Le disastrose nomine episcopali di una Chiesa che sprezza e distrugge il talento per far prevalere l’ideologia
LE DISASTROSE NOMINE EPISCOPALI DI UNA CHIESA CHE SPREZZA E DISTRUGGE IL TALENTO PER FAR PREVALERE L’IDEOLOGIA
Nel 1960, mentre negli Stati Uniti d’America c’era la segregazione razziale tra bianchi e neri, abolita solo 4 anni dopo dal Civil Rights Act, a Roma, il tanzaniano Laurean Rugambwa, neoeletto cardinale, vestito di rosso porpora con ermellino e cappa magna riceveva il baciamano a ginocchio flesso da parte dei membri della più antica nobiltà pontificia. Conosce il Santo Padre Francesco queste edificanti perle di storia legate a una curia romana che bacia la mano a un cardinale negro mentre negli Stati Uniti i negri non potevano neppure salire sui mezzi pubblici?
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Prendere parroci di consolidata esperienza e promuoverli all’episcopato non sarebbe di per sé cosa sbagliata, perché ciò di cui hanno vitale bisogno le numerose piccole, ma anche medie diocesi italiane è la figura di un vescovo con esperienza pastorale, che sappia trattare coi suoi presbiteri e accogliere e guidare la porzione di gregge del Popolo di Dio a lui affidato. Essere però parroco, o esserlo stato, non è affatto una garanzia, perché al vescovo è richiesta una particolare completezza che pochi parroci hanno, specie quelli che per giungere all’episcopato sono riuscito a cucirsi addosso il “fortunato” curriculum di «prete di frontiera» o «di periferia», imprescindibile e determinante sotto questo pontificato. Il Vescovo deve anzitutto saper governare i propri presbiteri con autorità e autorevolezza, confermandoli giorno dietro giorno nella fede (cfr. Lc 22, 31-34) quindi guidare in modo deciso e credibile il Popolo di Dio.
I vescovi devono rifuggire dagli atteggiamenti degli smidollati che per accontentare tutti e non scontentare nessuno creano situazioni di paralisi auto-distruttiva, perché di fatto non governano la loro Chiesa particolare e lasciano che a governarla siano le prepotenze, i litigi e gli arbitrî dei preti divisi tra loro, dove a prevalere è solo l’arroganza dei più forti che nel tempo si sono piazzati nei posti giusti dopo aver collezionato le peggiori armi di ricatto. Preti che in certe diocesi, pur rappresentando un esiguo numero di tre o quattro elementi, hanno messo sotto scacco e ridotto al silenzio tre o quattro vescovi uno appresso all’altro, dopo aver fatto loro capire che avevano in mano strumenti di ricatto sia sul versante morale sia sul versante economico per far saltare in aria una diocesi intera, con tutte le implicazioni di carattere penale nel caso in cui certe notizie fossero giunte alle competenti autorità giudiziarie civili e penali. E non pochi vescovi italiani, in situazioni di questo tipo, sono rimasti col loro bel pastorale in mano usato unicamente come gingillo liturgico a fare di fatto niente, o meglio sì, a fare solo le comparse sulla scena del teatrino.
Il vescovo deve essere un maestro di dottrina. E qui si noti che non ho detto un teologo sopraffino, ma un maestro di dottrina, capace d’insegnare e imporre all’occorrenza il rispetto del Magistero della Chiesa qual supremo custode nella sua Chiesa particolare del depositum fidei. Considerate però le omelie registrate che sono state pronunciate sia per il loro insediamento in cattedra sia durante i primi atti di ministero episcopale da parte di diversi di questi vescovi provenienti da parrocchie-esistenziali-periferiche, la dottrina di diversi di loro non è poi così entusiasmante; e quando non si conosce bene e a fondo il depositum fidei, tutelarlo non è facile, anche se naturalmente nessuno pone limiti alla grazia dello Spirito Santo, che però è bene non sfidare sino ai livelli di certe infelici nomine.
Il vescovo deve essere anche un conoscitore di diritto e avere un naturale senso spiccato della giustizia. E qui si noti: non ho detto che debba essere un sopraffino dottore in diritto canonico ma una persona dotata del senso del diritto, perché se non lo è, scivolerà facilmente nel libero arbitrio, fabbrica di tutte le peggiori ingiustizie. Anche in questo caso, molte delle nuove leve, lasciano parecchio a desiderare pure in tal senso, pur essendo stati parroci periferico-esistenziali per tanti anni ed essersi presentati come paladini della Chiesa povera per i poveri che guarda ai profughi e ai Rom.
