Tempo di Quaresima e riflessione sulla morte per aprirci alla gioia della risurrezione e della vita senza fine

TEMPO DI QUARESIMA E RIFLESSIONE SULLA MORTE PER APRIRCI ALLA GIOIA DELLA RISURREZIONE E DELLA VITA SENZA FINE

La Quaresima dovrebbe essere un momento di riflessione anche sulla morte. Una riflessione serena, non gravata da turbamenti o paure, peggio dal rifiuto della stessa idea di morte. Meditare sulla morte, per noi cristiani, vuol dire pensare e riflettere, con serenità e fiducia, a ciò che ci attende dopo questo passaggio: la risurrezione alla vita. Perché con Cristo Signore tutti siamo morti e con Lui tutti risorgeremo.

— Pastorale liturgica —

Autore
Simone Pifizzi

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Le norme generali per l’ordinamento dell’anno liturgico sanciscono e spiegano:

«Scopo del tempo di Quaresima è quello di preparare alla celebrazione della Pasqua. La liturgia quaresimale infatti prepara alla celebrazione del mistero pasquale tanto i catecumeni … quanto i fedeli, per mezzo del ricordo del battesimo che della pratica della penitenza» [cfr. n. 27].

 

 

A nessuno può sfuggire la forza di attrazione attuale della Quaresima che ogni anno si presenta immutata nella sostanza profonda, anche se notevolmente mitigata. La Quaresima rimane il periodo liturgico spiritualmente più ricco e apostolicamente più fecondo di tutto l’anno liturgico: «Ecco il momento favorevole, ecco il giorno della salvezza» [II Cor 5,2].

Nel discorso del 3 marzo 1965, Papa Paolo VI riassumeva le ragioni di interesse della Quaresima:

«È incalcolabile il progresso morale e civile a cui questo ricorrente e potente esercizio ascetico e spirituale ha dato impulso e sviluppo. Un riferimento a ciò che avviene ai nostri giorni si presenta alla mente; possiamo infatti ricordare come, proprio in questi ultimi anni, in ossequio ed in virtù della disciplina quaresimale, sono state promosse queste collette, rese possibili da qualche sacrificio penitenziale, le quali vanno ad alleviare la fame nel mondo: un’astinenza suggerita dallo spirito della quaresima, si traduce in valori economici, e questo diventa “pane per la fame nel mondo”, per una moltitudine cioè di poveri, lontani e sconosciuti, che godono così della carità sgorgante dalla osservanza quaresimale … E del senso liturgico della quaresima che cosa diremo? Essa è il grande tirocinio alla grazia del battesimo e della penitenza, è la grande pioggia fecondatrice della Parola di Dio, è la grande mediazione preparatoria alla Pasqua. In nessun altro momento dell’anno la spiritualità della Chiesa è più ricca, più commossa, più lirica, più attraente, più benefica: chi la studia la scopre stupenda; chi la sperimenta la sente umana; chi la vive, si, la gode divina».

La Quaresima ha un carattere duplice che troviamo descritto in Sacrosanctum Concilium in cui si parla dei questo tempo indicando:

«Il duplice carattere del tempo quaresimale che, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione del battesimo e mediante la penitenza, dispone i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale con l’ascolto più frequente della parola di Dio e con la dedizione alla preghiera, sia posto in maggiore evidenza tanto nella liturgia quanto nella catechesi liturgica. Perciò a) si utilizzino più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale e, se opportuno, se ne riprendano alcuni dalla tradizione precedente; b) lo stesso si dica degli elementi penitenziali. Quanto alla catechesi poi, si inculchi nell’animo dei fedeli, insieme con le conseguenze sociali del peccato, quel carattere proprio della penitenza che detesta il peccato in quanto è offesa di Dio; né si dimentichi la parte della chiesa nell’azione penitenziale e si solleciti la preghiera per i peccatori» [cfr. n.  109].

Per il battesimo, il mistero pasquale del Cristo è diventato il mistero pasquale del cristiano. Per mezzo del battesimo infatti siamo stati inseriti, innestati e incorporati vitalmente in Cristo e nella Chiesa, diventando così protagonisti responsabili della storia della salvezza che ora si compie nel mondo. Per risvegliare in noi la coscienza battesimale la Chiesa, durante la Quaresima, seguendo il Vangelo di Giovanni ci presenta il mistero pasquale attraverso la simbologia dell’acqua, della luce e della vita, quale risulta dai tre importanti episodi evangelici della Samaritana, del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro. Si tratta di temi specificatamente adatti per farci riscoprire la gradualità del movimento di adesione a Cristo. Infatti la Samaritana riconobbe il Messia appena dimentica la sete fisica e ne ammette un’altra, più vera e più profonda [cfr. Gv 4, 1-42]. Il cieco nato, dalla visione della luce naturale passa a quella soprannaturale che salva [cfr. Gv 9, 1-40]. Lazzaro è richiamato in vita dopo che Gesù ha affermato solennemente la necessità della fede: «Chi crede in me, anche se morto vivrà» [cfr. Gv 11, 1-53]. Questi tre elementi fondamentali ci aiutano a capire la storia della salvezza eminentemente legata a questi tre segni: acqua, luce e vita.

