Nel corso dei secoli la confessione sacramentale ha subìto dei mutamenti radicali che i grandi “dottori teologi” di Facebook e Twitter ignorano

—  Attualità ecclesiale —

 NEL CORSO DEI SECOLI LA CONFESSIONE SACRAMENTALE HA SUBÌTO DEI MUTAMENTI RADICALI CHE I GRANDI “DOTTORI TEOLOGI” DI FACEBOOK  E TWITTER IGNORANO

Grazie ai Social Media molti, raggruppati in fitte legioni di stolti sempre più agguerrite, oltre che peggiori della biblica invasione delle cavallette, si auto-formano di regola a questo modo: prima spiluccano da un blog all’altro, poi si cimentano nell’uso di parole di cui non conoscono neppure il significato etimologico ― ma soprattutto il significato che hanno nel linguaggio filosofico, metafisico e teologico-dogmatico ―, infine salgono sulla cattedra di Facebook o di Twitter per dare lezioni di corretta dottrina a noi teologi, sparando una dietro l’altra assurdità a raffica, spesso anche in modo violento e aggressivo.

 

 

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Ponendo una domanda un Lettore mi ha ispirato questo articolo che potrebbe risultare utile a molte persone:

 

«Vero che Cristo condanna il peccato e non il peccatore. Vero che il peccatore va perdonato settanta volte sette, quindi sempre. Ma alla centesima volta che una persona viene da lei a confessare lo stesso peccato non pensa mai che forse ci sta “ciucciando” un pochino? Le prime comunità cristiane se ben ricordo non è che andavano poi così leggere nel giudizio sul peccatore e, dopo il peccato, non bastava la contrizione del cuore e prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche. Probabilmente i miei sensi di colpa nascono da qui … masochismo? Ma mi pare che anche nei canoni apostolici si parli di questo percorso».

 

Frate Cappuccino confessore (foto by Aldo Lancioni)

 

Sono domande che offrono l’opportunità di fare un po’ di dogmatica sacramentaria, materia alla quale mi sono molto dedicato assieme alla storia del dogma.

Nei tempi tristi e confusi che stiamo vivendo, noi sacerdoti e teologi dobbiamo fare i conti con la realtà di “cattolici” che spaziano tra il magico-estetico e il fideismo più becero. Grazie ai Social Media molti, raggruppati in fitte legioni di stolti sempre più agguerrite, oltre che peggiori della biblica invasione delle cavallette, si auto-formano di regola a questo modo: prima spiluccano da un blog all’altro, poi si cimentano nell’uso di parole di cui non conoscono neppure il significato etimologico ― ma soprattutto il significato che hanno nel linguaggio filosofico, metafisico e teologico-dogmatico ―, infine salgono sulla cattedra di Facebook o di Twitter per dare lezioni di corretta dottrina a noi teologi, sparando assurdità a raffica, spesso anche in modo violento e aggressivo. E non sempre, purtroppo, si riesce a ridere sulle scempiaggini di questi teologi internetici. Alcune volte sì, altre invece no.

Ecco un tipico esempio di bieco e becero fideismo basato sul magico-estetico, della serie … abracadabra la magia è fatta! Una tale ha scritto sulla mia pagina social che «le preghiere recitate in latino sono potentissime e il Demonio proprio non le sopporta», perché ne è terrorizzato.

Per pedagogia, soprattutto per autentica carità cristiana, persone simili non possono essere prese sul serio, vanno prese solo in giro. Cos’altro si potrebbe fare con soggetti che dalle loro cattedre erette sui social media pensano di poter parlare del mistero della grazia divina, della sacramentaria ― che peraltro è il ramo più complesso della teologia dogmatica ― e della disciplina dei Sacramenti, con la leggera disinvoltura con cui si può discutere con la sciampista nella sala del parrucchiere sull’ultimo articolo  pubblicato su un magazine di gossip?

Ecco allora che la presa di giro rivolta a queste persone diviene un atto opportuno e pedagogico della più autentica carità cristiana. Infatti, ciò che non è serio e che si palesa così grottesco e anti-scientifico, anti-dottrinale e anti-teologico, va destituito di valore. Per fare questo l’arma più efficace è costituita dall’ironia e dalla sapiente e caritatevole presa di giro.

