inscritta nel cuore:

«Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni ― oracolo del Signore ― porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande ― oracolo del Signore ― poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».

Nel secondo, (Ez 36,25-27), si fa riferimento sempre all’alleanza, ma sancita dal dono di uno spirito, simile ad acqua che purifica, da cui anche il dono di un cuore nuovo:

«Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme».

Tutto questo sfondo scritturale ci fa capire cosa intendesse Giovanni quando riportò la frase profetica: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»; che si trova solo nel suo Vangelo, alla fine di un testo che, come abbiamo già sottolineato, è il riferimento preferito quando parliamo di devozione al Sacro Cuore di Gesù. Queste parole sintetizzano il riconoscimento e la comprensione[2] per mezzo della fede di quello che abitava nell’intimo del cuore di Cristo morente che «Avendo amato i suoi… fino alla fine» e avendo ora tutto compiuto, esprime il desiderio interiore di donare lo Spirito. Coloro che indirizzeranno verso Gesù il proprio sguardo non potranno essere più gli astanti o i soldati che hanno assistito alla crocifissione, ma sono ormai le anime credenti che penetrano e conservano con fede il mistero dell’amore di Gesù, in una parola il suo Cuore.

Cerchiamo di comprendere meglio tutto questo, lasciandoci guidare dalla struttura letteraria del brano giovanneo che descrive gli attimi precedenti e seguenti la morte di Gesù in croce. Naturalmente possiamo solo sintetizzare molto. Essa ci permette di evidenziare la presenza di tre binomi: «tutto è compiuto» e «ho sete» al v. 28; «è compiuto» e «rese lo Spirito» del v. 30; infine «sangue e acqua» del v. 34. Da questi tre si dipartono due linee tematiche, verso cui occorre dirigere lo sguardo di fede.

La prima linea che chiameremo cristologica è disegnata dalle espressioni: «tutto è compiuto», «è compiuto» e «sangue». Rappresentano il compendio dell’opera salvifica di Gesù. In questo caso lo sguardo si volge indietro, a ciò che è passato, per cogliere in queste parole la totale obbedienza di Gesù al Padre: ha portato a compimento la sua opera, fino all’effusione del sangue. Ma è anche visione del compimento di quell’amore salvifico per noi, quel «fino alla fine» di Gv 13,1. Quindi vediamo qui, nel costato aperto del Cristo, sia la sua perfetta oblatività, che l’amore all’eccesso per noi.

La seconda linea tematica è rivolta invece al futuro, alla vita della Chiesa che come abbiamo provato a descrivere in un precedente articolo, è lì presente nella persona del discepolo amato e della Donna, la Madre di Gesù, chiamata ad una nuova maternità spirituale verso i discepoli credenti. Questa linea, pneumatologia, è delineata dalle parole: «Ho sete», «rese lo Spirito» ed «acqua».

L’acqua che defluisce dal costato di Cristo è simbolo del dono dello Spirito e proviene dal Cristo stesso: è lui che «diede lo Spirito»; è da lui che parte questo desiderio: «Ho sete». Notiamo infatti una significativa differenza fra la citazione di Zaccaria e il modo come la riporta Giovanni nel Vangelo. Per Giovanni non si tratta più di volgere lo sguardo verso Dio, ma verso «colui», Cristo, che è stato trafitto. Tutta l’attenzione, ovvero lo sguardo credente, è concentrata su di lui e sul momento della uscita dal suo intimo del sangue e dell’acqua. Inoltre l’antica profezia parlava di pentimento, la qual cosa vien sottaciuta da Giovanni che preferisce concentrarsi sul vedere.

Esistono molti studi che confermano i diversi modi di vedere nel quarto Vangelo e come, per Giovanni, quello più perfetto è il vedere che comprende con fede il mistero rivelato e lo conserva nella memoria. Aggiungiamo che questo vedere è finalizzato alla partecipazione dei lettori del Vangelo alla medesima esperienza, come Giovanni stesso confessa nella prima finale della sua opera: «Questi (i segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 31)[3].

Quindi, ancora una volta, l’Evangelista scrive per indirizzare il lettore dalla storia al mistero. Si vede un costato trafitto, del sangue e dell’acqua che escono e vi si contempla tutto il mondo interiore del Cristo e temi di grande, grandissimo spessore teologico, ecclesiale e spirituale, altro che devozionismo magico-esoterico. L’acqua del costato di Gesù è simbolo dello Spirito che sgorga dal suo fianco, Egli diventa il nuovo tempio escatologico (cfr. Ez 47). Nello stesso tempo il sangue rimanda al suo dono oblativo al Padre, alla sua opera compiuta e al suo amore per noi. Lo sguardo di fede che contempla è desiderio di partecipare a tutto questo mondo interiore del Cristo che viene manifestato.

In questo passo giovanneo non si parla esplicitamente del cuore, piuttosto della interiorità di Gesù. Sarà la mistica medievale che identificherà questo mondo interiore come il cuore di Cristo e farà di questo passo del costato trafitto il testo biblico per eccellenza della teologia e della spiritualità del Cuore Divino di Gesù. Sant’Ambrogio diceva:

«La Chiesa sia introdotta nella stanza segreta di Cristo…; la stanza segreta della Chiesa è il Corpo di Cristo; il Re l’ha introdotta all’interno di tutti i (suoi) misteri» (Sant’Ambrogio, In Ps. 218, 1,16 CSEL 62,16).

E Guglielmo di Saint-Thierry:

«Che per la porta aperta noi entriamo tutti interi fino al tuo cuore, o Gesù… fino alla tua anima santa»; domandando al Salvatore: «Di aprire il fianco del suo corpo perché vi entrino coloro che desiderano vedere i segreti del Figlio» (Guglielmo di Saint-Thierry, Meditativae orationes, 6; PL 180, 226A).

Oggi, grazie alla moderna esegesi accurata, diamo a queste bellissime affermazioni una solida base evangelica e le apprezziamo meglio.

Avendo, ancora una volta, sintetizzato temi che avrebbero necessitato una trattazione più lunga e approfondita, l’intento di questo contributo potrebbe essere quello di suscitare, dopo l’assaggio, un vero gusto ed interesse. L’intelligenza della fede non smette mai di approfondire tematiche che sono care al popolo cristiano, anche una devozione può diventare una porta verso una comprensione sempre più larga e profonda dei misteri di Dio e della fede. Quando si avvicinerà il mese di giugno, tradizionalmente dedicato al Cuore di Cristo, diamo un senso nuovo a questa devozione, alle preghiere che sceglieremo o alle immagini che condivideremo sui social. Per esempio, la pratica dei «primi nove Venerdì», dopo quello che si è detto qui, non sia più semplicemente la preghiera e la devozione del singolo, ma sia pensata nel contesto più ampio della comunione ecclesiale e del mistero cristiano, come abbiamo scoperto riflettendo sul Vangelo, ripensando al dono di Gesù della sua vita e del suo Spirito per tutti, non solo per la singola anima.

Questi aspetti furono colti da Papa Giovanni Paolo II che li espresse in una udienza pubblica. Sono passati venticinque anni da quelle parole che riporto adesso di seguito:

«L’Evangelista parla soltanto del colpo di lancia al costato, da cui usci sangue e acqua. Il linguaggio della descrizione è quasi medico, anatomico. La lancia del soldato ha colpito certamente il cuore, per verificare se il Condannato era già morto. Questo cuore – questo cuore umano – ha smesso di lavorare. Gesù ha cessato di vivere. Contemporaneamente, però, questa anatomica apertura del cuore di Cristo dopo la morte – nonostante tutta l’«asprezza» storica del testo – ci spinge a pensare anche a livello di metafora. Il cuore non è soltanto un organo che condiziona la vitalità biologica dell’uomo. Il cuore è un simbolo. Parla di tutto l’uomo interiore. Parla dell’interno spirituale dell’uomo. E la tradizione subito ha riletto questo senso della descrizione giovannea. Del resto, in un certo senso, l’Evangelista stesso ha dato a ciò la spinta, quando, riferendosi all’attestazione del testimone oculare che era lui stesso, si è riferito, nel medesimo tempo, a questa frase della Sacra Scrittura: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Zc 12,10). Così, in realtà, guarda la Chiesa; così guarda l’umanità. Ed ecco, nel Trafitto dalla lancia del soldato tutte le generazioni dei cristiani hanno imparato e imparano a leggere il mistero del Cuore dell’Uomo Crocifisso che era ed è il Figlio di Dio». (San Giovanni Paolo II, Udienza generale del 20 Giugno 1979).

Ho intitolato questo contributo: L’ultima devozione di Cristo. Per chi sa di cinema è evidente il riferimento al film di Martin Scorsese su Gesù del 1988: L’ultima tentazione di Cristo. Ma solo per dire che, mentre la finzione cinematografica può anche immaginare che Cristo fu tentato di recedere dal suo cammino, il Vangelo ci ha raccontato che Egli andò fino in fondo, con una devozione verso la sua missione che alla fine ha svelato cosa c’era dentro il suo Cuore colmo di amore. 

Sanluri 27 febbraio 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Sul Monte Tabor i discepoli ricevono la rivelazione del figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SUL MONTE TABOR I DISCEPOLI RICEVONO LA RIVELAZIONE DEL FIGLIO DELL’UOMO IN UNA FORMA TRASFIGURATA DALLA LUCE DIVINA

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre»

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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Intraprendere il percorso quaresimale significa porsi di nuovo la domanda fondamentale su Gesù: Chi è costui? Allo stesso modo dei discepoli seduti sulla barca sballottata dalle onde, figura della Chiesa nel periodo post pasquale, che svegliato il Signore dormiente a poppa e a tempesta sedata si chiedevano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4, 41). Il racconto marciano della Trasfigurazione che si legge in questa seconda Domenica di Quaresima desidera rispondere a questa domanda.