Elemento dell’Acqua. È facile cogliere una teologia dell’acqua nella Scrittura. Data la necessità di dissetarsi per un popolo nomade come Israele, l’acqua diventa il segno della provvidenza di Dio verso il suo popolo, mentre la sua privazione, un castigo. L’acqua è usata dai profeti come segno dei tempi messianici e la salvezza che da questi tempi verrà. Ma del tutto singolare è il rapporto dell’acqua con il battesimo: lo Spirito che si libra sulle acque primordiali, il diluvio [cfr. Gn 1, 1-2], il Mar Rosso [cfr. Es 14,15-15,1] sono, secondo i Padri della Chiesa, tutte prefigurazioni del Battesimo.

Elemento della Luce. In antico il Battesimo era chiamato “illuminazione” e i battezzati “illuminati”. Il rapporto luce e battesimo viene messo in evidenza, oltre che dal brano del cieco nato, anche dalla celebrazione della veglia pasquale. La simbologia del cero è fin troppo evidente: Cristo vince le tenebre. Per il battesimo siamo diventati figli della luce: dobbiamo camminare come riflettori della luce del Signore.

Elemento della Vita. È l’aspetto culminante di questa catechesi battesimale. La vita nuova è l’elemento primo nel battesimo perché lo è nella persona stessa di Cristo. Per capire ciò, occorre avere una conoscenza viva della morte spirituale, della impotenza a risorgere da soli e della necessità dell’intervento divino: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» [cfr. Gv 11, 1-57]. Finché non riusciamo a suscitare in noi il senso del bisogno di essere salvati, cioè “risuscitati”, dovremo amaramente abituarci a vivere un cristianesimo che, senza il suo fondamento battesimale, non avrà niente di pasquale. Tutta la liturgia battesimale consiste in un mistero di morte e resurrezione: l’uomo, per ritrovare il proprio autentico significato, deve necessariamente passare attraverso una lotta in cui qualcuno deve morire. La forza mortifera del peccato viene a poco a poco smorzata, vinta dalla volontaria mortificazione, che ci fa produrre il mistero della morte di Cristo in noi. Colui che così riesce a morire, attraverso la stessa morte conoscerà e avrà la vita. La Quaresima comincia appunto col presentarci Cristo in lotta con Satana [cfr. Mt 4, 1-11]; lotta che va crescendo fino a toccare la morte di croce. Ma è proprio nell’accettazione volontaria e obbediente della morte che Cristo realizza la vittoria sulla stessa morte e ci introduce alla novità di vita.

Analizziamo adesso il carattere penitenziale. In passato la disciplina penitenziale della Quaresima, con le sue pratiche severe, serviva al cristiano come momento di espiazione dei peccati. Il rito delle ceneri ne è chiara allusione. I pubblici peccatori per lunghi giorni vivevano in dura penitenza. Il rigore del digiuno toccava limiti per noi inconcepibili! Oggi, pur con la mitigazione delle pratiche esteriori, rimane sempre urgente il bisogno, il dovere della penitenza, come ci ricorda la liturgia quaresimale:

«sia parca e frugale la mensa / sia sobria la lingua e il cuore / fratelli è tempo di ascoltare / la voce dello Spirito» [Cfr. Inno delle lodi].

Il vero digiuno è rinuncia a ciò che ingombra il nostro cammino verso Dio e rende meno generoso il nostro servizio a Dio e ai fratelli. La Quaresima deve manifestare la tensione di un popolo penitente che attua in sé l’aspetto mortificante del mistero pasquale. La nostra penitenza trae motivo e significato dal battesimo che ci fa morire con Cristo prima di risorgere con lui, e ci rapporta alla confessione, dove muore la morte e risorge la vita, preparandoci all’Eucaristia. La penitenza ci aiuta a vedere la vita cristiana in una concezione più unitaria e a renderci conto che ogni atto da noi compiuto è sempre manifestazione e attuazione del mistero pasquale.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel decreto sull’Apostolato dei laici, ci ricorda che con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui ci conformiamo a Cristo sofferente, possiamo raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla loro salvezza [Apostolicam actuositatem, 16].

La Quaresima dovrebbe essere un momento di riflessione anche sulla morte. Una riflessione serena, non gravata da turbamenti o paure, peggio dal rifiuto della stessa idea di morte. Meditare sulla morte, per noi cristiani, vuol dire pensare e riflettere, con serenità e fiducia, a ciò che ci attende dopo questo passaggio: la risurrezione alla vita. Perché con Cristo Signore tutti siamo morti e con Lui tutti risorgeremo. Questo è il cuore del mistero pasquale incontro al quale andiamo attraverso il prezioso periodo della Quaresima.

Firenze, 18 marzo 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Gesù e il cieco nato, dalla tenebra alla luce verso un cammino di conversione

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

GESÙ E IL CIECO NATO, DALLA TENEBRA ALLA LUCE VERSO UN CAMMINO DI CONVERSIONE

Il cieco nato gli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

alcuni dipinti rinascimentali sono nati dalla colorazione che facevano scurire del nero fino a produrre le diverse tonalità di bianco e giallo. È il passaggio della tenebra alla luce. Questo avviene anche nella nostra vita e il Vangelo di oggi ci porta a riflettere sul peccato e la nostra conversione.

