L’Arcivescovo Vincenzo Paglia non è semplicemente il “fratello idiota” di Don Abbondio ma la meretrice di Babilonia genuflessa dinanzi al Principe di questo mondo

L’ARCIVESCOVO VINCENZO PAGLIA NON È SEMPLICEMENTE IL FRATELLO IDIOTA DI DON ABBONDIO MA LA MERETRICE DI BABILONIA GENUFLESSA DINANZI AL PRINCIPE DI QUESTO MONDO

 

«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» (Augusto Del Noce, 1971)

— Attualità —

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le testuali parole di S.E. Mons. Vincenzo Paglia, cliccare sull’immagine per aprire il video

Dell’Arcivescovo Vincenzo Paglia mi sono già occupato epitetandolo fratello idiota di Don Abbondio, oggi merita il titolo di meretrice di Babilonia genuflessa al Principe di questo mondo [cfr. Gv 14, 30]

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«Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli abomini della terra”» [Ap 17, 5].

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Le dichiarazioni fatte da questo idiota nel senso etimologico del termine ― dal greco ἰδιώτης (idiòtes) che significa “uomo privato” e indica la persona incompetente, inesperta e inetta ― sono di una gravità senza precedenti, tanto più ricoprendo il delicatissimo ruolo di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Partecipando di recente al programma Il tetto che scotta sulla sinistrissima e politicamente corretta Rai Tre ha magnificato la legge 194 del 1978 sull’aborto legalizzato affermando: «Io penso che ormai la Legge 194 sia un pilastro della nostra vita sociale». Dopo essersi arrampicato per 40 secondi sugli specchi, alla secca domanda dell’intervistatrice che lo ha incalzato: «Lei dice che non è in discussione la Legge 194?». L’Idiota ha replicato: «Ma no, assolutamente … assolutamente!».

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Parole di per sé nemmeno commentabili dinanzi alle quali torna alla mente una frase del filosofo Augusto Del Noce che dipinse la nostra situazione attuale scrivendo queste parole profetiche quattro decenni fa:

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«La prima condizione per la fine della eclissi dei valori tradizionali e per l’uscita del Cattolicesimo dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione, che non è conformarsi al mondo, ma contrastarlo» [Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? Rusconi Editore, Iª ed. 1971]

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Può un vescovo compiacere il mondo con simile piaggeria, anziché contrastare chi proclama l’aborto «diritto sacrosanto» e «grande conquista sociale»? A un vescovo legittimo successore degli Apostoli e membro del Sacro Collegio Apostolico va tributato rispetto, sempre, a prescindere dalle sue debolezze, fragilità e mancanze di meriti oggettivi che possono fare di lui un personaggio anche al di sotto della mediocrità. Come confessore e direttore spirituale di numerosi preti ho udito spesso i lamenti di diversi confratelli che mi spiegavano quanto il loro vescovo fosse un emerito idiota. E avevano ragione, perché tale era nei disastrosi fatti concreti.  E a tutti loro ho sempre risposto:

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«… e a questo emerito idiota devi filiale rispetto e devota obbedienza, sempre e a prescindere. Pertanto cerca di vivere la oggettiva idiozia del tuo vescovo come una prova di fede. Puoi non stimarlo, perché la stima non gli è dovuta, se la vuole quella deve guadagnarsela. Ma il rispetto e l’obbedienza sì, gli è sempre dovuta e non può essere in alcun modo cancellata dai suoi demeriti di cui al momento opportuno dovrà rispondere a Dio come sta scritto: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”» [Lc 12, 48].

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Da una parte raccolgo le lamentele dei preti verso i loro vescovi, dall’altra quelle di diversi vescovi che non ce la fanno più con certi preti. E hanno ragione gli uni e gli altri. Ormai da anni, a preti che si lamentavano dei loro vescovi non particolarmente amabili, paterni o dottrinalmente brillanti replico: «Tra non molto tempo tu e i tuoi confratelli rimpiangerete il vostro vescovo con le lacrime agli occhi». Frase ripetuta a decine di preti a partire dal 2017, quando i massimi vertici della Chiesa Cattolica superarono la soglia del non-ritorno festeggiando i 500 anni della pseudo-riforma di Martin Lutero, che non fu affatto un «riformatore», come lo dipinse La Civiltà Cattolica, né un soggetto sul quale si possa dire: «Credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. Era un riformatore». Perché così il Sommo Pontefice Francesco definì in un suo sproloquio a braccio in aereo ad alta quota questo diabolico eresiarca che dette vita a un drammatico scisma, non certo a una riforma. Quella la fece il Concilio di Trento, non Lutero. Oggi, gli stessi preti, mi scrivono, mi telefonano o a tu per tu mi dicono: «Avevi ragione, potessi riavere il precedente vescovo di cui tanto mi sono lamentato non gli bacerei la mano ma i piedi!».

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Stendo un velo pietoso sui criteri di selezione dei nostri nuovi vescovi sotto questo augusto pontificato, tutti col povero e il migrante sulla bocca, tanto che dopo averne udito uno si sono udite tutte le omelie episcopali pronunciate da nord a sud, da est a ovest dai vescovi italiani.

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Che i nostri non siano tempi di “aquile reali” è chiaro a chiunque abbia anche un minimo lume di ragione. Per questo merita delineare la differenza che corre tra un vescovo idiota al quale sono sempre dovuti filiale rispetto e devota obbedienza, da un vescovo ridotto a una meretrice di Babilonia genuflessa alle ginocchia del Principe di questo mondo. All’Arcivescovo Vincenzo Paglia deve essere pubblicamente tributato tutto quel santo sprezzo che qualsiasi credente è tenuto a riversare su ciò che è male e che come tale costituisce grave peccato, nel caso specifico il delitto di aborto, regolamentato nel nostro Paese da una Legge che non è affatto un «pilastro della nostra vita sociale» ma il peggiore dei crimini legalizzati perpetrati contro la vita. Ecco perché non bisogna prestare filiale rispetto e devota obbedienza all’Arcivescovo Vincenzo Paglia, perché abusando nel modo peggiore dell’episcopato ha espresso dei concetti che contraddicono l’impianto della nostra morale e della nostra etica che si reggono entrambe sui pilastri del deposito della fede cattolica. Rimane un vescovo legittimo rivestito di una importante e delicata carica ecclesiastica, questo è fuori discussione. Però, se la sua potestas che comporta anzitutto la suprema custodia della dottrina della fede la esercita per negare in modo sacrilego i fondamenti della morale e dell’etica cattolica, in tal caso non deve essere né ascoltato, né ubbidito né seguito e meno che mai rispettato, ma bensì reso oggetto di santo sprezzo cristiano.

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Vincenzo Paglia è una vergogna dell’episcopato appartenente a quella nefasta categoria di persone verso la quale tuonano le Sacre Scritture:

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«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» [Ap 3, 15-16].

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Assieme a Vincenzo Paglia rischiano di essere vomitate dalla bocca dell’Onnipotente anche tutte le ambiguità e le doppiezze di questo pontificato al quale va il grave e oggettivo demerito di avere inserito in tutti i più delicati posti chiave soggetti immorali e palesemente eterodossi, correndo a questo modo il rischio di «[…] passare agli annali come un inseguimento eccentrico del nuovo e del sensazionale come surrogato della ricerca di senso, che ha finito col produrre una confusione dottrinale e pastorale mai verificatasi in precedenza nella storia della Chiesa».

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Parole quest’ultime con le quali apro il mio libro dedicato alla memoria del Cardinale Carlo Caffarra che entrerà in distribuzione i primi di settembre e che vi invito a leggere, non altro per risollevarvi un po’ d’animo, per acquisire fiducia sul fatto che non tutto è perduto e per poter toccare con mano che in mezzo a tanti pavidi conigli in carriera che stanno de-costruendo i fondamenti stessi della dottrina cattolica, esistono sempre anche i leoni che aspirano alla conquista del premio della vita eterna come loro unica ambizione di carriera. Leoni che è bene non andare a infastidire con la parolina di stizzoso rimprovero clericale, perché mordono e sbranano, come si deve e come si conviene ai Leoni di Dio posti a custodia della dottrina della fede e della salute delle anime dei Christi fideles a noi affidate dal Redentore.

 

Dall’Isola di Patmos, 28 agosto 2022

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La Chiesa Cattolica non prende ordini da nessuno tanto meno dagli ucraini che hanno perduto il contatto col reale in un trionfo di arroganza che produrrà gravi danni a tutte le popolazione dell’Europa

LA CHIESA CATTOLICA NON PRENDE ORDINI DA NESSUNO TANTO MENO DAGLI UCRAINI CHE HANNO PERDUTO IL CONTATTO COL REALE IN UN TRIONFO DI ARROGANZA CHE PRODURRÀ GRAVI DANNI A TUTTE LE POPOLAZIONI DELL’EUROPA

 

Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo.

— Attualità —

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Nel mio libro pubblicato un paio di mesi fa: Guerra e propaganda ideologica, ho anticipato fatti e problemi che stanno venendo alla luce adesso nella loro drammatica gravità politica ed economica.

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Ricordate la scorsa stagione televisiva, dove di talk show in talk show si inneggiava slava Ucraini (gloria all’Ucraina)? Ricordate le voci critiche tacitate? Ricordate in che modo un esperto storico come Franco Cardini — autore di Ucraina, la guerra e la storia — non potendo essere zittito né dichiarato non autorevole, era tacitato con la inderogabile pubblicità da mandare in onda, facendolo poi sparire dallo schermo a stacco pubblicitario terminato? Ma soprattutto: ricordate gli ucraini invitati negli studi televisivi che con arroganza memorabile puntavano il dito verso l’Italia e gli italiani affermando di sera in sera: «Non dovete comprare il gas dalla Russia, dovete fare sacrifici per noi, perché noi lottiamo anche per la vostra libertà»?

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Sotto gli occhi dei conduttori silenziosi, assaliti dalla necessità di mandare in onda la inderogabile pubblicità solo quando parlavano Franco Cardini o altri studiosi e qualificati esperti di storia e geopolitica, abbiamo dovuto sorbirci senza possibilità di replica dei soggetti emotivi drogati dalla propaganda di Vlodimir Zelenski ― che alle droghe pare non sia stato estraneo ― che senza possibilità di replica affermavano in prima serata che noi italiani eravamo obbligati a sacrificare i nostri figli per i figli degli altri che avevano deciso di lottare come dei cerbiatti contro una leonessa, convinti di vincere. Che la leonessa – nel caso specifico la Russia – li abbia aggrediti, è indubbio. Altrettanto indubbio che da una parte c’è un aggressore e un aggredito, in un contesto geopolitico molto complesso, vecchio e delicato nel quale non si può risolvere il problema sentenziando in modo superficiale e inappellabile chi è il buono e chi il cattivo, perché nelle guerre quando si ammazza tutti sono vittime e carnefici.

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I governanti ucraini e buona parte della popolazione, inclusa quella cattolica e purtroppo anche alcuni vescovi di quel Paese, hanno già attaccato in passato la Santa Sede e il Sommo Pontefice dichiarandosi indignati per l’idea di far portare la croce a una donna russa e a una donna ucraina nel corso della Via Crucis durante i riti della Settimana Santa, al punto da oscurarla sulle reti televisive della libera Ucraina, che al contrario della cattiva Russia sarebbe una democrazia, non un regime dittatoriale (!?). In questi giorni ha fatto seguito analoga dura protesta perché il Sommo Pontefice ha osato rivolgere un pensiero e una preghiera a Darya Dygin, figlia di Alexander, famoso e discutibile ideologo russo, uccisa in un attentato:

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«Penso a una povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca. Gli innocenti pagano la guerra» [cfr. QUI]  

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Il Governo Ucraino ha reagito con una protesta diplomatica attraverso il proprio ambasciatore e convocando il Nunzio Apostolico della Santa Sede a Kiev.

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Siamo al delirio di onnipotenza al quale si aggiungono cieca ignoranza e arroganza. Alla Chiesa Cattolica nessuno può impedire di pregare per la redenzione e la salute dell’anima di Hitler come per la redenzione e la salute dell’anima di Stalin, perché ha il dovere di farlo. Cosa che fece al momento opportuno proprio mentre certi personaggi perpetravano i loro peggiori crimini contro l’umanità. La Chiesa non segue le direttive emotivo-distruttive di un ex comico eletto Presidente dell’Ucraina ma il Vangelo di Gesù Cristo sul quale sta scritto:

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«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati […] infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» [Mt 9, 12-13].

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Ciò che dovevo analizzare ed esprimere sul conflitto russo-ucraino l’ho scritto in un libro al quale vi rimando.

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Dopo la pausa estiva stanno riprendendo i vari talk show alle porte di un autunno che si sta delineando molto critico. Questi vari programmi hanno riaperto mandando in onda i lamenti di imprenditori, commercianti e privati che stanno ricevendo delle bollette della luce salite ormai alle stelle e che non riescono a pagare, mentre nessuno sembra avere i virili attributi politici per dire che la guerra è stata un fallimento e peggio ancora l’invio di armi all’Ucraina, dove non si è armato un esercito ma una popolazione civile. Salvo poi mandare in onda sui nostri telegiornali notizie sui brutali soldati russi che uccidevano civili inermi. Anche in questo caso la domanda è rimasta senza risposta: un cosiddetto civile inerme che imbraccia un Kalashnikov e che apre il fuoco sul nemico, siamo davvero sicuri che sia un civile inerme?

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Tra poco, all’arrivo del freddo, ci sarà il problema del gas per gli impianti di riscaldamento. Riusciranno i nostri eroici uomini-azienda che conducono i vari talk show a riportare nuovamente negli studi televisivi gli ucraini per puntare il dito sugli italiani e dir loro che devono sacrificare i propri figli, le proprie famiglie e le proprie aziende per sostenere l’Ucraina nella propria arrogante politica suicida? Sarà interessante udire quel che diranno agli inizi del prossimo inverno i vari conduttori che nella scorsa stagione televisiva inneggiavano slava Ucraini (gloria all’Ucraina), dinanzi agli italiani che in modo molto inglorioso rischiano di ritrovarsi veramente alla canna del gas, mentre già da adesso, i gestori delle case di riposo per anziani e degli asili nido stanno dicendo in toni allarmati che non saranno in grado di pagare le bollette della luce ormai triplicate e quelle del gas che tra non molto arriveranno, ma che al tempo stesso non possono certo triplicare le rette mensili dei loro ospiti.