La trasfigurazione di Cristo, opera di Giovanni Bellini, 1478. Musei Capodimonte, Napoli.

«In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti». (Mc 9,2-10)

Tutti e tre i Vangeli sinottici inseriscono la Trasfigurazione nello stesso contesto, ossia dopo l’annuncio di Gesù della sua passione. Per il lettore si crea così un ponte fra il ministero pubblico di Gesù e la morte che avverrà in Gerusalemme. Ma anche un collegamento fra la odierna proclamazione di Gesù «Figlio di Dio», che si ode dalla nube, e altre due analoghe. Quella del Battesimo, quando: «Si sentì una voce dal cielo» che diceva «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11); e l’altra, che si trova solo in Marco, all’inizio del Vangelo, nel primo versetto del primo capitolo: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio».

È molto probabile che l’episodio narrato, in origine, fosse un racconto di apparizione del Risorto, che Marco, il quale ha escluso dalla sua narrazione siffatti racconti, avrebbe inserito al centro del Vangelo, subito dopo la confessione messianica di Pietro, per bilanciare l’annuncio del destino di morte del Figlio dell’uomo (Mc 8, 31) con la visione prolettica della sua glorificazione (Mc 9, 2-13). Una scelta che ne avrebbe determinato la collocazione anche in Matteo e Luca. A supporto di questa ipotesi sta il fatto che nel prosieguo dei tre racconti l’incomprensione dei discepoli nei riguardi di Gesù resta intatta, malgrado alcuni fossero stati testimoni di un evento tanto eclatante. Mentre, collocato dopo la sua morte, il racconto assume un significato cruciale. È il punto di svolta. I tre discepoli ricevono la rivelazione del Figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina. Dopo la sua morte, hanno la visione di Gesù collocato allo stesso livello di Mosè ed Elia, cioè di due figure bibliche già innalzate alla gloria celeste, e ascoltano la proclamazione della sua elezione divina, la stessa che risuona al momento del battesimo. Finalmente i discepoli «sanno» chi è Gesù, ed è alla luce di tale comprensione che l’episodio storico e iniziale del battesimo assume il suo «vero» significato di investitura divina.

Nel versetto che precede la scena della Trasfigurazione che oggi leggiamo nella Liturgia Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1). Sei giorni dopo questo annuncio Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni con sé sopra un monte alto, in un luogo appartato, e si trasfigura davanti a loro. L’episodio non solo è descritto da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche dalla Seconda Lettera di Pietro. Lì l’Apostolo ricorda e scrive di essere stato testimone oculare della grandezza di Gesù:

«Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

A differenza del Battesimo, dove la voce che proclama Gesù «Figlio» sembra sia stata udita solo da Lui, nella Trasfigurazione le parole sono indirizzate ai discepoli, che non possono ignorarle: «Ascoltatelo». È infatti importante che nel momento in cui Gesù annuncia la sua passione venga ribadita l’idea che Dio non abbandonerà il suo Figlio, anche se verrà consegnato per la crocifissione. Questa non offuscherà la fedeltà del Padre, cosicché anche il duro annuncio della passione e morte sono dentro il Vangelo, sono la buona notizia di cui il lettore deve essere consapevole, allo stesso modo dei discepoli che fecero quella esperienza.

Pietro, insieme ai compagni, è colui che più di tutti ha bisogno di ascoltare Gesù. Dopo la confessione di Cesarea di Filippo, ha preteso di mettersi davanti a lui per evitargli il pellegrinaggio a Gerusalemme. Gesù per questo chiama Pietro «Satana» (Mc 8,33),  ma poi lo invita a salire sul monte con lui. In altre parole qui siamo di fronte alla reazione di Dio all’incredulità di Pietro. Non solo. Se i discepoli devono prepararsi alla passione del loro maestro, anche Gesù ha bisogno di istruzioni per intraprendere il «suo esodo», come specificherà Luca in 9,31: Mosè aveva condotto gli ebrei fuori dall’Egitto, Elia aveva ripercorso i suoi passi, e ora il Messia, aiutato da coloro che hanno vissuto un’esperienza analoga di sofferenza e liberazione, potrà andare deciso verso Gerusalemme.

L’interpretazione tradizionale della presenza di Mosè ed Elia sul monte dice, infatti, che essi rappresenterebbero la Torà e i Profeti, ovvero tutta la Scrittura prima di Gesù. Ma oggi si pensa piuttosto che il significato della loro presenza sia importante se riferita a quanto Gesù sta vivendo nel momento in cui sale su quella montagna. Mosè ed Elia hanno vissuto eventi paragonabili alla reazione di Pietro all’annuncio della passione di Gesù di cui sopra. L’analogia tra gli eventi è data dal modo in cui Gesù interpreta il rifiuto di Pietro: come una nuova tentazione, analoga a quelle dell’inizio del suo ministero; così Mosè provò l’esperienza del vitello d’oro ed Elia quella della fuga verso l’Oreb. Questi due fatti ebbero luogo proprio su un monte, dopo un fallimento del popolo di Israele che aveva, nel primo caso, costruito un idolo e, nel secondo, sostenuto i sacerdoti di Baal contro cui Elia doveva lottare. A fronte di queste due delusioni, sia Mosè che Elia chiedono a Dio di morire (cfr. Es 32,32; 1Re 19,4), ma, in risposta, a tutti e due è concessa invece la visione di Dio. Mosè, spaventato, però, si nasconde nella rupe (Es 33,21-22), ed Elia si copre il volto (1Re 19,13). Mentre allora non videro Dio, ora finalmente stanno davanti a Gesù, nella sua gloria e non si velano più il volto; non hanno più paura di lui, perché «Gesù, il «Figlio amato» del Padre (Mc 9,7), «l’eletto» (Lc 9,35), è egli stesso la visibilità del Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In lui Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù dovrà intraprendere» (M. Gilbert).

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre» (Mt 11,27).

Dall’Eremo, 24 febbraio 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Gestis Verbisque, circa la liturgia. Spezziamo una lancia a favore di “Besame Tucho”, anche se pare avere dimenticato la Redemptionis Sacramentum

GESTIS VERBISQUE, CIRCA LA LITURGIA. SPEZZIAMO UNA LANCIA A FAVORE DI “BESAME TUCHO”, ANCHE SE PARE AVERE DIMENTICATO LA REDEMPTIONIS SACRAMENTUM

Tanti, per usare un eufemismo, hanno storto il naso quando il Pontefice ha scelto l’attuale Prefetto. Le critiche non sono mancate. Rispondendo con rispetto e per alleggerire con una battuta tutto il discorso fatto fin qui si potrebbe ricordare il detto che recita: «Anche un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora giusta»

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Autore
Simone Pifizzi

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Per una curiosa legge del contrappasso molti che avevano gioito alla pubblicazione della Fiducia supplicans, confusa e ambigua dichiarazione del dicastero per la Dottrina della Fede pubblicata il 18 dicembre dell’anno scorso, dinanzi alla quale sono insorti interi episcopati, si sono sentiti di polemizzare con la più recente Nota del medesimo Dicastero sulla validità dei Sacramenti del 2 febbraio di questo anno e intitolata: Gestis verbisque.

La domanda sorge spontanea: nel 2004 fu pubblicata l’Istruzione Redemptionis Sacramentum che è un capolavoro di teologia sacramentaria, di disciplina dei Sacramenti e di pastorale liturgica. Istruzione che, stando a ciò che è seguitato ad accadere nelle nostre chiese, è stata bellamente disattesa da eserciti di preti creativi e da movimenti laicali che hanno seguitato imperterriti a crearsi le proprie liturgie personalizzate, Neocatecumenali in testa, il tutto nella totale incuranza e mancata vigilanza da parte dei vescovi, sebbene il documento parli molto chiaro nella sua conclusione finale:

«Questa Istruzione, redatta, per disposizione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti d’intesa con la Congregazione per la Dottrina della Fede, è stata approvata dallo stesso Pontefice il 19 marzo 2004, nella solennità di San Giuseppe, il quale ne ha disposto la pubblicazione e l’immediata osservanza da parte di tutti coloro a cui spetta».

Perché non richiamare all’osservanza di questa istruzione, così ben fatta e dettagliata, semmai stabilendo delle precise sanzioni per chi avesse disatteso le disposizioni date? Perché questo è il problema di fondo che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni di vita di una Chiesa che chiede, esorta, istruisce e raccomanda, ma che si guarda però bene, in questi documenti, di fissare precise sanzioni per i trasgressori. Non solo: nelle 64 note di richiamo della Gestis verbisque la Redemptionis Sacramentum  non è mai stata richiamata e citata una sola volta, cosa oggettivamente grave.

Come ormai sanno anche i sassi la prima succitata Dichiarazione, nell’ambito più ampio del senso da dare alle benedizioni nella Chiesa, apriva alla possibilità di benedire spontaneamente anche coppie in situazioni irregolari e dello stesso sesso. Cosa che per molti vescovi e preti delle varie regioni del Nord dell’Europa non era necessaria, lo fanno arbitrariamente da anni. Questo controversa Dichiarazione prevede Benedizioni da impartire in luoghi e con modalità che non dovranno essere in alcun modo simili a quelle date alle coppie regolari, ma: «In altri contesti, quali la visita a un santuario, l’incontro con un sacerdote, la preghiera recitata in un gruppo o durante un pellegrinaggio. Infatti, attraverso queste benedizioni che vengono impartite non attraverso le forme rituali proprie della liturgia, bensì come espressione del cuore materno della Chiesa, analoghe a quelle che promanano in fondo dalle viscere della pietà popolare, non si intende legittimare nulla ma soltanto aprire la propria vita a Dio, chiedere il suo aiuto per vivere meglio, ed anche invocare lo Spirito Santo perché i valori del Vangelo possano essere vissuti con maggiore fedeltà» (nr 40).