 

per aprire la lectio cliccare sull’immagine

 

Il primo momento narrativo si concentra sul peccato. Seguendo la tradizione ebraica della retribuzione classica, i discepoli, vedendo il cieco nato, domandano qual è la causa della cecità. Per la teoria classica della retribuzione, l’handicap proviene da un peccato precedente, commesso dalla stessa persona o dai genitori. Ma Gesù rompe e contraddice questa teoria:

«Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.  Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”».

Un cieco nato è così perché si manifestino le opere di Dio. È dunque, in un certo senso, segno e manifestazione che Dio è in mezzo agli uomini e agisce. Dunque, una persona, in sé stessa non è peccato, ma compie dei peccati. Ora il peccato, secondo la definizione classica, è «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna».

Il tempo di Quaresima è tempo propizio anche per la riscoperta del concetto e dell’idea stessa di peccato, che è qualcosa che difficilmente attribuiamo a noi stessi. Più facilmente diciamo che abbiamo commesso uno sbaglio, una sciocchezza, un errore umano. Proviamo a riflettere su questo in un tempo forte di revisione della nostra vita, tale dovrebbe essere questo periodo quaresimale. Siamo tutti figli di Dio peccatori e ringraziamo il Signore che ci ama così come siamo. Con il Sacramento della confessione purifichiamo i nostri peccati e torniamo tutti con la grazia con cui ci mettiamo all’opera con Dio. Ecco perché Gesù ci dice che questo cieco è nato così, senza aver commesso un vero peccato che lo ha portato alla cecità; è così perché si manifestino in lui le opere di Dio. Gesù invita a compiere poi le opere di chi lo manda, cioè l’Eterno Padre. Innanzitutto, diremo che il cieco nato è colui che fisicamente passa dalle tenebre alla luce. Simbolicamente, il cieco, è colui che passa dalla cecità spirituale alla fede. Questo avviene proprio tramite Gesù. Gesù invita e trasmette a chi ascolta – plausibilmente discepoli ed apostoli – l’invito a compiere le opere della luce con Lui e con il Padre. Manda tutti noi ad essere candele che ardono fuoco di verità dalla sua fiamma e dalla sua luce. Quello che accade dopo la guarigione miracolosa è un complesso numero di azioni, di interrogatori e domande. Domande che i farisei si pongono e che pongono al cieco, ai suoi genitori, perché nulla li convince, non accettando che qualcuno riconosca Gesù come fonte di verità e di luce.  Nel buio freddo delle convinzioni rigide, di idoli e di ombre ideali della verità di Cristo. Per questo cacciano via l’oramai ex cieco che ha riacquistata miracolosamente la vista. Non vogliono vedere chi può metterli in discussione, perché in verità, i veri ciechi, sono loro.

Il cieco nato gli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».

Gesù va incontro di nuovo al cieco guarito. I farisei, nonostante che lo avevano cacciato via, seguono il dialogo fra i due. Il cieco guarito emette la sua professione di fede: «Si Signore credo in te». E così si prostra, secondo il gesto tradizionale ebraico: la prostrazione per mostrare la presenza di Dio, come faceva il Sommo Sacerdote nel Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme. Gesù allora gli dice:

«Sono venuto per giudicare, perché coloro che vedono non vedano e chi vede diventi cieco».

A questo modo rimprovera anche i farisei, aggirando il loro tranello. Ma la frase forte di Gesù, sul giudizio è importante anche per noi. Gesù viene infatti a giudicare non nel senso di condannare le persone e i peccatori, ma perché la sua luce non sia solo un rivelamento della fede in Dio. Anche perché sotto il suo giudizio amorevole e sapiente, ciascuno di noi giunga a schiudere uno sguardo di verità anche su sé stesso, tornando a riconoscere tutti i doni lucenti che Dio gli ha donato.

Chiediamo al Signore la grazia di porre un atto di umiltà e riconoscerci peccatori, per riscoprire al contempo anche che noi siamo capolavori-doni, con talenti e peculiarità che possiamo offrire a Lui, al prossimo e alla Chiesa in un atto d’amore.

 

Santa Maria Novella in Firenze, 19 marzo 2023

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Una società sempre più aggressiva popolata di giovani smarriti e disorientati

Scuola, società, politica

UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ AGGRESSIVA POPOLATA DI GIOVANI SMARRITI E DISORIENTATI

I giovani hanno oggi bisogno di adulti responsabili, soprattutto se questi ultimi sono personaggi pubblici. Lo sfregio al Presidente del PD, Elly Schlein, a Viterbo con una svastica, le immagini a testa in giù del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del Ministro Giuseppe Valditara, sono episodi molto gravi che non possono e non devono lasciare indifferenti.