Il vescovo è sommo liturgo e dall’Eucaristia che celebra dipende la validità di tutte le Eucaristie celebrate nella sua Chiesa particolare. E anche in questo caso è bene sorvolare sul modo sciatto e approssimativo col quale taluni vescovi provenienti da parrocchie-esistenziali-periferiche, vere o presunte, sono stati ripresi per anni e anni da numerosi cineoperatori mentre celebravano liturgie sulle quali è bene stendere un velo pietoso.
Sia le mode, sia il conformismo, portano per vie diverse ma parallele tutte e due allo stesso disastro. Infatti, prima della moda conformista dei vescovi-parroci-periferico-esistenziali, abbiamo vissuto sia la moda dei vescovi-curiali con Giovanni Paolo II sia la moda dei vescovi-professori con Benedetto XVI. Questi secondi, perlopiù legati all’ultimo scorcio di pontificato di Giovanni Paolo II e al successivo pontificato di Benedetto XVI, che rendendosi conto di quanto all’interno della Chiesa il fermento degli errori dottrinari o delle eresie avesse fatto lievitare giganteschi panettoni, per porvi rimedio, anziché chiudere le fabbriche di panettoni, invece di togliere a certe pontificie università e pontifici atenei il titolo “pontificio”, si comincia a far nominare vescovi dei professori di teologia più o meno illustri, spesso proprio provenienti da queste stesse fabbriche di eresie, all’interno delle quali erano loro stessi i primi e più perniciosi diffusori. Purtroppo questi professori, alcuni dei quali teologi veri altri dei puri palloni gonfiati, nel corso del tempo hanno seminato in giro per le diocesi tanti e tali danni che in molti casi occorreranno decenni prima che vi si possa porre rimedio, specie quando questi gravi danni sono correlati alle ordinazioni sacerdotali di non pochi soggetti sbagliati che come tali non avrebbero mai dovuto diventare preti.
I problemi non si risolvono passando da una moda all’altra, lo ha già fatto la politica. O forse la Chiesa vuol ripetere gli errori dei politici? Qualcuno ricorda i tempi in cui dinanzi alla politica caduta ai minimi storici di credibilità, i partiti politici italiani tentarono di allettare gli elettori candidando attori, cantanti e calciatori nelle liste elettorali? A dire il vero fu candidata ed eletta anche una celebre pornostar. Vogliamo ripetere questi stessi errori nella Chiesa, pornostar incluse?
Il problema non è che per divenire vescovi sia necessario essere stati parroci, o professori di teologia, o addetti a mansioni di curia. Non è infatti il ruolo che rende santo l’uomo, ma l’uomo che santifica il ruolo che è stato chiamato a ricoprire. Un buon vescovo può uscir fuori da un parroco di periferia come da un luminare della teologia, da un addetto al servizio diplomatico come da un presbitero che ha servito la Chiesa in un ospedale specializzato nella cura di malati terminali, da un missionario che ha trascorso molti anni della sua vita nei villaggi più poveri del Congo come da un ricercatore che gran parte della sua vita l’ha trascorsa dentro gli archivi e le biblioteche storiche, perché è l’uomo che fa il buon vescovo, non lo specifico incarico ch’egli ha ricoperto. Contrariamente si rischia di ragionare e di assegnare episcopati sulla base di stereotipi ideologici, con i risultati desolanti che finiscono poi per brillare alla luce del sole oggi.
Parlando del dramma degli auto-candidati e della mafia clericale che li promuove, in un mio libro pubblicato agli inizi del 2011[1], parlando dell’episcopato e della nostra naturale vocazione alla santità, scritta nell’acqua del nostro battesimo, affermai che spetta alla Chiesa stabilire in che modo i consacrati nei tre gradi del Sacramento dell’Ordine debbano svolgere e prestare i propri grati e preziosi servizi; presupposto questo che sta a fondamento della natura del Sacramento dell’Ordine. È inammissibile che dei sacerdoti si propongano come candidati all’episcopato o che dei vescovi si propongano per delle grandi sedi metropolitane, per uffici della curia romana o per il titolo onorifico cardinalizio. Chiunque, in modo diretto o indiretto lo facesse, dovrebbe essere di rigore escluso da ogni possibilità di promozione. Nessuno è infatti promosso e consacrato vescovo per proprio prestigio personale ma per essere un servo fedele e devoto a servizio della Chiesa particolare a lui affidata, sempre tenendo a mente che Dio si è incarnato in Gesù non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28). Dovremmo pertanto lavorare per giungere un giorno a un importante risultato: un clero cattolico formato da sacerdoti secolari e regolari perfettamente consapevoli che essere vescovo di una grande e importante diocesi o essere parroco di una piccola parrocchia di campagna è ugualmente dignitoso e importante per la Chiesa, in seno alla quale il vescovo della grande diocesi e il parroco della piccola chiesa di campagna offrono ambedue un servizio indispensabile, accomunati dalla loro medesima natura di servi.