E così, a quella Signora che quasi sicuramente non riuscirebbe a tradurre dal latino all’italiano neppure le prime semplicissime righe del De bello gallico ma che invoca la “lingua magica” del latino per terrorizzare il Demonio, risposi che quando noi celebriamo il Sacrificio Eucaristico in lingua italiana, o quando anziché dire Dominus vobiscum diciamo Il Signore sia con voi, sicuramente il Demonio si scompiscia dalle risate, non sentendosi colpito attraverso il magico latino che lo stende invece a terra all’istante spaventato e tramortito.

Questa articolata premessa per dire che quando mi sono posti quesiti intelligenti come quello inviato da questo nostro Lettore, è come se mi fosse giunto in omaggio un regalo:

«Alla centesima volta che una persona viene da lei a confessare lo stesso peccato non pensa mai che forse ci sta “ciucciando” un pochino?».

Quesito pertinente, perché proprio in questi casi si può vedere quanto uno sia un confessore sapiente e illuminato dalla grazia di Dio. Anzitutto va tenuto conto che Cristo, divina pietra angolare, scelse Pietro per la edificazione e il governo della sua Chiesa (cfr. Mt 13, 16-20). E tra tutti gli Apostoli Pietro era il più fragile e spocchioso, come più volte dimostrò, al tempo stesso si mostrò pure il più codardo. All’occorrenza si mostrò confuso, indeciso e ambiguo in materia di dottrina. Era un pescatore galileo ingenuo, passionale e buono che tale rimase per tutta la vita. Non brillava per intelligenza, meno che mai per cultura. Basti ricordare come fu fatto nero ad Antiochia dal Beato Apostolo Paolo, pur con tutto il rispetto per il suo primato di Capo del Collegio degli Apostoli. Adesso ripercorriamo quella vicenda molto interessante di Antiochia narrata dallo stesso Apostolo Paolo:

«Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”. Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Impossibile! Infatti se torno a costruire quello che ho distrutto, mi denuncio come trasgressore. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano”» (Gal 2, 11-21).

In questo dibattito avvenuto ad Antiochia, il Beato Apostolo Paolo enuncia la teologia e la dottrina della grazia e della giustificazione. Esattamente quella che fraintese un frate agostiniano tedesco notoriamente asino, mi pare si chiamasse Martin Lutero, fucina di immani danni prodotti nella Chiesa attorno al XVI secolo, con buona pace di certa piaggeria cattolica che oggi lo indica come “riformatore” e che chiama la sua eresia scismatica “riforma”. Tra l’altro proveniva da uno storico Ordine che prende nome proprio da Sant’Agostino che fu autore del De natura et gratia.

Sempre restando nell’ordine degli esempi iperbolici: se dopo la morte di Gesù Cristo si fosse tenuto un conclave, quanti avrebbero votato Pietro e quanti Paolo? Quale profonda differenza correva tra Pietro, Giacomo il Maggiore e suo fratello Giovanni, indicati da Cristo Dio col nome aramaico di “figli del tuono” ― boanèrghes ―, riportato poi in caratteri greci come βοανηργες (cfr. Mc 3, 16-18). Se mettiamo a confronto Pietro con figure di apostoli come Giovanni o Paolo, la differenza apparirà all’incirca come quella che potrebbe correre tra Roberto Benigni e Marcello Mastroianni, tra Jerry Lewis e Gregory Peck. Eppure Cristo scelse lui che incarnava tutte le nostre fragilità umane, dando ad esso le chiavi del regno e il potere di legare e di sciogliere (cfr. Mt 16, 13-19), il tutto pur avendo avuto elementi di gran lunga migliori tra i quali scegliere il Capo del Collegio degli Apostoli. Allora proviamo a domandarci: perché scelse Pietro e non altri?