Autore
Anna Monia Alfieri, I.M. 
Cavaliere della Repubblica Italiana

             

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Una rinnovata preoccupazione, un altro episodio, l’ennesimo, di offesa, questa volta ai danni della segretaria del PD, Elly Schlein, a Viterbo. Certamente positiva la solidarietà giunta da parte di tutte le forze politiche. Anch’io esprimo la mia solidarietà a questa giovane donna che oggi rappresenta i tanti che hanno visto in lei la persona cui dare fiducia. Da tempo vivo con una certa preoccupazione i toni violenti della contesa politica che sfociano nei tanti episodi di violenza ai danni delle diverse personalità della politica. Episodi, quelli ai quali mi riferisco, che sembrano riportare alla ribalta le nefaste ideologie che hanno seminato morte e distruzione per tutto l’arco del Novecento. E non solo. Come non poter pensare ai campi di concentramento e al loro orrore: gli ebrei sopravvissuti ci hanno aiutato a comprendere gli orrori del nazismo e del fascismo. Come dimenticare, sull’altro fronte, il periodo buio delle foibe, gli italiani uccisi dai soldati titini per il solo fatto di essere italiani e quindi, agli occhi di Tito, fascisti. O come non pensare ai gulag della Siberia. Pagine aberranti della storia dell’uomo, forse le peggiori. E ancora l’anarchia con la violenza con la quale si è manifestata. Si tratta di ideologie dalle quali tutte le nostre forze politiche, in modo chiaro e determinato, hanno preso le distanze.

 

 

Dobbiamo, allora, tutti, oggi, fare un passo in avanti nella responsabilità. Conosco i giovani e i nostri giovani sono quelli del post covid che hanno vissuto un periodo difficile che ha seminato in loro paura, smarrimento, con il conseguente abuso di psicofarmaci diffuso per gestire l’ansia, per non pensare, per dormire, per estraniarsi dalla realtà, abuso di psicofarmaci e alcool che fanno perdere la vita ai nostri ragazzi. Proprio pochi giorni fa è morta una ragazza a Monza. Ugualmente preoccupante è il fenomeno di quei giovani che premono il piede sull’acceleratore e perdono la vita schiantandosi contro un albero: non sono solo bravate ma un bisogno disperato di superare i limiti per sentirsi vivi. Dove sono gli adulti in tutto questo? Dov’erano prima del covid? Dove sono adesso?

Ecco questi giovani hanno oggi bisogno di adulti responsabili, soprattutto se questi ultimi sono personaggi pubblici. Gli eventi di Firenze, di Bologna, di Torino sono campanelli di allarme che i politici tutti, come chi si occupa di comunicazione, non possono ignorare. Allo stesso modo lo sfregio al Presidente del PD, Elly Schlein, a Viterbo con una svastica, il fantoccio del Presidente del Consiglio, le immagini a testa in giù del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro Giuseppe Valditara, con la croce sugli occhi, a Milano, sono episodi molto gravi che non possono e non devono lasciare indifferenti.

Mi appello, dunque, nuovamente e in modo accorato alla classe politica: proteggiamo i nostri giovani dalle piazze, non trascuriamo queste manifestazioni, il rischio di perdere il controllo di questi fenomeni è veramente alto. Ricordiamo che la politica è «la più alta forma della carità», come la definiva San Paolo VI, l’altro è un avversario, non un nemico. I politici devono e sanno confrontarsi sulle idee e le idee non hanno bisogno della violenza per affermarsi. Da anni ho l’onore di conoscere molti politici, appartenenti a tutte le forze politiche, e ne ho sempre apprezzato la capacità di dialogo e di confronto costruttivo in Parlamento. Quasi mai ho assistito a discussioni violente, anzi ne ho apprezzato il confronto franco e leale. Abbiamo tutti sofferto, in un recente passato, per le piazze del “vaffa” che hanno usato e abusato del malessere di molti cittadini, cavalcando ed esasperando il malcontento. Oggi il rischio delle piazze fisiche e virtuali, con il richiamo continuo e lacerante ai fantasmi del passato, può produrre danni ben peggiori. Fermiamoci prima.

Nonostante questi segnali preoccupanti, nutro una grandissima fiducia che la situazione possa evolvere con un deciso cambiamento verso il senso di responsabilità e della lealtà istituzionale. Abbiamo ancora tanti, giovani e meno giovani, uomini della politica, delle associazioni, della cultura che fanno sentire la loro voce pacata, rispettosa e responsabile. Abbiamo bisogno di loro, oggi più che mai, abbiamo bisogno della mitezza, quella virtù che sa difendere le proprie idee in modo fermo ma rispettoso. Invito allora i miti ad emergere, a fare la differenza, a proseguire a fare la storia bella del nostro Paese. «Beati i miti, perché erediteranno la terra» [Mt 5, 5].

 

Milano, 12 marzo 2023

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

L’uomo della società liquida al pozzo d’acqua viva con la samaritana

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’UOMO DELLA SOCIETÀ LIQUIDA AL POZZO D’ACQUA VIVA CON LA SAMARITANA

«L’acqua è condiscendente, mobile, trasparente, insapore. Si ha facilmente l’impressione che, a paragone col resto della realtà, essa sia in qualche modo ultraterrena».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

chi pratica sport come il calcio, il basket o la corsa, specialmente d’estate, sa quanto sia rinfrescante un bicchiere d’acqua alla fine dell’attività sportiva. Ha quasi un senso profondo che supera l’aspetto somatico. Come scrive lo scienziato Philip Ball:

«L’acqua è condiscendente, mobile, trasparente, insapore. Si ha facilmente l’impressione che, a paragone col resto della realtà, essa sia in qualche modo ultraterrena».

 

 

Il lungo brano del vangelo di oggi è un invito. È un tornare alle fonti, all’acqua delle nostre origini: dunque a riscoprire la nostra vocazione battesimale, perché da quel momento abbiamo iniziato a camminare nel percorso di santità e accogliere la nostra vocazione. Tornare dunque a fare memoria del battesimo è tornare alle fonti della nostra fede e dissetarci dell’acqua della grazia e dello Spirito Santo.