Fin qui tutti contenti, almeno i fautori di questa apertura, come se noi avessimo negato in precedenza benedizioni a singole persone, soprattutto a quelle che vivevano in condizioni di irregolarità, o che si erano macchiate dei peccati e dei delitti più gravi.

Per ironia della sorte, proprio coloro che avevano esultato dinanzi alla Fiducia Supplicans, poco dopo si sono lanciati in dure critiche riguardo la Nota del 2 febbraio, Gestis Verbisque, perché utilizza un linguaggio tradizionale nel definire ciò che occorre affinché un Sacramento sia valido, oltre che lecito. La critica, in particolare, si appunta sull’uso insistito dei termini «forma» e «materia» utilizzati dalla Nota in quanto componenti insostituibili di ogni celebrazione dei Sacramenti, insieme all’intenzione del celebrante. Critica che riguarda lo scollegamento di questi tre elementi costitutivi dall’insieme della celebrazione del Sacramento, dai soggetti che vi partecipano e dai vari segni che vi intervengono, i quali dovrebbero essere, per loro stessa costituzionalità, significativi e, come si dice, parlanti. Gli appunti mossi, dunque, fanno riferimento al modo con cui la Nota non prende in esame l’interezza del Sacramento celebrato e, come onda di ritorno, si riversano anche sulla Fiducia supplicans, in quanto lì: «…Un benedire senza forma (senza spazio, tempo, parole, tutto) è un non senso» (cfr. Vedere QUI).

Non sta a me prendere le difese di un Dicastero strategico come quello per la Dottrina della fede. Però, a leggere e rileggere quella Nota mi viene in mente il «Rasoio di Occam» il quale si potrebbe sintetizzare più o meno così: «A parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire»; o anche «Non considerare la pluralità se non è necessario».

Questa Nota, sia nella lettera di accompagnamento del Prefetto, che nel suo corpo stesso, ricorda che da parte di Cardinali e Vescovi sono stati rilevate, e quindi richiesti chiarimenti, sulle gravi modifiche apportate alla materia e alla forma dei Sacramenti, rendendoli di fatto nulli. Basterebbe leggere i pochi indizi ed esempi, a volte strampalati e curiosi, a cui fa riferimento il Prefetto per capire lo scopo semplice della Nota stessa: richiamare tutti ad una celebrazione dei Sacramenti corretta, fedele, ecclesiale. Che se sono concessi, dove permessi dalle Conferenze episcopali, spazi di creatività, questi non divengano invece una inventiva che di fatto manipola arbitrariamente il Sacramento celebrato.

È a partire da questo sfondo e cioè dalla preoccupazione dei Pastori delle Chiese, che la Nota va letta. La quale poi sintetizza ciò che occorre perché un Sacramento sia valido, richiamando la dottrina tradizionale, che è vero, nei suoi tratti salienti risale al Concilio di Trento che il Vaticano II ha ripreso e rielaborato in sintonia con tutto quello che nel frattempo la Chiesa, in quell’assise, riscopriva su sé stessa e su come intendeva proporsi al mondo di oggi.

Non a caso la Nota prende spunto proprio dalla Costituzione Sacrosantum Concilium per ricordare che il Concilio: «Riferisce analogicamente la nozione di Sacramento all’intera Chiesa». E dalla Lumen Gentium che afferma circa la Chiesa che quest’ultima è: «In Cristo come Sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». E ciò si realizza precipuamente per mezzo dei Sacramenti, in ciascuno dei quali si attua a suo modo la natura sacramentale della Chiesa, Corpo di Cristo… Cosciente di ciò la Chiesa, fin dalle sue origini, ha avuto particolare cura delle fonti dalle quali attinge la linfa vitale per la sua esistenza e la sua testimonianza: la Parola di Dio, attestata dalle sacre Scritture e dalla Tradizione, e i Sacramenti, celebrati nella liturgia, mediante i quali è continuamente ricondotta al mistero della Pasqua di Cristo» (cfr. nr. 6, 7 e 10).

Per la grandezza di tutto questo la Chiesa, si dice, riceve i Sacramenti, li amministra, ma non ne è padrona. Cosa che invece sembra sia accaduta con le varianti creative di diversi ministri e di vari movimenti laicali.  È solo a questo punto che la Nota ricorda brevemente ― non è del resto un trattato di liturgia ― quelli che sono elementi essenziali. Innanzitutto la «forma» del Sacramento che corrisponde alle parole che si accompagnano alla materia, la trascende, veicolando il senso cristiano, salvifico ed ecclesiale di ciò che si sta compiendo nella celebrazione. Quindi la «materia» del Sacramento che consiste invece nell’azione umana, attraverso la quale agisce Cristo. In essa a volte è presente un elemento materiale (acqua, pane, vino, olio), altre volte un gesto particolarmente eloquente (segno della croce, imposizione delle mani, immersione, infusione, consenso, unzione). Tale corporeità appare indispensabile perché radica il Sacramento non solo nella storia umana, ma anche, più fondamentalmente, nell’ordine simbolico della Creazione e lo riconduce al mistero dell’incarnazione del Verbo e della Redenzione da Lui operata (cfr. nr 13).

Infine l’«intenzione» di chi celebra, che nulla ha a che vedere con la sua moralità e la fede, piuttosto con il convincimento di compiere: «Almeno ciò che fa la Chiesa» (Concilio di Trento). Questa disposizione sottrae il celebrante dall’automatismo e dalla possibile arbitrarietà del singolo, poiché questo atto squisitamente umano è anche ecclesiale. Atto interiore e soggettivo si, che però, manifestandosi nel Sacramento, diviene di tutta la comunità ecclesiale e: «Poiché ciò che fa la Chiesa non è altro che ciò che Cristo ha istituito, anche l’intenzione, insieme alla materia e alla forma, contribuisce a rendere l’azione sacramentale il prolungamento dell’opera salvifica del Signore» (cfr. nr 18).

A tal proposito la Chiesa ha approntato i libri liturgici che non vanno alterati o usati a piacimento, piuttosto osservati fedelmente nelle parole e persino nella gestualità che in essi è indicata. Gli stessi prevedono spazi di creatività e le stesse Conferenze episcopali dei diversi paesi hanno predisposto possibili adattamenti e varianti che corrispondono alla sensibilità e alla situazione dei partecipanti. Si pensi alle celebrazioni coi fanciulli, per esempio, ai diversi canoni eucaristici predisposti per loro ed approvati dalla CEI.

La Nota ricorda anche, e questo sembra rispondere agli appunti critici, che: «Materia, forma e intenzione sono sempre inseriti nel contesto della celebrazione liturgica, che non costituisce un ornatus cerimoniale dei Sacramenti e nemmeno una didascalica introduzione alla realtà che si compie, ma è nel suo complesso l’avvenimento in cui continua a realizzarsi l’incontro personale e comunitario tra Dio e noi, in Cristo e nello Spirito Santo, incontro nel quale, attraverso la mediazione di segni sensibili, «viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati». La necessaria sollecitudine per gli elementi essenziali dei Sacramenti, dai quali dipende la loro validità, deve pertanto accordarsi con la cura e il rispetto dell’intera celebrazione, in cui il significato e gli effetti dei Sacramenti sono resi pienamente intelligibili da una molteplicità di gesti e parole, favorendo in tal modo l’actuosa participatio dei fedeli (cfr. nr 20).

In questo contesto si inserisce tutta l’importanza della presidenza liturgica e l’arte di celebrare. Queste richiedono la conoscenza dei motivi teologici che le espirano, come quelli di agire, quando si celebra, In persona Christi e Nomine ecclesiae. Come pure la conoscenza dei libri liturgici e dei loro Praenotanda che spesso si saltano a piè pari perché noiosi. Ma se volessimo fare un paragone, che spero non appaia fuori luogo, fra il celebrare e il gesto sportivo, si vede come quest’ultimo risulti efficace se ha dietro una buona conoscenza e messa in atto dei cosiddetti fondamentali. Un campione, soprattutto di quelle discipline che richiedono gesti ripetuti uguali e precisi, passa molto tempo, anni addirittura, a studiare, ad allenarsi e a esprimersi poi con una disinvoltura che stupisce. Un gesto atletico molto difficile che vediamo eseguire, durante una olimpiade per esempio, ha richiesto una preparazione non indifferente, eppure ci sembra semplice e naturale.

Per concludere, so che tanti, per usare un eufemismo, hanno storto il naso quando il Pontefice ha scelto l’attuale Prefetto. Le critiche non sono mancate. Rispondendo con rispetto e per alleggerire con una battuta tutto il discorso fatto fin qui si potrebbe ricordare il detto che recita: «Anche un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora giusta». Però, onestamente, questa Nota stavolta suona bene. Non ha nulla di criticabile, se l’intenzione è proprio quella di invitare a custodire e a presentare in modo degno ed ecclesiale un bene tanto prezioso. Infatti così termina:

«Noi […] abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4, 7). L’antitesi utilizzata dall’Apostolo per sottolineare come la sublimità della potenza di Dio si riveli attraverso la debolezza del suo ministero di annunciatore ben descrive anche quanto accade nei Sacramenti. La Chiesa tutta è chiamata a custodire la ricchezza in essi contenuta, perché mai venga offuscato il primato dell’agire salvifico di Dio nella storia, pur nella fragile mediazione di segni e di gesti propri della umana natura» (nr 28).

