Basta la cultura per salvare i preti spaesati? forse no, se manca il senso di paternità dei vescovi e una riscoperta della propria identità sacerdotale
BASTA LA CULTURA PER SALVARE I PRETI SPAESATI? FORSE NO, SE MANCA IL SENSO DI PATERNITÀ DEI VESCOVI E UNA RISCOPERTA DELLA PROPRIA IDENTITÀ SACERDOTALE
La maggior parte delle volte che mi trovo ad incontrare dei sacerdoti, le più comuni sofferenze che si sentono di condividere sono date dall’abbandono e dalla solitudine che sperimentano da parte dei propri pastori, per non parlare poi di alcuni che sperimentano delle vere e proprie derisioni. Questa modalità anaffettiva di relazione tra vescovo e sacerdote dovrebbe farci riflettere molto, perché davanti a un prete incapace di amore pastorale verso i fedeli, a volte, si nasconde un vescovo incapace di amore verso il proprio prete.
— Attualità ecclesiale —
Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp..
.
Quando ero un giovane chierico del biennio di filosofia, ho avuto la grazia di conoscere e di essere allievo di un santo gesuita il Padre Giuseppe Pirola, uno dei pochi gesuiti che ho conosciuto in vita mia e di cui si può dire con franchezza evangelica che non c’è falsità, così come Cristo disse del Beato Apostolo Natanaele [cfr. Gv 1, 47-51].
Il buon Padre teneva il corso di fenomenologia della religione e di metafisica ogni giovedì presso il nostro studentato. Già dal mercoledì sera si stabiliva presso il nostro convento di Cremona e normalmente presiedeva la celebrazione della messa vespertina per poi prestarsi ad ascoltare le confessioni di noi giovani frati studenti.
Mi ricordo, durante una di quelle celebrazioni, forse nella memoria liturgica di Sant’Alberto Magno o di qualche altro Dottore della Chiesa, che la sua omelia toccò profondamente il cuore e le menti di noi giovani chierici con queste parole:
«ragazzi lo sapete perché Sant’Alberto, San Tommaso e gli altri che noi oggi riconosciamo come Dottori della Chiesa sono santi? Non pensate che siano santi solo per la loro cultura accademica, perché hanno tanto studiato. Queste persone sono sante perché anzitutto con la loro fede hanno cercato Gesù e hanno desiderato stare con lui. Da questo desiderio è poi scaturito l’approfondimento teologico illuminato dallo Spirito Santo che li ha resi quelli che sono»
e poi concludeva:
«voi non state studiando per la sola cultura, voi state studiando per proseguire un cammino di fede che vi porterà a stare con Gesù e a conoscerlo intimamente».
Ancora oggi queste parole per me rappresentano la bussola del mio ministero sacerdotale, affinché io rammenti che la cultura teologica può divenire facilmente vanità o vuota erudizione se non è accompagnata dal servizio reso alla verità e la carità di Cristo. Ma del resto per che cosa siamo diventati sacerdoti?
Il Beato evangelista Marco è chiaro in proposito quando riporta l’istituzione dei Dodici, egli dice: «Li scelse perché stessero con lui» [Cfr. Mc 3,13-19]. Gesù ci chiama a stare con lui, chiede ai suoi sacerdoti un legame esclusivo di vita, non un rapporto clientelare o meramente intellettuale tra docente e discente, tra rabbi e discepolo.
Stiamo conoscendo tempi in cui un dottorato alla Pontificia Università Gregoriana o alla Lateranense non si nega più a nessuno. Anzi tali traguardi sono finalizzati all’unico scopo del curriculum in vista della scalata carrieristica. Non sono così rari coloro che già dal seminario sono identificati come episcopabili e che durante il loro perfezionamento accademico a Roma sono soliti frequentare gli ambienti giusti come l’Almo Collegio Capranica e altri cerchi magici dove poter conoscere qualche buon diavolo che li porti così da promuovere la caduta di qualche mitria che indegnamente e con sofferenza ricevono sulla testa con tutta l’umiltà del caso.