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Tutto il resto è scritto nel mio libro, con buona pace di chi ha inneggiato per mesi di talk show in talk show: slava Ucraini! Vediamo se lo stesso grido gli uomini-azienda avranno il coraggio di ripeterlo anche questo inverno con gli ucraini in studio che puntano il dito e che di sera in sera ripetono agli italiani ridotti alla canna del gas: «Voi dovete fare dei sacrifici per noi».

 

Dall’Isola di Patmos, 26 agosto 2022

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«Il gioco del lotto è la tassa dei fessi». Stiamo legalizzando tutto: aborto, eutanasia, droga, prostituzione, gioco d’azzardo … perché non legalizzare anche il femminicidio?

«IL GIOCO DEL LOTTO È LA TASSA DEI FESSI». STIAMO LEGALIZZANDO TUTTO: ABORTO, EUTANASIA, DROGA, PROSTITUZIONE, GIOCO D’AZZARDO … PERCHÉ NON LEGALIZZARE ANCHE IL FEMMINICIDIO?

 

Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.

— Attualità —

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Emma Bonino promotrice di varie campagne contro gli obbiettori di coscienza

Nel suo cabaret yiddish il Maestro Moni Ovadia ironizza sulla macchietta di un vecchio ebreo tirchio che pregava con insistenza il Signore di farlo vincere alla lotteria. Dopo assillanti preghiere risuona sul cielo di quello shtetl una voce scocciata: «Shlomo, io ti faccio anche vincere, ma tu spendi due soldi e acquista perlomeno un biglietto!».

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Molti anni fa, quand’ero studente universitario, il montepremi della vecchia lotteria di capodanno era giunto a cinque miliardi delle vecchie lire. Tutti i miei compagni avevano acquistato almeno un biglietto, ad eccezione mia. Un’amica mi domandò perché non ne avessi acquistato uno per il costo di poche lire, meno di quanto costasse un pacchetto di sigarette. Risposi: «Le possibilità di vincita sono talmente remote che se proprio dovessi vincere sarò a tal punto fortunato da trovare il biglietto vincente a terra mentre cammino per strada».

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Il gioco d’azzardo ha sempre costituito un grande giro d’affari per la malavita, in particolare per le associazioni mafiose presenti nel nostro Paese: la Camorra, la ‘ndragheta e Cosa Nostra. Il 27 giugno 1998 entra in vigore la legge che rende legale il gioco d’azzardo nel nostro Paese, regolato e gestito dai Monopoli dello Stato. Negli anni a seguire il Legislatore è intervenuto con altre leggi: nel 2005 promulga la legge n. 266 che definisce il ruolo dell’Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato che si occupa dei giochi che prevedono vincite in denaro e del contrasto della giungla di siti illegali privi di autorizzazione statale per operare in Italia, in particolare quelli del video-poker online, con domiciliazione in un paradiso fiscale e il server provider in qualche sperduto Paese asiatico svincolati da tutte le regole dei vari Stati nazionali. Tra il 2009 e il 2011 il Legislatore si occupa della tutela dei minori di 18 anni, ai quali è vietato giocare d’azzardo ai sensi delle leggi 88/2009 e 98/2011. Queste leggi hanno aumentato le pene nei confronti di coloro che non rispettano le necessarie misure sui divieti imposti per i minorenni, in particolare per i siti internet e i centri di gioco e scommesse. Nel 2012 un decreto legge che prende nome da Renato Balduzzi, all’epoca ministro della salute, si è occupato della dipendenza dal gioco d’azzardo, nota come ludopatia, un disturbo che rientra nella delicata sfera delle competenze psichiatriche.

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Due sono le correnti di pensiero: le persone favorevoli al gioco d’azzardo legale sostengono che vietandolo sarebbe favorita la diffusione di siti non autorizzati e delle sale da gioco clandestine gestite perlopiù dalla criminalità organizzata. I contrari sostengono che la piaga della dipendenza, la ludopatia, può portare alla rovina interi nuclei familiari, al tutto vanno aggiunte le spese non indifferenti a carico del Servizio Sanitario Nazionale per la cura dei giocatori compulsivi.

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È ormai pensiero diffuso che per evitare un male bisogna ricorrere al male dicendo che il male è bene. Chiariamo: la «grande italiana» Senatore Emma Bonino, secondo la infelice definizione pontificia oltre a chiamare l’aborto «grande conquista sociale» e a lamentare al Parlamento Europeo e alla Corte Internazionale di Giustizia la eccessiva presenza di medici obiettori di coscienza nel nostro Paese ― cosa questa che la rende, appunto, una “grande italiana” degna come tale di encomio pontificio ―, sostiene tutt’oggi che l’aborto legalizzato ha debellato quello clandestino, ponendo fine alla piaga delle poverelle che morivano una tantum di setticemia sotto i ferri delle mammane, mentre le ricche andavano nelle cliniche svizzere ad abortire in tutta sicurezza. Perché non applicare la stessa identica logica e affermare che andrebbe legalizzato il femminicidio, o perlomeno depenalizzarlo? Vi pare giusto che un fuori di testa che ammazza una donna debba finire in galera come una volta ci finivano donne e ginecologi che ammazzavano i bambini con l’aborto illegale? Se in galera non ci finisce una madre che uccide il proprio figlio e un ginecologo che come un killer esegue l’assassinio su richiesta, perché deve finirci un uomo che uccide una donna? Al massimo affidiamolo a una istituzione benefica e facciamogli svolgere qualche lavoretto socialmente utile.

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La iperbole è evidente, solo dei ciechi emotivi e degli analfabeti digitali possono non coglierne il senso del tutto provocatorio, paradossale e non ultimo pure grottesco, fraintendendo il chiaro senso e infine accusandomi di avere istigato al femminicidio. E vi posso garantire che non mancheranno questo genere di webeti che leggono solo il titolo e forse il sottotitolo. Non solo perché i webeti non muoiono mai, ma perché se gli fosse anche sparato un colpo di pistola sulla fronte, potete stare certi che il proiettile rimbalzerebbe per andare a uccidere un povero innocente che passava per la strada.

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Questa è però la logica con la quale da decenni, a partire dalla legge sulla legalizzazione dell’aborto, gli italiani sono stati drogati da quel partitino mefistofelico noto come Partito Radicale, la cui logica emotiva è nota: perché costringere una poverella a rischiare la vita sotto i ferri di una mammana, mentre le ricche signore vanno ad abortire in Svizzera? Sì, ma i membri del partitino mefistofelico, in testa a tutti Marco Pannella ed Emma Bonino grande italiana pontificia, non hanno mai risposto a un quesito fondamentale: e chi sarebbe che costringe sia la poverella che la ricca signora a uccidere un essere umano innocente? È forse moralmente lecito, nonché obbligatorio, uccidere le creature innocenti e indifese?  

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Fatto passare questo pensiero ne seguiranno di conseguenza altri. Si sa per esempio che uno dei mestieri più antichi del mondo è la prostituzione. Considerando che non può essere debellata, in tal caso legalizziamola. Altrettanto vale per il consumo delle droghe leggere o pesanti. Una volta legalizzate prostituzione e droga, non avremmo forse tolto alle varie mafie e associazioni criminali un grande giro di affari, sempre secondo il principio dell’aborto legale che avrebbe sconfitto quello clandestino? In fondo è semplice a farsi, basta che lo Stato ― già divenuto ormai infanticida con la legge n. 194 del 1978 ― diventi anche sterminatore di malati terminali, pappone di prostitute, spacciatore di droga e via dicendo a seguire. Altrimenti che genere di Stato civile, che genere di Stato di diritto sarebbe il nostro, qualora negasse il “diritto” a suicidarsi, prostituirsi, drogarsi? In tal modo il male cesserà di essere tale e sarà legalizzato divenendo lecito. Anzi, alle mignotte imporremo l’obbligo di regolare licenza commerciale, daremo loro una partita Iva con aliquota al 22%, l’obbligo di emettere ricevute fiscali cliente dietro cliente e di presentare infine la denuncia dei redditi annuale. Già me le immagino le ricevute delle mignotte con il dettaglio delle prestazioni e relativi prezzi varianti dai rapporti anali sino a quelli sadomaso. Volendo posso immaginare anche la faccia del commercialista, sia della mignotta che del cliente, al quale queste ricevute saranno presentate per la dichiarazione fiscale annuale e da inserire sotto chissà quale voce di deducibilità per il cliente.

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Sarà quindi bene darsi una mossa, in questa italica società cattofobica semi-schiava del Vaticano e per questo lontana dal giungere ai livelli di grande civiltà dei Paesi scandinavi, che da alcuni decenni si disputano col Giappone il felice primato mondiale dei suicidi e del più alto tasso di affetti da sindromi depressive acute.

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Mentre si pensa di ovviare certi problemi con le legalizzazioni, pochi pensano a sostituire il danaro contante con la moneta elettronica, che potrebbe sì portare beneficio fungendo da grande deterrente in un Paese nel quale i dati dell’Istat del 2018 parlano di 110 miliardi di evasione fiscale all’anno, di una economia sommersa pari a 192 miliardi e di attività illegali pari a 19 miliardi. Ovviamente, quello sulle attività illegali è un dato molto approssimativo, perché il giro di affari della criminalità è di parecchio superiore. Con la moneta elettronica che comporta la tracciabilità, come farebbe un puttaniere a pagare una mignotta? Presto detto: o la signora si dota di un improbabile meccanismo per strisciare carte di credito e bancomat tra i seni o tra le natiche, oppure il pagamento sarebbe a dir poco arduo. Altrettanto difficile per un imprenditore delinquente pagare in nero dei lavoratori privi di contribuzioni e coperture assicurative, in un Paese come il nostro dove si registrano di media 3 morti al giorno sul lavoro, secondo i dati statistici del 2019. Altrettanto varrebbe per l’elevato numero di artigiani che nel Meridione d’Italia in modo particolare svolgono attività di muratori, idraulici, elettricisti, antennisti, tecnici informatici … senza risultare in alcun dove come ditte individuali o lavoratori autonomi. E non sono pochi quelli che attualmente stanno pure beneficiando del reddito grillino di cittadinanza, pur mettendosi in tasca alcune migliaia di euro al mese in nero totale senza pagare neppure l’ombra di una tassa o di un contributo. Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo il cittadino li potrebbe pagare? Cosa che vale per l’idraulico come per il libero professionista dalle parcelle salate che sorridente domanda al cliente: «Con o senza fattura?».

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Fatta la legge trovato l’inganno, recita uno dei più noti modi di dire del nostro patrio suol italico. Cosa indubbiamente vera, nella quale noi italiani siamo maestri da sempre. Ci sono però dei limiti anche alla maestria più geniale e fantasiosa: è infatti vero che l’estro truffaldino della macchietta napoletana impersonata da Totò, può anche riuscire a vendere persino la Fontana di Trevi a un turista italo-americano, però neppure il più estroso degli imbroglioni può riuscire a raggirare certe leggi anti-truffa, perché sarebbe come pretendere di riuscire a sfidare le leggi naturali della fisica. Ne sono prova ― per fare un esempio ― gli attuali test per la patente di guida o quelli per l’ammissione alla facoltà di medicina e chirurgia, impossibili da manipolare, perché centralizzati e blindati da un sistema elettronico impenetrabile che rende impossibile poter individuare la persona da favorire per opera del padrino di turno.

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Con la moneta elettronica tracciabile, in che modo uno spacciatore di droga o un ricettatore di merci rubate potrebbe darsi al commercio criminale? Qualcuno pensa che potrebbe rivolgersi all’amico macellaio o al tabaccaio compiacente per farsi strisciare delle transazioni inesistenti con bancomat o carta di credito? E se anche lo facesse, in che modo, il macellaio o l’amico tabaccaio potrebbero dargli poi in cambio moneta contante, stile raggiri sul reddito di cittadinanza, se la carta moneta non c’è e tutto procede unicamente per circuiti elettronici tracciabili?

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Siamo stati capaci a legalizzare l’aborto, siamo in procinto di legalizzare l’eutanasia, abbiamo reso il gioco d’azzardo Monopolio di Stato e non siamo capaci a stroncare evasione fiscale, prostituzione, spacci di droga e giri criminali di vario genere perché a dire di alcuni la moneta elettronica sarebbe una lesione delle libertà individuali e un controllo esercitato sui cittadini molto peggiore di quello del Grande Fratello di George Orwell? Ma siamo veramente una società di schizofrenici borderline!

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Un soggetto contrario alla moneta elettronica mi disse in tono stupidamente provocatorio: «E voi preti, come fareste a prendere le offerte per le chiese, per le attività caritative, per la celebrazione delle Sante Messe e via dicendo?». Risposi: «Semplice, con la moneta elettronica. Anzi, sarebbe più comoda e pratica degli spiccioli che quei grandi pidocchi di molti fedeli mettono nel cesto delle offerte, obbligandoci a dover cambiare in pochi pezzi di carta qualche chilo di monetine da 5, 10, 20 centesimi». E seguitai spiegando che per noi preti, membri di una aggregazione religiosa riconosciuta dallo Stato come istituzione di diritto pubblico, la moneta elettronica, per le offerte e altro, non sarebbe affatto un problema, piuttosto una grande e pratica comodità. Un problema lo sarebbe semmai per i Casamonica che nella Capitale d’Italia gestiscono anche il giro dell’accattonaggio. O qualcuno riesce a immaginare una petulante zingara ― o se preferiamo il linguaggio politicamente corretto una rom ― che scoccia i passanti chiedendo soldi con il pos a portata di mano per le transazioni con bancomat e carta di credito? Nelle nostre chiese potremmo tranquillamente installare un meccanismo elettronico per il versamento e la raccolta delle offerte, come quelli che si trovano in tutti i centri e luoghi in cui si può fare pagamenti self-service. Ma noi siamo un ente di diritto pubblico, non il circuito dell’accattonaggio gestito dal clan dei Casamonica, né siamo dei ricettatori né siamo dei trafficanti di droga.