Nella Chiesa esiste la preziosa figura ispiratrice e l’alto esempio del Santo Vescovo Carlo Borromeo, ma esiste altrettanta preziosa figura ispiratrice di non minore e alto esempio: Giovanni Maria Vianney, eletto non a caso patrono dei sacerdoti. Nessuna mente savia avrebbe mai inviato Carlo Borromeo come parroco ad Ars e Giovanni Maria Vianney come vescovo a Milano; ma è appunto la Chiesa la unica, la sola a stabilire chi deve diventare vescovo di Milano e chi curato di Ars, per sviluppare al meglio la sua naturale vocazione alla santità e per preservare e salvare la fede nel Popolo di Dio.
Quando al buon senso subentrano però le mode o le strategie di mercato giocate su veri e propri slogan pubblicitari, il rischio che si corre è di mettere Giovanni Maria Vianney a fare il Vescovo di Milano e Carlo Borromeo a fare il curato ad Ars, con un triste risultato conseguente: né l’uno né l’altro diverranno santi. Il primo, non diventerà santo perché risulterà un soggetto inadeguato poiché non all’altezza di fare il Vescovo di Milano; il secondo, non diventerà santo perché risulterà un soggetto inadeguato poiché non all’altezza di fare il curato ad Ars, ed entrambi semineranno danni a non finire.
Nello stato in cui ci troviamo, è inutile cercare piccole, futili e clericali strategie, oggi mirate alla sfornata dei professori e dei curiali, domani a quella dei parroci che hanno preso in qualche modo su di sé – realmente o per abile burla – l’odore dei poveri e di quelle periferie esistenziali che sembrano andare oggi di moda. Ciascuna di queste scelte sono solo palliativi che portano al totale fallimento. Ciò che infatti pare non entrare dentro le teste sempre più piccole di certi ecclesiastici, è che per giungere a essere veramente perfetti nell’unità (cfr. Gv 17, 23) bisogna procedere all’occorrenza anche con divisioni drammatiche, memori che Cristo Signore è venuto anche per portare la spada e la guerra, non solo la pace intesa alla maniera degli onirici pacifisti ideologici (cfr. Mt 10,34), memori che prima o poi, al momento opportuno, il grano dovrà essere separato dalla gramigna, quando si avrà la certezza che per strappare la gramigna non sia sacrificata neppure una spiga di grano. Ciò non vuol dire: aumentiamo la gramigna affinché soffochi definitivamente il buon grano, come di questi tempi stiamo invece facendo (cfr. Mt 13, 24-30).
Le odierne mode impediscono a delle aquile reali di accedere a uffici ecclesiastici dove potrebbero rendere ottimi servizi alla Chiesa. Perché le mode sono sempre nocive, di qualunque genere esse siano, inclusa la ricerca odierna di parroci con trascorsi veri o presunti tra le Caritas, le baraccopoli e i campi Rom, perché ciò vuol dire che al presente, un uomo di Dio della straordinaria completezza umana, morale, teologica, giuridica e pastorale come Rafael Merry del Val, non solo non sarebbe mai divenuto cardinale, ma neppure vescovo e forse neppure prete, perché solo il suono del suo cognome farebbe storcere molti nasi che fingono di voler sentire unicamente l’odore delle pecore da prendere su se stessi, senza aver affatto capito quello che il Santo Padre Francesco voleva dire e trasmettere ai pastori in cura d’anime affermando di essere pastori con addosso l’odore delle pecore (cfr. QUI). Né mai avrebbe fatta alcuna strada un uomo come Giovanni Battista Montini, reo di provenire da una famiglia della vecchia e ricca borghesia lombarda[2]. Non indugiamo poi sulle infelici sorti che nella Chiesa modaiola di oggi sarebbero toccate a un soggetto come Eugenio Pacelli, sul quale meglio soprassedere per passare direttamente ad Angelo Giuseppe Roncalli, ma a quello vero, non al santino da iconografia popolare. Oggi come oggi, il futuro San Giovanni XXIII, giunto all’apice della carriera diplomatica come nunzio apostolico a Parigi, sarebbe mai diventato Patriarca di Venezia ― per di più ultra settantenne ―, dopo avere trascorso tutta la sua vita nel servizio diplomatico della Santa Sede? Certo che no, perché se fossero state applicate le logiche modaiole odierne sarebbe stato cercato sicuramente un parroco di qualche provincia veneta che tra il 1945 e il 1950 aveva arricchito il proprio curriculum dopo essersi dedicato ai profughi e agli orfani di guerra o per avere servito pasti ai senzatetto rimasti privi di casa dopo i bombardamenti degli Alleati sull’Italia.
