«Qualcosa è cambiato». Da Jack Nicholson al Cardinale Matteo Maria Zuppi laurea honoris causa all’Università di Catania

«QUALCOSA È CAMBIATO». DA JACK NICHOLSON AL CARDINALE MATTEO MARIA ZUPPI LAUREA HONORIS CAUSA ALL’UNIVERSITÀ DI CATANIA

«[…] Se non si accolgono anche le opinioni diverse, e magari pure le parole di dissenso, non si potrà avere un vero cambiamento. Oggi l’assemblea della CEI è un mortorio perché non ci sono più personaggi significativi; si potevano condividere o meno le posizioni di Siri o di Martini, ma i loro interventi erano importanti punti di riferimento. Oggi parlano solo i ruffiani, quelli che vogliono farsi vedere […]» (da una intervista all’Arcivescovo emerito di Pisa Alessandro Plotti, già vice presidente della CEI)

 

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All’interno della Chiesa d’oggi può capitare di sentirsi un po’ come sul set cinematografico del film, Qualcosa è cambiato, protagonista principale Jack Nicholson assieme a un amabile cagnetto. Per chi non lo avesse visto riassumiamo in breve: Melvin Udall, impersonato da Jack Nicholson, è un famoso scrittore di romanzi rosa, misantropo e affetto da nevrosi ossessivo-compulsive che attraverso un esilarante intreccio di fatti in cui finisce coinvolto assieme alla cameriera di un ristorante, a un pittore gay suo vicino di casa e al suo cagnolino di razza griffone di Bruxelles, giunge a una inaspettata quanto incredibile trasformazione che lo porta a diventare una persona persino tenera e amabile.

Dinanzi a certi fatti, dire che oggi Qualcosa è cambiato è riduttivo, perché siamo dinanzi a dei capovolgimenti così radicali da risultare difficili da interpretare. Come quando il 12 aprile è stata conferita dall’Università di Catania la laurea magistrale honoris causa in Global Politics and Euro-Mediterranean Relations a Sua Eminenza il Signor Cardinale Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo metropolita di Bologna e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

Ritengo irrilevante soffermarmi sui rapporti che sin da prima del 17 febbraio 1861 ― data che segnò la caduta del Regno Borbonico ― legano questa università alle storiche logge della Massoneria cittadina, come figura dai nomi di molti insigni accademici risultati membri della Libera Muratoria nell’arco di due secoli. A meno che i numerosi manifesti funebri con il loro nome e la sigla A:.G:.D:.G:.A:.D:.U:. (acronimo che indica: A Gloria del Grande Architetto Dell’Universo) appesi nella Città etnea nel corso degli ultimi decenni, non siano stati solo scherzi dei tipografi catanesi o delle redazioni de La Sicilia e de Il Giornale di Sicilia che avevano voglia di trastullarsi sulla pagina dei loro necrologi pubblicati a pagamento per commemorare i defunti.

Essere massoni non è disdicevole, né tanto meno reato, è lecita e legittima appartenenza a un’associazione storica; a meno che non si tratti di una Loggia deviata come la P2, che dalla Massoneria prende vita ma che della stessa non è affatto espressione, ma solo deviazione. Che poi l’affiliazione alle Logge sia incompatibile con l’appartenenza alla Chiesa Cattolica, questo è altro discorso ancóra, legato a quell’impianto in parte gnostico e in parte esoterico che rende la Massoneria incompatibile e inconciliabile con il Cattolicesimo.

Senza neppure soffermarci sull’anticlericalismo che serpeggia per storica tradizione nell’Università di Catania, essendo tutt’altri i nostri interessi, alcune precisazioni sono però di rigore. Partiamo dunque da un esempio davvero eclatante ormai fissato nelle cronache storiche: quando nel novembre del 2007 fu invitato dal Rettore Magnifico a inaugurare l’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma, il Sommo Pontefice Benedetto XVI rinunciò a tenere una lectio magistralis inaugurale in seguito alle proteste di gruppi di studenti e docenti che insorsero al grido «l’università è laica!», mentre quelli di molte università italiane appoggiarono e sostennero la protesta, inclusa quella catanese.