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Eppure la nostra gloriosa Repubblica il sistema per far pagare le tasse lo ha trovato. Tutto sommato è un sistema più vecchio di quanto si possa immaginare: il gioco del lotto, che agli albori dell’Unità d’Italia un grande statista, il Conte Camillo Benso di Cavour, definì «la tassa dei fessi». Stando infatti ai dati riportati in un libro molto interessante edito nel 2017 e scritto da Giulia Migneco e Claudio Forleo, al quale ne seguì un secondo scritto dagli stessi Autori durante il lockdown da Covid-19, con il gioco d’azzardo legalizzato lo Stato ha incassato nel 2018 l’importo di 105 miliardi di euro. Un importo che per ironia della sorte corrisponde a ciò che l’Istat indica come il volume di evasione fiscale nel nostro Paese, pari a 110 miliardi di euro. Aveva quindi ragione il grande statista dell’Ottocento quando indicò il lotto come «la tassa dei fessi». A posteriori aggiungo: l’italiano si sente così furbo e legittimato a evadere le tasse, sino a non pagare quelle imposte utili a tenere in piedi l’impianto del nostro Stato sociale. Però al tempo stesso è così idiota da correre alla ricevitoria del lotto per pagare la «tassa dei fessi», mettendosi davanti a tutti sul tavolo del bar con la monetina in mano a raschiare un biglietto dietro l’altro di gratta&vinci.

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Alla ludopatia in rapporto alla morale cattolica dedicai anni fa una conferenza su richiesta e invito degli amici del Lions Club. Non ho da aggiungere molto a quanto dissi all’epoca, rimando quindi alla registrazione di questa mia conferenza che potete trovare sul Canale YouTube de L’Isola di Patmos.

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Nelle nostre parrocchie e centri Caritas non poche sono le persone che vengono a chiedere aiuto per generi di prima necessità, o perché in procinto di vedersi staccare la luce o il gas, dopo avere dilapidato stipendi e pensioni nel gioco d’azzardo legalizzato. A molti dei miei confratelli dal cuoricino tenero che più volte mi hanno detto «come si fa a non aiutarli?», ho risposto che dare qualsiasi genere di aiuto a un affetto da ludopatia è come comprare droga a un tossico in crisi di astinenza, come pagare le prestazioni di una prostituta a un sessuomane. Non è carità, ma pura incoscienza. Soprattutto è male che si aggiunge al tanto male che questi soggetti recano a sé stessi e alle proprie famiglie. All’affetto da ludopatia, dopo essersi dissanguato per avere pagato «la tassa dei fessi», bisogna dire in tono severo e quasi sempre a brutto muso: che ti stacchino pure la luce o il gas, che tu abbia pure difficoltà a fare la spesa e a mangiare, non m’interessa e non deve interessarmi, meno che mai impietosirmi. L’unico aiuto che posso darti e che in coscienza sono tenuto a darti, è quello di indirizzarti presso un bravo psichiatra in grado di curarti da questa pericolosa dipendenza.

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È una tristezza immane vedere anziani pensionati uscire dalle tabaccherie con file di gratta&vinci e andare poi poco dopo al centro della Caritas a chiedere un po’ di spesa. Altrettanto triste vedere file di persone, giovani e meno giovani, tra i quali tanti padri e madri di famiglia, bruciare somme di danaro per improbabili sistemi numerici, mentre il mega cartellone riporta scritta a caratteri cubitali la stratosferica somma del monte premi, che alla data odierna è pari a 259.600.000 euro. Cifra di fronte alla quale gli evasori fiscali affetti da ludopatia che giustificano le loro frodi allo Stato riparandosi dietro al dito del «non pago lo stipendio ai politici con le mie tasse», non si rendono neppure conto che le tasse le stanno pagando nel modo peggiore, come dei perfetti fessi, schedina dietro schedina, gratta&vinci dietro gratta&vinci. Oltre al fatto che il tanto recriminato stipendio dei politici, nelle tasche del bilancio generale dello Stato equivale a pochi euro nelle tasche nostre, benché da sempre sia la scusa e il risibile dito dietro il quale si riparano piccoli e grandi evasori fiscali.

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Se il monte premi ha raggiunto quella cifra, qualcuno si è chiesto a quanto ammonta la somma di gran lunga superiore raccolta con le giocate dai Monopoli dello Stato? Non è facile vivere in un Paese nel quale l’aborto è considerato «un diritto acquisito» e una «grande conquista sociale», dove si ritiene che l’eutanasia sia «un atto di umanità verso un povero malato terminale», dove lo Stato lucra sul gioco d’azzardo, al quale da una parte istiga, dall’altra invita a essere cauti perché «il gioco può creare dipendenza». Però, una moneta elettronica tracciabile che darebbe un colpo mortale alla criminalità organizzata, allo spaccio di droga, alla prostituzione, al lavoro nero, all’evasione fiscale e via dicendo a seguire, quella no, perché sarebbe una grave lesione delle libertà personali.

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Il Popolo Italiano ha un concetto molto strano di “diritto” e di “libertà”, istigato com’è a grattare nella speranza di vincere, con uno Stato che si pone la coscienza in pace avvisando che «il gioco può creare dipendenza» e che tra non molto ci regalerà l’eutanasia, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la possibilità dell’adozione dei bimbi alle coppie di gay e di lesbiche, la droga libera e tanti altri meravigliosi diritti legati ad autentiche aberrazioni mutate in bene ai sensi di legge.

 

Dall’Isola di Patmos, 25 agosto 2022

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Emiliano Mandrone, La moneta elettronica per la lotta all’evasione fiscale? in Rivista online Economia e Politica, edizione del 4 novembre 2019

Ardizzi e P. Giucca, Il costo sociale degli strumenti di pagamento in Italia, Temi Istituzionali, Banca d’Italia, 2012.

GrazziniVerso la moneta digitale pubblica: l’audacia di Christine Lagarde e la prudenza di Mario Draghi, Economia e Politica, 2019.

Mandrone, La banda degli onesti che vuole il denaro elettronico, lavoce.info, 2015.

Mandrone, Il ruolo sociale dell’educazione economica, INAPP, 2017.

Realfonzo, 100 miliardi di sotto-investimento pubblico e deficit di competitività. L’Italia ha bisogno di politiche industriali, Economia e Politica, 2019.

K.S. RogoffLa fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante, Il saggiatore, 2017.

Vellutini, G. Casamatta, L. Bousquet, G. Poniatowski, Estimating International Tax Evasion by Individuals, WP No 76, European Commission, 2019.

Anni 2013-2016 l’economia non osservata nei conti nazionali, Statistiche Report, ISTAT, 2018

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Ci sono sacerdoti che propagandano e raccomandano la lettura dell’opera di Maria Valtorta, ignorando che la Chiesa l’ha dichiara fuorviante e pericolosa

CI SONO SACERDOTI CHE PROPAGANDANO E RACCOMANDANO LA LETTURA DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA, IGNORANDO CHE LA CHIESA L’HA DICHIARATA FUORVIANTE E PERICOLOSA

 

L’Opera della Valtorta «fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita “Vita di Gesù malamente romanzata”. Le disposizioni del Decreto del Sant’Offizio vennero ripubblicate con nota esplicativa il 1° Dicembre 1961. Dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava “tutto il suo valore morale” per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu data alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti»

(Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede)

— Attualità ecclesiale—

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il celebre film di fantascienza degli anni Ottanta: E.T. l’extraterrestre, di Steven Spielberg 

Molte persone semplici e in buona fede si sono rivolte ai Padri de L’Isola di Patmos per chiedere notizie sull’opera di Maria Valtorta e per informarci che è stata consigliata loro in lettura da diversi sacerdoti, alcuni dei quali usano i testi di questa fantasiosa Autrice nelle loro catechesi. Cosa molto grave, perché un pastore in cura d’anime non può ignorare che si tratta di scritti ripetutamente condannati e sconsigliati dalla Chiesa. Qualsiasi sacerdote che ne fa uso o che li consiglia in lettura si grava della responsabilità di somministrare veleno al Popolo di Dio.

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Il mio libero giudizio di studioso su Maria Valtorta è pessimo da sempre. Per poco possa valere considero questa Autrice affetta da misticismo strampalato e da megalomania narcisistica. Un libero giudizio basato sulle assurdità di quello che oggi è conosciuto e indicato in modo gravemente improprio come «Il Vangelo di Maria Valtorta».

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Contrariamente a quanti elevano le proprie opinioni e il soggettivo sentire a verità intangibili della fede, per mia impostazione e formazione teologica, giuridica ed ecclesiale, quando esprimo libere opinioni preciso sempre che sono tali e che come tali lasciano il tempo che trovano. A meno che non annunci delle verità di fede, facendomi voce e fedele strumento della Chiesa che mi ha conferito per Sacramento di grazia il mandato a farlo, adempiendo a questo modo a un dovere al quale non posso né devo sottrarmi. In tal caso, al “cattolico d’arrembaggio” che esordisce dicendo «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …» sono tenuto a replicare che è in grave errore, non perché abbia ragione io, ma perché ho annunciato ciò che insegna la Chiesa, chiarendo quelli che sono i suoi giudizi dati, dinanzi ai quali nessun credente che sia veramente tale può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …». Nessun singolo sacerdote e nessun fedele cattolico può né mai dovrebbe osare arrogarsi di dichiarare autentico ciò che la Chiesa ha dichiarato falso o dire impudentemente di credere in ciò al quale la Chiesa ha chiaramente detto che non bisogna credere né prestare fede. Pertanto ribadisco: è gravissimo che dei sacerdoti diffondano e trasmettano gli scritti di Maria Valtorta in aperta disobbedienza a quelli che sono i giudizi decisi e negativi dati dalla Chiesa su questa opera di fantasia, presentandoli come autentici e come opere edificanti per lo spirito dei credenti.

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Piaccia o meno a certi passionari, dichiarare ai fedeli cattolici che quella di Maria Valtorta non è un’opera di mistica e spiritualità ma una colossale bufala contenente gravi deviazioni dottrinali che danno della fede, della Divina Rivelazione e della mariologia una visione a tratti persino grottesca, non è una libera e soggettiva opinione personale, ma il giudizio della Chiesa, al quale sono tenuto a prestare obbediente ossequio e che come presbitero e teologo sono tenuto a trasmettere al Popolo di Dio, invitandolo a prestare ascolto e ossequio al giudizio che l’Autorità Ecclesiastica ha dato.   

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Chiariti questi fondamentali elementi, non sempre facili da far comprendere a coloro che vivono l’esperienza di fede in modo immaturo, soggettivo ed emozionale, lascio adesso parlare i documenti attraverso i quali l’Autorità Ecclesiastica si è espressa nel corso del tempo sull’opera di Maria Valtorta. Pareri chiari e precisi dinanzi ai quali nessun credente, ma soprattutto nessun pastore preposto alla cura e alla guida delle anime, può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

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UNA VITA DI GESÚ MALAMENTE ROMANZATA

L’Osservatore Romano edizione del 6 gennaio 1960

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In altra parte del nostro Giornale è riportato il Decreto del Sant’Offizio con cui viene messa all’Indice un’Opera in quattro volumi, di autore anonimo (almeno in questa stampa) edita all’Isola del Liri. Pur trattando esclusivamente di argomenti religiosi, detti volumi non hanno alcun imprimatur, come richiede il Can. 1385, 1 n.2 del Codex Iuris Canonici. L’Editore, in cui una breve prefazione, scrive che l’Autore «a somiglianza di Dante ci ha dato un’opera in cui, incorniciati da splendide descrizioni di tempi e di luoghi, si presentano innumerevoli personaggi i quali si rivolgono e ci rivolgono la loro dolce, o forte, o ammonitrice parola. Ne è risultata un’Opera umile ed imponente: l’omaggio letterario di un dolorante infermo al Grande Consolatore Gesù». Invece, a un attento lettore questi volumi appaiono nient’altro che una lunga prolissa vita romanzata di Gesù.

A parte la vanità dell’accostamento a Dante e nonostante che illustri personalità (la cui indubbia buona fede è stata sorpresa) abbiano dato il loro appoggio alla pubblicazione, il Sant’Offizio ha creduto necessario metterla nell’Indice dei Libri proibiti. I motivi sono facilmente individuabili da chi abbia la certosina pazienza di leggere le quasi quattromila pagine di fitta stampa. Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine Santissima; dagli interminabili dialoghi tra i molteplici personaggi che popolano quelle pagine.

I quattro Vangeli ci presentano Gesù umile, riservato; i suoi discorsi sono scarni, incisivi, ma della massima efficacia. Invece, in questa specie di storia romanzata, Gesù è loquace al massimo, quasi reclamistico, sempre pronto a proclamarsi Messia e Figlio di Dio e a impartire lezioni di teologia con gli stessi termini che userebbe un professore dei nostri giorni. Nel racconto dei Vangeli noi ammiriamo l’umiltà e il silenzio della Madre di Gesù; invece per l’autore (o l’autrice) di quest’opera la Vergine Santissima ha la facondia di una moderna propagandista, è sempre presente dappertutto, è sempre pronta a impartire lezioni di teologia mariana, aggiornatissima fino agli ultimissimi studi degli attuali specialisti in materia.