Se presso certe sedi vescovili sono inviati di prassi vescovi che hanno già maturato esperienze pastorali in altre diocesi dove hanno data buona prova di governo, ci sarà un motivo, o no? Se alcune sedi arcivescovili italiane sono da secoli anche sedi cardinalizie, è perché vi sono antiche tradizioni legate alla storia e ai passati regni e principati della penisola italica; da questo si è consolidata una consuetudine che non è detto debba essere mantenuta. Regole e consuetudini possono essere infatti cambiate e, per farlo, Pietro non deve chiedere il permesso a nessuno. Al limite, se vuole, o se è dotato della necessaria umiltà per farlo, può chiedere consiglio a chi certi meccanismi storici ed ecclesiali può conoscerli anche meglio di lui; ma lui solo, rimane munito della piena potestas per agire come reputa più opportuno. Che quindi l’attuale Patriarca di Venezia non sia stato creato cardinale, forse al diretto interessato non interessa nulla, ma ai veneziani abituati ad avere da secoli un patriarca insignito anche del titolo onorifico cardinalizio interessa molto, tanto che questa mancata berretta rossa l’hanno vissuta come una umiliazione, alcuni persino come un affronto personale.
Capisco che il Santo Padre s’è dichiarato proveniente «dall’altra parte del mondo», ciò non vuol dire però cimentarsi nel fare stravaganze dell’altro mondo, perché è pacifico che alla Chiesa italiana, ai suoi vescovi e al suo clero, ma soprattutto alla sua storia bimillenaria, è dovuto perlomeno lo stesso rispetto che il Santo Padre mostra di avere per i profughi veri o presunti che sbarcano per una media talvolta di 700/800 al giorno in un Paese — il nostro — non in grado di contenere e assistere una tale fiumana di gente, perché stiamo parlando di circa 400.000/ 500.000 persone all’anno che giungono su un territorio ― quello italiano ― che non è certo esteso come l’Argentina.
Alla Chiesa italiana e alla sua storia è dovuto perlomeno lo stesso rispetto che il Santo Padre ha per gli abitanti dei campi Rom, i cui addetti all’industria dell’accattonaggio bestemmiano Cristo e tutti i santi lungo Via della Conciliazione, davanti alla Papale arcibasilica di San Pietro, dietro a chi osa non dargli soldi. Non è bello né buono, neppure per un Romano Pontefice, seppure avvolto da un’aura “liberista” alla quale credono solo coloro che dentro le chiese non ci entrano neppure per Natale e per Pasqua, lasciare intendere: “Io sono io e faccio quello che voglio”. Per noi è indubbio che tu sei Pietro, per i tuoi amici luterani o pentecostali non so’, ma per noi sì, tu sei Pietro. Pertanto, prima stabilisci regole precise, hai piena potestà per farlo. Prima abolisci usi e consuetudini, poi ti nomini cardinale chi vuoi e quando vuoi, evitando che una fetta di tuoi fedeli, che per secoli hanno avuto a capo della loro diocesi un vescovo sempre creato di prassi cardinale, debbano chiedersi che cosa hanno fatto di male alla Chiesa e al Santo Padre per ricevere da lui un simile schiaffo.