Prima che iniziasse la odierna stagione dei giovani episcopi pecorecci ― non pochi dei quali sarebbero stati bocciati sino a pochi decenni fa a un esame di teologia fondamentale ―, in Italia avevamo diversi vescovi che erano grandi studiosi e uomini di profonda cultura, distribuiti in tutte quelle diverse aree che in un linguaggio giornalistico improprio, perché estraneo di per sé all’impianto stesso della Chiesa, sono indicati come tradizionalisti, conservatori, progressisti. O per dirla con le parole dell’Arcivescovo di Pisa Alessandro Plotti, che della Conferenza Episcopale Italiana fu vice-presidente:

«Se non si accolgono anche le opinioni diverse, e magari pure le parole di dissenso, non si potrà avere un vero cambiamento. Oggi l’assemblea della CEI è un mortorio perché non ci sono più personaggi significativi; si potevano condividere o meno le posizioni di Siri o di Martini, ma i loro interventi erano importanti punti di riferimento. Oggi parlano solo i ruffiani, quelli che vogliono farsi vedere; il tema pastorale viene buttato via con i gruppi di studio, che durano di fatto mezz’ora, e poi si parla soltanto di Otto per Mille e di soldi, cosa che si potrebbe fare benissimo per corrispondenza. E dire che, ad esempio, sulla famiglia ci sono problemi davvero grossi da affrontare e tutti cercano di capire quale orientamento prenderà la Chiesa» (cfr. intervista pubblicata in Jesus il 10 febbraio 2014, testo QUI).

Diversi di questi vescovi più volte, nel corso degli ultimi 30 anni, incluso lo stesso Alessandro Plotti che apparteneva alla cosiddetta area progressista, dovettero rinunciare a inviti presso strutture accademiche e università perché gli immancabili studenti agitatori, sobillati dietro le quinte da professori ex sessantottini fecero il diavolo a quattro (cfr. QUI). L’allora Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Camillo Ruini, fu contestato e fischiato a Siena il 24 settembre 2005 (cfr. QUI) perché «è il simbolo del conservatorismo, dell’attacco alla laicità dello Stato e della negazione dei diritti degli omosessuali», come riferì in conferenza stampa il rappresentante dei Giovani Comunisti di Siena (cfr. QUI).

Eppure non siamo di fronte a persone diverse, perché coloro che ieri sbarravano le porte al successore di quei Romani Pontefici che l’Università La Sapienza la fondarono facendo di essa un centro universale di cultura, scienza e ricerca nel corso dei secoli, sono gli stessi che oggi conferiscono lauree honoris causa al presidente della Conferenza Episcopale Italiana, non più fischiato e contestato come il suo predecessore accusato di essere un violatore della laicità dello Stato, ma accolto a pacche sulle spalle e chiamato in modo amicale «Don Matteo».

Più che chiedersi Qualcosa è cambiato, bisognerebbe chiedersi: chi è stato strumentalizzato e perché? E sarebbe di certo altresì necessario chiedersi: chi è così «ruffiano» ― per dirla con Alessandro Plotti ― da non capire neppure, per propria inevitabile e invincibile limitatezza, di essere strumentalizzato?

Proviamo ad andare dietro le quinte del teatrino, perché farlo non è poi così difficile: a Catania fu aperto il processo contro l’allora Ministro per gli affari interni Matteo Salvini, accusato di avere impedito a fine luglio 2019 lo sbarco di 116 immigrati clandestini dalla nave Gregoretti, fermata nel porto della Città di Augusta in provincia di Siracusa (cfr. QUI). Che sotto questo pontificato, quello dei migranti, sia un elemento che spazia tra nevrosi ossessiva e ideologia, è un fatto del tutto incontrovertibile. Come lo è il poco prudente coinvolgimento ― in parte verificato in parte ancóra da verificare ― che alcuni vescovi hanno avuto con un militante comunista come Luca Casarini, che andrebbe trattato con estrema cautela e soprattutto con la massima prudenza, non certo invitato al Sinodo dei Vescovi.

