Ci sono sacerdoti che propagandano e raccomandano la lettura dell’opera di Maria Valtorta, ignorando che la Chiesa l’ha dichiara fuorviante e pericolosa

CI SONO SACERDOTI CHE PROPAGANDANO E RACCOMANDANO LA LETTURA DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA, IGNORANDO CHE LA CHIESA L’HA DICHIARATA FUORVIANTE E PERICOLOSA

 

L’Opera della Valtorta «fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita “Vita di Gesù malamente romanzata”. Le disposizioni del Decreto del Sant’Offizio vennero ripubblicate con nota esplicativa il 1° Dicembre 1961. Dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava “tutto il suo valore morale” per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu data alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti»

(Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede)

— Attualità ecclesiale—

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il celebre film di fantascienza degli anni Ottanta: E.T. l’extraterrestre, di Steven Spielberg 

Molte persone semplici e in buona fede si sono rivolte ai Padri de L’Isola di Patmos per chiedere notizie sull’opera di Maria Valtorta e per informarci che è stata consigliata loro in lettura da diversi sacerdoti, alcuni dei quali usano i testi di questa fantasiosa Autrice nelle loro catechesi. Cosa molto grave, perché un pastore in cura d’anime non può ignorare che si tratta di scritti ripetutamente condannati e sconsigliati dalla Chiesa. Qualsiasi sacerdote che ne fa uso o che li consiglia in lettura si grava della responsabilità di somministrare veleno al Popolo di Dio.

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Il mio libero giudizio di studioso su Maria Valtorta è pessimo da sempre. Per poco possa valere considero questa Autrice affetta da misticismo strampalato e da megalomania narcisistica. Un libero giudizio basato sulle assurdità di quello che oggi è conosciuto e indicato in modo gravemente improprio come «Il Vangelo di Maria Valtorta».

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Contrariamente a quanti elevano le proprie opinioni e il soggettivo sentire a verità intangibili della fede, per mia impostazione e formazione teologica, giuridica ed ecclesiale, quando esprimo libere opinioni preciso sempre che sono tali e che come tali lasciano il tempo che trovano. A meno che non annunci delle verità di fede, facendomi voce e fedele strumento della Chiesa che mi ha conferito per Sacramento di grazia il mandato a farlo, adempiendo a questo modo a un dovere al quale non posso né devo sottrarmi. In tal caso, al “cattolico d’arrembaggio” che esordisce dicendo «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …» sono tenuto a replicare che è in grave errore, non perché abbia ragione io, ma perché ho annunciato ciò che insegna la Chiesa, chiarendo quelli che sono i suoi giudizi dati, dinanzi ai quali nessun credente che sia veramente tale può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …». Nessun singolo sacerdote e nessun fedele cattolico può né mai dovrebbe osare arrogarsi di dichiarare autentico ciò che la Chiesa ha dichiarato falso o dire impudentemente di credere in ciò al quale la Chiesa ha chiaramente detto che non bisogna credere né prestare fede. Pertanto ribadisco: è gravissimo che dei sacerdoti diffondano e trasmettano gli scritti di Maria Valtorta in aperta disobbedienza a quelli che sono i giudizi decisi e negativi dati dalla Chiesa su questa opera di fantasia, presentandoli come autentici e come opere edificanti per lo spirito dei credenti.

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Piaccia o meno a certi passionari, dichiarare ai fedeli cattolici che quella di Maria Valtorta non è un’opera di mistica e spiritualità ma una colossale bufala contenente gravi deviazioni dottrinali che danno della fede, della Divina Rivelazione e della mariologia una visione a tratti persino grottesca, non è una libera e soggettiva opinione personale, ma il giudizio della Chiesa, al quale sono tenuto a prestare obbediente ossequio e che come presbitero e teologo sono tenuto a trasmettere al Popolo di Dio, invitandolo a prestare ascolto e ossequio al giudizio che l’Autorità Ecclesiastica ha dato.   

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Chiariti questi fondamentali elementi, non sempre facili da far comprendere a coloro che vivono l’esperienza di fede in modo immaturo, soggettivo ed emozionale, lascio adesso parlare i documenti attraverso i quali l’Autorità Ecclesiastica si è espressa nel corso del tempo sull’opera di Maria Valtorta. Pareri chiari e precisi dinanzi ai quali nessun credente, ma soprattutto nessun pastore preposto alla cura e alla guida delle anime, può replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

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UNA VITA DI GESÚ MALAMENTE ROMANZATA

L’Osservatore Romano edizione del 6 gennaio 1960

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In altra parte del nostro Giornale è riportato il Decreto del Sant’Offizio con cui viene messa all’Indice un’Opera in quattro volumi, di autore anonimo (almeno in questa stampa) edita all’Isola del Liri. Pur trattando esclusivamente di argomenti religiosi, detti volumi non hanno alcun imprimatur, come richiede il Can. 1385, 1 n.2 del Codex Iuris Canonici. L’Editore, in cui una breve prefazione, scrive che l’Autore «a somiglianza di Dante ci ha dato un’opera in cui, incorniciati da splendide descrizioni di tempi e di luoghi, si presentano innumerevoli personaggi i quali si rivolgono e ci rivolgono la loro dolce, o forte, o ammonitrice parola. Ne è risultata un’Opera umile ed imponente: l’omaggio letterario di un dolorante infermo al Grande Consolatore Gesù». Invece, a un attento lettore questi volumi appaiono nient’altro che una lunga prolissa vita romanzata di Gesù.

A parte la vanità dell’accostamento a Dante e nonostante che illustri personalità (la cui indubbia buona fede è stata sorpresa) abbiano dato il loro appoggio alla pubblicazione, il Sant’Offizio ha creduto necessario metterla nell’Indice dei Libri proibiti. I motivi sono facilmente individuabili da chi abbia la certosina pazienza di leggere le quasi quattromila pagine di fitta stampa. Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine Santissima; dagli interminabili dialoghi tra i molteplici personaggi che popolano quelle pagine.

I quattro Vangeli ci presentano Gesù umile, riservato; i suoi discorsi sono scarni, incisivi, ma della massima efficacia. Invece, in questa specie di storia romanzata, Gesù è loquace al massimo, quasi reclamistico, sempre pronto a proclamarsi Messia e Figlio di Dio e a impartire lezioni di teologia con gli stessi termini che userebbe un professore dei nostri giorni. Nel racconto dei Vangeli noi ammiriamo l’umiltà e il silenzio della Madre di Gesù; invece per l’autore (o l’autrice) di quest’opera la Vergine Santissima ha la facondia di una moderna propagandista, è sempre presente dappertutto, è sempre pronta a impartire lezioni di teologia mariana, aggiornatissima fino agli ultimissimi studi degli attuali specialisti in materia.

Il racconto si svolge lento, quasi pettegolo; vi troviamo nuovi fatti, nuove parabole, nuovi personaggi e tante, tante, donne al seguito di Gesù. Alcune pagine, poi, sono piuttosto scabrose e ricordano certe descrizioni e certe scene di romanzi moderni, come, per portare solo qualche esempio, la confessione fatta a Maria da una certa Aglae, donna di cattivi costumi (cfr. vol. I, p. 790 ss.), il racconto poco edificante a p. 887 ss. del I vol., un balletto eseguito, non certo pudicamente, davanti a Pilato, nel Pretorio (cfr. vol. IV, p. 75), etc…

A questo punto viene, spontanea una particolare riflessione: L’Opera per la sua natura e in conformità con le intenzioni dell’Autore e dell’Editore, potrebbe facilmente pervenire nelle mani delle religiose e delle alunne dei loro collegi. In questo caso, la lettura di brani del genere, come quelli citati, difficilmente potrebbe essere compiuta senza pericolo o danno spirituale. Gli specialisti di studi biblici vi troveranno certamente molti svarioni storici, geografici e simili. Ma trattandosi di un … romanzo, queste invenzioni evidentemente aumentano il pittoresco e il fantastico del libro. Ma, in mezzo a tanta ostentata cultura teologica, si possono prendere alcune … perle che non brillano certo per l’ortodossia cattolica. Qua e là si esprime, circa il peccato di Adamo ed Eva, un’opinione piuttosto peregrina e inesatta. Nel vol. I a pag. 63 si legge questo titolo: «Maria può essere chiamata la secondogenita del Padre». Affermazione ripetuta nel testo alla pagina seguente. La spiegazione ne limita il significato, evitando un’autentica eresia; ma non toglie la fondata impressione che si voglia costruire una nuova mariologia, che passa facilmente i limiti della convenienza.

Nel II vol. a pag. 772 si legge: «Il Paradiso è Luce, profumo e armonia. Ma se in esso non si beasse il Padre, nel contemplare la Tutta Bella che fa della Terra un paradiso, ma se il Paradiso dovesse in futuro non avere il Giglio vivo nel cui seno sono i Tre pistilli di fuoco della divina Trinità, luce, profumo, armonia, letizia del Paradiso sarebbero menomati della metà». Qui si esprime un concetto ermetico e quanto mai confuso, per fortuna; perché se si dovesse prendere alla lettera, non si salverebbe da severa censura.