Ad assolvere dai peccati non è un Angelo di Dio, così come a guidare la Chiesa di Cristo non è una schiera di Cherubini e Serafini, ma di sacerdoti, di alteri Christi che agiscono in Persona Christi e che spesso possono essere peccatori peggiori di colui al quale concedono la grazia e il divino perdono attraverso l’assoluzione sacramentale: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi …» (Gv 20, 22-23).

La teologia, la dogmatica sacramentaria in particolare, non può essere scissa dalla storia del dogma, perché nel corso di duemila anni la disciplina dei Sacramenti ha avuto delle mutazioni a volte radicali, frutto di una lunga gestazione intesa come acquisizione della percezione del Sacramento e dei Sacramenti in sé. O forse qualcuno pensa che i primi cristiani avessero della Santissima Eucaristia la percezione che oggi ne abbiamo noi? O che esponessero dentro l’ostensorio il Santissimo Sacramento per l’adorazione eucaristica, pratica di sacra devozione al Santissimo Corpo di Cristo che prenderà vita solamente circa 1300 anni dopo la morte e risurrezione del Verbo di Dio? Quali libri di preghiere usavano i primi cristiani in epoca apostolica e con quale Messale celebravano la Santa Messa, forse con quello che certi ridicoli contemporanei chiamano … il messale della Messa di sempre? I primi cristiani recitavano forse preghiere alla Beata Vergine Maria? I Dodici Apostoli radunati assieme cantavano Salve Regina in gregoriano alla presenza della Mater Dei per renderle onore mentre soggiornava a Efeso o a Gerusalemme? Veneravano le reliquie dei Santi? Andavano in pellegrinaggio per i santuari nei quali si poteva lucrare l’indulgenza, o forse affollavano la collina di Medjugorje dove nel pacchetto viaggio completo si garantisce anche la conversione, oltre — s’intende — all’apparizione assicurata della Madonna? Oppure, dopo l’Editto di Milano del febbraio 313, i cristiani strillavano, stile neocatecumenali invasati: … «siamo stati riconosciuti e approvati … approvati! Non potete quindi dirci e farci niente: siamo stati approvati! Chi è contro di noi è contro gli augusti imperatori Costantino e Licinio che ci hanno approvati … approvati!»? E sempre dopo questo editto, ai cristiani furono forse date le antiche basiliche della romanitas con un posto d’onore nell’antico Senato riservato al Vescovo di Roma? Sinceramente vorrei sapere certa gente che film di fantascienza ha visto, sarebbe interessante conoscerne perlomeno il titolo.

È presto detto: un peccatore potrebbe commettere quel particolare peccato anche una volta ogni 48 ore, andando poi a chiedere la grazia e il perdono di Dio. Ovviamente purché sia pentito e “vittima” di fragilità e debolezze che non riesce sul momento a gestire e superare. Tutt’altro discorso se il peccatore commette in continuazione lo stesso peccato perché per indolenza, pigrizia o egoismo vuole essere debole e fragile e non intende in alcun modo reagire a quelle sue debolezze e fragilità alle quali potrebbe invece reagire, o peggio perché convinto “…. vabbè, tanto poi vado a confessarmi”. In quel caso, per il bene del penitente si può giungere persino a negare l’assoluzione. Posso però garantire che soggetti di questo genere è difficile ― mi verrebbe da dire quasi impossibile ― che vadano avanti e indietro dal confessionale a chiedere perdono per lo stesso peccato.

Il Lettore seguita a chiedere:

«Le prime comunità cristiane se ben ricordo non è che andavano poi così leggere nel giudizio sul peccatore e, dopo il peccato, non bastava la contrizione del cuore e prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche».

È vero, ma siamo ai primordi dell’esperienza cristiana, in un’epoca nella quale a molti non era ancora chiaro che cosa fosse realmente accaduto di grandioso per l’intera umanità dal Calvario al sepolcro vuoto di Cristo risorto e poi asceso al cielo. Diverse erano le correnti dei primi cristiani, due le principali: i giudeo-gesuani, ossia gli ebrei che avevano scelto di seguire il messaggio del Cristo e che risentivano molto della cultura ebraica e della legge rabbinica, in particolare di quella farisaica, dal cui ceppo provenivano lo stesso Apostolo Paolo (cfr. At 23, 6) e i pagani convertiti appartenenti alle popolazioni greche e latine.