Traducendo dall’inglese all’italiano la laurea honoris causa conferita è in Politica globale e relazioni euro-mediterranee. Incredibile! A Pontefici e Vescovi di ieri si sbarravano le porte nelle università, o si contestavano a bordate di fischi quando si avvicinavano a istituzioni o fondazioni statali, perché a prescindere dalle loro tendenze, conservatrici o progressiste che fossero, dicevano comunque quel che il mondo non voleva sentirsi dire, dall’Arcivescovo metropolita di Genova Cardinale Giuseppe Siri all’Arcivescovo metropolita di Milano Carlo Maria Martini, diversamente, ma inquietati entrambi per le derive laiciste che stava prendendo la società europea, specie nel suo rifiuto a tratti persino odioso e violento del Cristianesimo. Oggi, che con il mondo si è deciso invece di puttaneggiare, attraverso molti nuovi vescovi variamente «ruffiani» e pecorecci, ecco che ai Presidenti delle Conferenze Episcopali Italiane si battono le mani sulle spalle, si chiamano «Don Matteo» e si conferiscono loro lauree honoris causa proprio su tematiche politiche ed euro-mediterranee riguardo le quali gli stessi premiatori reclamavano la testa di un Ministro delle Repubblica Italiana con fare più sanguinario di quello di Robespierre.

Anche se di fatto nulla è cambiato, in ogni caso noi non siamo idioti né intendiamo essere trattati come tali da un mondo che mostra di volerci bene nella misura che siamo disposti a vergognarci di Cristo, dimentichi che sta scritto:

«Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38).

Imbarazzante e pericoloso come pochi risulterà oggi più che mai il Beato Apostolo Paolo:

«Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo! Vi dichiaro dunque, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,10 e ss.).

Da questa società che sul modello e l’esempio della Francia vuole fissare sulla Carta d’Europa il “grande diritto universale all’aborto”, noi cattolici non ci dobbiamo aspettare né applausi né onorificenze. Se ci applaudono o ci premiano, è perché siamo i primi a rassicurare i figli del Principe di questo Mondo che in fondo «il Vangelo non è un distillato di verità», come affermò di recente il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana rispondendo a un intervistatore de Il Corriere della Sera (cfr. QUI, QUI). Volendo potrei suggerire a Sua Eminenza Reverendissima, per gli amici Don Matteo, anche un’altra espressione a effetto, pronunciando la quale finirebbe con l’essere in breve il secondo italiano nominato accademico di Francia dopo Maurizio Serra, ma preferisco tacere ed evitare di dare suggerimenti.

dall’Isola di Patmos, 14 aprile 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La Chiesa è figlia dei primi discepoli titubanti

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA CHIESA È FIGLIA DEI PRIMI DISCEPOLI TITUBANTI

Le persone possono apprezzare molto la religione, ma difficilmente arrivano poi alla fede. In occasione della Pasqua abbiamo visto, moltiplicate dai social, manifestazioni religiose della tradizione popolare che chiamiamo “sacre” e che giocano molto sul filo dell’emozione e del sentimento, ma approdano poi davvero a Gesù Cristo e alla sua Parola?

 

 

 

 

 

 

 

 

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

Il Vangelo di questa Terza Domenica di Pasqua racconta l’ultima apparizione di Gesù Risorto, secondo il piano narrativo del Vangelo di Luca. Siamo tra la scena di Emmaus e quella dell’ascensione e Gesù si mostra ai discepoli che hanno appena ascoltato ciò che due viandanti hanno riferito loro. Ecco il brano:

Risurrezione, opera di Quirino De Ieso, 1996

«In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”». (Lc 24,35-48). 

Sempre nel medesimo giorno, «il primo della settimana» (Lc 24,1), ma stavolta di sera, due discepoli tornati a Gerusalemme sono nella camera alta (cfr. Lc 22,12; Mc 14,15), a raccontare agli Undici e agli altri «come hanno riconosciuto Gesù nello spezzare il pane» (Lc 24,35). Ed ecco che, improvvisamente, si accorgono che Gesù è in mezzo a loro e fa udire la sua voce. Non rivolge loro parole di rimprovero per come si sono comportati nelle ore della sua passione. Il fatto di menzionare che adesso sono in undici e non più dodici, come quando li aveva scelti, dice molto del loro stato d’animo. Piuttosto si rivolge loro così: «εἰρήνη ὑμῖν! (Pace a voi!)»; un saluto all’apparenza abituale fra ebrei, ma che quella sera, rivolto a discepoli profondamente scossi e turbati dagli eventi della passione e morte di Gesù, significa innanzitutto: «Non abbiate paura!».