Per finire, accenno a un’altra affermazione strana e imprecisa, in cui si dice della Madonna: «Tu, nel tempo che resterai sulla Terra, seconda a Pietro come gerarchia ecclesiastica …».

L’Opera, dunque, avrebbe meritato una condanna anche se si fosse trattato soltanto di un romanzo, se non altro per motivi di irriverenza. Ma in realtà l’intenzione dell’autore pretende di più. Scorrendo i volumi, qua e là si leggono le parole «Gesù dice…», «Maria dice…»; oppure: «Io vedo…» e simili. Anzi, verso la fine del IV volume (pag. 839) l’autore si rivela un’autrice e scrive di essere testimone di tutto il tempo messianico e di chiamarsi Maria. Queste parole fanno ricordare che, circa dieci anni fa, giravano alcuni voluminosi dattiloscritti, che contenevano pretese visioni e rivelazioni. Consta che allora la competente Autorità Ecclesiastica aveva proibito la stampa di questi dattiloscritti e aveva ordinato che fossero ritirati dalla circolazione. Ora li vediamo riprodotti quasi del tutto nella presente Opera. Perciò questa pubblica condanna della Suprema Sacra Congregazione è tanto più opportuna, a motivo della grave disobbedienza.

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RISPOSTA DEL PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE A UNA RICHIESTA DI PARERE SULL’OPERA DI MARIA VALTORTA

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Roma, 31 gennaio 1985 – Prot. n. 144/58

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A Sua Eminenza Reverendissima

Giuseppe Cardinale Siri

Arcivescovo metropolita di Genova

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il Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

Con lettera del 18 maggio, il Reverendo Padre Umberto Losacco, Cappuccino, chiedeva a questa Sacra Congregazione una chiarificazione circa gli scritti di Maria Valtorta, raccolti sotto il titolo: Il Poema dell’Uomo-Dio e se esisteva una valutazione del Magistero della Chiesa sulla pubblicazione in questione con il riferimento bibliografico. In merito mi pregio significare all’Eminenza Vostra – la quale valuterà l’opportunità di informare il Reverendo Padre – che effettivamente l’Opera in parola fu posta all’Indice il 16 Dicembre 1959 e definita da L’Osservatore Romano del 6 gennaio 1960 «Vita di Gesù malamente romanzata». Le disposizioni del Decreto vennero ripubblicate con nota esplicativa ancora su L’Osservatore Romano del 1° Dicembre 1961, come rilevabile dalla documentazione qui allegata. Avendo poi alcuni ritenuto lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto, dopo l’avvenuta abrogazione dell’Indice, sempre su L’Osservatore Romano (15 giugno 1966) si fece presente quanto pubblicato su Acta Apostolicae Sedis (1966) che, benché abolito, l’Index conservava «tutto il suo valore morale» per cui non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu decisa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti.

Grato di ogni Sua cortese disposizione in proposito, profitto dell’occasione per confermarmi con sensi di profonda stima dell’Eminenza vostra reverendissima.

Dev.mo

XJoseph Cardinale Ratzinger

Prefetto

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MESSAGGIO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA ALL’EDITORE DELL’OPERA DI MARIA VALTORTA

Roma, 6 Maggio 1992 – Prot. N. 324/92

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All’Attenzione del

Centro Editoriale Valtortiano

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Stimatissimo Editore,

il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo metropolita di Milano, all’epoca Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana

in seguito a frequenti richieste, che giungono anche a questa Segreteria, di un parere circa l’atteggiamento dell’Autorità Ecclesiastica sugli scritti di Maria Valtorta, attualmente pubblicati dal Centro Editoriale Valtortiano, rispondo rimandando al chiarimento offerto dalle Note pubblicate da L’Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 e il 15 giugno 1966.

Proprio per il vero bene dei lettori e nello spirito di un autentico servizio alla fede della Chiesa, sono a chiederLe che, in un’eventuale ristampa dei volumi, si dica con chiarezza fin dalle prime pagine che le visioni e i dettati in essi riferiti non possono essere ritenuti di origine soprannaturale, ma devono essere considerati semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a suo modo, la vita di Gesù.

Grato per questa collaborazione, Le esprimo la mia stima e Le porgo i miei rispettosi e cordiali saluti.

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XDionigi Tettamanzi, vescovo

Segretario Generale della C.E.I.

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Chiarito e documentato il tutto concludo ribadendo che dinanzi a questi chiari, precisi e decisi pareri dati dall’Autorità Ecclesiastica, nessun fedele cattolico, ma soprattutto nessun presbitero preposto alla cura e alla guida delle anime, dovrebbe mai osare replicare: «… non sono d’accordo, perché secondo me … io credo che …».

Dall’Isola di Patmos, 20 agosto 2022

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Cari Lettori,

vi prego di leggere questo articolo [vedere QUI] e di essere sensibili e premurosi per quanto vi è possibile

Vi ringrazio

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Proclamare nuovi dogmi è più grave che de-costruire i dogmi di fede. Maria corredentrice? Una idiozia teologica sostenuta da chi ignora le basi della cristologia

PROCLAMARE NUOVI DOGMI È PIÙ GRAVE CHE DE-COSTRUIRE I DOGMI DI FEDE. MARIA CORREDENTRICE? UNA IDIOZIA TEOLOGICA SOSTENUTA DA CHI IGNORA LE BASI DELLA CRISTOLOGIA

 

La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini. Qualcuno è disposto a credere veramente che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

— Theologica —

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«Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica» (Bolla dogmatica Munificentissimus Deus, 1° novembre 1950)

Con la bolla dogmatica Munificentissimus Deus il Pontefice Pio XII proclamò il 1° novembre 1950 il dogma della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria, la cui festa solenne è celebrata il 15 agosto. Con l’occasione offro una riflessione teologica a tutti coloro che strepitano per la proclamazione del dogma di Maria corredentrice, partendo da una domanda: è più grave mettere in discussione e de-costruire i dogmi della Santa Fede Cattolica, o più grave proclamare dei nuovi dogmi? Indubbiamente è più grave la seconda cosa, chi sbagliando e seminando confusione tra il Popolo di Dio mette in discussione i dogmi attraverso la rilettura e la reinterpretazione, sino a giungere alla loro de-costruzione, non è detto sia animato da intenzioni maligne, il tutto può essere anche frutto di quella cattiva formazione teologica trasmessa ormai da oltre mezzo secolo a generazioni di presbiteri e teologi. Molti sono i miei confratelli che usciti preti dai nostri disastrati seminari e abbeveratisi al meglio delle eterodossie insegnate dentro le università ecclesiastiche, sono realmente convinti che il male sia bene, che il vizio sia virtù, che l’eresia sia ortodossia e che l’ortodossia sia eresia. Non pochi, indotti a ragionare, sono giunti ad ammettere di avere ricevuto una pessima formazione teologica e una pessima formazione al sacerdozio, cercando quasi sempre con fatica e sacrificio di porvi rimedio. Coloro che invece nulla di questo ammetterebbero mai, malgrado le loro inquietanti lacune, li stiamo vedendo diventare vescovi uno dietro l’altro.

Chi proclama dogmi che non esistono compie un errore maggiore, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono e non possono esistere, in quel caso siamo nel diabolico, perché entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore: la superbia intellettuale. L’ho scritto e spiegato in precedenza ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria – che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto – l’intero mistero del male, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa [Vedere Catechismo n. 1866].

Parto quindi con un esempio avente per oggetto i cosiddetti Soliti Noti, coloro che appena sentono il suono del magico latinorum perdono ogni senso della ragione e ogni genere di senso critico, col conseguente totale stravolgimento della realtà oggettiva. Ecco allora che S.E. Mons. Mario Oliveri, Vescovo emerito di Albenga, a loro difensivo dire non è stato affatto rimosso dalla sua sede episcopale in quanto responsabile ― in parte anche involontario ―, per avere ridotta una diocesi a un autentico lupanare, a un centro di raccolta per omosessuali palesi sbattuti fuori per gravi problemi morali da uno o anche da più seminari, sino a ritrovarsi con un numero considerevole di preti incontrollabili dediti a ogni genere di vizio e a raggiri patrimoniali utili al mantenimento dei loro vizi. Nulla di tutto questo salta minimamente agli occhi dei Soliti Noti, che imperterriti e ostinati proseguono ad affermare e scrivere che il povero Presule è stato perseguitato dalla «Chiesa modernista» perché amava il Vetus Ordo Missae, usava mitrie gemmate alte settanta centimetri e distribuiva la Santa Comunione all’inginocchiatoio sotto il baldacchino sorretto dai cavalieri in frac.

Altrettanto è accaduto ― affermano i Soliti Noti ―, ai membri della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata, non solo puniti a loro dire per avere organizzato convegni in critica a Karl Rahner, per avere indicata la pericolosità del Modernismo e della Massoneria; ma perseguitati soprattutto perché celebravano anch’essi ― manco a dirsi ― col Vetus Ordo Missae.