Siamo di fronte a quel fenomeno dei pretini trendy di cui scrissi tempo addietro [vedi qui] le cui ben note attitudini da arrampicatori si protendono verso l’infinito e oltre, salvo poi cadere rovinosamente da un momento all’altro e concludere il loro successo con un disorientamento che è l’anticamera della crisi. Con tutta onestà, pur riconoscendo in talune menti indubbie qualità, spesso si sperimenta una certa fragilità di fede unita a quella difficoltà a stare con il Signore che è la sola prerogativa essenziale per ogni discepolo ma soprattutto per ogni teologo.
E tutto questo sia detto senza giudizio alcuno ma basandosi esclusivamente su uno stile sacerdotale ampiamente documentato ed esibito via social da coloro che si evidenziano sempre di più come dei veri e propri professionisti del sacro. Se ci soffermiamo poi sulle loro pubblicazioni, che fanno la gioia di una certa editoria cattolica, possiamo notare che la travagliata gestazione editoriale a null’altro serve che a fare bella mostra sugli scaffali delle più rinomate librerie romane di Via della Conciliazione e di Borgo Pio, piazzandosi come sicure opere avanguardiste del pensiero progressista cattolico. Ma quanto di queste opere è espressione di conoscenza intima del Signore Risorto e di quella fatica di permanere con il Maestro? Dobbiamo dirlo con franchezza che anche la cultura religiosa e teologica «deve essere preceduta da un’intensa vita di preghiera, di contemplazione, di ricerca e di ascolto della volontà di Dio» [Cfr. R. Sarah, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, Siena, 2017, ed. Cantagalli, p. 35].
Non è esagerato considerare certi lavori intellettuali opera di eretici formali e sostanziali se non proprio di atei dichiarati. Spesso leggendo questi libri notiamo una similitudine di pensiero e di intenti presente già in alcuni esponenti della sociologia, dell’antropologia e della psicologia laica che parlano del mondo religioso dal loro osservatorio privilegiato e pretendono di suggerire alla Chiesa il cammino da perseguire per un rinnovamento religioso da una fede considerata obsoleta e che si deve svecchiare scendendo a compromesso con il mondo e le sue logiche.
Tra i tanti dotti di oggi si sente l’esigenza di avere nella Chiesa e nelle fila del clero degli uomini che abbiano una fede forte, che si intrattengano con Dio e che desiderino imparare quella sapientia crucis che non può essere appresa solamente sui libri.
Questa lettura della situazione del clero non è mia, già il Cardinal Robert Sarah esprime questo concetto nel suo ultimo libro quando dice che: «abbiamo già fin troppi eminenti specialisti e dottori in scienze religiose. Ciò che manca oggi alla Chiesa sono uomini di Dio, uomini di fede e sacerdoti che siano adoratori in spirito e verità» [Cfr. R. Sarah, Catechismo della vita spirituale, Siena, 2022, ed. Cantagalli, p. 12]. Affermare questo non significa certamente essere contro la cultura ma collocarla nella giusta prospettiva.
Oggi lo status di adoratore di Dio è una merce rara tra i sacerdoti, già fin dai primi anni del seminario. Esso implica quell’esigenza spirituale a lasciarsi leggere dentro dal Signore così come vediamo fare nel rapporto con la Samaritana [Cfr. Gv 4,1-30], la cui relazione con i diversi mariti non è ascrivibile a una condizione di disordine coniugale o sessuale ma da un rapporto di fedeltà con Dio che è venuto meno a favore della convenienza e che purtroppo costituisce anche la causa di quella sete che non è possibile soddisfare se non tornando al vero Dio. Ecco, cari lettori, quando noi sacerdoti soddisfiamo la nostra sete ad altre fontane che non derivano da Dio e a lui conducono, cadiamo spesso nel rischio di essere spaesati e di essere facili prede di una crisi di senso e di identità.