Le cose sembrano tornate alla normalità, ma è così davvero? La resurrezione ha radicalmente trasformato Gesù, l’ha trasfigurato, reso «altro» nell’aspetto, perché egli ormai è «entrato nella sua gloria» (Lc 24,26) e può solo essere riconosciuto dai discepoli attraverso un atto di fede. Quest’atto di fede è però difficile, faticoso: gli Undici stentano a viverlo e a metterlo in pratica.  Non a caso Luca annota che i discepoli «sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito» (πνεῦμα θεωρεῖν), allo stesso modo che i discepoli di Emmaus credevano di vedere un pellegrino o Maddalena un giardiniere. In particolare il corpo di Gesù è cambiato, è ormai risorto, glorioso. Ci potremmo chiedere, infatti, come mai con un evento tanto grande come una risurrezione da morte il corpo del Signore non sia uscito dal sepolcro riparato, ma conservi i segni evidenti della passione. Gesù interroga i discepoli:

«Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho».

Nel dire questo, mostra loro le mani e i piedi con i segni della crocifissione. Il Risorto non è altro che colui che è stato crocifisso. Questa ostensione da parte di Gesù delle sue mani e dei suoi piedi trafitti per la crocifissione è un gesto che secondo alcuni sta a significare che ormai è possibile incontrare il Signore nei sofferenti, nei poveri e nei disprezzati che subiscono ingiustizie. Questo è vero, ma è anche innanzitutto una domanda di fede che si basa su segni evidenti che rimandano a tutto quello che Gesù è stato e al significato di quello che ha subito: la resurrezione di Gesù non è un mito religioso, è un fatto reale, fisico.

Per questo, paradossalmente, dobbiamo essere grati alla ritrosia dei discepoli conservata nei Vangeli. Nonostante le parole e il gesto di Gesù i discepoli non arrivano a credere, malgrado l’emozione gioiosa non giungono alla fede. Non è forse l’esperienza che ancora si perpetua nelle nostre comunità? Le persone possono apprezzare molto la religione, ma difficilmente arrivano poi alla fede. In occasione della Pasqua abbiamo visto, moltiplicate dai social, manifestazioni religiose della tradizione popolare che chiamiamo “sacre” e che giocano molto sul filo dell’emozione e del sentimento, ma approdano poi davvero a Gesù Cristo e alla sua Parola?  In ciò che accadde agli Undici possiamo leggere la vicenda delle nostre comunità, nelle quali si vive la fede e la si confessa, ma si manifesta anche l’incredulità. Eppure il Risorto ha grande pazienza, per questo offre alla sua comunità una seconda parola e un secondo gesto.

Egli non risponde ai dubbi  ― «perché sorgono dubbi nel vostro cuore?», Lc 24,38 ― nel modo che ci aspetteremmo, ma si pone piuttosto su un altro piano, quello dell’incontro, e, cosa ancor più significativa, nella forma della convivialità. Gesù mangia coi suoi, come aveva abitualmente fatto nella sua vita terrena. Anzi, questa volta è lui stesso a dire: «Avete qualcosa da mangiare?» (Lc 24,41). Ci sorprende un gesto così semplice, quotidiano e normale, che tante volte Gesù ha compiuto. Anzi, sembra proprio il gesto del mendicante che chiede del cibo e lo cerca umilmente entrando in casa, proprio mentre gli altri sono già a tavola. Con la medesima discrezione che avevamo visto nell’episodio di Emmaus. Gesù, si dirà nel libro dell’Apocalisse, è colui che sta alla porta e bussa: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Ma evidentemente c’è di più. Gesù mangia davanti a loro non perché ci sia una causa da continuare e il pasto diventa, come in occasione dei funerali, un modo per attenuare il dolore del distacco e rinsaldare la memoria di chi non c’è più. Gesù offre dei segni e compie dei gesti perché si creda che egli è veramente Risorto e che il suo corpo crocifisso è ora un corpo vivente, «un corpo spirituale» (1Cor 15,44), cioè vivente nello Spirito, dirà l’Apostolo Paolo. È per questo che ancora oggi la Chiesa incontra il Risorto nei Sacramenti e in particolare nella celebrazione eucaristica.