Firenze, 21 febbraio 2024

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Le tifoserie di Maria co-redentrice, una grossolana contraddizione in termini teologici

LE TIFOSERIE DI MARIA CO-REDENTRICE, UNA GROSSOLANA CONTRADDIZIONE IN TERMINI TEOLOGICI

Qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

— Le pagine di Theologica —

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Articolo dedicato alla memoria del Gesuita Peter Gumpel (Hannover 1923 – Roma 2023) che fu mio formatore e prezioso maestro nell’ambito della storia del dogma

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Frequentando abbastanza i social media, leggendo e ascoltando sacerdoti e laici, su argomenti biblici e teologici, a volte si ha l’impressione che non sia intervenuto alcun progresso su certi temi. Accade così che su questioni che riguardano argomenti di fede sono messe in circolazione molte imprecisioni, oppure si continua su registri vecchi, devozionali ed emozionali.

Salvador Dalí, La Madonna di Port Lligat, 1949, Haggerty Museum of Art, Milwaukee, WI, USA. Dettaglio.

Il desiderio, forse un po’ utopico, sarebbe che i Lettori si rendano conto, con un minimo impegno, che potrebbero beneficiare di approfondimenti seri e precisi. Perlomeno è nella speranza mia e dei Padri di questa nostra Isola di Patmos, essere di aiuto a coloro che riescono ad andare oltre le quattro o cinque righe lette sui social media, dove oggi pontificano improbabili teologi e mariologi, con le conseguenze che spesso ben sappiamo: la deviazione dalla vera fede. E questo dispiace molto, perché i Social Media potrebbero essere per noi strumento straordinario per la diffusione della sana e solida dottrina cattolica.

Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo da quando, fin dall’epoca del Venerabile Pontefice Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano a un testo scritto. Per citare solo alcuni esempi: l’analisi retorica, la strutturale, la letteraria e la semantica hanno prodotto risultati che forse qualche volta saranno apparsi insoddisfacenti, ma hanno anche permesso di scandagliare in modo nuovo il testo della Sacra Scrittura e ciò ha portato a tutta una serie di studi che ci hanno fatto conoscere meglio e più approfonditamente la Parola di Dio. Oppure di riconsiderare acquisizioni antiche, della tradizione, dei Santi Padri della Chiesa, che pur risultando vere e profonde, nonché opere di alta teologia, tuttavia non avevano il supporto di uno studio moderno dei testi sacri, proprio perché ancóra, certi strumenti, all’epoca delle loro speculazioni mancavano.

Prima di proseguire è necessario un inciso: i “teologi” da social media hanno bisogno della lite, per scatenare la quale è necessario scegliersi e fabbricarsi un nemico. Per certi gruppi il nemico più gettonano è il Modernismo, definito a giusta ragione dal Santo Pontefice Pio X come sintesi di tutte le eresie» (cfr. Pascendi Dominici Gregis). Ciò non vuol dire, però, che l’agire di questo Santo Pontefice, prima ancóra quello e del suo Sommo Predecessore Leone XIII, abbia sempre prodotto effetti benefici nei decenni a seguire. Ovviamente, per fare una analisi critica obbiettiva, è di rigore contestualizzare la condanna del Modernismo e i severi provvedimenti canonici che ne seguirono in quel preciso momento storico, non certo esprimere giudizi usando criteri legati al nostro presente, perché ne uscirebbero fuori solo sentenze fuorvianti e falsanti. Per sintetizzare in breve questo complesso problema al quale mi sono riservato di dedicare un mio prossimo libro, basti dire che la Chiesa di quegli anni, dopo la caduta dello Stato Pontificio avvenuta il 20 settembre 1870, era soggetta a violenti attacchi politici e sociali. Il Romano Pontefice si era ritirato come “volontario prigioniero” tra le mura vaticane dalle quali uscirà fuori solo sei decenni dopo. L’anticlericalismo di matrice massonica era elevato alla massima potenza e la Chiesa doveva fare seriamente i conti con la propria sopravvivenza e con quella della istituzione del papato. Non poteva certo permettersi lo sviluppo di correnti di pensiero che l’avrebbero attaccata e corrosa direttamente dal proprio interno. È in questo delicato contesto che si colloca la lotta del Santo Pontefice Pio X al Modernismo. Con tutte le conseguenze anche negative del caso: la speculazione teologica fu di fatto congelata tra mille paure e la formazione dei preti ridotta a quattro formulette della neo-scolastica decadente, che della scolastica classica di Sant’Anselmo d’Aosta e di San Tommaso d’Aquino non era neppure lontana parente. Ciò produsse nel clero cattolico una impreparazione e una tale ignoranza che per averne chiara prova basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii scritta nel 1935 del Sommo Pontefice Pio XI.

Le conseguenze della lotta al Modernismo furono per certi versi disastrose, basti dire che quando alle soglie degli anni Quaranta del Novecento, all’inizio del pontificato di Pio XII, i teologi e i biblisti cattolici cominciarono a mettere mano su certi materiali e a fare esegesi nell’ambito vetero e novo testamentario, furono costretti, in modo discreto e lavorando prudentemente sottobanco, a rifarsi ad autori protestanti, che su certe tematiche speculavano e portavano avanti già da decenni studi approfonditi, specie nell’ambito delle scienze bibliche. E così oggi, se vogliamo fare uno studio e una analisi del testo della Lettera ai Romani dobbiamo di necessità rifarci al commento del teologo protestante Carl Barth, che rimane fondamentale e soprattutto insuperato. Anche questi furono i frutti della lotta contro il Modernismo, di cui certo non parlano i “teologi” da social media che per esistere hanno bisogno di un nemico da combattere. Come però già detto, questo tema sarà oggetto di un mio prossimo libro, ma era necessario questo inciso per meglio introdurre il nostro tema.

Quello che tutt’oggi seguita a mancare è che questi risultati ottenuti attraverso la moderna esegesi o lo studio dei testi vetero e novo testamentari diventino appannaggio della maggioranza dei credenti. E qui torno a ribadire la straordinaria importanza che potrebbero avere i social media, per diffondere e rendere accessibili certi materiali. Troppo spesso rimangono invece confinati nei testi specialistici e non passano, se non sporadicamente, nella predicazione e nella catechesi, favorendo una consapevolezza nuova dei termini in gioco e quindi una fede cristiana più solida e motivata, non basata soltanto su dati acquisiti spesso fragili e confusi, sul devozionale, sul sentimentale, o peggio: su rivelazioni, su apparizioni vere o presunte, o sui pruriginosi “segreti” tremebondi della logorroica Gospa di Medjugorje (cfr. mia video conferenza, QUI)… e via dicendo a seguire.

Se certe tifoserie madonnolatriche avessero l’umiltà, forse anche la decenza di leggere libri e articoli di autorevoli studiosi, forse potrebbero comprendere che non solo, non hanno compreso, ma che della Maria dei Santi Vangeli non hanno capito proprio niente. Basterebbe prendere ― ne cito uno solo tra i tanti ― l’articolo scritto da Padre Ignace de la Potterie: «La Madre di Gesù e il mistero di Cana» (La Civiltà Cattolica, 1979, IV, pp. 425-440, testo integrale QUI), per comprendere così quale abissale differenza possa correre tra la mariologia e la mariolatria.  

Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra certi presbiteri — e a maggior ragione tra certi devoti fedeli — assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali, sino a giungere con il passo degli elefanti dentro una cristalleria al tema molto delicato e discusso di Maria co-redentrice, che come risaputo — e come più volte hanno puntualizzato anche gli ultimi Pontefici —, è un termine che di per sé crea enormi problemi teologici con la cristologia e il mistero stesso della redenzione. Affermare infatti che Maria, creatura perfetta nata senza peccato, ma pur sempre creatura creata, ha cooperato alla redenzione dell’umanità, non è propriamente come affermare che ha co-redento l’umanità. A operare la redenzione è stato Cristo, che non era una creatura creata ma il Verbo di Dio fatto uomo, generato non creato della stessa sostanza di Dio Padre, come recitiamo nel Simbolo di Fede, il Credo, dove professiamo «[…] e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». Nel Simbolo di Fede, la redenzione è tutta quanta incentrata sul Cristo. Ecco perché dire che la Beata Vergine “ha cooperato” e dire “ha co-redento” ha una valenza teologica sostanzialmente e radicalmente diversa. Uno solo è infatti il redentore: Gesù Cristo Dio fatto uomo «generato non creato della stessa sostanza del Padre», che come tale non ha bisogno di alcuna creatura creata che lo supporti o lo sostenga come co-redentore o co-redentrice, compresa la Beata Vergine Maria» (cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, in L’Isola di Patmos, vedere QUI, QUI, QUI). Domanda: alle tifoserie della co-redentrice, come mai non basta che Maria sia colei che di fatto ha cooperato più di qualsiasi creatura affinché si realizzasse il mistero della redenzione? Per quale motivo, ma soprattutto per quale ostinazione, non contenti della sua figura di cooperatrice, vogliono a tutti i costi che sia proclamata co-redentrice con una solenne definizione dogmatica?