Nell’inizio del dialogo fra Gesù e la samaritana, è il Signore che fa una domanda ben precisa: “Dammi da bere.” Gesù ha sete perché è in una zona desertica e brulla. Fa molto caldo ed è vicino ad un pozzo. Quindi cerca di entrare in amicizia con la samaritana, chiedendole un aiuto pratico. In effetti offrire dell’acqua, per la cultura del tempo, era davvero un gesto di vicinanza e anche che permetteva di generare una certa compagnia.

Questo gesto supera la samaritana: Gesù è vicino anche a noi. Il Signore chiede a tutti noi di offrirgli dell’acqua, anche oggi, specialmente ogni volta che ci mettiamo in preghiera ed entriamo in Comunione con Lui nell’Eucarestia. Ha sete della nostra presenza, della nostra amicizia e della nostra fede. Dice a noi dammi da bere, per indicare che vuole relazionarsi ed avere una intimità con noi.

Tornando alla lettera del testo, vediamo che inizia lo scambio di battute fra i due. Qualche frase dopo è Lui ad offrire l’acqua alla donna:

«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

La samaritana non deve aver compreso bene questa frase. Sono parole forti e molti intense. Gesù in fondo le sta dicendo di non attingere solo ad un’acqua tratta dal pozzo che disseta il corpo e la gola secca, ma di abbeverarsi da una fonte che disseta anche l’anima e lo spirito. Questa è l’acqua della fede e della grazia.

Anche noi siamo stati dissetati da questa acqua. In effetti, se ci pensiamo, la nostra vita di fede è cominciata con un po’ d’acqua, una veste bianca e una candela di luce. Il giorno del nostro battesimo l’elemento materiale usato perché si amministri il Sacramento dell’inizio della vita di fede è proprio l’acqua. Quest’acqua accompagna le parole del sacerdote «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». L’acqua battesimale è segno anche di un grande evento: ricevuto la grazia divina ricevuta che è entrata in noi unendosi alla nostra vita e alla nostra persona. E insieme a Dio, da quel momento a seguire, possiamo fare grandi opere di carità e amore.

Gesù ci offre nel battesimo la fede e la grazia perché possiamo scoprire che tutti noi siamo un grande dono per Dio stesso e per il mondo. Perché il nostro personale e unico amore diventi azione concreta di tenerezza e compassione verso chi soffre.  

Chiediamo al Signore di sentire ancora quella novità battesimale nella nostra vita, di riscoprirci bambini nell’anima e nello spirito, per dissetare il nostro tempo con la presenza di Dio e irrigare con pozzi di speranza il deserto di un mondo contemporaneo afflitto da una cultura sempre più liquida.

Così sia.

Santa Maria Novella in Firenze, 12 marzo 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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È in distribuzione il libro dei «Gattoloqui satirici» di Ipazia Gatta Romana

È IN DISTRIBUZIONE IL LIBRO DEI «GATTOLOQUI SATIRICI» DI IPAZIA GATTA ROMANA 

La nostra fede personale è a rischio, ma proprio questa è la sfida che dobbiamo superare e che tra tutte le sfide è da sempre la più difficile: la grande prova della fede che, come ammonisce l’Autore della Lettera agli Ebrei: «[…] è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono».

— Novità editoriali —

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Per i tipi delle Edizioni L’Isola di Patmos è in distribuzione il libro della nostra autrice Ipazia Gatta Romana. Un libro molto felino e graffiante, equiparabile a quello che fu lo stile della comicità di Alberto Sordi, dietro la quale spesso, o forse quasi sempre, si nascondeva la tragedia, rappresentata non piangendo ma ridendo, sebbene quel riso lasciasse sempre un retrogusto amaro.

L’opera di Ipazia Gatta Romana è presentata da Padre Ariel S. Levi di Gualdo che ne ha scritta la prefazione.

 

per accedere al negozio librario cliccare su questa immagine di copertina

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PREFAZIONE A CURA DI 

Ariel S. Levi di Gualdo

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Molte persone non sanno che i gatti sono particolarmente amati dai presbiteri del clero secolare. Non lo sanno perché non frequentano i preti e i loro spazi, o perché dei preti conoscono solamente ciò che si lega alle surreali leggende nere in circolazione a livello planetario, soprattutto dal periodo successivo la Rivoluzione Francese, nel quale se ne ebbe un fiorire e una diffusione davvero straordinaria. Numerose sono le case religiose, i monasteri e i conventi maschili e femminili dove da sempre c’è presenza di gatti, pressoché quasi di rigore. In nessuna di queste case i gatti sono stati voluti e presi, sono loro a essere arrivati. Anche perché il gatto è capace a presentarsi alle porte di monasteri e conventi con straordinaria aria da ruffiano, capace di recitare a meraviglia la parte della povera creatura tremolante, abbandonata e affamata, dinanzi alla quale monaci, monache e frati difficilmente hanno il coraggio di sbatterlo fuori.