Il racconto si svolge lento, quasi pettegolo; vi troviamo nuovi fatti, nuove parabole, nuovi personaggi e tante, tante, donne al seguito di Gesù. Alcune pagine, poi, sono piuttosto scabrose e ricordano certe descrizioni e certe scene di romanzi moderni, come, per portare solo qualche esempio, la confessione fatta a Maria da una certa Aglae, donna di cattivi costumi (cfr. vol. I, p. 790 ss.), il racconto poco edificante a p. 887 ss. del I vol., un balletto eseguito, non certo pudicamente, davanti a Pilato, nel Pretorio (cfr. vol. IV, p. 75), etc…

A questo punto viene, spontanea una particolare riflessione: L’Opera per la sua natura e in conformità con le intenzioni dell’Autore e dell’Editore, potrebbe facilmente pervenire nelle mani delle religiose e delle alunne dei loro collegi. In questo caso, la lettura di brani del genere, come quelli citati, difficilmente potrebbe essere compiuta senza pericolo o danno spirituale. Gli specialisti di studi biblici vi troveranno certamente molti svarioni storici, geografici e simili. Ma trattandosi di un … romanzo, queste invenzioni evidentemente aumentano il pittoresco e il fantastico del libro. Ma, in mezzo a tanta ostentata cultura teologica, si possono prendere alcune … perle che non brillano certo per l’ortodossia cattolica. Qua e là si esprime, circa il peccato di Adamo ed Eva, un’opinione piuttosto peregrina e inesatta. Nel vol. I a pag. 63 si legge questo titolo: «Maria può essere chiamata la secondogenita del Padre». Affermazione ripetuta nel testo alla pagina seguente. La spiegazione ne limita il significato, evitando un’autentica eresia; ma non toglie la fondata impressione che si voglia costruire una nuova mariologia, che passa facilmente i limiti della convenienza.

Nel II vol. a pag. 772 si legge: «Il Paradiso è Luce, profumo e armonia. Ma se in esso non si beasse il Padre, nel contemplare la Tutta Bella che fa della Terra un paradiso, ma se il Paradiso dovesse in futuro non avere il Giglio vivo nel cui seno sono i Tre pistilli di fuoco della divina Trinità, luce, profumo, armonia, letizia del Paradiso sarebbero menomati della metà». Qui si esprime un concetto ermetico e quanto mai confuso, per fortuna; perché se si dovesse prendere alla lettera, non si salverebbe da severa censura.

Per finire, accenno a un’altra affermazione strana e imprecisa, in cui si dice della Madonna: «Tu, nel tempo che resterai sulla Terra, seconda a Pietro come gerarchia ecclesiastica …».

L’Opera, dunque, avrebbe meritato una condanna anche se si fosse trattato soltanto di un romanzo, se non altro per motivi di irriverenza. Ma in realtà l’intenzione dell’autore pretende di più. Scorrendo i volumi, qua e là si leggono le parole «Gesù dice…», «Maria dice…»; oppure: «Io vedo…» e simili. Anzi, verso la fine del IV volume (pag. 839) l’autore si rivela un’autrice e scrive di essere testimone di tutto il tempo messianico e di chiamarsi Maria. Queste parole fanno ricordare che, circa dieci anni fa, giravano alcuni voluminosi dattiloscritti, che contenevano pretese visioni e rivelazioni. Consta che allora la competente Autorità Ecclesiastica aveva proibito la stampa di questi dattiloscritti e aveva ordinato che fossero ritirati dalla circolazione. Ora li vediamo riprodotti quasi del tutto nella presente Opera. Perciò questa pubblica condanna della Suprema Sacra Congregazione è tanto più opportuna, a motivo della grave disobbedienza.

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RISPOSTA DEL PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE A UNA RICHIESTA DI PARERE SULL’OPERA DI MARIA VALTORTA

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Roma, 31 gennaio 1985 – Prot. n. 144/58

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A Sua Eminenza Reverendissima

Giuseppe Cardinale Siri

Arcivescovo metropolita di Genova

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il Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Con lettera del 18 maggio, il Reverendo Padre Umberto Losacco, Cappuccino, chiedeva a questa Sacra Congregazione una chiarificazione circa gli scritti di Maria Valtorta, raccolti sotto il titolo: Il Poema dell’Uomo-Dio e se esisteva una valutazione del Magistero della Chiesa sulla pubblicazione in questione con il riferimento bibliografico. In merito mi pregio significare all’Eminenza Vostra – la quale valuterà l’opportunità di informare il Reverendo Padre – che effettivamente l’Opera in parola fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita da L’Osservatore Romano del 6 gennaio 1960 «Vita di Gesù malamente romanzata». Le disposizioni del Decreto vennero ripubblicate con nota esplicativa ancora su L’Osservatore Romano del 1° Dicembre 1961, come rilevabile dalla documentazione qui allegata. Avendo poi alcuni ritenuto lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto, dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice, sempre su L’Osservatore Romano (15 giugno 1966) si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava «tutto il suo valore morale» per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu decisa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti.

Grato di ogni Sua cortese disposizione in proposito, profitto dell’occasione per confermarmi con sensi di profonda stima dell’Eminenza vostra reverendissima.

Dev.mo

XJoseph Cardinale Ratzinger

Prefetto

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MESSAGGIO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA ALL’EDITORE DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA

Roma, 6 Maggio 1992 – Prot. N. 324/92

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All’Attenzione del

Centro Editoriale Valtortiano

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Stimatissimo Editore,

il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo metropolita di Milano, all’epoca Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana

in seguito a frequenti richieste, che giungono anche a questa Segreteria, di un parere circa l’atteggiamento dell’Autorità Ecclesiastica sugli scritti di Maria Valtorta, attualmente pubblicati dal Centro Editoriale Valtortiano, rispondo rimandando al chiarimento offerto dalle Note pubblicate da L’Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 e il 15 giugno 1966.

Proprio per il vero bene dei lettori e nello spirito di un autentico servizio alla fede della Chiesa, sono a chiederLe che, in un’eventuale ristampa dei volumi, si dica con chiarezza fin dalle prime pagine che le visioni e i dettati in essi riferiti non possono essere ritenuti di origine soprannaturale, ma devono essere considerati semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a suo modo, la vita di Gesù.

Grato per questa collaborazione, Le esprimo la mia stima e Le porgo i miei rispettosi e cordiali saluti.

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XDionigi Tettamanzi, vescovo

Segretario Generale della C.E.I.

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Chiarito e documentato il tutto concludo ribadendo che dinanzi a questi chiari, precisi e decisi pareri dati dall’Autorità Ecclesiastica, nessun fedele cattolico, ma soprattutto nessun presbitero preposto alla cura e alla guida delle anime, dovrebbe mai osare replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

Dall’Isola di Patmos, 20 agosto 2022

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Proclamare nuovi dogmi è più grave che de-costruire i dogmi di fede. Maria corredentrice? Una idiozia teologica sostenuta da chi ignora le basi della cristologia

PROCLAMARE NUOVI DOGMI È PIÙ GRAVE CHE DE-COSTRUIRE I DOGMI DI FEDE. MARIA CORREDENTRICE? UNA IDIOZIA TEOLOGICA SOSTENUTA DA CHI IGNORA LE BASI DELLA CRISTOLOGIA

 

La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini. Qualcuno è disposto a credere veramente che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

— Theologica —

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«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica» (Bolla dogmatica Munificentissimus Deus, 1° novembre 1950)

Con la bolla dogmatica Munificentissimus Deus il Pontefice Pio XII proclamò il 1° novembre 1950 il dogma della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria, la cui festa solenne è celebrata il 15 agosto. Con l’occasione offro una riflessione teologica a tutti coloro che strepitano per la proclamazione del dogma di Maria corredentrice, partendo da una domanda: è più grave mettere in discussione e de-costruire i dogmi della Santa Fede Cattolica, o più grave proclamare dei nuovi dogmi? Indubbiamente è più grave la seconda cosa, chi sbagliando e seminando confusione tra il Popolo di Dio mette in discussione i dogmi attraverso la rilettura e la reinterpretazione, sino a giungere alla loro de-costruzione, non è detto sia animato da intenzioni maligne, il tutto può essere anche frutto di quella cattiva formazione teologica trasmessa ormai da oltre mezzo secolo a generazioni di presbiteri e teologi. Molti sono i miei confratelli che usciti preti dai nostri disastrati seminari e abbeveratisi al meglio delle eterodossie insegnate dentro le università ecclesiastiche, sono realmente convinti che il male sia bene, che il vizio sia virtù, che l’eresia sia ortodossia e che l’ortodossia sia eresia. Non pochi, indotti a ragionare, sono giunti ad ammettere di avere ricevuto una pessima formazione teologica e una pessima formazione al sacerdozio, cercando quasi sempre con fatica e sacrificio di porvi rimedio. Coloro che invece nulla di questo ammetterebbero mai, malgrado le loro inquietanti lacune, li stiamo vedendo diventare vescovi uno dietro l’altro.

Chi proclama dogmi che non esistono compie un errore maggiore, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono e non possono esistere, in quel caso siamo nel diabolico, perché entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore: la superbia intellettuale. L’ho scritto e spiegato in precedenza ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria – che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto – l’intero mistero del male, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa [Vedere Catechismo n. 1866].

Parto quindi con un esempio avente per oggetto i cosiddetti Soliti Noti, coloro che appena sentono il suono del magico latinorum perdono ogni senso della ragione e ogni genere di senso critico, col conseguente totale stravolgimento della realtà oggettiva. Ecco allora che S.E. Mons. Mario Oliveri, Vescovo emerito di Albenga, a loro difensivo dire non è stato affatto rimosso dalla sua sede episcopale in quanto responsabile ― in parte anche involontario ―, per avere ridotta una diocesi a un autentico lupanare, a un centro di raccolta per omosessuali palesi sbattuti fuori per gravi problemi morali da uno o anche da più seminari, sino a ritrovarsi con un numero considerevole di preti incontrollabili dediti a ogni genere di vizio e a raggiri patrimoniali utili al mantenimento dei loro vizi. Nulla di tutto questo salta minimamente agli occhi dei Soliti Noti, che imperterriti e ostinati proseguono ad affermare e scrivere che il povero Presule è stato perseguitato dalla «Chiesa modernista» perché amava il Vetus Ordo Missae, usava mitrie gemmate alte settanta centimetri e distribuiva la Santa Comunione all’inginocchiatoio sotto il baldacchino sorretto dai cavalieri in frac.

Altrettanto è accaduto ― affermano i Soliti Noti ―, ai membri della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata, non solo puniti a loro dire per avere organizzato convegni in critica a Karl Rahner, per avere indicata la pericolosità del Modernismo e della Massoneria; ma perseguitati soprattutto perché celebravano anch’essi ― manco a dirsi ― col Vetus Ordo Missae.

Sulle colonne della nostra rivista L’Isola di Patmos l’accademico pontificio domenicano Giovanni Cavalcoli e io, in seguito il teologo cappuccino Ivano Liguori e il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci abbiamo scritto nel corso degli anni su Karl Rahner, sul Modernismo e i Modernisti, sulla Massoneria e via dicendo, in toni molto critici e duri. Non ci siamo neppure limitati a sparare a raffica, abbiamo proprio esploso ripetuti colpi di mortaio pesante, con una severità assai superiore rispetto a quella usata nei passati convegni promossi dai Francescani dell’Immacolata. Dovreste pertanto domandarvi: perché non ci hanno ancora commissariati? Perché, pur avendo accusato duramente Karl Rahner indicandolo come la fonte originante tutte le eresie di ritorno che invadono oggi la Chiesa, i seminari e le università pontificie, nessuna Autorità Ecclesiastica ci ha mai rivolto alcun sospiro e meno che mai richiami?

Quando alcuni anni fa ebbi a parlare con uno tra i più insigni mariologi dei Frati Francescani dell’Immacolata, rimasi molto colpito dal suo fanatismo madonnolatrico, a seguire dalla sua superbia, perché egli dava già per proclamato il dogma di Maria Corredentrice. Di conseguenza, all’interno di quella Congregazione, il mai proclamato dogma di Maria Corredentrice era di fatto già iscritto nel depositum fidei con tanto di teologia e di culto promosso e diffuso. Il tutto nella completa indifferenza che tutti i Pontefici del Novecento, inclusi quelli particolarmente devoti alla Beata Vergine Maria, pure se supplicati più volte in tal senso non vollero mai prendere in considerazione la possibile proclamazione di questo nuovo dogma mariano. Tra costoro basti citare il Santo Pontefice Pio X, il Venerabile Pontefice Pio XII, il Santo Pontefice Paolo VI e il Santo Pontefice Giovanni Paolo II che l’emblema della Beata Vergine lo aveva voluto inciso sul proprio stemma pontificio, tanto era devoto alla Mater Dei, infine il Venerabile Pontefice Benedetto XVI, che in sua veste di teologo spiegò e chiarì con la timida mitezza ― forse anche eccessiva ― che lo ha sempre caratterizzato, che già il solo termine “corredentrice” creava problemi sul piano teologico con la cristologia.

Il Pontefice regnante ― che timido e mite non lo è ― si è espresso per tre volte [1] su questo tema ribadendo un secco e deciso no:

«La Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere quasi-redentrice o di essere co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia» [2].

La reazione dei Soliti Noti più radicali non si è fatta attendere: hanno accusato il Sommo Pontefice di essere un blasfemo e un bestemmiatore (!?). A maggior ragione è bene chiarire: se porre in discussione il dogma della immacolata concezione e della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria è sbagliato ed eretico, per altro verso, promulgare il dogma di Maria corredentrice e agire di conseguenza, sino a diffonderne in modo impudente la teologia, è cosa di gran lunga più grave. Poi, se a fronte di queste e altre cose interviene a un certo punto la Santa Sede, inutile gridare «alla persecuzione del Vetus Ordo Missae!». Perché se vogliamo essere obbiettivi e applicare anzitutto criteri di aequitas unitamente al senso delle proporzioni, in modo del tutto ragionevole possiamo affermare che prima di calare la scure sui poveri Francescani dell’Immacolata andavano duramente colpiti i Gesuiti e assieme a loro svariati altri ordini storici e congregazioni con problemi interni assai più gravi, ma soprattutto responsabili di diffondere da decenni in modo pericoloso ― come nel caso dei Gesuiti ―, un pensiero palesemente non cattolico. Cosa questa di cui non possono essere accusati i Francescani dell’Immacolata. Se infatti questi giovani e semplici fratacchioni allevati da Padre Stefano Maria Manelli hanno errato, ciò è avvenuto per gran parte in buonafede e anche per non poca ignoranza, animati indubbiamente da tutte le migliori intenzioni interiori ed esteriori, da amore per la verità e da autentica venerazione alla Santa Chiesa di Cristo.