I discepoli, narra il Vangelo, restano in silenzio, muti, sopraffatti dalle emozioni della gioia e del timore, che insieme non ce la fanno ad accendere la luce della fede pasquale. Luca scriverà in seguito, all’inizio degli Atti degli apostoli, che Gesù «si presentò vivente ai suoi discepoli… con molte prove» (At 1,3). Allora Gesù, per renderli finalmente credenti chiede di ricordare le parole dette mentre era con loro e soprattutto come doveva trovare compimento tutto ciò che era stato scritto su di lui, il Messia, nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi, cioè nelle sante Scritture dell’Antica Alleanza. Quest’azione ermeneutica compiuta dal Risorto che noi riviviamo ogni domenica nell’Eucarestia è descritta dalle parole: «Aprì loro la mente (diénoixen autôn tòn noûn) per comprendere le Scritture».

Il verbo qui utilizzato (dianoígo) nei Vangeli ha il senso di «aprire e mettere in comunicazione». Così sono aperti gli orecchi dei sordi, la bocca dei muti (cfr. Mc 7,34) e gli occhi ciechi dei discepoli di Emmaus (Lc 24,31). In questa circostanza indica l’operazione compiuta dal Risorto che come un esegeta aiuta i discepoli a capire che le Scritture parlavano di lui. Non aveva forse conversato con Mosè ed Elia proprio su quell’esodo pasquale che doveva compiersi a Gerusalemme (Lc 9,30-31)?

La Chiesa è figlia di quei primi discepoli titubanti ai quali Gesù subito fa questa promessa: «Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49). Grazie al dono e alla forza dello Spirito del Risorto ancora oggi i discepoli ascoltano la Scrittura, sommamente nella Liturgia, che parla di Lui, si nutrono di Lui nell’Eucarestia e Lui testimoniano invitando alla conversione e al perdono che da Gerusalemme prese l’abbrivio. Da quel primo giorno i cristiani non hanno cessato di professare e poi testimoniare la loro fede condensata nel Simbolo: «Morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture (resurrexit tertia die secundum Scripturas)» (cfr. 1Cor 15,3-4). 

Buona domenica a tutti!

Dall’Eremo, 14 aprile 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Il Demonio fra cronaca nera, prurito e realtà nel 2024

IL DEMONIO FRA CRONACA NERA, PRURITO E REALTÀ NEL 2024

«Gli esseri umani sono anfibi – mezzo spirito e mezzo animale […]. Come spiriti essi appartengono al mondo dell’eternità, ma come animali sono abitatori del tempo»

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Nel febbraio di quest’anno i mezzi di comunicazione di massa hanno annunciato la terribile notizia di un omicidio familiare a sfondo religioso. Il tutto si è consumato, con particolare ed efferata crudeltà, ad Altavilla Milicia, in provincia di Palermo. Con l’ormai consolidato spirito di puro prurito i talk show nazional-popolari ne hanno parlato per alcune settimane, mettendo a discutere nei salotti televisivi persone completamente prive di basilare conoscenza su certe tematiche.

Secondo le fonti giornalistiche un uomo avrebbe ucciso la sua famiglia, a eccezione della figlia diciassettenne. Successivamente avrebbe poi chiamato le forze dell’ordine per costituirsi. Il movente dell’omicidio, sempre secondo le fonti, sarebbe la presenza demoniaca in casa.

Di fronte a una tragedia del genere, che inizialmente mi ha molto scosso, ho ritenuto scelta migliore quella di tacere e di pregare. Se di fronte a questo raccapricciante episodio condanniamo fortemente questo omicidio e la chiamata in causa del Demonio da parte di persone esaltate, al contempo non ha senso mettersi a giudicarle per il loro status religioso e la loro fede, che Dio solo conosce. Come sacerdote, frate domenicano e teologo penso sia però necessario chiarire qual è la vera natura del Demonio, e distinguere fra la responsabilità dell’Angelo decaduto e quella dell’uomo.

Per quanto un testo sul demonio attiri sempre, è per me importante scriverlo per risvegliare anche la coscienza e responsabilità personale nell’esercizio della virtù. Quante battaglie ci sono state nella storia d’Italia? Pensate alle guerre puniche e a Scipione, senza il quale non avremmo avuto la civiltà romana ma quella cartaginese. Pensate alla seconda guerra mondiale, quando gli alleati sono arrivati per liberare la nostra nazione dai nazisti. Ma questa battaglia ci coinvolge in quanto figli di Dio: tutti quanto siamo responsabili sia di noi stessi, in quanto persone, sia del Bene Comune nostro e degli altri. Uno degli esempi di applicazione del Bene Comune fu quando durante il Lockdown ci impegnammo a rimanere in casa, permettendo la pratica di quel Bene Comune che secondo l’insegnamento della Chiesa è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (Dottrina Sociale della Chiesa, 346). Ora, una delle condizioni che tutti col nostro sforzo virtuoso abbiamo raggiunto in quel momento fu finire al più presto la fase pandemica affinché tutti gli italiani possano perfezionarsi. Ma noi che siamo chiamati alla vita di fede, anche noi affrontiamo una battaglia speciale. Di questo ce ne parla San Paolo:

«La nostra battaglia, infatti, non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6, 12).