Con i religiosi i felini hanno un altro rapporto, trattandosi di persone che vivono in comunità. Pertanto, il gatto, con gli abitanti di quelle sacre mura instaura un rapporto comunitario, finendo per divenire un animale con un carattere tutto quanto religioso, monastico o conventuale. Si tratta dei cosiddetti “gatti di vita contemplativa”. Del tutto diverso il rapporto che instaurano con i presbiteri del clero secolare, che quasi sempre vivono singolarmente presso le loro case canoniche o abitazioni private.

Il gatto è quello splendido animale indipendente, ma profondamente affettuoso e fedele, capace a spezzare la solitudine del prete, divenendone compagno e amico.

Mentre non pochi vescovi, incuranti, lasciavano i loro preti, giovani e anziani, in stato di abbandono e solitudine, semmai col potenziale rischio di cadere in modo reattivo nelle sindromi depressive o nella dipendenza dall’alcol, per non dire di peggio, ecco che la presenza di un gatto è riuscita a fare ciò che molti di questi vescovi non facevano: stare vicini ai loro preti.

Talvolta, per un prete, può fare molto più un gatto che il suo vescovo impegnato a struggersi il cuore come attore melodrammatico per poveri, migranti e profughi …

Omelia per il Santo Natale? Poveri, migranti e profughi. Anzi, direttamente nuova versione e lettura del Santo Vangelo: «Gesù era povero … Gesù era un migrante … Gesù era un profugo …».

Sancta Missa in Coena DominiPoveri, migranti e profughi. Come infatti risaputo ― l’ho detto e scritto ma non mi stanco di ripeterlo ― durante l’Ultima Cena Gesù Cristo prese un povero, o se preferiamo un migrante o un profugo, lo esibì agli Apostoli e disse loro: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Il tutto dopo averli istituiti assistenti sociali, non Sacerdoti della Nuova Alleanza, dando loro un preciso comando: “Andate per il mondo e fondate ONG”.

Pasqua di Risurrezione? Manco a dirsi. Per chi è risorto Gesù Cristo, se non per i poveri, i migranti e i profughi, resi ennesimo oggetto dell’episcopal omelia sul mistero del Sepolcro vuoto del Risorto che sconfigge la morte?

Molti di noi sono forse infastiditi da poveri, migranti e profughi? Certo che no! Lo siamo solo dal conformismo del momento di certi ecclesiastici che al primo cambio di vento non esiteranno a mutare atteggiamento e bandiera all’istante. È questo che reca comprensibile fastidio.

In simile situazione di deriva ecclesiale e dottrinale, capite bene la straordinaria importanza per un prete di quegli animali eccezionali che sono i gatti, autentici maestri nell’insegnare l’arte del … ma ignorali!

Ipazia Gatta Romana, arguta e ironica felina senza peli sulla lingua, è un’autentica maestra in quest’arte sintetizzata a suo modo nella frase: «Nun pijateli sur serio, li dovete da pija solo perculo!».

Alcuni anni fa morì un anziano sacerdote, con alle spalle una vita dedicata alla cura dei Christi fideles senza alcun risparmio di sé. Divenuto infine vecchio e malato fu lasciato a sé stesso, con tutti gli inconvenienti e i disagi che la vecchiaia e la malattia può trascinarsi dietro.

Volevano metterlo in Città in una casa di riposo per preti, ma lui che aveva vissuto tutta la vita in un ambito rurale montano rispose che in quella struttura sarebbe morto entro un mese.

Nella casa canonica del paese ricavata da un ex convento francescano del XVI secolo il posto non mancava, ma il nuovo parroco non gradì che il suo predecessore, ormai parzialmente inabile, rimanesse nella struttura parrocchiale. Un parrocchiano gli mise così a disposizione un vecchio appartamentino di sua proprietà, due stanzette al primo piano affacciate su una piazza del paese, dove il nuovo parroco si recava in tutta fretta a fargli un saluto per Natale e per Pasqua, pur vivendo a 100 metri di distanza. In una di queste due occasioni, alla sua uscita fece una battuta molto ironica e infelice a dei parrocchiani che si trovavano per strada, dicendo loro con rara sensibilità: «… e anche questa è fatta, arrivederci a Pasqua!».

L’anziano prete semi-infermo poteva però contare su alcune preziose risorse: diversi parrocchiani grati e riconoscenti per l’apostolato da lui svolto che a rotazione lo visitavano per fargli compagnia e pregare con lui, alcune donne anziane che quotidianamente lo accudivano nei lavori domestici e il suo amato e inseparabile gatto, di nome Tobia. Inoltre un vecchio confratello più volte al mese, a semplice chiamata, gli prestava assistenza spirituale.

Infine il vecchio prete morì. Il suo funerale fu celebrato dal vescovo nella chiesa parrocchiale di cui era stato parroco per ben cinquant’anni. Vescovo insediato da circa un anno e che mai, le due volte che si era recato in quella parrocchia, una per la festa del Patrono, una per le Sante Cresime, aveva trovato tempo per andarlo a visitare. Cosa più che comprensibile in questi tempi nei quali vescovi new generation rispettano altre, nuove priorità; hanno poveri, migranti e profughi che li attendono in ogni angolo. A volte vanno a salutarli persino dentro le moschee, perché se proprio non li incontrano per strada li vanno a cercare loro, al lungimirante scopo di dare ai maomettani le corde con le quali a breve sarà impiccata l’Europa.