Sulle colonne della nostra rivista L’Isola di Patmos l’accademico pontificio domenicano Giovanni Cavalcoli e io, in seguito il teologo cappuccino Ivano Liguori e il teologo domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci abbiamo scritto nel corso degli anni su Karl Rahner, sul Modernismo e i Modernisti, sulla Massoneria e via dicendo, in toni molto critici e duri. Non ci siamo neppure limitati a sparare a raffica, abbiamo proprio esploso ripetuti colpi di mortaio pesante, con una severità assai superiore rispetto a quella usata nei passati convegni promossi dai Francescani dell’Immacolata. Dovreste pertanto domandarvi: perché non ci hanno ancora commissariati? Perché, pur avendo accusato duramente Karl Rahner indicandolo come la fonte originante tutte le eresie di ritorno che invadono oggi la Chiesa, i seminari e le università pontificie, nessuna Autorità Ecclesiastica ci ha mai rivolto alcun sospiro e meno che mai richiami?

Quando alcuni anni fa ebbi a parlare con uno tra i più insigni mariologi dei Frati Francescani dell’Immacolata, rimasi molto colpito dal suo fanatismo madonnolatrico, a seguire dalla sua superbia, perché egli dava già per proclamato il dogma di Maria Corredentrice. Di conseguenza, all’interno di quella Congregazione, il mai proclamato dogma di Maria Corredentrice era di fatto già iscritto nel depositum fidei con tanto di teologia e di culto promosso e diffuso. Il tutto nella completa indifferenza che tutti i Pontefici del Novecento, inclusi quelli particolarmente devoti alla Beata Vergine Maria, pure se supplicati più volte in tal senso non vollero mai prendere in considerazione la possibile proclamazione di questo nuovo dogma mariano. Tra costoro basti citare il Santo Pontefice Pio X, il Venerabile Pontefice Pio XII, il Santo Pontefice Paolo VI e il Santo Pontefice Giovanni Paolo II che l’emblema della Beata Vergine lo aveva voluto inciso sul proprio stemma pontificio, tanto era devoto alla Mater Dei, infine il Venerabile Pontefice Benedetto XVI, che in sua veste di teologo spiegò e chiarì con la timida mitezza ― forse anche eccessiva ― che lo ha sempre caratterizzato, che già il solo termine “corredentrice” creava problemi sul piano teologico con la cristologia.

Il Pontefice regnante ― che timido e mite non lo è ― si è espresso per tre volte [1] su questo tema ribadendo un secco e deciso no:

«La Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere quasi-redentrice o di essere co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia» [2].

La reazione dei Soliti Noti più radicali non si è fatta attendere: hanno accusato il Sommo Pontefice di essere un blasfemo e un bestemmiatore (!?). A maggior ragione è bene chiarire: se porre in discussione il dogma della immacolata concezione e della assunzione al cielo della Beata Vergine Maria è sbagliato ed eretico, per altro verso, promulgare il dogma di Maria corredentrice e agire di conseguenza, sino a diffonderne in modo impudente la teologia, è cosa di gran lunga più grave. Poi, se a fronte di queste e altre cose interviene a un certo punto la Santa Sede, inutile gridare «alla persecuzione del Vetus Ordo Missae!». Perché se vogliamo essere obbiettivi e applicare anzitutto criteri di aequitas unitamente al senso delle proporzioni, in modo del tutto ragionevole possiamo affermare che prima di calare la scure sui poveri Francescani dell’Immacolata andavano duramente colpiti i Gesuiti e assieme a loro svariati altri ordini storici e congregazioni con problemi interni assai più gravi, ma soprattutto responsabili di diffondere da decenni in modo pericoloso ― come nel caso dei Gesuiti ―, un pensiero palesemente non cattolico. Cosa questa di cui non possono essere accusati i Francescani dell’Immacolata. Se infatti questi giovani e semplici fratacchioni allevati da Padre Stefano Maria Manelli hanno errato, ciò è avvenuto per gran parte in buonafede e anche per non poca ignoranza, animati indubbiamente da tutte le migliori intenzioni interiori ed esteriori, da amore per la verità e da autentica venerazione alla Santa Chiesa di Cristo.

I Gesuiti e i membri di altre aggregazioni religiose che diffondono le peggiori teologie distruttive, possono essere duramente criticati per il modo in cui de-costruiscono o aggiornano i dogmi della fede, ma i Francescani dell’Immacolata che hanno proclamato nei concreti fatti un dogma mariano dandolo per esistente e istituendo il culto a Maria corredentrice, sul piano teologico hanno commesso un errore parecchio più grave, sostituendosi a questo modo alla più alta e suprema Autorità della Chiesa. E non si obbietti, come fanno i digiuni totali di teologia che presumono per questo di poter dissertare nelle più delicate sfere della dogmatica: «… ma San Luigi Maria Grignion de Montfort nel suo Trattato sulla vera devozione ha scritto che … ma la Madonna di Amsterdam in una rivelazione privata ha chiesto che … la tal mistica e la tal veggente hanno detto che in una rivelazione privata la Madonna gli ha chiesto che …».

La Beata Vergine Maria avrebbe chiesto di essere proclamata corredentrice con un quinto dogma mariano? Sorridiamo per non piangere su certe stupidaggini che rendono taluni soggetti parecchio arroganti e difficilmente gestibili per noi preti e per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con la loro ignoranza. Eppure la risposta è semplice: qualcuno è disposto a credere che la Beata Vergine che si è definita umile serva, la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata corredentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore?

Il termine stesso di corredentrice è in sé e di per sé una solenne idiozia teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici. Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa, la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci.

Già questo dovrebbe bastare a chiudere un discorso del tutto improponibile sul piano teologico come quello di Maria corredentrice. Una autentica idiozia teologica di cui possono nutrirsi soltanto gli ignoranti arroganti e i madonnolatri ignari di che cosa sia la vera devozione alla Beata Vergine, ma soprattutto quale è il vero ruolo affidato da Dio alla Piena di Grazia nella economia della salvezza.

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dall’Isola di Patmos, 15 agosto 2022

Assunzione al cielo della Beata Vergine Maria

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Note

[1] Cfr. 12 dicembre 2019 omelia alla Santa Messa nella festa della Madonna di Guadalupe; 30 aprile 2020, Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae; 24 marzo 2021, nel discorso durante l’udienza generale.

[2] Cfr. Santa Messa nella cappella della Domus Sancthae Marthae.

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

La «Chiesa cattolica apostolica». Quante parole usiamo e recitiamo senza conoscerne il significato? Alle radici del concetto di «Apostolica»

—  Theologica —

LA «CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA». QUANTE PAROLE USIAMO E RECITIAMO SENZA CONOSCERNE IL SIGNIFICATO? ALLE RADICI DEL CONCETTO DI «APOSTOLICA»

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede. Dunque ultima, ma non per questo ultima quanto a importanza, la nota dell’apostolicità ecclesiale getta un ponte fra l’aspetto personale e comunitario della fede. Tale connotazione, infatti, descrive la fondazione della comunità dei credenti, in un triplice senso:

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  1. La Chiesa è costruita sul fondamento degli apostoli [Ef 2,20], i testimoni scelti e mandati in missione direttamente da Cristo,
  2. Essa custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito Santo che la inabita dall’interno, l’insegnamento di Cristo, il buon deposito della fede e le sane parole udite dagli Apostoli;
  3. «Fino al ritorno di Cristo, la Chiesa continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, coadiuvato dai sacerdoti e unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa» [ CCC n. 857].

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In estrema sintesi questi tre punti offrono una visione di insieme sulla apostolicità della Chiesa Cattolica. Adesso li vedremo analiticamente, a partire dalla Sacra Scrittura dove troviamo dei chiari riferimenti alla presenza e alla scelta di Gesù dei Dodici Apostoli:

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«Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità» [Mt 10, 1-4]. I nomi dei Dodici Apostoli sono questi: il primo, Simone detto Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo d’Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, quello stesso che poi lo tradì.

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Prosegue l’Evangelista:

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«Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni [Mc 3, 13].

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E ancora:

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«In quei giorni egli andò sul monte a pregare, e passò la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» [Lc 6, 12].

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I Dodici Discepoli vengono chiamati apostoli, dal greco ἀπόστολοι (apòstoloi), in ebraico שלוחים (shelichim, plurale di שליח, shaliach, che in entrambe queste lingue significa alla lettera: inviati, perché tramite il loro ministero Gesù continua la sua missione. Nell’accogliere i dodici, si accoglie tutta la persona di Cristo, come leggiamo in «Chi accoglie voi, accoglie me» [Mt 10, 40]. Cristo sceglie proprio Dodici Apostoli. Il numero di dodici simboleggia l’universalità e richiama alle Dodici Tribù d’Israele. La novità maggiore nella sequela di Cristo, consiste non tanto nel numero, quanto nel fatto che è il maestro a scegliere i discepoli: mentre in genere nell’antichità erano i discepoli a scegliere il maestro da cui attingere insegnamenti per la vita spirituale. Dopo averli scelti, Gesù li manda a predicare prima in tutta la terra di Israele e poi successivamente ai pagani (definiti le genti o i gentili). In tal modo essi iniziano a tramandare e trasmettere l’insegnamento autentico di Cristo. A questo modo Gesù forma quindi un collegio, cioè un gruppo stabile di inviati con la missione permanente di trasmettere il suo messaggio e che ha per capo l’Apostolo Pietro. Nello svolgersi di questa missione, lo Spirito Santo dona agli apostoli tutti i mezzi e la forza necessaria che gli occorre, tramite una grazia molto speciale: essi perciò hanno gli stessi poteri di Cristo: gli inviati sono dunque in grado di annunciare e propagare i divini misteri, di perdonare e rimettere i peccati e di guarire e scacciare i demoni. Inoltre lo Spirito Santo gli dona l’intelligenza per approfondire, meditare e meglio annunciare il mistero di Cristo.