I Gesuiti e i membri di altre aggregazioni religiose che diffondono le peggiori teologie distruttive, possono essere duramente criticati per il modo in cui de-costruiscono o aggiornano i dogmi della fede, ma i Francescani dell’Immacolata che hanno proclamato nei concreti fatti un dogma mariano dandolo per esistente e istituendo il culto a Maria corredentrice, sul piano teologico hanno commesso un errore parecchio più grave, sostituendosi a questo modo alla più alta e suprema Autorità della Chiesa. E non si obbietti, come fanno i digiuni totali di teologia che presumono per questo di poter dissertare nelle più delicate sfere della dogmatica: «… ma San Luigi Maria Grignion de Montfort nel suo Trattato sulla vera devozione ha scritto che … ma la Madonna di Amsterdam in una rivelazione privata ha chiesto che … la tal mistica e la tal veggente hanno detto che in una rivelazione privata la Madonna gli ha chiesto che …».

La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini che rendono taluni soggetti parecchio arroganti e difficilmente gestibili per noi preti e per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con la loro ignoranza. Eppure la risposta è semplice: qualcuno è disposto a credere che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

Il termine stesso di corredentrice è in sé e di per sé una solenne idiozia teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici. Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa, la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci.

Già questo dovrebbe bastare a chiudere un discorso del tutto improponibile sul piano teologico come quello di Maria corredentrice. Una autentica idiozia teologica di cui possono nutrirsi soltanto gli ignoranti arroganti e i madonnolatri ignari di che cosa sia la vera devozione alla Beata Vergine, ma soprattutto quale è il vero ruolo affidato da Dio alla Piena di Grazia nella economia della salvezza.

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dall’Isola di Patmos, 15 agosto 2022

Assunzione al cielo della Beata Vergine Maria

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Note

[1] Cfr. 12 dicembre 2019 omelia alla Santa Messa nella festa della Madonna di Guadalupe; 30 aprile 2020, Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae; 24 marzo 2021, nel discorso durante l’udienza generale.

[2] Cfr. Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae.

 

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La «Chiesa cattolica apostolica». Quante parole usiamo e recitiamo senza conoscerne il significato? Alle radici del concetto di «Apostolica»

—  Theologica —

LA «CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA». QUANTE PAROLE USIAMO E RECITIAMO SENZA CONOSCERNE IL SIGNIFICATO? ALLE RADICI DEL CONCETTO DI «APOSTOLICA»

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede. Dunque ultima, ma non per questo ultima quanto a importanza, la nota dell’apostolicità ecclesiale getta un ponte fra l’aspetto personale e comunitario della fede. Tale connotazione, infatti, descrive la fondazione della comunità dei credenti, in un triplice senso:

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  1. La Chiesa è costruita sul fondamento degli apostoli [Ef 2,20], i testimoni scelti e mandati in missione direttamente da Cristo,
  2. Essa custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito Santo che la inabita dall’interno, l’insegnamento di Cristo, il buon deposito della fede e le sane parole udite dagli Apostoli;
  3. «Fino al ritorno di Cristo, la Chiesa continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, coadiuvato dai sacerdoti e unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa» [ CCC n. 857].

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In estrema sintesi questi tre punti offrono una visione di insieme sulla apostolicità della Chiesa Cattolica. Adesso li vedremo analiticamente, a partire dalla Sacra Scrittura dove troviamo dei chiari riferimenti alla presenza e alla scelta di Gesù dei Dodici Apostoli:

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«Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità» [Mt 10, 1-4]. I nomi dei Dodici Apostoli sono questi: il primo, Simone detto Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo d’Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, quello stesso che poi lo tradì.

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Prosegue l’Evangelista:

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«Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni [Mc 3, 13].

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E ancora:

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«In quei giorni egli andò sul monte a pregare, e passò la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» [Lc 6, 12].

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I Dodici Discepoli vengono chiamati apostoli, dal greco ἀπόστολοι (apòstoloi), in ebraico שלוחים (shelichim, plurale di שליח, shaliach, che in entrambe queste lingue significa alla lettera: inviati, perché tramite il loro ministero Gesù continua la sua missione. Nell’accogliere i dodici, si accoglie tutta la persona di Cristo, come leggiamo in «Chi accoglie voi, accoglie me» [Mt 10, 40]. Cristo sceglie proprio Dodici Apostoli. Il numero di dodici simboleggia l’universalità e richiama alle Dodici Tribù d’Israele. La novità maggiore nella sequela di Cristo, consiste non tanto nel numero, quanto nel fatto che è il maestro a scegliere i discepoli: mentre in genere nell’antichità erano i discepoli a scegliere il maestro da cui attingere insegnamenti per la vita spirituale. Dopo averli scelti, Gesù li manda a predicare prima in tutta la terra di Israele e poi successivamente ai pagani (definiti le genti o i gentili). In tal modo essi iniziano a tramandare e trasmettere l’insegnamento autentico di Cristo. A questo modo Gesù forma quindi un collegio, cioè un gruppo stabile di inviati con la missione permanente di trasmettere il suo messaggio e che ha per capo l’Apostolo Pietro. Nello svolgersi di questa missione, lo Spirito Santo dona agli apostoli tutti i mezzi e la forza necessaria che gli occorre, tramite una grazia molto speciale: essi perciò hanno gli stessi poteri di Cristo: gli inviati sono dunque in grado di annunciare e propagare i divini misteri, di perdonare e rimettere i peccati e di guarire e scacciare i demoni. Inoltre lo Spirito Santo gli dona l’intelligenza per approfondire, meditare e meglio annunciare il mistero di Cristo.

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All’interno del gruppo degli apostoli, abbiamo visto che la presenza della figura di Simon Pietro. Egli è investito di un ruolo speciale: è incaricato da Cristo come principio di unità e comunione della fede; egli è perciò capo visibile della Chiesa; gli apostoli devono essere in comunione con lui e sotto di lui per quanto riguarda la dottrina di Cristo: ciò come vedremo si applicherà anche al successore di Pietro, il papa, e ai vescovi che gli sono in obbedienza: cum Petro e sub Petro (con Pietro e sotto Pietro)

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Approfondiamo allora la figura di Pietro: egli è incaricato da Cristo ad una missione speciale. Essa è descritta in un passo molto importante del Vangelo:

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«Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”». [Mt 16, 16-18].

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Simone, a cui Gesù ha cambiato nome in Pietro, è il primo e unico a riconoscere che Cristo è il figlio di Dio, del Dio vivente. Egli ha dunque “anticipato” gli altri apostoli in questo atto di fede: perciò viene posto da Gesù capo del collegio apostolico. Tre poteri molto speciali sono donati a Pietro, che gli altri apostoli non posseggono: innanzitutto lui non verrà mai meno, perché Pietro è la pietra visibile e stabile della comunità dei credenti; in secondo luogo, egli ha il potere delle chiavi del Regno e, terzo, il potere di sciogliere e legare. Con questo intendiamo:

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«Il potere delle chiavi designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesú, il Buon Pastore [Gv 10, 11], ha confermato tale incarico dopo la risurrezione: «Pasci le mie pecorelle» [Gv 21, 15-17]. Il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesú ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [cfr. Mt 18,18] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno» [cfr. CCC n. 553].

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Tradizionalmente sappiamo che Pietro è stato martirizzato a Roma nel 64 dopo Cristo sul Colle Vaticano. In precedenza, era stato imprigionato presso il carcere Mamertino, molto vicino al Campidoglio. Pietro dunque, essendo capo degli apostoli, nel suo martirio presso Roma testimonia anche il primato della sede romana rispetto alle altre comunità di credenti. Un primato che non è di dominio e despotismo, ma di servizio e di coordinamento di tutte le altre diocesi e chiese sparse per il mondo. Anticipiamo sin da ora un concetto importante: il primato petrino non vuole sminuire la collegialità, la sinodalità e l’opera comune e comunitaria: anzi Pietro e i suoi successori sono chiamati a garantire e a conferire la dignità e autorità di tutti gli apostoli e i loro successori, i vescovi. Come infatti vedremo fra poco i vescovi sono i successori degli Apostoli. Chiariamo allora che i successori di Pietro sono coloro posti a capo della Diocesi di Roma, o appunto i vescovi di Roma. Storicamente, il vescovo di Roma, è chiamato con una serie di nomi: Pontefice Massimo, Augusto Pontefice, Sua Santità, Santo Padre, Beatissimo Padre, o con quello più noto di Papa, che secondo una teoria storica sarebbe l’abbreviazione di pastor pastorum, pastore di tutti i pastori, o pater pauperum, padre dei poveri.

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Tornando all’analisi delle figure degli apostoli, sappiamo che tutti gli apostoli, ad eccezione di Giovanni, morto in età molto avanzata, verranno martirizzati durante le loro missioni in Oriente e nel territorio dell’Impero Romano. Anche dal martirio degli apostoli, troviamo conferma che lo scopo della fondazione e della presenza apostolica è quello di portare tutta la comunità ad un fine escatologico e di santità; tutta l’opera apostolica ha la finalità di condurre tutti al regno di Dio.

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Considerando che gli apostoli e i loro primi successori (padri apostolici) morivano martiri, era necessario che il messaggio di Gesù venisse comunque trasmesso: per questo scelsero dei successori per perpetuare la missione di Cristo. Quindi conferirono l’Ordine Sacro dell’Episcopato, consacrandoli quali episcopi (vescovi), con mandato a proseguire la missione apostolica come successori degli Apostoli. In questo senso diremo anche che la Chiesa riceve la professione della fede dagli apostoli medianti i successori di coloro che furono primi aderenti al movimento gesuano.

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Adesso cerchiamo di capire perché i vescovi, ricevendo l’Ordine Sacro, divengono i successori ufficiali degli Apostoli. Se leggiamo in Atti degli Apostoli [cfr. 6, 26] troviamo che gli stessi apostoli si diedero innanzitutto dei successori con il compito di proseguire e consolidare l’opera di evangelizzazione iniziata dagli Apostoli. Quest’opera è chiamata la Traditio da due antichi scrittori della cristianità, Tertulliano e Ireneo di Lione. La Traditio dal latino viene dal verbo tradere e implica l’azione del tramandare e trasmettere la fede predicata dagli Apostoli; perciò i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori e guide della comunità ecclesiale. Questo passaggio di consegne avviene in un atto ben preciso. Dunque, la trasmissione apostolica, si conferisce tramite la ricezione del Sacramento dell’Ordine, attraverso la consacrazione episcopale.

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Chiariamo questo passaggio dell’ordinazione dei vescovi. Cristo istituì i Sacramenti, che non sono nati dalla creatività umana, sono tutti racchiusi nella Rivelazione e nei Vangeli. Questo al fine di chiarire per inciso che certe correnti del Cristianesimo non cattolico, insegnando che i Sette Sacramenti, o parte di essi, sono solo una creazione umana avvenuta in epoca successiva all’Imperatore Costantino, a partire dal IV secolo a seguire, sono in palese errore, perché tutti i Sacramenti sono di istituzione divina. Tra i Sette Sacramenti c’è il Sacramento dell’Ordine Sacro, che è unico, ma diviso al proprio interno in tre gradi: episcopato (o pienezza del sacerdozio apostolico), presbiterato e diaconato. Coloro che ricevono questo Sacramento, nel loro singolo e personale ministero sono chiamati alla missione di condurre tutta la Chiesa al bene comune e alla Santità. È dunque un compito, ad un tempo singolare e allo stesso tempo comunitario. L’azione del conferire l’Ordine Sacro è detta ordinazione: in essa è Gesù che, agendo in persona Christi tramite un vescovo, ordina un sacerdote e lo consacra vescovo: dunque conferisce al presbitero la pienezza del sacerdozio apostolico per portare avanti tale missione. L’episcopato è quindi la pienezza del sacramento dell’Ordine perché contiene la sorgente stessa da cui derivano i tre gradi del Sacramento dell’Ordine stesso. Il vescovo infatti è anche colui che ordina i diaconi e i sacerdoti, e appunto come detto precedentemente, ordina un sacerdote a diventare vescovo.

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Sinteticamente diremo che la linea di successione prevede che un apostolo, ricevuti i pieni poteri da Cristo per trasmettere il suo insegnamento e per amministrare tutti i Sacramenti, ha ordinato un padre apostolico, conferendogli medesimi poteri e missione; a sua volta il padre apostolico ha ordinato un vescovo, per gli stessi scopi. Questo vescovo, a sua volta, ha ordinato un altro vescovo e nel corso della storia, nell’ordinare in successioni tutti i vescovi, si è giunti fino ad oggi. Il tutto viene definito: successione apostolica.

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La trasmissione del mandato di trasmettere e amministrare i Sacramenti a molteplici vescovi sparsi per il mondo, come molteplici in origine erano gli apostoli, mostra che la Chiesa ha natura apostolica, dunque collegiale e comunitaria. La collegialità e apostolicità dei Vescovi implica da un lato l’unità fra il Papa e i Vescovi perché il Collegio Episcopale è legato al suo capo visibile. Il Sommo Pontefice non è tiranno ma garante del ministero stesso dei Vescovi. Infatti egli è garante dell’Unità del corpo ecclesiale ed è il fondamento visibile materiale concreto dell’Unità ecclesiale (Collegialità = elemento di unione nella distinzione).