Durante l’omelia il vescovo ebbe un “vuoto di memoria”, se così vogliamo chiamarlo: non ricordava il nome del prete morto, che gli fu suggerito a bassa voce dal parroco seduto poco distante. Che sia stato un segno del cielo questo non si sa, ma proprio mentre al misero episcopo tutto poveri, migranti e profughi veniva sussurrato il nome, nello stesso istante entrò in chiesa Tobia, il gatto del prete defunto, con passo felpato e solenne percorse tutta la navata e andò ad accovacciarsi sotto la bara del suo padrone, dove rimase per tutta la Santa Messa attento e sornione senza mai muoversi, tanto lo conosceva bene e lo aveva amato.

Il felino aveva visto gli addetti delle pompe funebri deporlo prima nella bara e poi sigillare la stessa, in seguito portarla via. Lasciato solo in casa era sgattaiolato da una finestra socchiusa del primo piano, era poi saltato in strada e si era diretto verso la chiesa.

Che dire: certi vescovi dovrebbero imparare dalla sapienza e dalla fedele amorevolezza di certi gatti che non parlano affatto di poveri, migranti e profughi. Anzi, se qualche topo cercasse di emigrare clandestinamente nella loro casa per danneggiarla, forse gli farebbero persino la festa, sicuramente non toglierebbero il crocifisso dal muro per non disturbare il roditore, casomai fosse un sorcio musulmano che prima di addentare il formaggio urla: الله أَكْبَر Allah akbar! (Allah è il più grande!).

I gatti non hanno alcuno spirito di carità pelosa, però sono capaci a seguire il loro padrone fin sotto la bara, mentre il pio vescovo new generation tutto poveri, migranti e profughi, manco conosceva il nome di quel suo prete che per cinquant’anni aveva servito la Chiesa e il Popolo di Dio.

Detto questo: potrebbe mai, la mordace Ipazia Gatta Romana, non prendere certi soggetti per il culo? Come vedrete leggendo i capitoli di questa raccolta sistematica, sono ormai diversi anni che Ipazia, filosofa paziente e sagace, ha saputo osservare con occhio attento e ha saputo cogliere, fotografare e commentare con linguaggio spesso bonario, ma arguto, qualche volta anche caustico, momenti, episodi, fatti e situazioni che hanno caratterizzato in negativo la partecipazione alla vita della Chiesa nell’ultimo decennio, a partire dai suoi esponenti più titolati fino all’ultimo piccolo e umile fedele. Una crisi progressiva che viene da lontano e sembra non aver fine, un degrado generale della istituzione ecclesiastica e delle sue strutture, una mancanza di chiarezza e un gioco continuo all’ambiguità da parte della gerarchia, una pericolosa perdita di autorevolezza da parte delle Autorità preposte a guidare i dicasteri vaticani, le diocesi e giù a seguire fino alle parrocchie. Sono sempre meno le eccezioni al declino della pratica religiosa e sempre più preziosi e difficili da individuare gli esempi virtuosi. La nostra fede personale è a rischio, ma proprio questa è la sfida che dobbiamo superare e che tra tutte le sfide è da sempre la più difficile: la grande prova della fede che, come ammonisce l’Autore della Lettera agli Ebrei:

«[…] è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11, 1).

Tra un’ironia e l’altra Ipazia ci ricorda sempre un principio fondamentale al quale nessun cattolico, chierico o laico, deve venire mai meno:

«[…] bisogna baciare la mano che ci schiaffeggia, se quella mano è la mano del Sommo Pontefice o del nostro Vescovo».

Chi la pensa a questo modo e di conseguenza agisce nella vita di fede, può fare anche ironia, perché è un lusso che gli è concesso e che si può permettere a pieno diritto.

 

Roma, 20 gennaio 2023

San Sebastiano martire

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Marcello Stanzione, prete degli Angeli, mercoledì 8 marzo a Firenze in compagnia di Santa Ildegarda di Bingen

MARCELLO STANZIONE, PRETE DEGLI ANGELI, MERCOLEDÌ 8 MARZO A FIRENZE ASSIEME A SANTA ILDEGARDA DI BINGEN

Tutto può accadere a Firenze, compreso che il nostro stimato confratello Marcello Stanzione, esperto angelologo di fama europea, giunga da noi assieme a Santa Ildegarda di Bingen.

— Eventi —

Autore
Simone Pifizzi

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Dai fiorentini aspettatevi di tutto e in tutti i sensi, lo prova il fatto che ogni nativo nel Capoluogo della Toscana riceve il Santo Battesimo tre volte, perché come noto siamo nati con tre peccati originali. Motivo questo per il quale è applicata una teologia sacramentaria del tutto specifica e particolare rispetto a quella in uso nell’intera Chiesa universale. Dunque tutto può accadere a Firenze, compreso che il nostro stimato confratello Marcello Stanzione, esperto angelologo di fama europea, giunga da noi assieme a Santa Ildegarda di Bingen.

 

 

Quella di Santa Ildegarda è una figura femminile straordinaria, personalità poliedrica dotata di molteplici qualità, dalle doti taumaturgiche alla scoperta di tecniche mediche e farmacologiche, dalla mistica al dono della profezia. Celebre per le sue profezie, di cui oggi molto si discute, non di rado purtroppo anche a sproposito, motivo questo per il quale il nostro studioso avrà modo di chiarire anche certi aspetti. 