Come prova “l’incidente” di Antiochia tra gli Apostoli Pietro e Paolo, molto accesi erano gli scambi tra circoncisi e non circoncisi. E con tutta la confusione che spesso ne seguiva si discuteva se i cristiani dovessero seguitare con la pratica rituale della circoncisione. Molti intendevano l’Eucaristia come una celebrazione di Pesach (la Pasqua ebraica) che anziché una volta all’anno era celebrata una volta alla settimana. Basterebbe poi ricordare che da lì a seguire occorreranno quasi quattro secoli e due grandi concili dogmatici per definire prima a Nicea nel 325, poi a Costantinopoli nel 381, il mistero della Persona e della natura di Cristo. E siccome non esistevano neppure termini lessicali per poterla definire, i Padri della Chiesa furono costretti a prendere a prestito terminologie dal lessico filosofico greco e a modularle per dare una definizione a questo ineffabile mistero.

All’inizio ho fatto richiamo ai “dottori in teologia sacramentaria” specializzati all’accademia di Facebook e di Twitter, quelli da prendere in giro per imperativo di coscienza e soprattutto per carità cristiana, pronti a lanciarsi in temi per i quali spesso, se non quasi di prassi, presbiteri sessantenni con trent’anni di ministero sacerdotale alle spalle domandano spiegazioni a qualche confratello teologo o storico del dogma, semmai di vent’anni più giovane di loro, prima di addentrarsi in certe disquisizioni molto complesse sul piano teologico, che di riflesso comportano tematiche altrettanto complesse sul piano storico. È infatti impossibile comprendere la disciplina dei Sacramenti se non si conosce bene e a fondo la storia.

È vero, le prime comunità cristiane avevano altra concezione del perdono dei peccati, basti dire che il Sacramento della penitenza poteva essere ricevuto una sola volta nella vita, dopo un percorso penitenziale fatto sotto la guida del Vescovo. Una volta ricevuto questo Sacramento il fedele non poteva peccare più, se non a suo rischio e pericolo, perché non avrebbe potuto mai più riceverlo. Per sette secoli l’assoluzione dai peccati fu considerato un Sacramento “non ripetibile”. Per questo i cristiani cercavano di ricevere l’assoluzione prima di morire, o comunque in età elevata. E molti morivano senza riceverla.

In questi primi secoli si crea anche il complesso problema dei lapsi. Termine latino che alla lettera significa “scivolati”, usato per indicare i cristiani che durante le persecuzioni del III e IV secolo bruciarono incensi agli dei pagani facendo atto di adorazione verso di essi. Ciò non per convinzione ma perché minacciati di morte, quindi solo per paura di morire. Anche dinanzi al caso dei lapsi fu tenuta ferma la disciplina della irripetibilità della penitenza. Sulla riammissione dei lapsi alla Comunità dei credenti la Chiesa delle origini si trovò divisa tra la corrente di Cornelio, eletto Vescovo di Roma nel 251, propenso al perdono e al loro accoglimento, ed i seguaci del presbitero Novaziano che negava loro qualsiasi forma di accoglienza e che finì poi scomunicato dal sinodo romano. Da lui nacque quella corrente conosciuta oggi come eresia novaziana, che per alcuni secoli seguitò a trovare adepti. Memorabile la battaglia teologica condotta contro i novaziani da Ambrogio vescovo di Mediolanum, che sul finire del IV secolo compose il De poenitentia, opera suddivisa in due libri in cui è sono confutate: nel primo le tesi dei seguaci di Novaziano che consideravano non perdonabili i peccati mortali e la necessità che si procedesse con un nuovo battesimo per i seguaci della loro setta eretica; nel secondo offre una dotta dissertazione sul concetto di penitenza e del modo in cui deve essere amministrata. Il Vescovo Ambrogio confuta i novaziani ricordando loro che la misericordia di Dio offre a tutti i peccatori pentiti la sua grazia. Ribadisce il fondamento analogico tra battesimo e penitenza e infine riafferma anch’esso l’irripetibilità di entrambi questi sacramenti che generano una sostanziale trasformazione di vita in chiunque si penta per i peccati commessi e il male che con essi è stato arrecato ad altri. I novaziani pretendevano di invitare da una parte alla penitenza e al pentimento, dall’altra negavano però il perdono, convinti di rendere lode all’Onnipotente col loro rigore, ma di fatto disprezzando la grazia e il perdono di Dio attraverso la loro cieca durezza di cuore. Lascio adesso valutare, a chiunque abbia letto solo alcuni sproloqui di certi sedicenti teologi internetici fai-da-te, se quella novaziana non è per caso una delle diverse eresie di ritorno della nostra attualità.