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Dall’altro lato, la collegialità dei Vescovi implica che tale Collegio ha un alto grado di autorità sulla Chiesa intera. Le singole diocesi collaborano fra di loro, ogni vescovo può prendere delle decisioni sui fedeli che gli sono affidati senza chiedere sempre e comunque l’autorizzazione alla Sede di Roma. Inoltre, i vescovi, collaborano attivamente fra loro e con il Romano Pontefice in alcuni momenti speciali: nei sinodi o, ad esempio, in un concilio ecumenico. Un sinodo o concilio convocati dai vescovi è accettato e confermato dal Romano Pontefice, ma guidato collegialmente: perciò anche queste riunioni ecclesiali non sono mai portate avanti dal Romano Pontefice da solo, al quale però solo spetta, alla fine, decidere.

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Ora abbiamo capito in che modo il Vescovo di Roma e i Vescovi del mondo, in quanto successori degli Apostoli hanno ricevuto il mandato di Cristo. Diremo che in tale mandato essi si sono impegnati specificamente in tre compiti specifici rispetto al popolo di Dio: questi compiti prendono nome di munera (da latino dovere, compito e anche dono) e sono il munus docendi, il munus sanctificandi e il munus regendi / gubernandi.

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Munus docendi è il dovere di insegnare, trasmettere l’insegnamento di Cristo; è detto anche il magistero ordinario del vescovo. Questo magistero / insegnamento è concretizzato dal vescovo quando insegna con autorità, che deriva da Cristo, e si attua quando il vescovo insegna concretamente nelle materie di dottrina e di morale e tali insegnamenti sono in comunione con il Sommo Pontefice e la Chiesa Universale. Questo è magistero di origine divina; quindi il munus docendi è primo compito del vescovo e concretamente con esso si intende di predicare di insegnare queste verità ai fedeli. I fedeli, da parte loro, sono chiamati ad ascoltare in obbedienza attiva con un’adesione filiale sincera al loro vescovo anche ponendo delle domande, dei dubbi e dei chiarimenti per comprendere meglio questi insegnamenti, per approfondire la dottrina e viverla meglio.

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Con munus sanctificandi: si indica il dovere di condurre alla Santità tutto il popolo di Dio. Il vescovo è l’economo, cioè colui che distribuisce in parti uguali la grazia di Cristo e dello Spirito Santo nella Chiesa; ciò avviene nella amministrazione dei Sacramenti e ancora più in particolare nella celebrazione eucaristica, dove è l’Eucaristia che fa la Chiesa, la santifica e la unisce nella cattolicità; dunque la presenza vera, reale, sostanziale di Cristo nelle specie del pane e del vino rende uniti tutti i fedeli (clero e fedeli); allo stesso tempo è la Chiesa che fa l’Eucaristia, dunque la Chiesa che  la amministra e la celebra.

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Con munus regendi/ gubernandi si indica il dovere dei vescovi di reggere e governare le singole Chiese locali o le diocesi; esse hanno una loro giurisdizione propria viene esercitata per sé da ogni vescovo in modo ordinario. Con questo si intende che il potere Divino che ogni vescovo possiede in modo immediato non prevede l’obbligatoria delegazione ad altre persone: a livello concreto, però, i vescovi possono comunque stabilire di nominare dei mediatori e delegati per gestire al meglio il territorio, per esempio sacerdoti che svolgono il ruolo vicari episcopali, foranei, giudiziali e che dunque esercitano varie mansioni nel nome del vescovo.

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In conclusione questi tre munera /doveri vengono attuati mediante l’ausilio dei presbiteri o i sacerdoti, che pur non avendo la pienezza dell’ordine sacro come il vescovo, anche loro partecipano e sono corresponsabili dei tre munera. Il munus docendi ad esempio quando essi predicano, insegnano e governano il popolo di Dio, specialmente nella parrocchia. Qui il parroco è anche colui che accompagna e dunque governa il Popolo di Dio alla santità (esercizio del munus gubernandi); infine il sacerdote celebra il culto quindi amministra i Sacramenti e prega per i bisogni del Popolo e allo stesso tempo anche amministra il Sacramento della confessione (esercizio del munus sanctificandi).

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Volendo anche analizzare sinteticamente il primo grado dell’ordine, possiamo velocemente descrivere l’attività dei diaconi. Anch’essi rientrano nella gerarchia ecclesiale perché sono chiamati al servizio: diàconos è parola greca traducibile con servitore. Rientrano ancora nell’apostolicità della Chiesa, perché sono assistenti alla liturgia, possono avere i compiti catechetici e para liturgici, sebbene il loro compito principale, la loro vocazione non è la chiamata ad amministrare i Sacramenti allo stesso modo dei presbiteri. I diaconi partecipano dell’apostolicità in quanto sono chiamati al servizio, specialmente le opere di carità, la gestione di attività amministrative della Chiesa. In qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.  qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.

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Roma, 18 gennaio 2022

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Per chi volesse approfondire il tema consiglio la lettura di questi libri:

Catechismo della Chiesa Cattolica, 553; 857 – 865.

Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,18 – 23.

  1. McDowell, The fate of the apostles. Examining the martyrdom accounts of the closesest followers of Jesus, Routledge, 2016.
  2. Virgili, La resurrezione di Gesù, Crocevia, Amazon publishing, 2020.

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Lezione quasi certamente inutile per certi cattolici autodidatti sulla laicità dello Stato: il concetto di Diritto Naturale dei neoscolastici redivivi, oltre a non servire Dio e la verità, è in radicale conflitto con i due fondamenti della creazione dell’uomo: libertà e libero arbitrio

— Theologica —

LEZIONE QUASI CERTAMENTE INUTILE PER CERTI CATTOLICI AUTODIDATTI SULLA LAICITÀ DELLO STATO: IL CONCETTO DI DIRITTO NATURALE DEI NEOSCOLASTICI REDIVIVI, OLTRE A NON SERVIRE DIO E LA VERITÀ, È IN RADICALE CONFLITTO CON I DUE FONDAMENTI DELLA CREAZIONE DELL’UOMO, LIBERTÀ E LIBERO ARBITRIO

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Per noi uomini di fede, ragione e scienza è indubitabile che Dio ha instillato nel cuore dell’uomo il senso naturale del bene e del male, quindi i fondamenti di quelle leggi che in modo forse improprio, ma corretto, sono definiti come Legge Naturale. Il problema subentra al momento in cui si cerca di mutare la Legge Naturale o Legge Divina in Legge Positiva, in Leggi dello Stato che vincolano tutti i consociati. Perché a quel punto il peccato diventa reato, con conseguenze devastanti e assolutamente non auspicabili.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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L’indovino Tiresia e il Cristianesimo: la realtà della disabilità, tra gioia e speranza

—  Theologica —

L’INDOVINO TIRESIA E IL CRISTIANESIMO: LA REALTÀ DELLA DISABILITÀ, TRA SPERANZA E GIOIA

La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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Ulisse e l’indovino Tiresia

Uno dei temi forti che coinvolgono molto a livello emotivo e intellettuale ogni fedele, dal singolo credente, al sacerdote, dall’uomo di cultura al teologo, è certamente il tema della disabilità. A essere precisi non esiste la disabilità in astratto, ma esistono persone con disabilità fisiche o mentali, che possono essere congenite, innate o acquisite.

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Vorrei abbozzare delle riflessioni biblico-teologiche sul tema della disabilità. Sono consapevole, insieme a tutta la tradizione cristiana, che il mistero del male e della sofferenza umana rimane mistero e non può mai essere dischiuso completamente. Però può essere contemplato, scrutato con occhio di fede, speranza e di carità e essere inserito nel piano più alto e più grande del Piano di Dio.

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In questo articolo faremo innanzitutto alcune considerazioni storiche su uno dei più noti e antichi disabili della storia, l’indovino Tiresia. Successivamente, ci sposteremo sul tema della sofferenza nell’ambito cristiano.

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UN DISABILE NOTO ALL’ANTICHITA’. TIRESIA, INDOVINO CIECO.

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La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema. Tanto che recentemente si è lasciata interrogare dalla disabilità, provando a costruirne una riflessione. Anzitutto vorrei segnalare il testo di Gian Antonio Stella: DiversiLa lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, recentemente edito dal noto giornalista del Corriere della Sera. Con un taglio giornalistico, Stella cerca di fare un excursus a partire da diverse figure storiche di persone con disabilità che hanno davvero proposto la loro esperienza innovativa per il tempo della storia in cui hanno vissuto. Non vorrei soffermarmi su questo testo però [1].

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Da qualche tempo la cultura siciliana ha perso uno dei suoi scrittori più fecondi, Andrea Camilleri. Quasi come un testamento, insieme ad alcuni libri ora in uscita, l’autore di Porto Empedocle, noto per aver creato il personaggio del commissario Montalbano, ha pubblicato un testo intitolato Conversazioni su Tiresia. Si tratta di un piccolo libriccino che riporta fedelmente il testo dello spettacolo omonimo andato in scena lo scorso giugno 2018 e interpretato dallo stesso Camilleri.

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Il tema centrale del testo, come dice il titolo, è la figura dell’indovino Tiresia. Figura leggendaria, di cui si sanno poche cose. Certamente, di lui, si sa che è originario di Tebe, ha una figlia di nome Manto, anche lei indovina, ma soprattutto che è cieco, o come si direbbe oggi: non vedente. Il testo teatrale è un piccolo excursus fra ironia, scherno e qualche frecciatina al mondo attuale, di come questa figura sia stata descritta, schernita e al tempo stesso amata e rispettata nel corso dei secoli. Notoriamente, l’antichità greca ha prodotto una serie di fonti su Tiresia. La cosa più interessante da notare è che in una antichità precristiana, che ha avuto un rapporto difficilissimo con i disabili, una figura di disabile fisico come Tiresia è invece rimasta viva nella scrittura di questi autori. Certamente, la figura dell’indovino tebano, è interessante innanzitutto per una riflessione culturale sulla disabilità.

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Lo Pseudo Apollodoro provò a spiegare da dove si originava la cecità di Tiresia. Dunque riportò tre narrazioni, nella sua Biblioteca; sono particolarmente interessanti la seconda e la terza narrazione[2], raccontate teatralmente anche nel testo di Camilleri. Nella seconda narrazione, quella secondo Apollodoro, Tiresia è figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo: la cecità viene dalla punizione di Atena che Tiresia vide nuda farsi il bagno; allora intervenne Cariclo che chiese pietà per il figlio. Atena non tolse la cecità allo sciagurato voyer, ma vi unì la capacità di essere indovino. La terza narrazione Apollodoro la riprende dal poeta greco Esiodo, ed è la più complessa, perché inserisce altri elementi. Tiresia meditava mentre camminava sul monte Citerone: qui vide due serpenti nell’atto della unione sessuale e allora schifato decise di calpestare e uccidere la femmina. Non appena l’aspide lascivo fu schiacciato, magicamente Tiresia si trasformò da uomo a donna. Questa immagine, induce Camilleri a mettere sulla bocca di Tiresia una considerazione teologica legata ai serpenti:

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«A me adolescente piaceva molto fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi avviticchiate nell’atto della riproduzione. Ero sovrappensiero, per questo reagii come mai avrei dovuto. Perché coi serpenti, sul Citerone, bisognava andarci cauti. Zeus per possedere Persefone si mutava in serpe e anche Cadmo “s’asserpentava” per le sue scappatelle. Quindi in quei rettili poteva celarsi un dio»[3].

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Torneremo su questo particolare fra poco. Osserviamo come Tiresia è davvero saggio: è cioè in grado di andare oltre l’aspetto materiale e cogliere la natura divina anche di un atto così animalesco come l’unione sessuale. Comunque, procedendo con la narrazione, sappiamo che in seguito l’indovino tebano tornò uomo, ma la sua malasorte non era terminata. Infatti, in un tempo indeterminato, Zeus ed Era litigavano e spesso si trovarono divisi da una controversia: se nell’atto dell’amplesso provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscivano a giungere a nessuna conclusione perché infatti le due posizioni principali si fronteggiavano fortemente: Zeus, sosteneva infatti che fosse la donna, mentre Era che fosse l’uomo. Per dirimere la disputa decisero di rivolgersi Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolverla poiché aveva saggiato sia la natura maschile sia femminile. Forse sarebbe stato meglio se Tiresia avesse seguito il vecchio adagio di non mettere il dito fra moglie e marito[4]. Ma, per quella volta, non fu prudente su questo. Dunque, una volta chiamato in causa dai due dèi litigiosi per risolvere la vexata quaestio, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. Tiresia pensò di rispondere così facendo un piacere ad Era, ritenendo che la dea avesse risposto secondo il suo stesso ragionamento. La dea, invece, rimase infuriata perché Tiresia aveva svelato quel segreto: e così lo accecò. Invece Zeus, contrario alla reazione della moglie, decise di riparare al danno subìto, e diede facoltà a Tiresia di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. E Questo, nell’ottica greca, implicava avere una vita praticamente eterna.

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Ecco allora i tre elementi sottolineati nella disabilità di Tiresia: la cecità segue la punizione di aver saputo un segreto profondo dell’uomo. Tiresia, un po’ come Prometeo, ha la colpa di essersi azzardato a intuire e ragionare, arrivare oltre l’arrivabile: dunque di essere entrato nelle sfere più alte della intimità dell’uomo e della donna. Di aver saputo sciogliere il segreto stesso della donazione totale dell’uomo alla donna e viceversa, dunque della loro identità profonda. Al tempo stesso, Tiresia è entrato nel segreto profondo del piacere corporeo e della origine della vita.  Era davvero non può reggere questo affronto. Così, pensa di fare un dispiacere a Tiresia, accecandolo: ma così facendo in realtà lo toglie dalla visione delle cose materiali e lasciandolo per sempre alla visione di informazioni, nozioni e concetti più alti. Oserei dire che Tiresia può essere quello schiavo nella caverna platonica che liberato dai lacci delle visioni materiali vede finalmente la luce delle Idee, nella eternità della verità senza tempo. Non voglio però entrare in una analisi platonica.