Si rivolsero a lei per chiedere consiglio le personalità più diverse, da Federico Barbarossa a Filippo d’Alsazia, dal Sommo Pontefice Eugenio III a San Bernardo di Chiaravalle. Fu canonizzata dal Sommo Pontefice Benedetto XVI nel 2012 e dallo stesso proclamata poco dopo dottore della Chiesa. 

Invitiamo i nostri Lettori che si trovano tra Firenze e dintorni a partecipare presso la Parrocchia del Sacro Cuore in via Capo di Mondo 60 alle ore 19.00 l’8 marzo. Saremo presenti anche io e il nostro redattore domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci per fare gli onori di casa al Padre Marcello Stanzione e ai partecipanti.

Firenze, 5 marzo 2023

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Anche noi siamo chiamati a trasfigurarci per Cristo, con Cristo e in Cristo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

ANCHE NOI SIAMO CHIAMATI A TRASFIGURARCI PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO

Sin dal battesimo l’Eterno Padre ha posto il suo compiacimento anche su di noi, perché nel Battesimo siamo diventati figli di Dio per adozione. Riscopriamo quindi il nostro Battesimo come via di Trasfigurazione. Perché diventare santi vuol dire diventare sempre più lucenti, di una bellezza più alta e più grande. Una bellezza che è richiamo alla stessa vita della Trinità.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

PDF  articolo formato stampa

 

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

ricordo qualche anno fa un lungo viaggio in montagna, sulle alture bolzanine. Una lunga salita, fra freddo e caldo, fra equipaggiamento e una borraccia, per arrivare in alto e contemplare tutta la bellezza della creazione. Un lungo percorso a tappe, per trovare la contemplazione e la bellezza.

Trasfigurazione del Cristo, Raffaello Sanzio, Pinacoteca dei Musei Vaticani

Il Vangelo di oggi è simile a questo percorso e si può distinguere in due grandi tappe. Innanzitutto, il viaggio fino al Monte Tabor. Pietro, Giacomo e Giovanni sono condotti con Gesù. Immediatamente appaiono Mosè ed Elia. Perché sono presenti proprio questi personaggi e non tutti i Apostoli? Vediamo. Plausibilmente Gesù porta con sé tre figure importanti: il suo futuro vicario, Pietro; il grande contemplativo dei suoi divini misteri, Giovanni; l’attento apostolo della Carità, Giacomo. Al contempo, Mosè, è colui che rappresenta i Dieci Comandamenti e con essi la validità e l’importanza della Legge. Infine, Elia, il profeta per eccellenza. Dunque, la profezia va percepita come elemento fondante per comprendere Gesù.

In questa Quaresima Gesù porta anche noi sul monte, ricordando queste cose: l’identità dei cattolici che camminano con Pietro nella autorevolezza della fede, con Giovanni nella meditazione e nelle riflessioni del Vangelo e della Bibbia, con Giacomo nell’amore più concreto di Carità che rende la fede e la meditazione seme di ogni azione, di tenerezza e misericordia verso il prossimo. Questo ci renderà veri profeti e annunciatori di Gesù, senza perdere nulla della Legge che il Signore non ha voluto cambiare [cfr. Mt 5, 17]

A quel punto Gesù si trasfigura, il suo volto brilla come il sole e le sue vesti divengono lucenti. Indossa il colore del bianco, che biblicamente indica la presenza divina. Questo candore scintillante è segno che Gesù vuole confermare la presenza di Dio fra loro. Il tutto è definitivamente confermato dalla seconda parte del testo. Improvvisamente una nube li avvolge, e il Padre conferma «si è lui, mio figlio, il mio compiacimento, amatelo». Di nuovo un altro elemento che vuole mostrare l’invisibile: la nube, per gli ebrei segno della presenza di Dio nel deserto, la sua voce. Gesù è il Figlio di Dio. Questa esperienza tremenda e affascinante è l’esperienza dell’intimità nella preghiera con Dio. Quell’intimità forte che avviene nella preghiera di contemplazione, quando possiamo davvero gustare e interiorizzare tutto ciò che crediamo.

La Quaresima si offre come tempo riscoperta di questa preghiera così forte e così intensa: uno stare a tu per tu con Dio, per imparare a crescere nell’amore. Un camminare nella preghiera quotidiana, costruita su piccoli e grandi momenti, alternata con i Sacramenti, in cui possiamo anche noi scoprire il volto di Gesù Trasfigurato, che si prepara ai giorni della Passione. Per diventare tutti trasfigurati in Lui, per Lui, con Lui.

Sin dal battesimo l’Eterno Padre ha posto il suo compiacimento anche su di noi, perché nel Battesimo siamo diventati figli di Dio per adozione. Riscopriamo quindi il nostro Battesimo come via di Trasfigurazione. Perché diventare santi vuol dire diventare sempre più lucenti, di una bellezza più alta e più grande. Una bellezza che è richiamo alla stessa vita della Trinità.

Chiediamo al Signore la grazia e la forza di salire sul nostro Monte Tabor esistenziale e spirituale, inerpicandoci fra i dislivelli e le difficoltà del cammino e stringendo sempre la mano di Gesù, perché la sua bellezza splenda nel volto di tutti noi e tutti brilleremo come il sole.

Così sia!

 

Santa Maria Novella in Firenze, 5 marzo 2023

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