Con la discesa dei barbari dal Nord dell’Europa ― che poco dopo si convertirono in massa al Cristianesimo affascinati dalle grandi e virili figure di certi Vescovi e Padri della Chiesa ―, si incominciò a ventilare l’ipotesi di rendere questo Sacramento ripetibile per far sì che il percorso di conversione e di vita cristiana fosse meno impossibile per questi popoli. Ipotesi dinanzi alla quale molti Padri della Chiesa e teologi dell’epoca gridarono all’eresia! Presumibilmente, uno di questi, sarebbe stato lo stesso Ambrogio, poc’anzi citato, che tre secoli prima ribadì la irripetibilità della penitenza in una sua celebre opera teologica.

Perché con i barbari convertiti nasce la necessità pastorale di rendere ripetibile il Sacramento? Perché al di là della loro buona volontà, le loro abitudini e costumi di vita erano quelli che erano … insomma, dobbiamo essere grati ai barbari se questo Sacramento divenne ripetibile. Solo nel VII secolo fu introdotta la pratica privata della Penitenza, cosa che dobbiamo ai monaci irlandesi vissuti ai tempi di San Colombano che fondò il monastero di Bobbio agli inizi del VII secolo e che concorse a ridare vita alla pratica di questo Sacramento mediante una dimensione privata improntata sulla espiazione dei peccati. Così, questi monaci, scendendo dalle regioni del nord Europa in Italia portarono l’abitudine sacramentale del “confessare” a un presbitero i propri peccati in modo tale da ricevere una penitenza, detta penitenza tariffata. E qui bisogna spiegare che per penitenza tariffata si intende la classificazione delle colpe cui corrispondevano le penitenze da imporre. Questo sistema introdotto nel VII secolo cominciò a essere praticato prima in ambito monastico, poi tra il popolo con successiva gran diffusione. Dobbiamo quindi all’irlandese San Colombano e ai suoi monaci la ripetibilità di questo Sacramento, anziché la possibilità di riceverlo una sola volta nella vita. Sempre a lui dobbiamo anche la segretezza del percorso penitenziale al posto della dimensione pubblica.

Nei duecento anni che seguirono tra l’VIII e il IX secolo, i Libri Penitenziali ebbero una gran diffusione e applicazione. Le tariffe racchiuse al loro interno consistevano principalmente in digiuni imposti, che secondo la gravità della colpa commessa potevano durare talora giorni, altre volte anni. Disgrazia volle ― perché tale di fatto fu ―, che i Libri Penitenziali contenessero al loro interno delle commutazioni che permettevano al peccatore di commutare il proprio digiuno in opere espiatorie compiute da lui stesso o effettuate persino da terzi, il tutto in cambio di denaro, celebrazioni di Sante Messe, donazioni di terre, costruzione di chiese e monasteri nei casi di peccatori particolarmente ricchi. Si giunse poi a sfiorare il ridicolo, questo giusto per ricordare con un inciso che a un certo punto della storia, in quel di Certaldo, Giovanni Boccaccio nacque tutt’altro che per caso nel XIV secolo e che certe sue novelle sono tutto fuorché fantasiose invenzioni. Lascio allora intuire a chi legge, senza scendere in particolari inutili e vergognosi, quali abusi originarono certe commutazioni e quanti “santi” monaci ottennero la edificazione di grandi monasteri vendendo nei concreti fatti la espiazione dei peccati, mentre certi sovrani e potenti feudatari sottoposti a dura penitenza giunsero a pagare un proprio fedele servitore affinché facesse penitenza al posto loro (!?). Ci sarà pure un motivo, se diversi concili della Chiesa condannarono duramente il turpe peccato di simonia, il cui etimo nasce dalla vicenda di Simon Mago che cercò di offrire del danaro agli Apostoli per ricevere i doni dello Spirito Santo mediante l’imposizione delle loro mani (cfr. At 8, 18-19).