Dal punto di vista teologico e dogmatico, il concetto stesso di Maria co-redentrice crea anzitutto grossi problemi alla cristologia, col rischio di dare vita a una sorta di “quatrinità” e di elevare la Madonna, che è creatura perfetta nata senza macchia di peccato originale, a ruolo di vera e propria divinità. Cristo ci ha redenti col suo ipostatico sangue prezioso umano e divino, con il suo corpo glorioso risorto che porta tutt’oggi impressi su di sé i segni della passione. Maria invece, pur ricoprendo un ruolo straordinario nella storia della economia della salvezza, ha cooperato alla nostra redenzione. Dire co-redentrice equivale a dire che siamo stati redenti da Cristo e da Maria. E qui è bene chiarire: Cristo salva, Maria intercede per la nostra salvezza. Non è una differenza di poco conto “salvare” e “intercedere”, salvo creare in caso contrario una religione diversa da quella nata sul mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio (cfr. mio precedente articolo QUI).

La mariologia non è qualche cosa di a sé stante, quasi come se vivesse di vita autonoma. La mariologia non è altro che una appendice della cristologia ed è inserita in una precisa dimensione teologica di cristocentrismo. Se la mariologia è in qualche modo distaccata da questa centralità cristocentrica, si può correre il serio rischio di cadere nel peggiore e più deleterio mariocentrismo. Per non parlare della palese arroganza degli esponenti di qualche giovane e problematica Congregazione di impronta francescana-mariana, che non si sono limitati a fare ipotesi o studi teologici per supportare l’idea peregrina della cosiddetta co-redentrice, ma di fatto ne istituirono il culto e la venerazione.

Chi proclama dogmi che non esistono compie un delitto maggiore rispetto a coloro che i dogmi li negano, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione dopo secoli di studi e speculazioni ― come nel caso del dogma della immacolata concezione e dell’assunzione al cielo di Maria ―, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono, in quel caso entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore. L’ho scritto e spiegato in diversi miei precedenti articoli ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria l’intero mistero del male ― che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto [Cfr. Catechismo n. 1866] ―, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa nel mio libro E Satana si fece trino, spiegando in un mio libro del 2011 in qual modo si sia spesso esagerato oltre misura sul sesto comandamento, spesso dimenticando tutti i peggiori e più gravi peccati contro la carità.

Se poi tutto questo è filtrato attraverso emotività di stampo fideistico ― come se un tema così delicato incentrato nelle sfere più complesse della dogmatica fosse una sorta di tifoserie opposte composte da tifosi laziali e tifosi romanisti ―, in quel caso si può cadere nella vera e propria idolatria mariana o nella cosiddetta mariolatria, che equivale a dire: paganesimo allo stato puro. A quel punto Maria potrebbe assumere tranquillamente il nome di qualsiasi dea dell’Olimpo greco o del Pantheon romano.

Le tifoserie da social media della co-redenzione della Beata Vergine affermano come una sorta di prova incontrovertibile che sarebbe stata Maria stessa a chiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano (cfr. tra i tanti articoli, QUI). Cosa sulla quale a loro dire non si discute, lo avrebbe chiesto la Beata Vergine stessa apparendo ad Amsterdam a Ida Peerdeman. Premesso che nessuna apparizione mariana, incluse quelle riconosciute come autentiche dalla Chiesa, Fatima inclusa, può essere oggetto e materia vincolante di fede; premesso altresì che meno ancora lo sono le locuzioni di certi veggenti, possiamo solo sorridere su certe amenità da teologi dilettanti che rendono taluni soggetti difficilmente gestibili per noi preti e soprattutto per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con quella loro ignoranza che li porta a trattare un simile tema come se davvero fosse uno scambio acceso tra tifosi della Lazio e tifosi della Roma che si urlano dalle opposte curve dello stadio. Anche in questo caso la risposta è semplice: qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

Ecco infine la “prova delle prove”: «diversi Sommi Pontefici hanno fatto uso del termine co-redentrice», detto questo segue l’elenco dei loro vari discorsi, benché il tutto dimostri però l’esatto contrario di ciò che le tifoserie della co-redenzione vorrebbero provare. È sì vero che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, in un suo discorso dell’8 settembre 1982, affermò:

«Maria, pur concepita e nata senza macchia di peccato, ha partecipato in maniera mirabile alle sofferenze del suo divin Figlio, per essere co-redentrice dell’umanità».

Questa espressione dimostra però l’esatto contrario sul piano teologico e mariologico. Chiariamo perché: da allora a seguire Giovanni Paolo II ― che era indubitabilmente un Pontefice di profonda devozione mariana ―, dinanzi a sé ebbe altri 23 anni di pontificato. Come mai, in questo lungo lasso di tempo, oltre a non proclamare il quinto dogma mariano della co-redenzione di Maria, respinse in modo deciso la richiesta, quando per due volte gli fu presentata? La respinse perché tra il 1962 e il 1965, l’allora giovane Vescovo Karol Woytila fu una figura partecipe e attiva al Concilio Vaticano II che in una delle sue costituzioni dogmatiche chiarì come Maria avesse «cooperato in modo unico all’opera del Salvatore» (Lumen gentium, 61). Affermazione introdotta dal precedente articolo dove si precisa che L’unica mediazione del Redentore «non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte» (Lumen gentium 60; CCC 970). E la cooperazione più alta e straordinaria è stata quella della Vergine Maria. Ciò dovrebbe bastare per comprendere che i Sommi Pontefici, quando alcune volte hanno fatto ricorso al termine co-redentrice in loro discorsi, mai in encicliche o atti solenni del sommo magistero, intendevano esprimere con esso il concetto di cooperazione di Maria al mistero della salvezza e della redenzione.

Il termine stesso di co-redentrice è in sé e di per sé una assurdità teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici, lo ha ripetuto per tre volte, nel 2019, 2020 e 2021 anche il Sommo Pontefice Francesco:

«[…] Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola. E c’è un Santo Padre che dice in giro che è più degno il discepolato della maternità. Questioni di teologi, ma discepola. Non ha mai rubato per sé nulla di suo Figlio, lo ha servito perché è madre, dà la vita nella pienezza dei tempi a questo Figlio nato da una donna (cfr. Omelia del 12 dicembre 2019, testo integrale QUI) […] la Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere una quasi-redentrice o una co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia. Soltanto discepola e Madre (cfr. Omelia del 3 aprile 2020, testo integrale QUI) […] la Madonna che, come Madre alla quale Gesù ci ha affidati, avvolge tutti noi; ma come Madre, non come dea, non come corredentrice: come Madre. È vero che la pietà cristiana sempre le dà dei titoli belli, come un figlio alla mamma: quante cose belle dice un figlio alla mamma alla quale vuole bene! Ma stiamo attenti: le cose belle che la Chiesa e i Santi dicono di Maria nulla tolgono all’unicità redentrice di Cristo. Lui è l’unico Redentore. Sono espressioni d’amore come un figlio alla mamma, alcune volte esagerate. Ma l’amore, noi sappiamo, sempre ci fa fare cose esagerate, ma con amore» (cfr. Udienza del 24 marzo 2021, testo integrale QUI).

Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Se quindi non ci redime, perché si insiste affinché sia dogmatizzato un titolo mirato a definire solennemente che ci co-redime?

È probabile che molti tifosi della co-redenzione non abbiano mai prestato attenzione alle invocazioni delle Litanie Lauretane, che non furono certo opera di qualche recente pontefice in odore di modernismo, come direbbero alcuni, furono aggiunte alla recita del Santo Rosario dal Santo Pontefice Pio V dopo la vittoria della Lega Santa a Lepanto nel 1571, sebbene già in uso da diversi decenni nel Santuario della Casa di Loreto, dalla quale traggono nome. Eppure basterebbe porsi questa domanda: come mai, quando all’inizio di queste litanie si invocano Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, diciamo «miserere nobis» (abbi pietà/msericordia di noi)? Mentre appena s’inizia, con l’invocazione Sancta Maria, a enunciare tutti i titoli della Beata Vergine, da quel momento in poi diciamo «Ora pro nobis» (prega per noi)? Semplice: perché Dio Padre che ci ha creati e che ha donato all’umanità sé stesso mediante l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, i quali hanno fatto poi giungere lo Spirito Santo che «procede dal Padre e dal Figlio», con pietosa misericordia donano la grazia del perdono dai peccati mediante una azione trinitaria del Dio uno e trino, la Vergine Maria no, i peccati non ce li rimette e non ce li perdona, perché nella economia della salvezza il suo ruolo è quello di intercedere. Questo il motivo per il quale, quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina, da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci (cfr. mio precedente articolo, QUI). Solo questo dovrebbe di per sé bastare e avanzare per comprendere che il termine stesso co-redentrice è una grossolana contraddizione a livello teologico, quanto basta purtroppo a rendere grossolani quei teologi che insistono nel richiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano, caricando e usando come tifoseria frange di fedeli gran parte dei quali hanno profonde e serie lacune sui fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica.

La persona della Vergine Maria, la Madre di Gesù, viene guardata e indicata con una profondità teologica che la colloca in stretto rapporto con la missione del suo Figlio e unita a noi discepoli, perché questo è il suo ruolo che i Vangeli ci hanno voluto comunicare e ricordare, il tutto con buona pace di quanti pretendono, a volte persino in modo arrogante, di relegare la Donna del Magnificat in un microcosmo di devozionismi emotivi che spesso lasciano persino percepire il fumus del neo-paganesimo. Ha quindi ragione il Sommo Pontefice Francesco, che con il suo stile molto semplice e diretto, a volte persino volutamente provocatorio e per taluni persino indisponente, ma proprio per questo capace a farsi intendere da tutti, ha precisato che Maria «[…] non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice». E non si è presentata come tale perché Maria è la Donna del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»; beata perché mi sono fatta serva, non certo perché ho chiesto, a qualche veggente svalvolato, di essere proclamata co-redentrice.