Perché dico questo? Perché mi è capitato tra le mani un interessante articolo a firma di Ida Bozzi sull’inserto domenicale La Lettura de Il Corriere della Sera dal titolo «Una Rivista esplora il mondo nel tempo dei preti spaesati». In questo articolo leggiamo il punto di vista del direttore della “Rivista del Clero Italiano” il teologo Giuliano Zanchi che affronta il tema della condizione di confusione e di spaesamento dei preti nell’attuale situazione ecclesiale.
Sono particolarmente sensibile a questo argomento perché più di una volta nel mio ministero di confessore ho toccato con mano il disagio dei confratelli sacerdoti e lo spaesamento intimo che in essi si dibatte. Il disagio oggi è tangibile e si accompagna alle immancabili fragilità umane che conducono alla secolarizzazione e dell’ibridazione del sacerdozio cattolico in quella che sempre più è diventata una libera professione, dove il prete diventa l’assistente sociale di quartiere o il presidente di una ONG [vedi un esempio qui e qui].
Se facciamo attenzione ai casi di sacerdoti in crisi o che abbandonano il sacerdozio, spesso ci troviamo di fronte a soggetti di provata cultura che dovrebbero in qualche modo essere preservati da questo tipo di derive. Eppure, non sempre accade questo e ci rendiamo conto che la sola cultura spesso non basta, se questa cultura non viene subordinata e indirizzata alla familiarità con Cristo. Se il libro non mi conduce al tabernacolo e il tabernacolo al libro avrò sprecato il mio tempo.
Giuliano Zanchi, presbitero e teologo, nella sua analisi, riferisce che oggi il clero subisce un certo disconoscimento sociale del proprio status e una demolizione della propria autorevolezza. Resto perplesso quando si parla solo di autorevolezza e non di autorità perché presentare al clero il modello di autorità sacerdotale di Gesù sulla scorta della pericope di Mc 1,21-28 potrebbe sembrare oggi un po’ troppo di destra, allora bisogna essere prudenti e da bravi accademici differenziare l’autorevolezza dall’autorità.
Così, prosegue l’articolo, a fronte di un comune senso del sacro che non è certo scomparso ma che sicuramente si è degradato, si assiste a una transizione della barca della Chiesa verso altri lidi, verso differenti indirizzi teologici ed ecclesiali rispetto a quelle forme tradizionali e istituzionali che siamo abituati a conoscere.
La soluzione proposta dal direttore della Rivista del Clero Italiano – che mi sento di condividere fino a un certo punto – consiste nell’investire in cultura, strumento privilegiato con cui il clero può rispondere alle sfide teologiche che i tempi nuovi richiedono e antidoto alla confusione dilagante tra i sacerdoti. Questa proposta culturale si presenta anche portando illustri modelli come i teologi Tomáš Halík e Pierangelo Sequeri.
Sarò franco, parlare di cultura in senso generale serve a poco se poi non si delimitano bene i confini e gli ambiti di intervento e le finalità. Di quale cultura abbiamo bisogno? Quella cultura suggerita dalla sapienza umana o quella insegnata dallo Spirito Santo? [Cfr. Cor 2, 1-16] Che al clero oggi serva una buona formazione è indubbio, per accorgersene basta vedere lo scempio liturgico e canonico che quasi giornalmente si compie a detrimento dei sacramenti della Chiesa [vedi qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui]. Per questo mi chiedo, a una buona cultura corrisponde sempre e automaticamente una buona formazione? Avrei qualche dubbio. I percorsi di formazione teologica per i futuri sacerdoti si sono moltiplicati con l’integrazione di infiniti esami accademici ma mai come in questi tempi la qualità della formazione del clero appare imbarazzante.
Da sacerdote un po’ ingenuo e vintage sono persuaso che la cultura da sola non basti a dare una formazione e una conoscenza di Dio, anzi spesso si corre il rischio di cadere nel compiacimento personale e nel convincersi di essere il solo detentore della verità e di una visione corretta del mondo (la propria!).
Il sacerdote si forma non solo con la mera cultura accademica ma restando in compagnia costante del Maestro che insegna dalla cattedra della croce, è un apprendimento mistico faticoso, che consta di ore davanti al tabernacolo, di ginocchia sbucciate e di martirio. Così è stato per gli Apostoli e così sarà per l’avvenire.