Successivamente il Sacramento della penitenza conoscerà nuove evoluzioni e innovazioni tra il IX e il X secolo con i teologi carolingi che incominciano a incentrare l’attenzione dall’espiazione dei peccati all’accusa dei peccati, ritenendola il vero cuore dell’intero processo penitenziale. Senza il sincero pentimento non può esservi perdono e la penitenza espiativa può rischiare di essere fine a sé stessa. Sino a giungere al Concilio di Trento che nel 1563 fissa le norme della Confessione con un apposito decreto, strutturando la disciplina sacramentale e canonica di questo Sacramento come la conosciamo oggi. In epoca post-tridentina nacquero anche spazi e luoghi idonei per amministrare questo Sacramento, per esempio le penitenzierie all’interno delle grandi cattedrali e basiliche, quindi l’uso dei confessionali creati tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo per garantire la riservatezza e la separazione tra il confessore e il penitente e favorire la confessione stessa. A nessuno rimarrebbe agevole, agli uomini e forse più ancora alle donne, accusare i propri peccati a un uomo che ti siede di fronte e che mentre parli ti guarda in faccia. Merita ricordare che i confessionali furono inventati dai Gesuiti, proprio gli stessi che tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento furono i primi a toglierli da molte delle loro chiese per metterli negli scantinati, oppure vendendoli agli antiquari, semmai per dare i soldi ai poveri, intendiamoci! Infatti, la ragione casuistica del Gesuita, o è sempre nobile in sé e di per sé, o in ogni caso lo diventa attraverso la manipolazione.

Non è vero che il peccatore «prima di essere riammesso nella comunità doveva passare sotto le forche caudine pubbliche». Però alcuni storici lo scrivono, molti lo leggono in giro e prendono simili asserzioni per vere diffondendole poi come tali. A essere pubblica non era la confessione dei peccati, ma lo stato dei penitenti, quello sì che era reso pubblico. I penitenti, quasi sempre raccolti in gruppi, dovevano fare un preciso percorso penitenziale sotto la guida del Vescovo, non potevano certo essere tenuti nascosti, ma i loro peccati sì, tanto che il Santo Pontefice Leone Magno, il lungo pontificato del quale durò dal 440 al 461, proibì la confessione pubblica e la dichiarò illegittima e contraria alle norme apostoliche:

«Noi proibiamo che in questa occasione venga letto pubblicamente uno scritto nel quale sono elencati nei particolari i loro peccati. È sufficiente infatti che le colpe vengano manifestate al solo Vescovo, in un colloquio privato» (Lettera 168).

Da tutte queste note storiche si dovrebbe comprendere che il Sacramento della penitenza, come altri Sacramenti, ha subito nel corso del tempo grandi mutazioni, a tratti veramente radicali. Sempre con buona pace di chi parla di Messa di sempre o di dottrine, regole e discipline sempre e assolutamente immutabili, con tanto di indiscutibile suggello «si è sempre fatto così nel corso dei secoli!». Espressione tipica dell’imbecille che le mutazioni e gli eventi avvenuti nei secoli le ignora di prassi tutte quante, perché si è creato un passato che non è mai esistito, allo scopo di rendere irreale il presente.

Concludo con un tocco di ironia narrando di quando una mega-catechista de La setta Neocatecumenale fece uno sproloquio kikian-carmeniano sulla necessità del ritorno alla Chiesa delle prime origini apostoliche. E qui è necessario precisare che la mega-catechista faceva i cosiddetti scrutini — vale a dire che indagava le coscienze — non solo dei laici, ma persino dei sacerdoti e, quando si tenevano le loro assemblee nelle chiuse salette, lei parlava e sproloquiava eresie a tutto spiano, mentre il sacerdote presente sedeva in silenzio vicino a lei tacendo, a vergogna di sé stesso e della dignità sacerdotale. A quel punto le citai alcuni passi della Sacra Scrittura in cui il Beato Apostolo Paolo non si limita a esortare, ma rivolge delle vere e proprie severe intimazioni: 

«Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo» (I Tm 2, 12) «Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (I Cor 14, 34-35).