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Tornando invece alla disabilità di Tiresia si aggiunge, con l’azione di Zeus, il dono della preveggenza e della vita eterna. Il capolavoro antropologico di Tiresia il tebano è definitivamente compiuto. La disabilità, tanto condannata, tanto stigmatizzata nel mondo greco, è invece, in Tiresia, carica di un insieme di doni straordinari donati dagli dei[5]. E poco importa dunque la mancanza di luce sulle cose quotidiane.

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Tiresia conosce il dato presente nei suoi segreti più intimi. Lo stesso dicasi per gli eventi futuri: conosce ciò che è più profondo, ciò che è più ricercato da ogni uomo greco, filosofo, matematico, astronomo o storico che sia. Scrive a questo proposito lo studioso Paolo Scarpi:

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«[…] La cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino […] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, […], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. […] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco […] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista)»[6]

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A conferma di questo ci sembra interessante notare cosa pensa la Odissea dell’indovino tebano. Omero offre un compito importante a Tiresia, nel canto decimo infatti leggiamo:

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«per chiedere all’anima del tebano Tiresia,

il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:

a lui solo Persefone diede anche da morto,

la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti»[7]

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Ulisse, nell’Ade, è costretto a cercare Tiresia, per venire a conoscenza della strada per il ritorno ad Itaca. Nei versi del poema omerico, leggiamo fra le righe che solo a Tiresia sono concessi i doni straordinari che lo rendono così saggio. Aggiungo ancora un paio di elementi: nella Tebaide, il poeta Stazio descrive che Tiresia, sordomuto e cieco allo stesso tempo, conserva i suoi poteri straordinari. Qui, la disabilità fisica, è ancora più accentuata, non di meno però la saggezza e la profezia rimangono. E avranno un ruolo drammatico in Sofocle.

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Nell’Edipo Re, Tiresia è chiamato profetizzare anche il celeberrimo incesto fra Edipo e Giocasta e l’uccisione di Laio: in questa tragedia la profezia del cieco è addirittura un elemento di aiuto alla scoperta circa una azione morale condannata dal tempo. L’apporto di Tiresia diventa fondamentale nello scioglimento del dramma di Edipo.

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Tornando e concludendo la lettura del testo di Camilleri, trovo una splendida poesia dedicata a Tiresia a opera del poeta Thomas Sterne Elliott

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«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,

vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere

all’ora viola, l’ora della sera che volge

al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,

posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,

accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.

Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare

Le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,

sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate

calze, pantofole, camiciole e corsetti.

Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,

percepii la scena, e predissi il resto –

anch’io attesi l’ospite aspettato.

Lui, il giovane pustoloso, arriva,

impiegato di una piccola agenzia di locazione, con un solo sguardo

baldanzoso,

uno del popolo a cui la sicumera sta

come un cilindro a un cafone arricchito.

Il momento è ora propizio, come lui congettura,

il pranzo è finito, lei è annoiata e stanca,

cerca di impegnarla in carezze

che non sono respinte, anche se indesiderate.

Eccitato e deciso, lui assale d’un colpo;

mani esploranti non incontrano difesa;

la sua vanità non richiede risposta

e prende come un benvenuto l’indifferenza.

(E io Tiresia ho presofferto tutto

Quello che è stato fatto su questo stesso divano o letto;

io che sedetti sotto le mura di Tebe

e camminai fra i più umili morti).

[…]

A Cartagine poi venni

Ardendo ardendo ardendo ardendo

O Signore Tu mi cogli

O Signore Tu cogli

Ardendo[8]

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L’analisi della disabilità di Tiresia mostra dunque come la disabilità abbia una valenza contraddittoria nel mondo pre-cristiano: nel quale si evidenzia un rapporto di dannazione, stigma, allontanamento e, dall’altro, quasi invece uno stato di elevazione a conoscenza superiore. Il tema della disabilità, per i greci richiamava dunque una conoscenza sapienziale del presente, una conoscenza profetica del futuro, un richiamo a una vita eterna (certo non delle stesse caratteristiche del Regno di Dio cristiano). Ovviamente, l’aspetto totalmente assente nella disabilità di Tiresia, come del resto a tutta la riflessione greca prima della venuta di Cristo, è ovviamente il legame fra attività divina e umana: quel rapporto fra grazia e natura che verrà solo successivamente scandagliato dalla teologia cattolica.

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Tiresia subisce infatti la disabilità nella sua natura umana come castigo: non è spiegato dai miti greci in quale modo, dopo aver ottenuto la disabilità, la sua persona sia portata, tramite la disabilità, a un cammino di perfezionamento e di elevazione morale con l’aiuto degli Dei. La disabilità, in Tiresia, è insomma una speciale metodologia epistemologica ma non di santificazione. Uno speciale modo di conoscere ma non di elevarsi ad un rapporto con il sacro. Di segno completamente diverso è invece, il senso della sofferenza fisica, e dunque anche una disabilità visiva, dall’avvento di Gesù Cristo: tutte le disabilità rientrano nell’afflizione e nell’amore sofferente di Cristo. Si possono dunque riunire sotto la grande categoria della sofferenza.

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AFFLITTI MA INTIMAMENTE UNITI NELL’AMORE SOFFERENTE DI GESU

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È certa una cosa. Riguardo il cristianesimo, esso è fondato da Gesù ed è una religione della gioia; infatti, il cristianesimo, è iniziato con un imperativo gioioso. «Kaire/Rallegrati Maria!» [9] così l’arcangelo Gabriele salutò l’adolescente Maria. Certamente riconosciamo con Joseph Ratzinger che «Il cristianesimo è dunque la fede della gioia»[10]. Eppure, all’interno del cammino di una fede cattolica che sia gioiosa, essa non fugge da alcune tematiche particolarmente delicate come la sofferenza, la penitenza e il dolore. Pensiamo per un momento che nel cammino della Chiesa Cattolica esiste un grande periodo di penitenza e ascesi: la Quaresima. Questo perché la Quaresima è innanzitutto tempo di conversione, ma anche tempo di deserto e riflessione. In quel periodo c’è un invito a soffermarsi, nella nostra preghiera o meditazione personale, su quelle tematiche che risultato ordinariamente di difficile assimilazione e trattazione, come il peccato, la morte, la malattia, il dolore. La sofferenza è un tema molto delicato. Soprattutto è delicato perché è vissuto da uomini e donne. Tema che tutti quanti in prima persona abbiamo toccato. Questi uomini sono sofferenti. Dunque sono afflitti. In effetti uno dei temi di cui anche l’Antico Testamento ci parla è proprio la sofferenza. Pensiamo ad esempio alla storia presente nel libro di Giobbe. Uomo giusto, oggi diremo un pio, una persona perbene e molto devota. Il Signore, allora, permette al diavolo che Giobbe sia provato nella sofferenza morale, ricordiamo infatti che furono uccisi tutti i suoi figli; quindi, materiale, ricordiamo che perse tutti i suoi averi; infine fisica, ricordiamo che si ammala gravemente di lebbra e viene isolato da tutti, tranne che da quattro amici.

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In Giobbe, secondo gli esegeti, troviamo quatto reazioni tipicamente umane. La prima è  l’accettazione (cfr. Gb 1,22). Egli accetta pacificamente che tutto questa gli venga da Dio. Allo stesso tempo pretende da Lui anche una specie di contraccambio in futuro. La seconda reazione, è la ribellione (cfr. Gb 3, 1). Egli desidererà addirittura morire. È reazione tipica anche dei malati di oggi: è desiderio di tranquillità e di pace. La terza reazione è l’affidamento (cfr. Gb 40). Giobbe si affida a Dio riconoscendo la sua piccolezza, il proprio essere creatura creata, rispetto a Dio creatore increato. Quindi si affida veramente al Creatore perché riconosce di essere stato orgoglioso e pretestuoso nei suoi confronti. Quarta reazione, la ricompensa ultraterrena (Gb 42,7). A Giobbe viene restituito tutto ciò che aveva perso in modo raddoppiato [11].

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Giobbe è un afflitto. Dio dopo un cammino di conversione, di purificazione e crescita viene consolato da Dio. Rimasi molto colpito quando anche io ascoltalo la voce di un afflitto. Un afflitto di qualche anno fa: ma che nel suo oggi, come oggi è stato abbandonato da tutti. Per questo vorrei adesso farvi ascoltare la voce di quel genere di afflitto che, al contrario di Giobbe, non ce l’ha fatta.

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«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.  […]  Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. […] Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.  […] Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene»[12].

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È terribile leggere righe del genere. È quasi impossibile empatizzare il dolore di un giovane che vuole togliersi la vita. È assolutamente impossibile comprendere il dolore di quei genitori che hanno perso un figlio in questo modo.  Eppure, questo giovane era un afflitto. Un afflitto lasciato solo da tutti: abbandonato alla mentalità e alla moda del mondo, che crede e inculca a tutti che il suicidio sia l’unica via per vivere la propria libertà. Questa è la libertà che il mondo di oggi vuole convincere anche noi cattolici che sia quella da vivere: una libertà che non è liberta vera. Quella libertà che si esprimerebbe nelle tecniche di suicidio assistito e di eutanasia, come avvenuto per il caso, salito alla ribalta dei telegiornali, di Dj Fabio. Anche Dj Fabio era un sofferente, uno che biblicamente chiameremo afflitto[13]. Il mondo, invece che donargli la vera libertà, lo ha abbandonato definitivamente. Lo stato di diritto gli offre addirittura ragione e giurisprudenza per fondare il convincimento che dalla sofferenza si esce solo suicidandosi. Come se il suicidio fosse espressione massima di una “libertà”[14]. Quella libertà che elimina la sofferenza e l’afflizione. Perché una vita sofferente e afflitta non ha valore, allora si elimina. Si prende e si butta via. E si maschera tutto con la parolina magica: li–ber–tà. Tre sillabe con cui oggi si cavalca l’onda e si permette tutto.

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«Noi viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita»[15]

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C’è un’unica risposta a questa terribile convinzione della cultura odierna. La vera risposta che ognuno di noi può dare è questa: la gioia di Gesù Cristo. Si risponde ad una logica di morte, di cultura dello scarto, di necrocultura semplicemente mostrando la gioia e l’amore che Gesù ebbe nei confronti degli afflitti. Perché Gesù Cristo stesso si è spesso incontrato con la sofferenza. Gesù ha cioè incontrato persone sofferenti e afflitti: chi nel corpo e chi nello spirito. E si è messo al servizio loro e dei loro parenti e amici. Per questo ha potuto relegare un posto speciale nelle beatitudini proprio ai sofferenti: «Beati gli afflitti… perché saranno consolati»[16].

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Se diamo un’occhiata al Vangelo della resurrezione di Lazzaro, vediamo subito come Gesù si relaziona di fronte alla morte del suo caro amico Lazzaro. Gesù stesso piange. È afflitto, e vive questo momento insieme ad altri afflitti. Proviamo a seguire il testo del Vangelo da vicino:

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«Gesù voleva molto bene (agapan = amava con misericordia) a Marta, a sua sorella [Maria] e a Lazzaro. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (= pepisteuka, il verbo greco esprime un forte atto di fede) Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente (embrimastai = prendere in collera), si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!”. Dopo aver riposto la pietra in cui Lazzaro era stato posto, Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”»[17].

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Proviamo a leggere il testo in modo analitico. Al versetto 5 vediamo innanzitutto che Gesù compie l’azione dell’agapan cioè amava profondamente Marta, Maria e Lazzaro. Agapao è il verbo greco da cui viene agapè, che noi appunto traduciamo con Misericordia. Quindi li amava con misericordia. Inoltre ai versetti 20 – 27 Gesù viene rimproverato da Marta, in seguito anche da Maria, di non essere stato presente al momento della morte di Lazzaro. Ottiene da loro un atto di fede nella vita eterna che avviene tramite la Sua Presenza: la presenza di Gesù, Figlio di Dio nel mondo. Successivamente (cfr. V.33) quando poi viene a sapere della morte di Lazzaro, Gesù si commuove: ha un moto di passione collerico (così il verbo greco embrimastai), di avversione nei confronti della morte che è uno degli effetti provocati dal peccato originale a sua volta generato dal diavolo. Gesù stesso, dunque, esprime avversione e ostilità nei confronti della morte. Commentando i versetti 41 – 42, l’esegeta Brown scrive:

«Attraverso l’esercizio del potere di Gesù, che è il potere del Padre, essi conosceranno il Padre e così riceveranno la vita essi stessi. Gesù non otterrà niente per sé, egli vuole solo che i suoi ascoltatori conoscano il Padre che lo ha mandato. […] La cosa cruciale è che Gesù ha dato la vita fisica come segno del suo potere di dare la vita eterna su questa terra e come promessa che nell’ultimo giorno resusciterà i morti»[18].

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Marta, Maria e Lazzaro sono afflitti. Gesù gli fa scoprire, proprio nell’afflizione, un rapporto vero e reale con Dio. La sofferenza allora diventa uno dei possibili “luoghi” dove incontrare veramente l’Amore del Signore e riceverne consolazione. Come Dio fece con Giobbe e come adesso fa Gesù con Lazzaro. In effetti, l’afflizione, può generare un senso di isolamento: come abbiamo visto finora, la sofferenza, se per un verso è un’esperienza, per altro verso è al tempo stesso una esperienza solitaria, permessa da Dio al singolo e solo al singolo. In maniera indiretta va a colpire anche i parenti, gli amici e i vicini dell’afflitto, ma serve innanzitutto alla singola persona. Questi afflitti non sono così lontani nel tempo e nello spazio dalle nostre vite.