L’articolo prosegue poi dando una punzecchiatura a un certo tipo di stile sacerdotale rigido, verso quella devozione bigotta unita a quella tendenza apologetica intransigente e oscurantista che secondo Giuliano Zanchi è «oggi molto forte». Insomma, tanto per capirci, se il prete insegna ai fedeli a recitare il rosario e a meditarne i misteri con quella stessa purità di intenzione di Santa Bernardetta a Lourdes o dei pastorelli a Fatima si deve considerare forse un bigotto? O quando vuole mantenere la barra diritta con una certa fermezza paterna su posizioni apologetiche in difesa della fede, della dottrina o della morale davanti alle sfide aperturistiche della modernità a cui alcune frange della Chiesa strizzano l’occhio, si deve considerare un rigido oscurantista? Mi piacerebbe conoscere la risposta, ma soprattutto vorrei conoscere i modelli di riferimento che non siano i soliti Maggi, Bianchi, Mancuso e Melloni o coloro che sebbene pastori in cura d’anime sono pressoché introvabili perché troppo impegnati a tenere conferenze e a consumare le predelle della facoltà teologiche.
È quindi la cultura la sola e unica panacea possibile per i mali dei sacerdoti spaesati? Non sempre. Se per cultura si intende quella che dialoga e fraternizza con l’uomo d’oggi senza pretendere obiettivi audaci e faticosi, senza chiedere la conversione, sicuramente no. Ci chiediamo allora ― prendendo in prestito un pensiero di Benedetto XVI ―, se il dialogo unito alla fraternizzazione culturale possa sostituire veramente la missione, con il reale rischio di oscurarne la verità e corrompere la fede. Perché questo è il punto focale su cui è doveroso insistere, è la fede dei sacerdoti che deve essere tutelata affinché le Verità che essi trasmettono a nome della Chiesa dirigano il dialogo con il mondo e non viceversa. Uomini di Dio che, attraverso una fede illuminata e vissuta, sappiano rendere Dio credibile in questo mondo. Anzitutto uomini di Dio, e solo in seguito dotti cultori di una disciplina teologica.
Il Beato Apostolo Paolo munito della sola sapientia crucis presso l’Areòpago di Atene, tempio della cultura e del dialogo del mondo antico, non ha lesinato ad affermare la verità della Resurrezione a costo di essere compatito e deriso da coloro che detenevano le chiavi della cultura greca. La rinuncia alla Verità oggi sembra quanto mai realistica e forse opportuna, anche davanti a un possibile dialogo pacificatore con la cultura moderna o con le altre fedi religiose ma può essere letale per la fede che rischia di perdere il suo carattere vincolante e la sua serietà [Cfr. Benedetto XVI, Che cosa è il cristianesimo, Milano, 2023, ed. Mondadori, pp. 9-11].
Per questo motivo davanti ai sacerdoti spaesati è importante riproporre una terapia spirituale di ritorno a Cristo, a quello spirito di orazione e di devozione che il Serafico Padre Francesco raccomandò al sapiente dottore Antonio di Padova in una sua lettera:
«A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola» [Cfr. Fonti Francescane nn. 251-252].