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All’interno del gruppo degli apostoli, abbiamo visto che la presenza della figura di Simon Pietro. Egli è investito di un ruolo speciale: è incaricato da Cristo come principio di unità e comunione della fede; egli è perciò capo visibile della Chiesa; gli apostoli devono essere in comunione con lui e sotto di lui per quanto riguarda la dottrina di Cristo: ciò come vedremo si applicherà anche al successore di Pietro, il papa, e ai vescovi che gli sono in obbedienza: cum Petro e sub Petro (con Pietro e sotto Pietro)

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Approfondiamo allora la figura di Pietro: egli è incaricato da Cristo ad una missione speciale. Essa è descritta in un passo molto importante del Vangelo:

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«Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”». [Mt 16, 16-18].

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Simone, a cui Gesù ha cambiato nome in Pietro, è il primo e unico a riconoscere che Cristo è il figlio di Dio, del Dio vivente. Egli ha dunque “anticipato” gli altri apostoli in questo atto di fede: perciò viene posto da Gesù capo del collegio apostolico. Tre poteri molto speciali sono donati a Pietro, che gli altri apostoli non posseggono: innanzitutto lui non verrà mai meno, perché Pietro è la pietra visibile e stabile della comunità dei credenti; in secondo luogo, egli ha il potere delle chiavi del Regno e, terzo, il potere di sciogliere e legare. Con questo intendiamo:

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«Il potere delle chiavi designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesú, il Buon Pastore [Gv 10, 11], ha confermato tale incarico dopo la risurrezione: «Pasci le mie pecorelle» [Gv 21, 15-17]. Il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesú ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [cfr. Mt 18,18] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno» [cfr. CCC n. 553].

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Tradizionalmente sappiamo che Pietro è stato martirizzato a Roma nel 64 dopo Cristo sul Colle Vaticano. In precedenza, era stato imprigionato presso il carcere Mamertino, molto vicino al Campidoglio. Pietro dunque, essendo capo degli apostoli, nel suo martirio presso Roma testimonia anche il primato della sede romana rispetto alle altre comunità di credenti. Un primato che non è di dominio e despotismo, ma di servizio e di coordinamento di tutte le altre diocesi e chiese sparse per il mondo. Anticipiamo sin da ora un concetto importante: il primato petrino non vuole sminuire la collegialità, la sinodalità e l’opera comune e comunitaria: anzi Pietro e i suoi successori sono chiamati a garantire e a conferire la dignità e autorità di tutti gli apostoli e i loro successori, i vescovi. Come infatti vedremo fra poco i vescovi sono i successori degli Apostoli. Chiariamo allora che i successori di Pietro sono coloro posti a capo della Diocesi di Roma, o appunto i vescovi di Roma. Storicamente, il vescovo di Roma, è chiamato con una serie di nomi: Pontefice Massimo, Augusto Pontefice, Sua Santità, Santo Padre, Beatissimo Padre, o con quello più noto di Papa, che secondo una teoria storica sarebbe l’abbreviazione di pastor pastorum, pastore di tutti i pastori, o pater pauperum, padre dei poveri.

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Tornando all’analisi delle figure degli apostoli, sappiamo che tutti gli apostoli, ad eccezione di Giovanni, morto in età molto avanzata, verranno martirizzati durante le loro missioni in Oriente e nel territorio dell’Impero Romano. Anche dal martirio degli apostoli, troviamo conferma che lo scopo della fondazione e della presenza apostolica è quello di portare tutta la comunità ad un fine escatologico e di santità; tutta l’opera apostolica ha la finalità di condurre tutti al regno di Dio.

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Considerando che gli apostoli e i loro primi successori (padri apostolici) morivano martiri, era necessario che il messaggio di Gesù venisse comunque trasmesso: per questo scelsero dei successori per perpetuare la missione di Cristo. Quindi conferirono l’Ordine Sacro dell’Episcopato, consacrandoli quali episcopi (vescovi), con mandato a proseguire la missione apostolica come successori degli Apostoli. In questo senso diremo anche che la Chiesa riceve la professione della fede dagli apostoli medianti i successori di coloro che furono primi aderenti al movimento gesuano.

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Adesso cerchiamo di capire perché i vescovi, ricevendo l’Ordine Sacro, divengono i successori ufficiali degli Apostoli. Se leggiamo in Atti degli Apostoli [cfr. 6, 26] troviamo che gli stessi apostoli si diedero innanzitutto dei successori con il compito di proseguire e consolidare l’opera di evangelizzazione iniziata dagli Apostoli. Quest’opera è chiamata la Traditio da due antichi scrittori della cristianità, Tertulliano e Ireneo di Lione. La Traditio dal latino viene dal verbo tradere e implica l’azione del tramandare e trasmettere la fede predicata dagli Apostoli; perciò i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori e guide della comunità ecclesiale. Questo passaggio di consegne avviene in un atto ben preciso. Dunque, la trasmissione apostolica, si conferisce tramite la ricezione del Sacramento dell’Ordine, attraverso la consacrazione episcopale.

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Chiariamo questo passaggio dell’ordinazione dei vescovi. Cristo istituì i Sacramenti, che non sono nati dalla creatività umana, sono tutti racchiusi nella Rivelazione e nei Vangeli. Questo al fine di chiarire per inciso che certe correnti del Cristianesimo non cattolico, insegnando che i Sette Sacramenti, o parte di essi, sono solo una creazione umana avvenuta in epoca successiva all’Imperatore Costantino, a partire dal IV secolo a seguire, sono in palese errore, perché tutti i Sacramenti sono di istituzione divina. Tra i Sette Sacramenti c’è il Sacramento dell’Ordine Sacro, che è unico, ma diviso al proprio interno in tre gradi: episcopato (o pienezza del sacerdozio apostolico), presbiterato e diaconato. Coloro che ricevono questo Sacramento, nel loro singolo e personale ministero sono chiamati alla missione di condurre tutta la Chiesa al bene comune e alla Santità. È dunque un compito, ad un tempo singolare e allo stesso tempo comunitario. L’azione del conferire l’Ordine Sacro è detta ordinazione: in essa è Gesù che, agendo in persona Christi tramite un vescovo, ordina un sacerdote e lo consacra vescovo: dunque conferisce al presbitero la pienezza del sacerdozio apostolico per portare avanti tale missione. L’episcopato è quindi la pienezza del sacramento dell’Ordine perché contiene la sorgente stessa da cui derivano i tre gradi del Sacramento dell’Ordine stesso. Il vescovo infatti è anche colui che ordina i diaconi e i sacerdoti, e appunto come detto precedentemente, ordina un sacerdote a diventare vescovo.

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Sinteticamente diremo che la linea di successione prevede che un apostolo, ricevuti i pieni poteri da Cristo per trasmettere il suo insegnamento e per amministrare tutti i Sacramenti, ha ordinato un padre apostolico, conferendogli medesimi poteri e missione; a sua volta il padre apostolico ha ordinato un vescovo, per gli stessi scopi. Questo vescovo, a sua volta, ha ordinato un altro vescovo e nel corso della storia, nell’ordinare in successioni tutti i vescovi, si è giunti fino ad oggi. Il tutto viene definito: successione apostolica.

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La trasmissione del mandato di trasmettere e amministrare i Sacramenti a molteplici vescovi sparsi per il mondo, come molteplici in origine erano gli apostoli, mostra che la Chiesa ha natura apostolica, dunque collegiale e comunitaria. La collegialità e apostolicità dei Vescovi implica da un lato l’unità fra il Papa e i Vescovi perché il Collegio Episcopale è legato al suo capo visibile. Il Sommo Pontefice non è tiranno ma garante del ministero stesso dei Vescovi. Infatti egli è garante dell’Unità del corpo ecclesiale ed è il fondamento visibile materiale concreto dell’Unità ecclesiale (Collegialità = elemento di unione nella distinzione).

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Dall’altro lato, la collegialità dei Vescovi implica che tale Collegio ha un alto grado di autorità sulla Chiesa intera. Le singole diocesi collaborano fra di loro, ogni vescovo può prendere delle decisioni sui fedeli che gli sono affidati senza chiedere sempre e comunque l’autorizzazione alla Sede di Roma. Inoltre, i vescovi, collaborano attivamente fra loro e con il Romano Pontefice in alcuni momenti speciali: nei sinodi o, ad esempio, in un concilio ecumenico. Un sinodo o concilio convocati dai vescovi è accettato e confermato dal Romano Pontefice, ma guidato collegialmente: perciò anche queste riunioni ecclesiali non sono mai portate avanti dal Romano Pontefice da solo, al quale però solo spetta, alla fine, decidere.