Questa battaglia contro queste realtà spirituali, i demoni chiamandoli col loro nome, non è una battaglia a suon di colpi di spade, bacchetta magica o stregonerie. È una battaglia interiore, spirituale appunto, in cui il demonio cerca di deviarci dalla strada descritta da Dio per noi. Proviamo allora a fare una piccola descrizione del demonio, che vediamo innanzitutto agire contro Adamo ed Eva, innanzitutto in Genesi 3.

«Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò».

Il testo biblico ci dice qualcosa di importantissimo. Quello che sappiamo legandolo insieme al Nuovo Testamento ― e che la Dottrina cattolica ha assunto ― è che Satana e gli angeli ribelli hanno disobbedito a Dio. Ce lo spiega San Pietro:

«Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2Pt 2,4).

La teologia angelica e demoniaca offre un approfondimento al testo biblico. Il demonio è innanzitutto un angelo, un angelo che ha disobbedito a Dio ed è decaduto. Dunque, ha le stesse caratteristiche naturali degli angeli, ma con delle differenze che vedremo adesso. Innanzitutto il demonio, essere spirituale privo di corpo, come tutte le creature è stato creato da Dio. In gergo tecnico si dice che è pura forma sostanziale senza materia.

Come allora spiegare apparizioni di angeli e demoni? Una domanda che è normale porsi, se la sono posta i teologi che poi hanno offerto diverse risposte. Secondo San Tommaso D’Aquino il Demonio, quando appare in un certo modo, è perché combina gli elementi naturali e materiali: dunque diremo ad esempio che crea dei giochi di luce, delle voci terribili e delle immagini inquietanti (Summa Theologiae, I, q. 41, a2, ad3). Non perché le abbia nella sua natura, ma perché è in grado di interagire sul mondo esterno e sull’uomo.

Secondo Padre Serge Thomas Bonino il Demonio si è macchiato di peccato d’orgoglio: infatti, essendo un ente spirituale voleva un bene spirituale. Il bene spirituale maggiore è ovviamente quello di essere come Dio. Ma il Demonio non voleva essere come Dio per un dono di grazia, spiega San Tommaso: pretendeva proprio di diventare Dio. Insomma, davanti a Dio reclamava il diritto di essere chiamato alla partecipazione divina (S. Bonino, Les anges et les demons, Parole et Silence, 2007, 246 – 264). Questo non è mai un diritto, è un dono di grazia, che viene offerta dal Signore a chi si affida a Lui. Il demonio, secondo San Tommaso fu orgoglioso e non volle affidarsi a Dio, e pretendeva allora di farsi Dio da solo. Per questi motivi fu scagliato nella Geenna, e da lì prova a tirarsi sempre più dentro di essa e nell’Inferno. Il Demonio agisce sugli uomini proprio per tirarli tutti lontano da Dio e condursi verso l’inferno, dimensione e “luogo” tutt’altro che metaforico, ma reale e soprattutto eterno.

Pur essendo campioni di orgoglio e di egoismo, tutti i demoni si sono coalizzati, in un patto di soggezione a Satana, capo dei demoni, col fine di togliere credenti a Dio. Uniti, nel loro essere superbi, sanno di essere forti. Ma noi non siamo soli. Dio è con noi e basta conoscere in che modo essi agiscono: la tentazione. L’azione ordinaria con cui il Demonio ci ostacola e combatte è chiamata tradizionalmente tentazione. Questo però non implica che il Demonio compia azioni al posto nostro o costringendoci a compierle.

La tentazione è la dimensione della sollecitazione e dell’istigazione al peccato, anche più terribile. A noi non rimane che combattere e resistere a questo invito al male facendo uso della nostra libertà e del nostro libero arbitrio, attraverso i quali si può sia cadere nelle tentazioni diaboliche sia resistere e respingerle. È una battaglia impari ma noi non siamo soli. La grazia del Signore ci aiuta. Il demonio lo sa bene e per questo cerca di allontanarci da lui.