Perciò insieme alla cultura è necessario ripartire dall’orazione e dalla devozione, elementi che favoriscono l’adorazione di Dio in Spirito e Verità e che a mio modesto parere formano gli anticorpi per una sana e sapiente cultura. La vita reale ci pone innanzi un’evidenza: quando un sacerdote entra in crisi o è spaesato le motivazioni sono quasi sempre da ricercare nel fatto che si sente solo e che ha smarrito i punti di riferimento che un tempo aveva chiari. La crisi negli uomini di Dio non è mai primariamente culturale ma di senso e di identità. Fondamentale, in questi casi, è saper contare sul cuore paterno del proprio vescovo o del proprio Ordinario il cui primo dovere è l’accompagnamento e la tutela del proprio sacerdote. Nella Presbiterorum Ordinis di Paolo VI, il Pontefice spiega che un sacerdote è intimamente e inscindibilmente legato al proprio vescovo e alla sua Chiesa particolare in comunione con la Chiesa universale. Questo legame non è soltanto un carattere giuridico ma anzitutto spirituale e umano. Il vescovo è colui che possiede la pienezza del sacerdozio di Cristo, e come tale esprime Cristo nel suo stesso essere e operare. Egli, come Cristo, è chiamato a esprimere quella premura verso i Dodici e i discepoli non facendo mai mancare loro la sua presenza nei momenti di prova e di smarrimento. La maggior parte delle volte che mi trovo ad incontrare dei sacerdoti, le più comuni sofferenze che si sentono di condividere sono date dall’abbandono e dalla solitudine che sperimentano da parte dei propri pastori, per non parlare poi di alcuni che sperimentano delle vere e proprie derisioni. Questa modalità anaffettiva di relazione tra vescovo e sacerdote dovrebbe farci riflettere molto, perché davanti a un prete incapace di amore pastorale verso i fedeli, a volte, si nasconde un vescovo incapace di amore verso il proprio prete. Ma non era l’amore il segno che avrebbe dovuto contraddistinguere la vita degli Apostoli e dei discepoli di Cristo? [Cfr. Gv 13,1-15; 13, 34-35].
Tutti conosciamo vescovi ligi nell’organizzare puntualmente i ritiri e la formazione permanente del proprio clero, anche con invidiabili profili culturali ma che poi sono terribilmente distanti da coloro su cui dovrebbero esercitare quella custodia paterna da cui deriva il termine episkopos che anticamente faceva riferimento a un patronato divino di custodia.
Vescovi che non trovano il tempo da dedicare ai propri sacerdoti anziani, ammalati o in difficoltà e che attingono informazioni da altre fonti: «Mi hanno detto che…», anziché esporsi in prima persona con una telefonata e dire: «Sono preoccupato per te, come stai? Posso fare qualche cosa? Voglio venire a pranzo da te». Se il prete va in crisi, e ne ha ben donde, è perché sperimenta tutto questo e molto altro ancora, non solo perché è carente culturalmente.
La solitudine del clero oggi sta diventando sempre di più la prima emergenza patologica da risanare che si unisce alla seconda emergenza patologica più marcatamente spirituale che è data dalla mancata familiarità con Cristo. Mi chiedo, che cosa è possibile fare davanti a queste emergenze? Può bastare il suggerimento ad ampliare la propria cultura? Ironia della sorte, i sacerdoti che vanno più spesso in crisi sono quelli più titolati e culturalmente più preparati, che sembrano bastare a sé stessi. Dove risiede l’identità di questi fratelli sacerdoti? Non certo nella sola cultura, ma in un rapporto mistico con Cristo che è venuto meno. Il proprium sacerdotale, spiega Benedetto XVI, non consiste in altro se non nell’essere sacerdos nel senso definito da Gesù Cristo sulla croce. Questo significa che la crisi sacerdotale non è essenzialmente una crisi culturale ma l’incapacità a stare ― nel senso di prendere dimora ― insieme con il Signore sulla croce.
Questo discorso ci porta a constatare impietosamente che stiamo assistendo, molto più oggi che nel passato, a una crisi che riguarda l’identità sacerdotale che non viene più radicata e compresa in coloro che scelgono di rispondere alla vocazione. Allora cerchiamo di capire anzitutto che il sacerdote non vive di luce propria e che il suo essere sacerdote è vero solo in relazione all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo che chiama l’uomo a essere unito con lui nel ministero di mediatore.
In questa dinamica di unione mistica e sacramentale all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo l’uomo è chiamato a una progressiva spogliazione di sé ― non solo dai beni ma anzitutto dal proprio io ― che richiama quella necessaria ricerca di perfezione che è stata proposta al Giovane Ricco e che gli Apostoli hanno intrapreso nella sequela del Maestro, abbandonando ogni cosa [Cfr. Mc 10,17-22; 28-31]. Per i sacerdoti questa spogliazione rappresenta l’unico fondamento valido che informa la «necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali» [Cfr. R. Sarah con Benedetto XVI, Dal profondo del nostro cuore, Siena, 2020, ed. Cantagalli, p.26]. Più sappiamo spogliarci e decentrarci e più Cristo, la sua Parola, la sua preghiera e la sua essenzialità di vita andranno a rivestire la nostra identità sacerdotale e umana.