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Anche noi possiamo essere misericordiosi e mostrare l’amore di Dio agli afflitti. La gioia e vitalità di Gesù possiamo esprimere e comunicarla attraverso questi nostri fratelli sofferenti? Tramite l’esercizio delle opere di misericordia materiali e corporali è possibile esprimere il senso biblico della consolazione. Ecco il nesso fra consolazione e senso di fratellanza: saper entrare nel dramma di qualcuno e supportarlo. Essere davvero con– fratelli tramite la Misericordia/Agape di Dio per l’altro. Vivere aiutando chi è afflitto significa essergli di supporto. Nell’essere supporto allora ci sono tre derive che vanno assolutamente evitate:

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α) il compiangere l’afflitto. Si rischia cioè di creare una vittimizzazione. Tramite questa dinamica, la persona rimane incastrata nel proprio dolore e chiudendosi in un narcisismo che le impedisce di stare meglio [19].

β) L’effetto narcotico. Cioè il cercare di togliere di mezzo il dolore addormentando la coscienza su esso. La persona quindi è spinta dalla società a vivere come se non esistesse il dolore. Questo spinge a una superficialità, che è pericolosa perché rimanda il problema del dolore e lo aggrava[20]. In effetti fuggire da un problema significa aggravarlo.

γ) Invitare l’afflitto a guardare chi sta peggio di lui: non c’è di peggio che fare dell’esistenza come una classifica della serie A e dire chi sta meglio e chi sta peggio. Non ha senso consolare una persona dicendogli “siccome c’è chi sta peggio di te, devi stare bene” [21].

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Vediamo un po’, allora, l’opera di misericordia di consolare gli afflitti in cosa consiste per davvero. Ci saranno di aiuto le parole del presbitero Fabio Rosini che scrive:

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«Il dolore fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione si sostiene, il cuore è sereno; se però, il dolore è senza spiegazione diventa allora insostenibile. L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, che la indirizzi, di un’indicazione che ne orienti la comprensione» [22]

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La stessa parola consolazione (in ebraico nacham), biblicamente si rende coi verbi di riposare, fermarsi, trovare tranquillità o anche dare rifugio[23]. È quello che poco fa abbiamo visto fare Gesù con gli afflitti parenti di Lazzaro.  Pacificare una persona significa donargli quella parola di pienezza, di comprensione, di senso che il dolore sembra avergli sottratto.

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«Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore, lo sguardo, lo spirito a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà completezza»[24].

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In un certo senso tutti i cristiani sono chiamati a consolare, ricordare che sono proprio loro i chiamati a dare questa completezza. Dunque questa è la chiamata a essere coloro che ricordano che Dio è innanzitutto speranza nella sofferenza. Ricordare al mondo e alla cultura attuale che sperare è un atto tipicamente umano, ma allo stesso tempo elevante: perché permette anche al peggiore degli afflitti di elevarsi oltre il proprio dolore. Come scrive sempre Fabio Rosini, consolare, dare speranza significa in fondo, fare un atto di misericordia che “faccia presente l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore”[25]. Questo permetterà anche a noi di riprendere anzitutto a sperare. E sperare è atto tipicamente cristiano. Di più, sperare è l’atto tipicamente cattolico! Perché il credente è colui che ha riposto ogni fiducia in Gesù. E proprio come Marta e Maria, esprime ad alta voce questa sua speranza proprio nel dolore. Tenete sempre a mente questo, mentre preparate i panini per gli indigenti, mentre preparate la barella spinale, mentre risistemate i presidi di protezione civile. Sperare significa innanzitutto accendere l’attesa di un Dio che è il bene assoluto immensamente buono.

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Ciascuno di noi può essere portatore di speranza, portatori della gioia anche all’afflitto dei quartieri più poveri, all’afflitto per un lutto o per una depressione, o appunto di una disabilità. Ecco allora che rapportando queste riflessioni alla disabilità, diremo che anche la persona con disabilità, nonostante le sue afflizioni e i suoi dolori fisici, è chiamato a un cammino di gioia e di santificazione. C’è sempre un piano superiore a cui Dio Padre orienta, come ha orientato le sofferenze di Gesù della Passione, alla gioia della Resurrezione. Anche noi saremo così trasportati nella gioia della consolazione. Perché quando consoleremo un afflitto, questo ci farà scoprire davvero la gioia della nostra vita. Tutta la nostra vita sarà saper far riscoprire la presenza di un Dio Trinitario, che è con noi anche nel dolore. È amando chi è afflitto, facendo riscoprire a lui questa gioia di vivere, potremo dire insieme al poeta Giacomo Leopardi «Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando» [26].

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Roma, 4 novembre 2020

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NOTE

[1] Il lettore può consultare per approfondimenti: G. A. Stella, Diversi – La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, Solferino, 2019, Milano.

[2] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7.

[3] A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Sellerio, Palermo, 2019.

[4] A. Camilleri, op.cit.

[5] Su questa stessa linea si pone M. Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, 40.

[6] Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduz. di M.G. Ciani, Monadori, Milano, 1996, 55.

[7] Odissea X, 492 e sgg., Traduzione di G. Aurelio Privitera

[8] T.S. Elliott, Terra desolata citato in A. Cammileri, Conversazioni su Tiresia, 41 – 42. Ricontrollare pagina.

[9] Luca 1, 26.

[10]J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, Morcelliana, Brescia, 69.

[11] S. Pinto, I segreti della Sapienza, Introduzione ai libri sapienziali e poetici , San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, 21 – 23.

[12] Lettera di M., un suicida trentenne, tratto da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837 ultimo accesso 10/01/20 ore 18.07.

[13] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2017/02/28/fidanzata-dj-fabo-vorrei-notte-non-finisse_n_15055120.html ultimo accesso 23 marzo 2017 ore 16.43).

[14] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/25/news/consulta_cappato_dj_fabo_sentenza-236870232/ ultimo accesso 10/01/10 ore 18.16.

[15]A. D’AVENIA, L’arte di essere fragili, 2016, 147.

[16] Mt 5,4

[17] Vangelo secondo Giovanni, capitolo 11.

[18] R. E. Brown, Giovanni, 2014, pp 567 – 568

[19] Fabio ROSINI, Solo l’amore crea, 2016, p. 121.

[20] Ibidem.

[21] Fabio ROSINI, op,cit, p. 122.

[22] Fabio ROSINI, p. 120.

[23] Fabio ROSINI, p. 127.

[24] Fabio ROSINI p. 129.

[25] Fabio ROSINI, p. 129.

[26] (Zibaldone 1819 – 1820.)

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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«Io sono Roberto Bolle, non un pollo che razzola nel pollaio». Quei cattolici depressi e deprimenti che rinchiudono la morale dentro un preservativo e che considerano il sesso come centro dell’intero mistero del male

— Le Pagine di Theologica —

«IO SONO ROBERTO BOLLE, NON UN POLLO CHE RAZZOLA NEL POLLAIO». QUEI CATTOLICI DEPRESSI E DEPRIMENTI CHE RINCHIUDONO LA MORALE DENTRO UN PRESERVATIVO E CHE CONSIDERANO IL SESSO COME CENTRO DELL’INTERO MISTERO DEL MALE

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Un Tale mi invia questo messaggio: «Come promesso compatibilmente con i miei impegni ho provveduto a fare un video in risposta alle sue eterodosse affermazioni sulla contraccezione. Convinto che personalmente conosca cosa è sana dottrina e quindi da ritenersi e cosa da scartare. Certamente tornerà utile ai tanti fedeli che da anni ci seguono e che hanno l’obbligo di conoscere la verità su questioni di tale importanza». Dal canto mio intendo chiarire che se un laico accusa di eresia sulla pubblica piazza dei social media un ministro in sacris e un teologo, è quanto meno doveroso difendere la propria dignità di sacerdote e di studioso dalle false accuse di un soggetto rivelatosi alla prova dei fatti un teologo dilettante.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Oltre l’utopia e il disincanto: la speranza cristiana oggi

— Theologica —

OLTRE L’UTOPIA E IL DISINCANTO: LA SPERANZA CRISTIANA OGGI

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La speranza cristiana, oggi deve farsi largo con molto impegno e fatica tra le nuove esperienze di millenarismo, fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21 dicembre del 2012. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, ci possiamo spostare verso ben altra dimensione, quella che ci apre le porte alla prospettiva della speranza cristiana.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Il teologo domenicano Daniele Aucone

Daniele Aucone, sacerdote e teologo domenicano della provincia romana Santa Caterina da Siena [cf. vedere QUI], già autore de La questione della comunità tra filosofia e Teologia [Ed. Nerbini, cf. QUI] propone al pubblico di studiosi e ricercatori il suo ultimo libro, Oltre l’utopia e il disincanto – La speranza cristiana oggi, frutto anche del lavoro di dissertazione dottorale in teologia [Ed. Angelicum University Press, cf. QUI].

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Il tema centrale del testo è la speranza, come si evince dal titolo; l’autore cerca di delineare e individuare in essa traiettorie feconde [cf. pag. 10] per rinvigorire l’annuncio di questo tema assai caro alla teologia cattolica. Speranza che per i credenti risiede nel volto e nell’incontro di Gesù Cristo.

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Il testo si divide in due parti: nella prima parte il Padre Daniele Aucone si sofferma a scandagliare la società e la cultura occidentale e la prospettiva dell’attesa, a partire da diversi autori: Kojève e Zizek fra gli altri. Nella seconda parte, invece, egli si sofferma a generare una prospettiva teologico-sistematica della speranza, facendosi aiutare da diversi autori fra i quali Theobald, Durand e Mendoza – Alvarez.

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l’ultima opera del teologo domenicano Daniele Aucone

La prima parte può definirsi strictu sensu come una descrizione di un “urlo” della società post-moderna che, ormai tramontate le speranze mondane, si racchiude fra rassegnazione, disillusione e nuove paure.

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Alexander Kojève, nella veste di interprete del fine della storia in senso hegeliano, spalanca le porte ad una ricerca di immortalità terrena. Slavko Žižek allora conduce una analisi della prossimità del punto zero, in cui si porge una apocalittica di tipo classico in cui vive solo una panoramica di scenari di panico. In questa prima parte, ci sembra molto interessante, anche per il lettore meno esperto di materia filosofica, la accurata sezione che narra le nuove esperienze di millenarismo: fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21/12/12. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, finalmente l’autore può effettuare una transizione e spostarsi verso la prospettiva della speranza cristiana. Scrive il Padre Daniele Aucone:

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«In questo contesto di disagio dell’Occidente contemporaneo infatti, ma anche di ricerca di senso e di direzione, è chiamato a inserirsi il messaggio della speranza cristiana quale attesa dell’incontro definito con il Risorto come τέλος [N.d.R. telos, “scopo”, “fine”] e  πέρας [peras: “illimitato”, “infinito”] della storia». [cit. pag. 114].

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La speranza è allora un dono, un generare un desiderio all’Homo Desiderans, oltre la pretesa postmoderna di una vita liquida, per fondare saldamente una vita degna nel tempo della Fine. È speranza che infine permette di fuggire dalla tirannia del tutto e subito, di un’attesa del tempo definitivo fondata sulla memoria resurrectionis; infine, spunto molto interessante che l’Autore riprende dal teologo Roberto Repole: la speranza intesa come Pensiero Umile ed apertura alla prospettiva della Rivelazione, oltre il pensiero debole vattimiano, ma senza neanche pretendere di risolverla del tutto, oltre l’impensabile ritorno ad un pensiero forte: la speranza è radice di un pensiero umile [cit. pag. 116].

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Nella analisi della sezione biblica, si chiarifica abbondantemente il senso della apocalittica nell’orizzonte esegetico attuale, mostrando come l’analisi dell’ultimo libro della Bibbia, lungi da prospettive circa «la fine del mondo» vuole invece mostrare come ci siano varie fini, che chiudono diverse epoche storiche; e al tempo stesso l’Apocalisse svela un narcisismo di fondo dell’uomo contemporaneo, che nasconde una profonda instabilità esistenziale [cit. pag. 126].

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la precedente opera del teologo domenicano Daniele Aucone

A partire dagli studi di Cristoph Theobald, il Padre Daniele Aucone propone infine il Cristianesimo come stile di vita col quale abitare e vivificare il mondo; ciò è possibile perché esso genera legami di fraternità oltre lo spazio e il tempo, che superano l’individualismo attuale. [cit. pag. 142]. Nella sezione teologica, egli si lega al pensiero del confratello domenicano Emanuel Durand che offre riflessioni interessanti sulla teologia della Provvidenza. Per molti credenti si è infatti notato che la fede nel Dio Creatore non portava ad una profonda attenzione alla sua opera di provvidenza, anche nel più piccolo quotidiano. Con il Padre Emanuel Durand c’è il recupero di una teologia della provvidenza in cui, l’uomo è fondato da una continua relazione vivente con Dio. Il Signore della creazione, ne conclude quindi il nostro Autore insieme al teologo domenicano Emanuel Durand, agisce tramite fenomeni puramente naturali, oltre che in quelli miracolistici: la provvidenza ha dunque un’azione nel necessario e nel contingente: nulla sfugge alla mano invisibile, materna e al tempo stesso collaborante con l’uomo del Dio Trinitario [cit. pag. 163].

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Interessantissimi sono infine i cinque spunti finali sulle attuali missioni ecclesiali, che compongono l’ultimo capitolo: una nuova missionarietà della Parola [cit. pag. 267], una evangelizzazione nel soffio dello spirito [cit. pag. 270], una attenzione per una ecologia umana integrale [cit. pag. 273], una formazione alla fraternità e comunione [cit. pag. 277] e infine una trasfigurazione del tempo mediante la celebrazione liturgico – sacramentale [cit. pag. 281].

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Il libro è vivamente consigliato agli appassionati della teologia, oltre che agli addetti ai lavori per la una ventata di novità circa la speculazione teologica sulla speranza e l’escatologia, in grado di uscire dagli schemi classici e proporsi anche in confronto con la cultura attuale. Soprattutto, gli spunti circa le missioni ecclesiali possono essere fonte per una meditazione personale, oltre che speculativa, anche per gettare linee guida pastorali.

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Roma 27 maggio 2019

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