 

dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2024

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La Madre di Gesù, il tesoro nascosto nei Vangeli

LA MADRE DI GESÙ, IL TESORO NASCOSTO NEI VANGELI

«Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque».

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la Teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo almeno da quando, fin dall’epoca di Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano ad un testo scritto.

L’Annuncio – Opera di Salvador Dalì, 1960, Musei Vaticani (cliccare sull’immagine per aprire la pagina)

Quanti sono a conoscenza degli enormi vantaggi che gli studi esegetici hanno recato alla teologia che indaga la figura e il ruolo della Vergine Maria, la cosiddetta mariologia. Quale ricchezza poter dire oggi che il racconto dell’annunciazione (Lc 1, 26-38) per la sua forma letteraria, pur conservando all’interno la comunicazione di una nascita miracolosa, è tuttavia un racconto di vocazione: la vocazione di Maria. Ma chi lo sa? Chi si è accorto che nella versione CEI della Bibbia del 2008, quella che leggiamo attualmente nelle nostre liturgie, l’annuncio dell’angelo a Maria è oggi reso con: «Rallegrati»; quando nella precedente versione del 1974 si leggeva: «Ti saluto»; a causa della grande influenza dovuta alla preghiera dell’Ave Maria? Fu il gesuita Padre Stanislas Lyonnet[1] il primo che nel 1939 fece notare che l’imperativo invito alla gioia («rallegrati», Kayre di Lc 1,28) faceva riferimento ai testi profetici rivolti alla «figlia di Sion» (Sof 3,14). Cambia tutto, non più un semplice saluto, ma a Maria viene comunicato un invito che in passato era rivolto ad Israele verso cui i profeti si rivolgevano come a una donna. Nel medioevo dicevano che per la sua funzione materna Maria era «Figura della sinagoga»[2], oggi, grazie alle acquisizioni esegetiche diamo a questa affermazione una connotazione nuova e più solida dal punto di vista scritturistico.

Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra i presbiteri e a maggior ragione i fedeli, assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali; al massimo ci si spinge a ricalcare il delicato e discusso tema di Maria co-redentrice. Quante omelie volendo spiegare l’episodio di Cana ne parlano ancora come di un semplice miracolo? Nel brano evangelico questa parola non c’è. Si parla invece di «segno» ― «Gesù fece questo come inizio dei segni» (Gv 2,11) ― che nel Quarto Vangelo ha tutt’altra profondità teologica e pregnanza. E lì era presente Maria, che neanche viene chiamata per nome, ma solo identificata come: «Donna». Eppure non si sente altro che parlare della Madonna: La Madonna che ha forzato il miracolo. Chissà quanti sanno che la frase di Gesù a sua Madre è con molta probabilità una interrogativa ― «Non è ancora giunta la mia ora?» ― come ha provato un valente esegeta ormai decine di anni fa[3]. La nuova Bibbia Cei non lo riporta ancora, ma almeno, dalla precedente versione, è stato cambiato il termine miracolo e ora possiamo leggere finalmente la parola «segno» (Gv 2,11).

Un altro interessante cambio di prospettiva che pian piano è avvenuto, mentre si scrutava con attenzione la figura di Maria nei Vangeli, è stato quello di accantonare il tradizionale legame fra Lei e la figura di Eva, protagonista del protovangelo di Genesi. Perché più aderente ai testi e ricco di prospettive teologiche ed ecclesiologiche risultava invece vedere Maria come immagine di quella figlia di Sion biblica (Sal 86 [87],5, 5 LXX), la Gerusalemme nuova che diviene protagonista della nuova Alleanza con Gesù.

Questo emerge con evidenza nei racconti evangelici, soprattutto in due testi giovannei che vedono Maria, mai chiamata col suo nome proprio, ma identificata piuttosto come «La madre di Gesù» o più curiosamente come «Donna». L’episodio delle nozze di Cana (Gv 2, 1-11) e quello della «Madre» sotto la croce (Gv 19,25-27) insieme al discepolo amato, sono direttamente collegati proprio in ragione della presenza in entrambi i momenti di questa «Donna».

Nel primo caso, a Cana, siamo all’inizio della manifestazione di Gesù, nel secondo episodio siamo invece al termine di questa rivelazione, lì: «Tutto era compiuto» (Gv 19,28). Rivelazione che rappresenta il motivo conduttore del Vangelo giovanneo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Cana è il punto culminante di una settimana nella quale Gesù inizia a manifestarsi ai suoi primi discepoli, dopo il primo grande giorno senza tempo del prologo; la croce è il momento finale, prima della risurrezione certo, che vede Gesù rivelare alla Madre e al discepolo, colui che non ha mai smesso di seguire Gesù fin dall’inizio, il grande mistero della Chiesa che guarda con fede ciò che è accaduto e lo testimonia: «Chi ha visto ne da testimonianza» (Gv 19,35).

A Cana, Maria, la Madre di Gesù, è quella Donna che rappresenta l’umanità nell’indigenza e il giudaismo che viveva della speranza messianica. Le parole così apodittiche ― «Essi non hanno vino» (Gv 2,3) ― starebbero a significare il desiderio d’Israele di vedere il diffondersi del vino messianico ovvero la rivelazione definitiva della Nuova Alleanza, secondo il ricco simbolismo del vino nella tradizione biblica e giudaica. Ella invita, perciò, i discepoli a rinnovare quel proposito espresso già nella antica alleanza del Sinai: «Tutto ciò che Jahvè ha detto, noi lo faremo»; «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Es 19,8; cfr anche 24,3.7; Gv 2,5).

San Giovanni evangelista, come spesso fa nel corso della sua opera, per esempio nel racconto della Samaritana al pozzo (Gv 4,13-14), ci chiede di elevarci dal piano umano e storico a quello più spirituale e teologico. Dove spirituale non vuol dire meno aderente al vero, bensì designa e indica il significato più nascosto e profondo celato dentro un racconto, in linea con quello che anche la moderna ermeneutica va scoprendo. Martin Heidegger nei suoi scritti dice che il linguaggio si trova nell’«impronunciabile» e il senso nel «non-detto» del testo, mentre il filosofo Emmanuel Lévinas parla di andare «al di là del versetto», Gregorio Magno, un medievale, diceva addirittura che: «Il testo cresce con colui che lo legge».

Nei riguardi di Maria, il Vangelo ci fa dunque passare dal significato immediato e più evidente di Lei in quanto madre di Gesù perché lo ha portato in grembo e partorito, a quello di rappresentante di un’intera comunità che desidera unirsi a Gesù che, visto il contesto, vuole legarsi a Lui come una Sposa al suo Sposo, poiché Egli è Colui che porta la salvezza, il vino nuovo simbolo della nuova alleanza messianica. Tutto l’insieme del brano e l’uso del termine «Donna» è un invito ad elevarci dal piano storico e letterale al senso più recondito e profondo che è spirituale, teologico e altamente significativo per i credenti. È per questo che l’episodio di Cana si colloca alla fine di una prima settimana di manifestazione di Gesù ai suoi discepoli, curiosi di sapere chi sia, cosa porta di nuovo rispetto a Giovanni che lo ha indicato (Gv 1,36) e dove sta il suo segreto: «Dove rimani? » (Gv 1,38). Non a caso l’evangelista commenta alla fine che proprio a Cana Gesù non fece un semplice miracolo, ma «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli iniziarono a credere in lui» (Gv 2,11).

Se il ruolo materno della Donna verso i discepoli, a Cana, era abbozzato o per meglio dire iniziale, sotto la croce questo appare con evidenza. Maria riceve proprio lì una nuova maternità spirituale che si esplica nella mutua relazione fra lei ed un discepolo: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,25-27).

Si suole dire che quando qualcuno si trova in punto di morte di solito pronuncia parole importanti, definitive. E queste sono le ultime parole di Gesù prima di morire, prima di proferire quel definitivo: «Ho sete». Ma ancora una volta San Giovanni ci avverte che qui è celata una importante rivelazione. Lo fa adoperando uno schema più volte usato nella sua opera, ovvero utilizzando i due verbi: vedere, dire; e poi l’avverbio «ecco», in sequenza. Gli studiosi chiamano questo procedimento: schema di rivelazione; perché sta ad indicare che l’autore ci sta segnalando qualcosa di nuovo che viene illustrato.

Nel raccontare la passione, la crocifissione e la morte di Gesù, Giovanni non si smentisce e vi addensa temi di grande importanza teologica. La regalità di Gesù è universale, come segnalano le lingue del titolo della croce: «Era scritta in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,20); tutti i figli di Dio dispersi sono radunati: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me»  (Gv 12,32); la sua tunica inconsutile rappresenta l’unità della Chiesa, almeno nella esegesi patristica per via del verbo skizo («σχίζω») qui usato, da cui scisma: «Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Egli è l’agnello pasquale integro: «Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso» (Gv 19,36; cfr. Es 12,46). E al culmine di questa rivelazione c’è la consegna da parte di Gesù di «sua madre» al discepolo.