Dinanzi a quei passi così chiari, le dissi che il suo compito era di tacere e basta. E detto questo le domandai se intendeva tornare alla Chiesa delle origini e applicare alla lettera certi comandi e precetti, mostrando così di anelare per davvero e fino in fondo all’auspicato ritorno alle origini. Non sapendo cosa rispondere, la povera ignorante, paradigma di ciò che di fatto sono i mega-catechisti neokatekiki, sbroccò letteralmente affermando: «Beh, si sa da sempre, che San Paolo era un misogino». Ebbene, anche se non è questa la sede, penso sia opportuno chiarire in breve che il Beato Apostolo, lungi dall’essere un misogino, rivolgeva queste parole agli abitanti di Corinto, società tendenzialmente matriarcale nella quale le donne erano solite condizionare gli uomini con forti influenze e pressioni. Quando però cercarono di fare altrettanto nella Comunità Cristiana, tentando di mettere i piedi sulla testa a vescovi e presbiteri, l’Apostolo le richiamò all’ordine. Pertanto, l’ammonimento «Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti», molto probabilmente era rivolto proprio alle mogli dei primi vescovi e presbiteri di quell’area geografica, lo si evince da quest’altro passo dell’Epistola indirizzata al discepolo Timoteo:

«[…] bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (I Tm 3, 2-5).

Il problema è che da una parte abbiamo pseudo cattolici più o meno settaristi che invocano il ritorno a origini che non conoscono e che costituiscono invece solo un nucleo evolutivo di partenza al quale non è certo auspicabile tornare, perché sarebbe come scendere dall’automobile e retrocedere al tempo antecedente l’invenzione della ruota. Dall’altra parte abbiamo pseudo-cattolici di non meglio precisata tradizione che si sono costruiti un passato che non è mai esistito, convinti che il Beato Apostolo Pietro celebrasse la Messa di sempre rivestito di solenni paramenti con assistenti presbiteri rivestiti di piviali e diaconi rivestiti di dalmatiche barocche damascate. Ovviamente celebrando ― va da sé, manco a dirsi! ― in un perfetto e magico latino, quello che spaventa e allontana il Demonio, come scriveva quella certa scienziata sulla mia pagina Social. E di certo a Simone figlio di Giona detto Pietro lo chiamavano anche “Santità” o “Beatissimo Padre”. Quando infatti i soldati romani lo arrestarono sulla Via Appia per portarlo sul Colle Vaticano dove fu crocifisso, gli intimarono: «Altolà, Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, Vostra Santità è in arresto!». E fu trascinato verso il supplizio, dando alla fine della vita la prova della eroicità delle sue virtù e morendo per grazia di Dio martire.

Per morire martire Pietro ci impiegò una vita intera, dopo essersela data a gambe più volte, l’ultima in ordine di serie poco prima di morire, durante le persecuzioni di Nerone, sotto il regno del quale finì catturato assieme ad altri cristiani in fuga e finendo sulla croce in quello che nella prima epoca romana fu un luogo paludoso umido e insalubre al di fuori del nucleo urbano metropolitano: il Colle Vaticano. Nome che alcuni fanno derivare da Vagitano, una divinità pagana che proteggeva i neonati che emettevano il loro primo vagito. Altri lo fanno derivare da vaticinor, che in latino significa “predire”, quindi collegandolo al fatto che in quella zona esercitavano il loro mestiere degli indovini già in antica epoca etrusca. Qualunque sia il vero significato della parola, resta certo che il Vaticano è un luogo dove per l’amore e il rispetto della fede si finisce messi in croce, nell’antichità come nella contemporaneità.

dall’Isola di Patmos, 4 febbraio 2023

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