Clive Staples Lewis ha saputo dare voce in modo ottimo a questa certezza del Demonio, quando nella sua splendida opera Le Lettere di Berlicche fa dire al diavolo Berlicche:

«Gli esseri umani sono anfibi – mezzo spirito e mezzo animale […]. Come spiriti essi appartengono al mondo dell’eternità, ma come animali sono abitatori del tempo» (Le lettere di Berlicche, capitolo 8).

Rimaniamo sempre forti nella sua grazia, che attingiamo specialmente nei sacramenti e nell’intimità della preghiera. Con questi strumenti non dobbiamo temere nulla e diventare sempre più uomini e donne della virtù.

Concludiamo con l’aspetto: Demonio e prurito. I nostri Padri redattori Ariel Levi di Gualdo e Ivano Liguori, che a loro tempo fecero la formazione per gli esorcisti, hanno sempre ripetuto: «Del Demonio, nei contesti televisivi e sulla stampa, meno se ne parla, meglio è». Chiariamo cosa intendono dire: quando sentono affrontare in modo pruriginoso i delicati aspetti della demonologia ai vari talk show televisivi, dove semmai qualche improvvido sacerdote o religioso accetta di parlare in un parterre popolato di soubrette attempate messe nel ruolo di improbabili opinioniste e di laicisti più o meno aggressivi e irridenti, entrambi finiscono con l’essere assaliti da orticaria, ed è cosa del tutto comprensibile. Nessuno di noi dovrebbe prestarsi a fomentare, anche e solo involontariamente, certi giochi di prurito. Salvo essere zittito, se non aggredito dopo nemmeno mezzo minuto che tenta inutilmente di spiegare ciò che in quei contesti televisivi non interessa proprio, perché l’unica e sola cosa a cui si mira è il prurito, lo spettacolo, non di rado il trash. Per questo certi sacerdoti dovrebbero evitare di accettare inviti in quei salotti televisivi dove spiegare certi delicati temi e offrire su di essi chiarimenti è proprio impedito. È in questo senso che i nostri due confratelli affermano: «Del Demonio, meno se ne parla, meglio è». Cosa che equivale a dire: evitino, certi sacerdoti, di prestarsi a far ridere il Demonio mentre certi suoi fedeli accoliti non perdono occasione per mettere il prete o l’esorcista in difficoltà per poi esporlo nel ridicolo. Motivo questo per il quale, l’Associazione Italiana degli Esorcisti, ha più volte esortato sacerdoti ed esorcisti a non accettare inviti a programmi televisivi evitando di andare a parlare su certi temi dove è impossibile trattarli. Non tutti però ascoltano, come infatti dice Al Pacino a conclusione dello splendido film L’avvocato del Diavolo: «Vanità … tra tutti i peccati resta sempre il mio preferito».

Firenze, 10 aprile 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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“Beati noi” che pur non avendo visto abbiamo creduto a Cristo vero Dio e vero uomo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

“BEATI NOI” CHE PUR NON AVENDO VISTO ABBIAMO CREDUTO A CRISTO VERO DIO E VERO UOMO

Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade piuttosto sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano già fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede.

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

 

Il brano di questa Seconda Domenica di Pasqua, o detta anche della Divina Misericordia, è l’ultimo dei componimenti narrativi che terminano con la «prima» finale del Vangelo di Giovanni (vv. 30-31) e sono divisibili in quattro piccoli quadri: Maria Maddalena che si reca al sepolcro; dopo di che sono Pietro e l’altro discepolo che vanno alla tomba; quindi Maria Maddalena incontra il Signore e crede sia il giardiniere; infine, l’ultimo quadro, vede come protagonisti i discepoli e Tommaso.

Incredulità di San Tommaso, opera di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Bildegalerie

Il testo evangelico è il seguente:

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,19-31).

Anche un lettore disattento si accorge che in questo testo sono assemblate così tante tematiche che sarebbe veramente pretenzioso raccoglierle in un unico e breve commento. Si pensi all’indicazione temporale, quel primo giorno della settimana che scandirà per sempre la memoria liturgica della Risurrezione di Gesù per i cristiani. Ci sono poi i tre doni della pace, della missione e del perdono che scaturiscono dal Risorto che sta «in mezzo» ai discepoli e ne provano gioia. Si pensi al tema del «vedere» che diviene sinonimo di credere, nella sequenza che ha come protagonista Tommaso.