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Ora abbiamo capito in che modo il Vescovo di Roma e i Vescovi del mondo, in quanto successori degli Apostoli hanno ricevuto il mandato di Cristo. Diremo che in tale mandato essi si sono impegnati specificamente in tre compiti specifici rispetto al popolo di Dio: questi compiti prendono nome di munera (da latino dovere, compito e anche dono) e sono il munus docendi, il munus sanctificandi e il munus regendi / gubernandi.

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Munus docendi è il dovere di insegnare, trasmettere l’insegnamento di Cristo; è detto anche il magistero ordinario del vescovo. Questo magistero / insegnamento è concretizzato dal vescovo quando insegna con autorità, che deriva da Cristo, e si attua quando il vescovo insegna concretamente nelle materie di dottrina e di morale e tali insegnamenti sono in comunione con il Sommo Pontefice e la Chiesa Universale. Questo è magistero di origine divina; quindi il munus docendi è primo compito del vescovo e concretamente con esso si intende di predicare di insegnare queste verità ai fedeli. I fedeli, da parte loro, sono chiamati ad ascoltare in obbedienza attiva con un’adesione filiale sincera al loro vescovo anche ponendo delle domande, dei dubbi e dei chiarimenti per comprendere meglio questi insegnamenti, per approfondire la dottrina e viverla meglio.

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Con munus sanctificandi: si indica il dovere di condurre alla Santità tutto il popolo di Dio. Il vescovo è l’economo, cioè colui che distribuisce in parti uguali la grazia di Cristo e dello Spirito Santo nella Chiesa; ciò avviene nella amministrazione dei Sacramenti e ancora più in particolare nella celebrazione eucaristica, dove è l’Eucaristia che fa la Chiesa, la santifica e la unisce nella cattolicità; dunque la presenza vera, reale, sostanziale di Cristo nelle specie del pane e del vino rende uniti tutti i fedeli (clero e fedeli); allo stesso tempo è la Chiesa che fa l’Eucaristia, dunque la Chiesa che  la amministra e la celebra.

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Con munus regendi/ gubernandi si indica il dovere dei vescovi di reggere e governare le singole Chiese locali o le diocesi; esse hanno una loro giurisdizione propria viene esercitata per sé da ogni vescovo in modo ordinario. Con questo si intende che il potere Divino che ogni vescovo possiede in modo immediato non prevede l’obbligatoria delegazione ad altre persone: a livello concreto, però, i vescovi possono comunque stabilire di nominare dei mediatori e delegati per gestire al meglio il territorio, per esempio sacerdoti che svolgono il ruolo vicari episcopali, foranei, giudiziali e che dunque esercitano varie mansioni nel nome del vescovo.

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In conclusione questi tre munera /doveri vengono attuati mediante l’ausilio dei presbiteri o i sacerdoti, che pur non avendo la pienezza dell’ordine sacro come il vescovo, anche loro partecipano e sono corresponsabili dei tre munera. Il munus docendi ad esempio quando essi predicano, insegnano e governano il popolo di Dio, specialmente nella parrocchia. Qui il parroco è anche colui che accompagna e dunque governa il Popolo di Dio alla santità (esercizio del munus gubernandi); infine il sacerdote celebra il culto quindi amministra i Sacramenti e prega per i bisogni del Popolo e allo stesso tempo anche amministra il Sacramento della confessione (esercizio del munus sanctificandi).

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Volendo anche analizzare sinteticamente il primo grado dell’ordine, possiamo velocemente descrivere l’attività dei diaconi. Anch’essi rientrano nella gerarchia ecclesiale perché sono chiamati al servizio: diàconos è parola greca traducibile con servitore. Rientrano ancora nell’apostolicità della Chiesa, perché sono assistenti alla liturgia, possono avere i compiti catechetici e para liturgici, sebbene il loro compito principale, la loro vocazione non è la chiamata ad amministrare i Sacramenti allo stesso modo dei presbiteri. I diaconi partecipano dell’apostolicità in quanto sono chiamati al servizio, specialmente le opere di carità, la gestione di attività amministrative della Chiesa. In qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.  qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.

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Roma, 18 gennaio 2022

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Per chi volesse approfondire il tema consiglio la lettura di questi libri:

Catechismo della Chiesa Cattolica, 553; 857 – 865.

Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,18 – 23.

  1. McDowell, The fate of the apostles. Examining the martyrdom accounts of the closesest followers of Jesus, Routledge, 2016.
  2. Virgili, La resurrezione di Gesù, Crocevia, Amazon publishing, 2020.

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Lezione quasi certamente inutile per certi cattolici autodidatti sulla laicità dello Stato: il concetto di Diritto Naturale dei neoscolastici redivivi, oltre a non servire Dio e la verità, è in radicale conflitto con i due fondamenti della creazione dell’uomo: libertà e libero arbitrio

— Theologica —

LEZIONE QUASI CERTAMENTE INUTILE PER CERTI CATTOLICI AUTODIDATTI SULLA LAICITÀ DELLO STATO: IL CONCETTO DI DIRITTO NATURALE DEI NEOSCOLASTICI REDIVIVI, OLTRE A NON SERVIRE DIO E LA VERITÀ, È IN RADICALE CONFLITTO CON I DUE FONDAMENTI DELLA CREAZIONE DELL’UOMO, LIBERTÀ E LIBERO ARBITRIO

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Per noi uomini di fede, ragione e scienza è indubitabile che Dio ha instillato nel cuore dell’uomo il senso naturale del bene e del male, quindi i fondamenti di quelle leggi che in modo forse improprio, ma corretto, sono definiti come Legge Naturale. Il problema subentra al momento in cui si cerca di mutare la Legge Naturale o Legge Divina in Legge Positiva, in Leggi dello Stato che vincolano tutti i consociati. Perché a quel punto il peccato diventa reato, con conseguenze devastanti e assolutamente non auspicabili.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

L’indovino Tiresia e il Cristianesimo: la realtà della disabilità, tra gioia e speranza

—  Theologica —

L’INDOVINO TIRESIA E IL CRISTIANESIMO: LA REALTÀ DELLA DISABILITÀ, TRA SPERANZA E GIOIA

La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Ulisse e l’indovino Tiresia

Uno dei temi forti che coinvolgono molto a livello emotivo e intellettuale ogni fedele, dal singolo credente, al sacerdote, dall’uomo di cultura al teologo, è certamente il tema della disabilità. A essere precisi non esiste la disabilità in astratto, ma esistono persone con disabilità fisiche o mentali, che possono essere congenite, innate o acquisite.

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Vorrei abbozzare delle riflessioni biblico-teologiche sul tema della disabilità. Sono consapevole, insieme a tutta la tradizione cristiana, che il mistero del male e della sofferenza umana rimane mistero e non può mai essere dischiuso completamente. Però può essere contemplato, scrutato con occhio di fede, speranza e di carità e essere inserito nel piano più alto e più grande del Piano di Dio.

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In questo articolo faremo innanzitutto alcune considerazioni storiche su uno dei più noti e antichi disabili della storia, l’indovino Tiresia. Successivamente, ci sposteremo sul tema della sofferenza nell’ambito cristiano.

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UN DISABILE NOTO ALL’ANTICHITA’. TIRESIA, INDOVINO CIECO.

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La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema. Tanto che recentemente si è lasciata interrogare dalla disabilità, provando a costruirne una riflessione. Anzitutto vorrei segnalare il testo di Gian Antonio Stella: DiversiLa lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, recentemente edito dal noto giornalista del Corriere della Sera. Con un taglio giornalistico, Stella cerca di fare un excursus a partire da diverse figure storiche di persone con disabilità che hanno davvero proposto la loro esperienza innovativa per il tempo della storia in cui hanno vissuto. Non vorrei soffermarmi su questo testo però [1].

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Da qualche tempo la cultura siciliana ha perso uno dei suoi scrittori più fecondi, Andrea Camilleri. Quasi come un testamento, insieme ad alcuni libri ora in uscita, l’autore di Porto Empedocle, noto per aver creato il personaggio del commissario Montalbano, ha pubblicato un testo intitolato Conversazioni su Tiresia. Si tratta di un piccolo libriccino che riporta fedelmente il testo dello spettacolo omonimo andato in scena lo scorso giugno 2018 e interpretato dallo stesso Camilleri.

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Il tema centrale del testo, come dice il titolo, è la figura dell’indovino Tiresia. Figura leggendaria, di cui si sanno poche cose. Certamente, di lui, si sa che è originario di Tebe, ha una figlia di nome Manto, anche lei indovina, ma soprattutto che è cieco, o come si direbbe oggi: non vedente. Il testo teatrale è un piccolo excursus fra ironia, scherno e qualche frecciatina al mondo attuale, di come questa figura sia stata descritta, schernita e al tempo stesso amata e rispettata nel corso dei secoli. Notoriamente, l’antichità greca ha prodotto una serie di fonti su Tiresia. La cosa più interessante da notare è che in una antichità precristiana, che ha avuto un rapporto difficilissimo con i disabili, una figura di disabile fisico come Tiresia è invece rimasta viva nella scrittura di questi autori. Certamente, la figura dell’indovino tebano, è interessante innanzitutto per una riflessione culturale sulla disabilità.