Notiamo infatti nei versetti che la Madre di Gesù che è «sua» (termine ripetuto quattro volte), diventa per le parole di Gesù al discepolo: «Tua madre»; e viceversa lui per Lei: «Tuo figlio». Questo discepolo è amato perché è colui che non ha mai smesso di seguire Gesù fin dall’inizio, da quella iniziale settimana che sfocia nel segno di Cana a cui abbiamo accennato più sopra; cosa che, invece, non era riuscita a Pietro che dovrà riprendere la sequela più avanti. In questo senso rappresenta il discepolo per eccellenza verso cui tutti dovremmo conformarci, è simbolo di ogni vero discepolo di Gesù, capace, chinandosi sul suo petto, di cogliere gli aspetti più intimi di Lui. La Madre, come abbiamo visto a Cana, rappresenta la figlia di Sion, ma adesso nella sua funzione materna pienamente svelata. E’ colei che vede i suoi figli prima dispersi, ora radunarsi (Is 60, 4-5 LXX). Se a Cana, nella fase iniziale, questo rapporto era accennato, qui raggiunge tutta la sua evidenza. La «Donna» ora diventa la madre della Chiesa, rappresentata dal discepolo.

In che consiste questa nuova maternità che chiamiamo spirituale, in ragione del fatto che il vero e unico Figlio che lei ha avuto è Gesù? Proprio per il suo legame indissolubile con Gesù, Lei non potrà che essere da adesso in poi per il nuovo figlio, la chiesa, colei che conduce a Gesù, che invita a entrare nell’alleanza non più iniziale come a Cana, ma definitiva, sancita dalla morte salvifica del Cristo sulla croce. Sarà colei che rinnova nei riguardi dei discepoli quello che è stata per Gesù nell’incarnazione: sarà la Madre. Se già a Cana i discepoli non erano chiamati schiavi, bensì servi, i «diakonoi» di Gv 2,5, a maggior ragione qui essi sono considerati come figli. E questa maternità, donata sotto la croce, si esplica nell’aiutare il discepolo, tutti noi, a capire il significato profondo di quel che è avvenuto fin dall’inizio e di quel che sta accadendo in quel momento sul calvario. È per questo che il discepolo, dice il Vangelo, comprende immediatamente le parole di Gesù e prende quella che ormai è Sua Madre nel suo intimo. Non prende possesso, come se una donna passasse di proprietà da uno ad un altro, ma la accoglie per tutto quello che ora significa, grazie alla parola rivelativa appena detta da Gesù. Per tal motivo commenta l’evangelista: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,27).

Il discepolo, partecipe dell’ora messianica del Signore e grazie alla presenza materna di Maria può volgere verso Gesù in croce lo sguardo di colui che ha compreso, nel senso più ampio del termine, quello di portare con sé e dentro di sé il mistero grande di cui è testimone. Ed infatti queste sono le sue parole: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35).

Cosa testimonia il discepolo, appena dopo aver ricevuto questa nuova Madre? Che ha udito le ultime parole di Gesù sulla sua opera compiuta e le altre che esprimevano il suo desiderio di donare lo Spirito: «Ho sete» (Gv 19,28b). Sarà dopo la morte di Gesù, che Giovanni descriverà proprio come un consegnare lo Spirito – «tradidit spiritum» (Gv 19,30 Vulgata) – con l’apertura del costato da cui defluisce sangue, cioè la vita di Gesù donata finora, e  l’acqua, simbolo appunto del dono dello Spirito come più volte nel Vangelo era stato preannunciato (Gv 7, 37-38), che il suo sarà finalmente e definitivamente uno sguardo di fede rivolto perennemente a Gesù: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». (Gv 19,37). Scrive un Padre della Chiesa:

«Nessuno può raggiungere il senso (del Vangelo di Giovanni) se non abbia reclinato il capo sul petto di Gesù e da Gesù non abbia ricevuto Maria per madre, E, per essere un altro Giovanni, in modo che si senta designare da Gesù come fosse Gesù stesso. Perché… Maria non ha altri figli che Gesù; quando Gesù dice a sua Madre: “Ecco tuo figlio” e non: “Ecco questo uomo è anche tuo figlio”, è come se le dicesse: “Ecco Gesù che tu hai partorito”. In effetti chiunque è arrivato alla perfezione “non vive più ma Cristo vive in lui” e poiché Cristo vive in lui, Cristo dice di lui a Maria: “Ecco tuo figlio, il Cristo”»[4]

Se oggi rileggendo queste audaci parole di Origene ci accorgiamo di quanta verità teologica e bellezza spirituale esse contengano lo dobbiamo anche al fatto che lo studio di Maria nella Scrittura, che negli ultimi decenni è rifiorito, ci permette di raccogliere i frutti di un lavoro di analisi insieme rigorosa e amorosa dei testi biblici e di gustare affermazioni antiche con rinnovata consapevolezza. E la Chiesa raccomanda non solo che il testo sia studiato dagli specialisti, ma che tutti possano abbeverarsi alla fonte della Sacra Scrittura:

«Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché “quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini”». (Dei Verbum, 25).

Eccoci allora giunti allo scopo di questo piccolo contributo. Instillare nei lettori il desiderio di amare e conoscere la Scrittura in modo serio, ma anche appassionato. Qui abbiamo molto sintetizzato, davvero tanto, perché ogni singolo aspetto avrebbe richiesto una trattazione più diffusa. Speriamo serva almeno da stimolo o da input come si dice in gergo, soprattutto perché l’argomento trattato faceva riferimento alla Vergine Maria. Questo piccolo scritto possa aiutare chi legge a tornare a quella fonte della rivelazione che è la Bibbia che tanto può raccontarci di Maria, più che le narrazioni circolanti, anche sui social, spesso non di eccelsa qualità.  Perché come diceva un antico autore e lo lascio in latino tanto è di immediata comprensione: «Omnis Sacra Scriptura unus liber est, et ille unus liber Christus est»[5]

Sanluri, 6 febbraio 2023

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NOTE

[1]  LYONNET S., Kaire, Kejaritomene, Bíblica 20 (1939)

[2] Glossa interlinearis a Gv 2,1: «Mater figura synagogae», in Biblia sacra cura Glossa ordinaria…, V, Antverpiae, 1617, 1044; SAN   TOMMASO D’AQUINO, Super evang. S. Joannis (ed. Cai.), n. 346: «[…] gerens in hoc figuram synagogae, quac est mater Christi».

[3] VANHOYE A., Interrogation johannique et exégèse de Cana (Gv 2,4), in Biblica 55 (1974).

[4] Origene, Commento su San Giovanni, I,4,23; SC 120,70,72.

[5] Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2, 8: PL 176, 642; cf Ibid. 2, 9: PL 176, 642-643; Catechismo della Chiesa Cattolica, nr 134).

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Solo Gesù poteva essere così buono e misericordioso da curare e guarire una suocera

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SOLO GESÙ POTEVA ESSERE COSI BUONO E MISERICORDIOSO DA CURARE E GUARIRE UNA SUOCERA 

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta». 

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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La pericope del Vangelo di questa V Domenica del Tempo Ordinario ci racconta ancora della giornata-tipo di Gesù a Cafarnao.

«In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni». (Mc 1,29-39)

Se l’utilizzo frequente in Marco dell’avverbio «subito» è servito ad accelerare il tempo narrativo, evidenziando la fretta di Gesù riguardo l’annuncio del regno; nel brano odierno, anche i luoghi qui sono presi in considerazione, come uno spazio che tende ad allargarsi sempre di più. Il movimento del racconto passa infatti dalla sinagoga della cittadina sul lago (Mc 1,29) alla casa di Pietro, poi ancora dalla casa alla strada aperta davanti alla porta del cortile della casa di Pietro (v. 33), da una città ai villaggi vicini (v. 38); infine, dai villaggi fino a «tutta la Galilea» (v. 39). Come se tutto lo spazio, velocemente, debba essere occupato da Gesù, dal suo annuncio e dalle sue opere.

I personaggi del racconto sono i discepoli più vicini a Gesù, la suocera di Simone e soprattutto i malati. Sono questi ad impadronirsi della scena. Essi si possono trovare già dove arriva Gesù, come la suocera di Pietro, oppure vengono portati a lui; altri ancora lo cercano spontaneamente sin dall’alba, quando egli sta pregando. La malattia incornicia il nostro brano: che si tratti di una febbre o di una sofferenza più profonda, spirituale o fisica (come quella causata dagli spiriti impuri del v. 39), il vocabolario del campo semantico dell’infermità costella il racconto ed è presente in modo consistente, includendo tutta la narrazione.

«E subito gli parlarono di lei». La sollecitudine verso questa donna anziana colpisce, perché manifesta un’attenzione verso i fragili e la fede nella presenza di Gesù. La donna anziana e febbricitante non viene nascosta al Maestro come fosse un problema o qualcuno di cui vergognarsi, per cui non varrebbe la pena disturbare. Il fatto che i discepoli parlino subito della suocera di Pietro a Gesù mostra che quella donna era per loro una priorità. Non ne chiedono la guarigione, non sfruttano la presenza del Maestro ai loro fini, semplicemente indicano la donna malata: questa persona per loro è importante. Da questo si può capire il senso e il valore dell’intercessione come del parlare a favore di qualcuno. Gesù lo apprezza, tanto che fa subito qualcosa: le tende la mano, la solleva e poi la guarisce dalla sua malattia. Gesù vuol essere disturbato dai malati. Gesù apprezza e ammira l’intercessione a favore dei malati, come nel caso del centurione che intercede per il suo servo malato (Lc 7,1-10).

Il tema della malattia, dicevamo, percorre tutto il testo marciano. La sofferenza tocca ogni uomo, ma «sperimentando nella malattia la propria impotenza, l’uomo di fede riconosce di essere radicalmente bisognoso di salvezza. Si accetta come creatura povera e limitata. Si affida totalmente a Dio. Imita Gesù Cristo e lo sente personalmente vicino» (Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, 1021). È la «conversione» alla quale sono chiamati i malati sanati da Gesù, anzi, alla quale siamo chiamati tutti noi.