C’è anche il dono dello Spirito da parte di Gesù. Il modo in cui il Quarto Vangelo ne parla è unico in tutto il Nuovo Testamento. Solo Giovanni, infatti, e solo qui al versetto 22, dice che Gesù «soffiò» sui discepoli. Viene usato un verbo, emphysao, «insufflare, alitare», utilizzato per la prima volta nel libro della Genesi, durante il racconto della creazione dell’uomo. Tutta la realtà creata, si racconta lì, viene dalla parola di Dio, ma per fare l’uomo questa non basta: Dio deve alitare dentro le sue narici. A guardar bene, però, l’azione di Gesù non è solo quella di «soffiare sopra», ma indica anche il «respirare» di Gesù: perché Egli è di nuovo vivo! È la prova che non è un fantasma e infatti a lui non basta mostrare le mani e il costato: Gesù respira. Questo verbo emphysao si trova ancora altre volte nella Bibbia, ad esempio in 1Re 17,21 e in Ez 37,9. Nel testo di Ezechiele il popolo può risorgere solo se lo Spirito dai quattro venti viene a «soffiare» la vita sui morti.

Emerge dall’uso veterotestamentario del nostro verbo una costante che si può riallacciare al racconto di Giovanni. Questi «proclama simbolicamente che, proprio come nella prima creazione Dio alitò nell’uomo uno spirito vitale, così adesso, nel momento della nuova creazione, Gesù alita il suo proprio Spirito Santo nei discepoli, dando loro la vita eterna. Nel simbolismo battesimale di Giovanni 3,5, ai lettori del Vangelo viene detto che da acqua e Spirito essi nascono come figli di Dio; la scena presente serve da battesimo per gli immediati discepoli di Gesù e da pegno di nascita divina per tutti i credenti del futuro, rappresentati dai discepoli. C’è poco da meravigliarsi che l’usanza di alitare sopra le persone da battezzare sia entrata nel rito del battesimo. Ora essi sono veramente fratelli di Gesù e possono chiamare suo Padre loro Padre (20,17). Il dono dello Spirito è l’acme finale delle relazioni personali fra Gesù e i suoi discepoli» (R. Brown).

Vi è poi l’episodio di Tommaso che è importantissimo e non a caso ha segnato non solo un modo di tradurre il Vangelo, ma soprattutto la maniera di intendere la frase di Gesù a Tommaso, in particolare nel confronto fra i cattolici e i riformati. Notiamo subito che nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες) e anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt): «Tu hai creduto perché hai visto» ― dice Gesù a Tommaso ― «beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto». E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero «credere senza vedere», ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento è a Giovanni, l’altro discepolo che con Pietro era corso al sepolcro per primo (Vangelo del giorno di Pasqua). Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, la tomba vuota e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte e, pur nell’esiguità di tali indizi, aveva cominciato a credere. La frase di Gesù «beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto» rinvia proprio al «vidit et credidit» riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole dire che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è dunque la richiesta di una fede cieca, ma la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade piuttosto sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano già fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un errore di traduzione nella versione della CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla prova empirica richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: «E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente». Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: «E non essere incredulo, ma credente». Ora, nel testo originale, il verbo «diventare» suggerisce l’idea di dinamismo e di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare «credente». Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento e sembra quasi sottintendere che la fede consista in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. È un totale rovesciamento. Tommaso vede Gesù e sulla base di questa esperienza è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di «vedere» il Signore e accostarsi alle sue piaghe. Come vorrebbe l’idealismo, per cui è la fede a creare la realtà da credere, ma ciò è in contraddizione con tutto quello che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il «vedere» può essere una via d’accesso al «credere». Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo; per rifare l’esperienza di coloro che dal «vedere» sono passati al «credere»: si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale. Il Vangelo di Marco si chiude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: «Allora essi partirono e annunciarono il Vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all’orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione, che non sono una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie. «In manibus nostris codices, in oculis facta», dice Agostino: «nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti» (QUI). Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nella Incarnazione del Verbo:

«Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa ― solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini ― veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede». Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione» (CCC, nr 156).

 

Dall’Eremo, 07 marzo 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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