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Lo Pseudo Apollodoro provò a spiegare da dove si originava la cecità di Tiresia. Dunque riportò tre narrazioni, nella sua Biblioteca; sono particolarmente interessanti la seconda e la terza narrazione[2], raccontate teatralmente anche nel testo di Camilleri. Nella seconda narrazione, quella secondo Apollodoro, Tiresia è figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo: la cecità viene dalla punizione di Atena che Tiresia vide nuda farsi il bagno; allora intervenne Cariclo che chiese pietà per il figlio. Atena non tolse la cecità allo sciagurato voyer, ma vi unì la capacità di essere indovino. La terza narrazione Apollodoro la riprende dal poeta greco Esiodo, ed è la più complessa, perché inserisce altri elementi. Tiresia meditava mentre camminava sul monte Citerone: qui vide due serpenti nell’atto della unione sessuale e allora schifato decise di calpestare e uccidere la femmina. Non appena l’aspide lascivo fu schiacciato, magicamente Tiresia si trasformò da uomo a donna. Questa immagine, induce Camilleri a mettere sulla bocca di Tiresia una considerazione teologica legata ai serpenti:

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«A me adolescente piaceva molto fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi avviticchiate nell’atto della riproduzione. Ero sovrappensiero, per questo reagii come mai avrei dovuto. Perché coi serpenti, sul Citerone, bisognava andarci cauti. Zeus per possedere Persefone si mutava in serpe e anche Cadmo “s’asserpentava” per le sue scappatelle. Quindi in quei rettili poteva celarsi un dio»[3].

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Torneremo su questo particolare fra poco. Osserviamo come Tiresia è davvero saggio: è cioè in grado di andare oltre l’aspetto materiale e cogliere la natura divina anche di un atto così animalesco come l’unione sessuale. Comunque, procedendo con la narrazione, sappiamo che in seguito l’indovino tebano tornò uomo, ma la sua malasorte non era terminata. Infatti, in un tempo indeterminato, Zeus ed Era litigavano e spesso si trovarono divisi da una controversia: se nell’atto dell’amplesso provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscivano a giungere a nessuna conclusione perché infatti le due posizioni principali si fronteggiavano fortemente: Zeus, sosteneva infatti che fosse la donna, mentre Era che fosse l’uomo. Per dirimere la disputa decisero di rivolgersi Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolverla poiché aveva saggiato sia la natura maschile sia femminile. Forse sarebbe stato meglio se Tiresia avesse seguito il vecchio adagio di non mettere il dito fra moglie e marito[4]. Ma, per quella volta, non fu prudente su questo. Dunque, una volta chiamato in causa dai due dèi litigiosi per risolvere la vexata quaestio, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. Tiresia pensò di rispondere così facendo un piacere ad Era, ritenendo che la dea avesse risposto secondo il suo stesso ragionamento. La dea, invece, rimase infuriata perché Tiresia aveva svelato quel segreto: e così lo accecò. Invece Zeus, contrario alla reazione della moglie, decise di riparare al danno subìto, e diede facoltà a Tiresia di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. E Questo, nell’ottica greca, implicava avere una vita praticamente eterna.

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Ecco allora i tre elementi sottolineati nella disabilità di Tiresia: la cecità segue la punizione di aver saputo un segreto profondo dell’uomo. Tiresia, un po’ come Prometeo, ha la colpa di essersi azzardato a intuire e ragionare, arrivare oltre l’arrivabile: dunque di essere entrato nelle sfere più alte della intimità dell’uomo e della donna. Di aver saputo sciogliere il segreto stesso della donazione totale dell’uomo alla donna e viceversa, dunque della loro identità profonda. Al tempo stesso, Tiresia è entrato nel segreto profondo del piacere corporeo e della origine della vita.  Era davvero non può reggere questo affronto. Così, pensa di fare un dispiacere a Tiresia, accecandolo: ma così facendo in realtà lo toglie dalla visione delle cose materiali e lasciandolo per sempre alla visione di informazioni, nozioni e concetti più alti. Oserei dire che Tiresia può essere quello schiavo nella caverna platonica che liberato dai lacci delle visioni materiali vede finalmente la luce delle Idee, nella eternità della verità senza tempo. Non voglio però entrare in una analisi platonica.

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Tornando invece alla disabilità di Tiresia si aggiunge, con l’azione di Zeus, il dono della preveggenza e della vita eterna. Il capolavoro antropologico di Tiresia il tebano è definitivamente compiuto. La disabilità, tanto condannata, tanto stigmatizzata nel mondo greco, è invece, in Tiresia, carica di un insieme di doni straordinari donati dagli dei[5]. E poco importa dunque la mancanza di luce sulle cose quotidiane.

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Tiresia conosce il dato presente nei suoi segreti più intimi. Lo stesso dicasi per gli eventi futuri: conosce ciò che è più profondo, ciò che è più ricercato da ogni uomo greco, filosofo, matematico, astronomo o storico che sia. Scrive a questo proposito lo studioso Paolo Scarpi:

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«[…] La cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino […] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, […], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. […] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco […] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista)»[6]

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A conferma di questo ci sembra interessante notare cosa pensa la Odissea dell’indovino tebano. Omero offre un compito importante a Tiresia, nel canto decimo infatti leggiamo:

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«per chiedere all’anima del tebano Tiresia,

il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:

a lui solo Persefone diede anche da morto,

la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti»[7]

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Ulisse, nell’Ade, è costretto a cercare Tiresia, per venire a conoscenza della strada per il ritorno ad Itaca. Nei versi del poema omerico, leggiamo fra le righe che solo a Tiresia sono concessi i doni straordinari che lo rendono così saggio. Aggiungo ancora un paio di elementi: nella Tebaide, il poeta Stazio descrive che Tiresia, sordomuto e cieco allo stesso tempo, conserva i suoi poteri straordinari. Qui, la disabilità fisica, è ancora più accentuata, non di meno però la saggezza e la profezia rimangono. E avranno un ruolo drammatico in Sofocle.

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Nell’Edipo Re, Tiresia è chiamato profetizzare anche il celeberrimo incesto fra Edipo e Giocasta e l’uccisione di Laio: in questa tragedia la profezia del cieco è addirittura un elemento di aiuto alla scoperta circa una azione morale condannata dal tempo. L’apporto di Tiresia diventa fondamentale nello scioglimento del dramma di Edipo.

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Tornando e concludendo la lettura del testo di Camilleri, trovo una splendida poesia dedicata a Tiresia a opera del poeta Thomas Sterne Elliott

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«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,

vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere

all’ora viola, l’ora della sera che volge

al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,

posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,

accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.

Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare

Le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,

sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate

calze, pantofole, camiciole e corsetti.

Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,

percepii la scena, e predissi il resto –

anch’io attesi l’ospite aspettato.

Lui, il giovane pustoloso, arriva,

impiegato di una piccola agenzia di locazione, con un solo sguardo

baldanzoso,

uno del popolo a cui la sicumera sta

come un cilindro a un cafone arricchito.

Il momento è ora propizio, come lui congettura,

il pranzo è finito, lei è annoiata e stanca,

cerca di impegnarla in carezze

che non sono respinte, anche se indesiderate.

Eccitato e deciso, lui assale d’un colpo;

mani esploranti non incontrano difesa;

la sua vanità non richiede risposta

e prende come un benvenuto l’indifferenza.

(E io Tiresia ho presofferto tutto

Quello che è stato fatto su questo stesso divano o letto;

io che sedetti sotto le mura di Tebe

e camminai fra i più umili morti).

[…]

A Cartagine poi venni

Ardendo ardendo ardendo ardendo

O Signore Tu mi cogli

O Signore Tu cogli

Ardendo[8]

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L’analisi della disabilità di Tiresia mostra dunque come la disabilità abbia una valenza contraddittoria nel mondo pre-cristiano: nel quale si evidenzia un rapporto di dannazione, stigma, allontanamento e, dall’altro, quasi invece uno stato di elevazione a conoscenza superiore. Il tema della disabilità, per i greci richiamava dunque una conoscenza sapienziale del presente, una conoscenza profetica del futuro, un richiamo a una vita eterna (certo non delle stesse caratteristiche del Regno di Dio cristiano). Ovviamente, l’aspetto totalmente assente nella disabilità di Tiresia, come del resto a tutta la riflessione greca prima della venuta di Cristo, è ovviamente il legame fra attività divina e umana: quel rapporto fra grazia e natura che verrà solo successivamente scandagliato dalla teologia cattolica.

