Sul Monte Tabor i discepoli ricevono la rivelazione del figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SUL MONTE TABOR I DISCEPOLI RICEVONO LA RIVELAZIONE DEL FIGLIO DELL’UOMO IN UNA FORMA TRASFIGURATA DALLA LUCE DIVINA

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre»

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Intraprendere il percorso quaresimale significa porsi di nuovo la domanda fondamentale su Gesù: Chi è costui? Allo stesso modo dei discepoli seduti sulla barca sballottata dalle onde, figura della Chiesa nel periodo post pasquale, che svegliato il Signore dormiente a poppa e a tempesta sedata si chiedevano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4, 41). Il racconto marciano della Trasfigurazione che si legge in questa seconda Domenica di Quaresima desidera rispondere a questa domanda.

La trasfigurazione di Cristo, opera di Giovanni Bellini, 1478. Musei Capodimonte, Napoli.

«In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti». (Mc 9,2-10)

Tutti e tre i Vangeli sinottici inseriscono la Trasfigurazione nello stesso contesto, ossia dopo l’annuncio di Gesù della sua passione. Per il lettore si crea così un ponte fra il ministero pubblico di Gesù e la morte che avverrà in Gerusalemme. Ma anche un collegamento fra la odierna proclamazione di Gesù «Figlio di Dio», che si ode dalla nube, e altre due analoghe. Quella del Battesimo, quando: «Si sentì una voce dal cielo» che diceva «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11); e l’altra, che si trova solo in Marco, all’inizio del Vangelo, nel primo versetto del primo capitolo: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio».

È molto probabile che l’episodio narrato, in origine, fosse un racconto di apparizione del Risorto, che Marco, il quale ha escluso dalla sua narrazione siffatti racconti, avrebbe inserito al centro del Vangelo, subito dopo la confessione messianica di Pietro, per bilanciare l’annuncio del destino di morte del Figlio dell’uomo (Mc 8, 31) con la visione prolettica della sua glorificazione (Mc 9, 2-13). Una scelta che ne avrebbe determinato la collocazione anche in Matteo e Luca. A supporto di questa ipotesi sta il fatto che nel prosieguo dei tre racconti l’incomprensione dei discepoli nei riguardi di Gesù resta intatta, malgrado alcuni fossero stati testimoni di un evento tanto eclatante. Mentre, collocato dopo la sua morte, il racconto assume un significato cruciale. È il punto di svolta. I tre discepoli ricevono la rivelazione del Figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina. Dopo la sua morte, hanno la visione di Gesù collocato allo stesso livello di Mosè ed Elia, cioè di due figure bibliche già innalzate alla gloria celeste, e ascoltano la proclamazione della sua elezione divina, la stessa che risuona al momento del battesimo. Finalmente i discepoli «sanno» chi è Gesù, ed è alla luce di tale comprensione che l’episodio storico e iniziale del battesimo assume il suo «vero» significato di investitura divina.

Nel versetto che precede la scena della Trasfigurazione che oggi leggiamo nella Liturgia Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1). Sei giorni dopo questo annuncio Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni con sé sopra un monte alto, in un luogo appartato, e si trasfigura davanti a loro. L’episodio non solo è descritto da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche dalla Seconda Lettera di Pietro. Lì l’Apostolo ricorda e scrive di essere stato testimone oculare della grandezza di Gesù:

«Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

A differenza del Battesimo, dove la voce che proclama Gesù «Figlio» sembra sia stata udita solo da Lui, nella Trasfigurazione le parole sono indirizzate ai discepoli, che non possono ignorarle: «Ascoltatelo». È infatti importante che nel momento in cui Gesù annuncia la sua passione venga ribadita l’idea che Dio non abbandonerà il suo Figlio, anche se verrà consegnato per la crocifissione. Questa non offuscherà la fedeltà del Padre, cosicché anche il duro annuncio della passione e morte sono dentro il Vangelo, sono la buona notizia di cui il lettore deve essere consapevole, allo stesso modo dei discepoli che fecero quella esperienza.

Pietro, insieme ai compagni, è colui che più di tutti ha bisogno di ascoltare Gesù. Dopo la confessione di Cesarea di Filippo, ha preteso di mettersi davanti a lui per evitargli il pellegrinaggio a Gerusalemme. Gesù per questo chiama Pietro «Satana» (Mc 8,33),  ma poi lo invita a salire sul monte con lui. In altre parole qui siamo di fronte alla reazione di Dio all’incredulità di Pietro. Non solo. Se i discepoli devono prepararsi alla passione del loro maestro, anche Gesù ha bisogno di istruzioni per intraprendere il «suo esodo», come specificherà Luca in 9,31: Mosè aveva condotto gli ebrei fuori dall’Egitto, Elia aveva ripercorso i suoi passi, e ora il Messia, aiutato da coloro che hanno vissuto un’esperienza analoga di sofferenza e liberazione, potrà andare deciso verso Gerusalemme.

L’interpretazione tradizionale della presenza di Mosè ed Elia sul monte dice, infatti, che essi rappresenterebbero la Torà e i Profeti, ovvero tutta la Scrittura prima di Gesù. Ma oggi si pensa piuttosto che il significato della loro presenza sia importante se riferita a quanto Gesù sta vivendo nel momento in cui sale su quella montagna. Mosè ed Elia hanno vissuto eventi paragonabili alla reazione di Pietro all’annuncio della passione di Gesù di cui sopra. L’analogia tra gli eventi è data dal modo in cui Gesù interpreta il rifiuto di Pietro: come una nuova tentazione, analoga a quelle dell’inizio del suo ministero; così Mosè provò l’esperienza del vitello d’oro ed Elia quella della fuga verso l’Oreb. Questi due fatti ebbero luogo proprio su un monte, dopo un fallimento del popolo di Israele che aveva, nel primo caso, costruito un idolo e, nel secondo, sostenuto i sacerdoti di Baal contro cui Elia doveva lottare. A fronte di queste due delusioni, sia Mosè che Elia chiedono a Dio di morire (cfr. Es 32,32; 1Re 19,4), ma, in risposta, a tutti e due è concessa invece la visione di Dio. Mosè, spaventato, però, si nasconde nella rupe (Es 33,21-22), ed Elia si copre il volto (1Re 19,13). Mentre allora non videro Dio, ora finalmente stanno davanti a Gesù, nella sua gloria e non si velano più il volto; non hanno più paura di lui, perché «Gesù, il «Figlio amato» del Padre (Mc 9,7), «l’eletto» (Lc 9,35), è egli stesso la visibilità del Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In lui Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù dovrà intraprendere» (M. Gilbert).

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre» (Mt 11,27).

Dall’Eremo, 24 febbraio 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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