La Chiesa ha bisogno della propria saldezza e della propria stabilità, alla quale concorrono in parte anche tradizioni e consuetudini del tutto accidentali e contingenti che come tali sono mutevoli e possono essere abolite in qualsiasi momento dal Supremo Pastore. Credo però che la persona meno indicata per fare il pericoloso gioco alla destabilizzazione senza prima avere stabilito regole, sia il Successore del Principe degli Apostoli, anche perché prima o poi, il Popolo di Dio, che mai è stato scemo nell’intero corso della storia della salvezza, potrebbe cominciare a chiedersi: a qual pro’ tutto questo, ma soprattutto, a qual prezzo dobbiamo pagare le eccentriche gesta di questo soggetto che pare affetto da gran sete di originalità? E stando almeno alle nostre chiese sempre più vuote, più che dinanzi a fedeli che si pongono certe domande, siamo dinanzi a un esercito sempre più numeroso di fedeli a tal punto disamorati da non ritenere utile porsi neppure domande preferiscono disertare o abbandonare direttamente le chiese.
La Chiesa non può rinunciare a essere madre e maestra al di là del tempo, delle mode e delle ideologie, perché la grandezza della Chiesa è sempre stata quella di essere proprio madre e maestra. E una buona maestra, che è pure madre, anzitutto educa. Questo il motivo per il quale questa straordinaria madre che costituisce un corpo di cui capo è Cristo (cfr. Col 1, 18) non ha mai fatto distinzione di ceto, razza e nazione. Conosciamo tutti i difetti della nostra Chiesa, santa e peccatrice secondo l’antica definizione ambrosiana. Difetti storici che il sottoscritto conosce quanto basta per averli più volte stimmatizzati in ossequio al saggio monito del Sommo Pontefice Leone XIII che affermò:
«Lo storico della Chiesa metterà con maggior vigore in risalto la sua origine divina quanto più sarà stato leale nel non dissimulare minimamente le prove che le colpe dei suoi figli e qualche volta dei suoi stessi ministri hanno fatto subire a questa sposa di Cristo» (Discorso agli accademici di Francia, 8 settembre 1899).
Questa madre e maestra, al tempo stesso santa e peccatrice, persino nelle sue epoche più controverse e contrastate ha visto salire ai propri cosiddetti vertici numerosi uomini provenienti da famiglie molto semplici e modeste. Persino nelle sue epoche più controverse e contrastate riusciva a individuare il talento, anzi: lo ricercava proprio. Chi oggi afferma, con spirito tanto romanofobico quanto anti-storico, che sino a non molto tempo fa, per divenire vescovi e cardinali bisognava chiamarsi Borghese, Orsini, Colonna, Odescalchi, Chigi, Medici, Sforza … sbaglia e mente, o meglio non conosce proprio la storia della Chiesa. Le cronologie dei vescovi che si sono succeduti nelle nostre numerose diocesi italiane, annoverano molti nomi di uomini provenienti da famiglie poverissime, entrati nei seminari con i corredi donati loro da un povero parroco di campagna che aveva raccolto offerte tra fedeli altrettanto poveri.
Non si dimentichi che a succedere al Cardinale Rafael Merry del Val, che era un concentrato di sangue delle più antiche famiglie nobili d’Europa, fu il Cardinale Pietro Gasparri, che fu segretario di Stato sotto Benedetto XV e Pio XI, nonché firmatario dei Patti Lateranensi che posero fine alla lunga Questione Romana cominciata con la presa di Roma il 20 settembre 1870 e durata 59 lunghi anni sino al 1929. Pietro Gasparri, nato nelle Marche in un paesino di provincia, proveniva da una famiglia di contadini dediti alla pastorizia. Nella curia romana, dove neppure i Sommi Pontefici sono mai stati esenti dall’attribuzione di un soprannome, era soprannominato, non a caso, er pecoraro. Pietro Gasparri fu un canonista di rara raffinatezza e determinante il suo contributo per la stesura del Codice di Diritto Canonico del 1917. Da modesta famiglia proveniva il Santo Pontefice Pio X, che pure volle accanto a sé nel ruolo di Segretario di Stato il Cardinale Rafael Merry del Val. Da famiglia povera nacque il Cardinale Alfredo Ottaviani, in quel di Trastevere, dove suo padre lavorava come operaio presso un fornaio. Il Cardinale Giuseppe Siri era figlio di un bidello e di una portinaia. Ci fermiamo a questi pochi esempi perché lunga sarebbe la lista di uomini i cui nomi sono oggi inseriti nella storia della Chiesa, affatto segnati dai cognomi delle più potenti famiglie principesche europee.