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Tiresia subisce infatti la disabilità nella sua natura umana come castigo: non è spiegato dai miti greci in quale modo, dopo aver ottenuto la disabilità, la sua persona sia portata, tramite la disabilità, a un cammino di perfezionamento e di elevazione morale con l’aiuto degli Dei. La disabilità, in Tiresia, è insomma una speciale metodologia epistemologica ma non di santificazione. Uno speciale modo di conoscere ma non di elevarsi ad un rapporto con il sacro. Di segno completamente diverso è invece, il senso della sofferenza fisica, e dunque anche una disabilità visiva, dall’avvento di Gesù Cristo: tutte le disabilità rientrano nell’afflizione e nell’amore sofferente di Cristo. Si possono dunque riunire sotto la grande categoria della sofferenza.

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AFFLITTI MA INTIMAMENTE UNITI NELL’AMORE SOFFERENTE DI GESU

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È certa una cosa. Riguardo il cristianesimo, esso è fondato da Gesù ed è una religione della gioia; infatti, il cristianesimo, è iniziato con un imperativo gioioso. «Kaire/Rallegrati Maria!» [9] così l’arcangelo Gabriele salutò l’adolescente Maria. Certamente riconosciamo con Joseph Ratzinger che «Il cristianesimo è dunque la fede della gioia»[10]. Eppure, all’interno del cammino di una fede cattolica che sia gioiosa, essa non fugge da alcune tematiche particolarmente delicate come la sofferenza, la penitenza e il dolore. Pensiamo per un momento che nel cammino della Chiesa Cattolica esiste un grande periodo di penitenza e ascesi: la Quaresima. Questo perché la Quaresima è innanzitutto tempo di conversione, ma anche tempo di deserto e riflessione. In quel periodo c’è un invito a soffermarsi, nella nostra preghiera o meditazione personale, su quelle tematiche che risultato ordinariamente di difficile assimilazione e trattazione, come il peccato, la morte, la malattia, il dolore. La sofferenza è un tema molto delicato. Soprattutto è delicato perché è vissuto da uomini e donne. Tema che tutti quanti in prima persona abbiamo toccato. Questi uomini sono sofferenti. Dunque sono afflitti. In effetti uno dei temi di cui anche l’Antico Testamento ci parla è proprio la sofferenza. Pensiamo ad esempio alla storia presente nel libro di Giobbe. Uomo giusto, oggi diremo un pio, una persona perbene e molto devota. Il Signore, allora, permette al diavolo che Giobbe sia provato nella sofferenza morale, ricordiamo infatti che furono uccisi tutti i suoi figli; quindi, materiale, ricordiamo che perse tutti i suoi averi; infine fisica, ricordiamo che si ammala gravemente di lebbra e viene isolato da tutti, tranne che da quattro amici.

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In Giobbe, secondo gli esegeti, troviamo quatto reazioni tipicamente umane. La prima è  l’accettazione (cfr. Gb 1,22). Egli accetta pacificamente che tutto questa gli venga da Dio. Allo stesso tempo pretende da Lui anche una specie di contraccambio in futuro. La seconda reazione, è la ribellione (cfr. Gb 3, 1). Egli desidererà addirittura morire. È reazione tipica anche dei malati di oggi: è desiderio di tranquillità e di pace. La terza reazione è l’affidamento (cfr. Gb 40). Giobbe si affida a Dio riconoscendo la sua piccolezza, il proprio essere creatura creata, rispetto a Dio creatore increato. Quindi si affida veramente al Creatore perché riconosce di essere stato orgoglioso e pretestuoso nei suoi confronti. Quarta reazione, la ricompensa ultraterrena (Gb 42,7). A Giobbe viene restituito tutto ciò che aveva perso in modo raddoppiato [11].

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Giobbe è un afflitto. Dio dopo un cammino di conversione, di purificazione e crescita viene consolato da Dio. Rimasi molto colpito quando anche io ascoltalo la voce di un afflitto. Un afflitto di qualche anno fa: ma che nel suo oggi, come oggi è stato abbandonato da tutti. Per questo vorrei adesso farvi ascoltare la voce di quel genere di afflitto che, al contrario di Giobbe, non ce l’ha fatta.

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«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.  […]  Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. […] Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.  […] Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene»[12].

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È terribile leggere righe del genere. È quasi impossibile empatizzare il dolore di un giovane che vuole togliersi la vita. È assolutamente impossibile comprendere il dolore di quei genitori che hanno perso un figlio in questo modo.  Eppure, questo giovane era un afflitto. Un afflitto lasciato solo da tutti: abbandonato alla mentalità e alla moda del mondo, che crede e inculca a tutti che il suicidio sia l’unica via per vivere la propria libertà. Questa è la libertà che il mondo di oggi vuole convincere anche noi cattolici che sia quella da vivere: una libertà che non è liberta vera. Quella libertà che si esprimerebbe nelle tecniche di suicidio assistito e di eutanasia, come avvenuto per il caso, salito alla ribalta dei telegiornali, di Dj Fabio. Anche Dj Fabio era un sofferente, uno che biblicamente chiameremo afflitto[13]. Il mondo, invece che donargli la vera libertà, lo ha abbandonato definitivamente. Lo stato di diritto gli offre addirittura ragione e giurisprudenza per fondare il convincimento che dalla sofferenza si esce solo suicidandosi. Come se il suicidio fosse espressione massima di una “libertà”[14]. Quella libertà che elimina la sofferenza e l’afflizione. Perché una vita sofferente e afflitta non ha valore, allora si elimina. Si prende e si butta via. E si maschera tutto con la parolina magica: li–ber–tà. Tre sillabe con cui oggi si cavalca l’onda e si permette tutto.

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«Noi viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita»[15]

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C’è un’unica risposta a questa terribile convinzione della cultura odierna. La vera risposta che ognuno di noi può dare è questa: la gioia di Gesù Cristo. Si risponde ad una logica di morte, di cultura dello scarto, di necrocultura semplicemente mostrando la gioia e l’amore che Gesù ebbe nei confronti degli afflitti. Perché Gesù Cristo stesso si è spesso incontrato con la sofferenza. Gesù ha cioè incontrato persone sofferenti e afflitti: chi nel corpo e chi nello spirito. E si è messo al servizio loro e dei loro parenti e amici. Per questo ha potuto relegare un posto speciale nelle beatitudini proprio ai sofferenti: «Beati gli afflitti… perché saranno consolati»[16].

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Se diamo un’occhiata al Vangelo della resurrezione di Lazzaro, vediamo subito come Gesù si relaziona di fronte alla morte del suo caro amico Lazzaro. Gesù stesso piange. È afflitto, e vive questo momento insieme ad altri afflitti. Proviamo a seguire il testo del Vangelo da vicino:

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«Gesù voleva molto bene (agapan = amava con misericordia) a Marta, a sua sorella [Maria] e a Lazzaro. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (= pepisteuka, il verbo greco esprime un forte atto di fede) Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente (embrimastai = prendere in collera), si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!”. Dopo aver riposto la pietra in cui Lazzaro era stato posto, Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”»[17].

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Proviamo a leggere il testo in modo analitico. Al versetto 5 vediamo innanzitutto che Gesù compie l’azione dell’agapan cioè amava profondamente Marta, Maria e Lazzaro. Agapao è il verbo greco da cui viene agapè, che noi appunto traduciamo con Misericordia. Quindi li amava con misericordia. Inoltre ai versetti 20 – 27 Gesù viene rimproverato da Marta, in seguito anche da Maria, di non essere stato presente al momento della morte di Lazzaro. Ottiene da loro un atto di fede nella vita eterna che avviene tramite la Sua Presenza: la presenza di Gesù, Figlio di Dio nel mondo. Successivamente (cfr. V.33) quando poi viene a sapere della morte di Lazzaro, Gesù si commuove: ha un moto di passione collerico (così il verbo greco embrimastai), di avversione nei confronti della morte che è uno degli effetti provocati dal peccato originale a sua volta generato dal diavolo. Gesù stesso, dunque, esprime avversione e ostilità nei confronti della morte. Commentando i versetti 41 – 42, l’esegeta Brown scrive:

«Attraverso l’esercizio del potere di Gesù, che è il potere del Padre, essi conosceranno il Padre e così riceveranno la vita essi stessi. Gesù non otterrà niente per sé, egli vuole solo che i suoi ascoltatori conoscano il Padre che lo ha mandato. […] La cosa cruciale è che Gesù ha dato la vita fisica come segno del suo potere di dare la vita eterna su questa terra e come promessa che nell’ultimo giorno resusciterà i morti»[18].

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Marta, Maria e Lazzaro sono afflitti. Gesù gli fa scoprire, proprio nell’afflizione, un rapporto vero e reale con Dio. La sofferenza allora diventa uno dei possibili “luoghi” dove incontrare veramente l’Amore del Signore e riceverne consolazione. Come Dio fece con Giobbe e come adesso fa Gesù con Lazzaro. In effetti, l’afflizione, può generare un senso di isolamento: come abbiamo visto finora, la sofferenza, se per un verso è un’esperienza, per altro verso è al tempo stesso una esperienza solitaria, permessa da Dio al singolo e solo al singolo. In maniera indiretta va a colpire anche i parenti, gli amici e i vicini dell’afflitto, ma serve innanzitutto alla singola persona. Questi afflitti non sono così lontani nel tempo e nello spazio dalle nostre vite.