Questi elementi essenziali ci aiutano a comprendere in che cosa consista la crisi dell’identità sacerdotale e dove è necessario intervenire per un risanamento. Un sacerdote spaesato è quello che non considera più il suo ministero come opera esclusiva di Cristo ma anzitutto opera personale. Questa sostituzione del proprium sacerdotale è molto subdola e si rivela nella smania dell’attivismo e del narcisismo. Nel momento in cui il sacerdote presume di essere indispensabile, assecondando la smania di apparire sempre e in ogni circostanza, rifuggendo quel salutare nascondimento che permette a Cristo di agire in lui, si cade in quella tentazione diabolica che elimina l’opera di Dio privilegiando l’opera dell’uomo così come vediamo accadere in coloro che desiderarono farsi un nome durante la costruzione della Torre di Babele [Cfr. Gn 11,4].
Allo stesso modo l’attivismo manageriale, diventa la nuova Liturgia delle Ore che è necessario celebrare, rifuggendo la staticità della contemplazione ai piedi del Maestro ― considerata ormai una perdita di tempo ― per preferire l’impegno in diversi ambiti, anche in quelli che propriamente non attengono al ministero sacerdotale. Oggi non è raro vedere sacerdoti nei panni di politici, di influencer, di TikToker, di assistenti sociali, di psicologi, di opinionisti televisivi, di manager di imprese commerciali o assistenziali, di insegnanti e via dicendo a seguire. Con la presunzione che l’operare bene e per il bene equivalga ad essere ugualmente un buon sacerdote, finendo per eliminare lo specifico della vocazione sacerdotale così come Cristo l’ha pensata e intesa per la Chiesa.
Nella smania di farsi un nome ed esercitare un potere con il fare, il sacerdote si spersonalizza, la sua giornata non è più scandita dalla preghiera, diventa sempre più difficile assolvere a tutte le ore del breviario, e la Santa Messa è solo una parentesi da celebrarsi in fretta, preferendo il II Canone del messale e in non più di quindici minuti. La sosta al confessionale è sempre più rara perché una non meglio definita teologia della misericordia ha portato a intendere ― sia nei laici che nel clero ― che non esiste più la realtà del peccato e se esiste c’è il perdono d’ufficio senza bisogno di pentimento e di conversione di vita.
La visita ai malati e la comunione nel primo venerdì del mese sono cose sempre più rare, così come la pastorale dei sofferenti che è lasciata a pochi specialisti del settore così come quella delle famiglie e dei fidanzati.
Altri esempi si potrebbero fare ma già questi sono più che sufficienti a tracciare un profilo aggiornato di quello che il sacerdote oggi sperimenta. Vogliamo investire in cultura? Una posizione lodevole ma primariamente cerchiamo di rafforzarne l’identità sacerdotale. Richiamiamo il sacerdote alla preghiera fervorosa e costante, alla valorizzazione e al risanamento di quella fraternità con il proprio vescovo e con i propri confratelli, aiutiamolo a non scendere dalla croce di Cristo. Soprattutto, instilliamo nel cuore dei giovani chierici il dovere di carità unito a quell’amore vicendevole che arriva al perdono e che non rivaleggia e non si dibatte nel narcisismo egocentrico del freddo carrierista del sacro.
Voler bene ai sacerdoti è un compito grande e impegnativo, una responsabilità di tutta la Chiesa che non è più possibile procrastinare senza indebolire la santificazione del popolo di Dio e tradire quell’istituzione del sacro ministero che il Signore ha voluto nel suo Giovedì Santo.
Laconi, 24 febbraio 2023
.
.
______________________
Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:
O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos
Agenzia n. 59 di Roma
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21
Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com
Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.
I Padri dell’Isola di Patmos
.
.
.