Cosa dire poi che nel 1960, mentre negli Stati Uniti d’America c’era la segregazione razziale tra bianchi e negri, abolita solo 4 anni dopo dal Civil Rights Act, a Roma, il tanzaniano Laurean Rugambwa, neoeletto cardinale, vestito di rosso porpora con ermellino e cappa magna riceveva il baciamano a ginocchio flesso da parte dei membri della più antica nobiltà pontificia. Conosce il Santo Padre Francesco queste edificanti perle di storia legate a una curia romana che bacia la mano a un cardinale negro mentre negli Stati Uniti i negri non potevano neppure salire sui mezzi pubblici? È informato, il Santo Padre Francesco, che il suo Sommo Predecessore Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, nel 1741 non esitò a sfidare ― pur con tutti i rischi del caso ― le maggiori potenze europee, condannando senza appello la schiavitù e dichiarando illecita, pena l’immediata scomunica, la vendita e la riduzione degli indios in schiavitù? Condanna peraltro già erogata in precedenza dai suoi Sommi Predecessori Eugenio IV (1435), Paolo III (1537), Urbano VIII (1639), nessuno dei quali proveniva dalle «periferie esistenziali» né mai avevano svolto alcun apostolato nelle villas de las miserias.
Temo che da alcuni decenni si siano frantumati equilibri delicati e antichi e che oggi si sia giunti all’apoteosi. Mai infatti, nel passato, un Rafael Merry del Val ha impedito a un sacerdote di riconosciuto talento di sedere con lui negli scranni del Collegio Cardinalizio, poiché reo di provenire da modeste origini. Quel che però si dovrebbe temere oggi è che numerosi Pietro Gasparri e Alfredo Ottaviani totalmente privi del grande talento e della grande pietà che caratterizzò questi uomini di Dio, ma ricolmi in compenso di ambizioni alle quali mai potrebbero aspirare nel mondo civile, possano impedire a un Merry del Val di diventare vescovo e cardinale, perché «non corrispondente a quelli che oggi sono i criteri e gli stili pastorali» — da villas de las miserias — «del Santo Padre Francesco», con tutto l’immane danno che ne deriverebbe e che ne è già derivato alla Chiesa privata ormai da anni di tale fede, talento e rara intelligenza.
Oggi La Chiesa non è più capace a educare e valorizzare i preziosi talenti donati da Dio a certi suoi figli. Non so se qualcuno rifletterà su tutto questo, in una Chiesa non più capace a cogliere il talento, a educare e per logica conseguenza a cogliere il talento e a mutare in autentici principi i Gasparri e gli Ottaviani, facendo di loro dei principi per nulla meno principi di un principe di nascita come Merry del Val. Temo che in questi tristi tempi, dove tanti uomini di Chiesa paiono drogati dall’immediato e dal vivere giorno dietro giorno senza pensare al futuro e a costruire per il futuro, in pochi faranno di simili riflessioni. Quando infatti da una parte si fanno i golpe e dall’altra si cede alle mode, per prima cosa si perde la libertà dei figli di Dio e si cerca con le peggiori coercizioni e i peggiori arbitrî di obbligare anche gli altri alla perdita di questo prezioso dono di grazia. E una Chiesa non più libera che barcolla tra esperimenti fallimentari e mode altrettanto fallimentari è destinata al collasso, a partire dal suo cuore: il Collegio degli Apostoli, nel quale reclutare un mediocre dietro l’altro affinché trionfi il golpe della mediocrità al potere. Mai come oggi è infatti risuonato il falso e fuorviante monito rivolto da Giuda:
«[…] Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”» (Gv 12, 3-8).
Assieme al pretesto dei poveri rischiamo di avere anche un esercito di Giuda, ladri e traditori, nonché ruffiani, pronti a usare i poveri come falso metro di misura e come nuovo pretesto di promozione per il loro tornaconto personale, mossi sempre da quelle insopprimibili ambizioni originate dalla regina madre di tutti peccati capitali: la superbia, che da sempre acceca, impedendo di percepire correttamente il presente e di costruire santamente il futuro a lode e gloria di Dio.
dall’Isola di Patmos, 5 maggio 2024
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NOTE
[1] Cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, E Satana si fece trino, Iª ed. Roma 2011, ristampa, Roma 2019, Edizioni L’Isola di Patmos.
[2] Cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, Digressioni di un prete liberale, circa il vero curicculum di Giovanni Battista Montini, pag 61 e ss.. Roma 2023, Edizioni L’Isola di Patmos.
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