Scopriamo così un altro senso delle prime parole di Gesù nel Vangelo di Marco: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Il tempo e lo spazio, ma anche gli uomini e le donne sono toccati dalla pienezza della presenza di Dio e il regno è quella realtà in cui è possibile l’incontro con Gesù. Gesù non compie solo attività terapeutiche, perché i suoi gesti sono accompagnati da parole, da insegnamenti. In effetti si tratta di segni per dire che il regno è vicino: i miracoli annunciano e inaugurano il regno di Dio e corrispondono alle attese di Israele, dove si credeva che il Messia sarebbe venuto con capacità taumaturgiche. Per questo motivo l’annuncio che «il regno è vicino» è complementare alla parola «convertitevi e credete al vangelo», perché le folle che accorrono da Gesù, davanti a questi gesti divini, sono chiamate a credere e a convertirsi. Se questo non accade, i miracoli non servono, come spiega Matteo in un altro passo: «Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite: Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere» (Mt 11,20-21). La guarigione più grande che Dio può operare è quella dalla nostra incredulità.

Per finire, forse collegato a ciò che abbiamo appena detto, notiamo la piccola discrepanza fra i «tutti» che accorrono a Gesù per essere sanati (vv. 32.33.37) e i «molti» che invece, effettivamente, sono guariti: «Guarì molti che erano afflitti da varie malattie» (v. 34). Essa, però, viene superata dal vocabolario della risurrezione usato da Marco. Infatti il verbo che Marco adopera per narrare la guarigione della suocera di Pietro — «la sollevò» del v. 31) — è molto importante nel Nuovo Testamento, perché non ricorre soltanto nei contesti delle guarigioni (Mc 2,9.11; 5,41; 9,27), ma soprattutto nel racconto della risurrezione di Lazzaro (Gv 12,1.9) e di Cristo (ad es.: At 3,15; Rm 10,9). Come Gesù è stato capace di sollevare la suocera di Simone, così sarà capace di dare la vita ai morti, a tutti. Si chiarisce allora la strada che vuol farci percorrere Marco per arrivare a conoscere chi è Gesù. Colui che nell’apertura del Vangelo viene definito come «Figlio di Dio» (Mc 1,1), come il Battezzatore nello Spirito Santo (v. 8), come il «Figlio prediletto» (v. 11) è finalmente svelato nel suo essere nei confronti degli uomini: è colui che è «venuto» («uscito», alla lettera, dal verbo exérchomai; cfr. v. 38) agli uomini perché lo ascoltino e siano guariti dalle loro infermità.

Il racconto della giornata di Gesù prosegue col riposo, ma poi «al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!» (Mc 1,35-37). Non sappiamo a quale luogo deserto possa riferirsi l’evangelista, ma certo non doveva essere distante dal lago. Marco ha già accennato alla preghiera di Gesù, nella forma celebrata in sinagoga. Questa preghiera mattutina e personale, come apprendiamo anche da altre tradizioni evangeliche, sembra essere il modo in cui il Signore riconduce tutto al Padre: quello che ha vissuto dalla sera precedente, quello che lo aspetterà nel giorno che continua. Così Gesù insegna ai discepoli che la preghiera è indispensabile per fare unità nella propria vita.

Dall’Eremo, 4 febbraio 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Un buon prete è tale se per lodare il proprio Vescovo attende la fine del suo mandato: Andrea Turazzi, da oggi Vescovo emerito della Diocesi di San Marino-Montefeltro

UN BUON PRETE È TALE SE PER LODARE IL PROPRIO VESCOVO ATTENDE LA FINE DEL SUO MANDATO EPISCOPALE: ANDREA TURAZZI, DA OGGI VESCOVO EMERITO DELLA DIOCESI DI SAN MARINO-MONTEFELTRO

«Venerabile Vescovo, desidero Tu sappia che nel corso del Tuo episcopato mi hai donato i dieci anni più belli del mio sacerdozio, cosa questa per la quale Ti sarò sempre profondamente grato»

— Attualità ecclesiale —

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Da oggi S.E. Mons. Andrea Turazzi è Vescovo emerito di San Marino-Montefeltro, la mia Diocesi di appartenenza.

Mio Vescovo da un anno, dopo avermi conosciuto mi disse in quel lontano maggio 2015: «Tu sei nato per fare il cacciatore e io per fare il veterinario». Mi sorrise con affetto e proseguì: «Nella Chiesa sono necessari sia i cacciatori che i veterinari, ti prego solo di non sparare con pallettoni pesanti, semmai usa i pallini più piccoli».

Per un presbitero, non amare un Vescovo che si porge a questo modo è impossibile. E io ho amato il mio Vescovo, anche se pubblicamente non l’ho mai detto, perché non sarebbe stato opportuno e prudente.

Lo scorso anno, mentre infuriava una polemica nella quale mi ero tuffato direttamente con la veste talare addosso senza neppure svestirmi e mettermi il costume da bagno, mi disse: «Non metto in discussione le tue ragioni, ineccepibili sul piano dottrinale e teologico, ti prego solo di cercare di essere un po’ più moderato». Dopo avermi rivolto questo invito aggiunse: «Certo, nessuno può dire che ti manchi il coraggio, forse ne hai persino troppo. Per questo non me la sento di rivolgerti alcun rimprovero, perché questa è la tua natura e il carattere che Dio ti ha dato, nessuno può chiederti di essere diverso da come sei, ti chiedo solo un po’ di moderazione nella legittima polemica, nulla di più».

Come sempre lo ascoltai. E pochi giorni dopo gli inviai un messaggio privato nel quale lo ringraziai in questi termini: «Venerabile Vescovo, desidero Tu sappia che nel corso del Tuo episcopato mi hai donato i dieci anni più belli del mio sacerdozio, cosa questa per la quale Ti sarò sempre profondamente grato».

Se a usare queste parole di affetto è uno come me, che non ho esitato a dare pubblicamente del delinquente a un potente Cardinale affermando che avrei preferito avere a che fare con quelli della Banda della Magliana anziché con lui e i suoi scagnozzi (cfr. QUI), ciò vuol dire che ho avuto la grazia di avere come Vescovo un autentico uomo di Dio e un vero modello di Pastore in cura d’anime, cosa sempre più rara in questi tristi tempi che la Chiesta universale sta vivendo. Nella sua vita e nel suo governo episcopale il mio Vescovo è stato modello elevato e realizzazione viva dell’insegnamento dei Padri della Chiesa che esortano:

«Tutti i presbiteri, in unione con i vescovi, partecipano del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, in modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi […] I vescovi pertanto, grazie al dono dello Spirito Santo che è concesso ai presbiteri nella sacra ordinazione, hanno in essi dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio […] Per questa comune partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e amici, e stia loro a cuore, in tutto ciò che possono, il loro benessere materiale e soprattutto spirituale» (Cfr. Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 7).

Solamente adesso che non ha più potere di governo pastorale sulla Diocesi e su di me, posso dire pubblicamente quanto abbia venerato, apprezzato e amato il mio Vescovo. E quanto non mi sia stato affatto difficile, con un Vescovo del genere, mettere in pratica questa esortazione dei Padri della Chiesa:

«I presbiteri, dal canto loro, avendo presente la pienezza del sacramento dell’ordine di cui godono i vescovi, venerino in essi l’autorità di Cristo supremo pastore. Siano dunque uniti al loro vescovo con sincera carità e obbedienza. Questa obbedienza sacerdotale, pervasa dallo spirito di collaborazione, si fonda sulla stessa partecipazione del ministero episcopale, conferita ai presbiteri attraverso il sacramento dell’ordine e la missione canonica» (Cfr. Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 7). 

Al vescovo è dovuto filiale rispetto e devota obbedienza da parte del presbitero, questo promettiamo solennemente il giorno che riceviamo la consacrazione sacerdotale. E io ho rispettato e obbedito il mio Vescovo, perché gli era dovuto. Poi l’ho anche stimato e amato, ma non perché gli fosse dovuto, perché né la stima né l’amore sono dovuti ad alcun Vescovo in quanto tale; se li ho riversati su di lui, è perché li ha profondamente meritati.

Duole ai Confratelli Presbiteri e duole ai Christi fideles di questa Diocesi Feretrana che il mandato del Vescovo non sia stato prolungato. Verrebbe quasi da urlare “allo spreco!” dinanzi a un uomo di 75 anni in perfetta salute fisica, dotato di tutte le necessarie forze umane e spirituali, di sapienza e saggezza. Ma d’altronde, la Roma della «Chiesa ospedale da campo» e delle «periferie esistenziali» pare avvezza, oggi ancor più di ieri, a decidere sulle aride carte, specie quando si tratta proprio delle tanto decantate «periferie».

Non ho idea di chi sia il suo successore perché non lo conosco, so soltanto che si chiama Domenico Beneventi, 49 anni, presbitero della Diocesi di Acerenza, una Diocesi particolarmente cara al Cardinale Crescenzio Sepe, molto attivo e operoso in questi ultimi tempi nella presentazione di nuovi candidati idonei all’episcopato. Al nuovo Vescovo eletto auguro sin da ora di non essere solo rispettato e ubbidito, in quanto a lui dovuto per vincolo sacramentale; gli auguro anche di essere amato e stimato come lo è stato il suo predecessore. Ma amore e stima del clero e dei fedeli vanno conquistati a caro prezzo, spesso persino a costo di lacrime e sangue, proprio perché non sono cose dovute. Questo è il lavoro più duro per qualsiasi Vescovo, che si traduce sempre in successo solo negli autentici uomini di Dio, pronti a conformarsi al mistero della Croce di Cristo Signore.

 

dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2024

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