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Anche noi possiamo essere misericordiosi e mostrare l’amore di Dio agli afflitti. La gioia e vitalità di Gesù possiamo esprimere e comunicarla attraverso questi nostri fratelli sofferenti? Tramite l’esercizio delle opere di misericordia materiali e corporali è possibile esprimere il senso biblico della consolazione. Ecco il nesso fra consolazione e senso di fratellanza: saper entrare nel dramma di qualcuno e supportarlo. Essere davvero con– fratelli tramite la Misericordia/Agape di Dio per l’altro. Vivere aiutando chi è afflitto significa essergli di supporto. Nell’essere supporto allora ci sono tre derive che vanno assolutamente evitate:

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α) il compiangere l’afflitto. Si rischia cioè di creare una vittimizzazione. Tramite questa dinamica, la persona rimane incastrata nel proprio dolore e chiudendosi in un narcisismo che le impedisce di stare meglio [19].

β) L’effetto narcotico. Cioè il cercare di togliere di mezzo il dolore addormentando la coscienza su esso. La persona quindi è spinta dalla società a vivere come se non esistesse il dolore. Questo spinge a una superficialità, che è pericolosa perché rimanda il problema del dolore e lo aggrava[20]. In effetti fuggire da un problema significa aggravarlo.

γ) Invitare l’afflitto a guardare chi sta peggio di lui: non c’è di peggio che fare dell’esistenza come una classifica della serie A e dire chi sta meglio e chi sta peggio. Non ha senso consolare una persona dicendogli “siccome c’è chi sta peggio di te, devi stare bene” [21].

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Vediamo un po’, allora, l’opera di misericordia di consolare gli afflitti in cosa consiste per davvero. Ci saranno di aiuto le parole del presbitero Fabio Rosini che scrive:

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«Il dolore fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione si sostiene, il cuore è sereno; se però, il dolore è senza spiegazione diventa allora insostenibile. L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, che la indirizzi, di un’indicazione che ne orienti la comprensione» [22]

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La stessa parola consolazione (in ebraico nacham), biblicamente si rende coi verbi di riposare, fermarsi, trovare tranquillità o anche dare rifugio[23]. È quello che poco fa abbiamo visto fare Gesù con gli afflitti parenti di Lazzaro.  Pacificare una persona significa donargli quella parola di pienezza, di comprensione, di senso che il dolore sembra avergli sottratto.

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«Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore, lo sguardo, lo spirito a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà completezza»[24].

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In un certo senso tutti i cristiani sono chiamati a consolare, ricordare che sono proprio loro i chiamati a dare questa completezza. Dunque questa è la chiamata a essere coloro che ricordano che Dio è innanzitutto speranza nella sofferenza. Ricordare al mondo e alla cultura attuale che sperare è un atto tipicamente umano, ma allo stesso tempo elevante: perché permette anche al peggiore degli afflitti di elevarsi oltre il proprio dolore. Come scrive sempre Fabio Rosini, consolare, dare speranza significa in fondo, fare un atto di misericordia che “faccia presente l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore”[25]. Questo permetterà anche a noi di riprendere anzitutto a sperare. E sperare è atto tipicamente cristiano. Di più, sperare è l’atto tipicamente cattolico! Perché il credente è colui che ha riposto ogni fiducia in Gesù. E proprio come Marta e Maria, esprime ad alta voce questa sua speranza proprio nel dolore. Tenete sempre a mente questo, mentre preparate i panini per gli indigenti, mentre preparate la barella spinale, mentre risistemate i presidi di protezione civile. Sperare significa innanzitutto accendere l’attesa di un Dio che è il bene assoluto immensamente buono.

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Ciascuno di noi può essere portatore di speranza, portatori della gioia anche all’afflitto dei quartieri più poveri, all’afflitto per un lutto o per una depressione, o appunto di una disabilità. Ecco allora che rapportando queste riflessioni alla disabilità, diremo che anche la persona con disabilità, nonostante le sue afflizioni e i suoi dolori fisici, è chiamato a un cammino di gioia e di santificazione. C’è sempre un piano superiore a cui Dio Padre orienta, come ha orientato le sofferenze di Gesù della Passione, alla gioia della Resurrezione. Anche noi saremo così trasportati nella gioia della consolazione. Perché quando consoleremo un afflitto, questo ci farà scoprire davvero la gioia della nostra vita. Tutta la nostra vita sarà saper far riscoprire la presenza di un Dio Trinitario, che è con noi anche nel dolore. È amando chi è afflitto, facendo riscoprire a lui questa gioia di vivere, potremo dire insieme al poeta Giacomo Leopardi «Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando» [26].

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Roma, 4 novembre 2020

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NOTE

[1] Il lettore può consultare per approfondimenti: G. A. Stella, Diversi – La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, Solferino, 2019, Milano.

[2] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7.

[3] A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Sellerio, Palermo, 2019.

[4] A. Camilleri, op.cit.

[5] Su questa stessa linea si pone M. Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, 40.

[6] Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduz. di M.G. Ciani, Monadori, Milano, 1996, 55.

[7] Odissea X, 492 e sgg., Traduzione di G. Aurelio Privitera

[8] T.S. Elliott, Terra desolata citato in A. Cammileri, Conversazioni su Tiresia, 41 – 42. Ricontrollare pagina.

[9] Luca 1, 26.

[10]J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, Morcelliana, Brescia, 69.

[11] S. Pinto, I segreti della Sapienza, Introduzione ai libri sapienziali e poetici , San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, 21 – 23.

[12] Lettera di M., un suicida trentenne, tratto da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837 ultimo accesso 10/01/20 ore 18.07.

[13] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2017/02/28/fidanzata-dj-fabo-vorrei-notte-non-finisse_n_15055120.html ultimo accesso 23 marzo 2017 ore 16.43).

[14] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/25/news/consulta_cappato_dj_fabo_sentenza-236870232/ ultimo accesso 10/01/10 ore 18.16.

[15]A. D’AVENIA, L’arte di essere fragili, 2016, 147.

[16] Mt 5,4

[17] Vangelo secondo Giovanni, capitolo 11.

[18] R. E. Brown, Giovanni, 2014, pp 567 – 568

[19] Fabio ROSINI, Solo l’amore crea, 2016, p. 121.

[20] Ibidem.

[21] Fabio ROSINI, op,cit, p. 122.

[22] Fabio ROSINI, p. 120.

[23] Fabio ROSINI, p. 127.

[24] Fabio ROSINI p. 129.

[25] Fabio ROSINI, p. 129.

[26] (Zibaldone 1819 – 1820.)

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«Io sono Roberto Bolle, non un pollo che razzola nel pollaio». Quei cattolici depressi e deprimenti che rinchiudono la morale dentro un preservativo e che considerano il sesso come centro dell’intero mistero del male

— Le Pagine di Theologica —

«IO SONO ROBERTO BOLLE, NON UN POLLO CHE RAZZOLA NEL POLLAIO». QUEI CATTOLICI DEPRESSI E DEPRIMENTI CHE RINCHIUDONO LA MORALE DENTRO UN PRESERVATIVO E CHE CONSIDERANO IL SESSO COME CENTRO DELL’INTERO MISTERO DEL MALE

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Un Tale mi invia questo messaggio: «Come promesso compatibilmente con i miei impegni ho provveduto a fare un video in risposta alle sue eterodosse affermazioni sulla contraccezione. Convinto che personalmente conosca cosa è sana dottrina e quindi da ritenersi e cosa da scartare. Certamente tornerà utile ai tanti fedeli che da anni ci seguono e che hanno l’obbligo di conoscere la verità su questioni di tale importanza». Dal canto mio intendo chiarire che se un laico accusa di eresia sulla pubblica piazza dei social media un ministro in sacris e un teologo, è quanto meno doveroso difendere la propria dignità di sacerdote e di studioso dalle false accuse di un soggetto rivelatosi alla prova dei fatti un teologo dilettante.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Oltre l’utopia e il disincanto: la speranza cristiana oggi

— Theologica —

OLTRE L’UTOPIA E IL DISINCANTO: LA SPERANZA CRISTIANA OGGI

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La speranza cristiana, oggi deve farsi largo con molto impegno e fatica tra le nuove esperienze di millenarismo, fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21 dicembre del 2012. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, ci possiamo spostare verso ben altra dimensione, quella che ci apre le porte alla prospettiva della speranza cristiana.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Il teologo domenicano Daniele Aucone

Daniele Aucone, sacerdote e teologo domenicano della provincia romana Santa Caterina da Siena [cf. vedere QUI], già autore de La questione della comunità tra filosofia e Teologia [Ed. Nerbini, cf. QUI] propone al pubblico di studiosi e ricercatori il suo ultimo libro, Oltre l’utopia e il disincanto – La speranza cristiana oggi, frutto anche del lavoro di dissertazione dottorale in teologia [Ed. Angelicum University Press, cf. QUI].

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Il tema centrale del testo è la speranza, come si evince dal titolo; l’autore cerca di delineare e individuare in essa traiettorie feconde [cf. pag. 10] per rinvigorire l’annuncio di questo tema assai caro alla teologia cattolica. Speranza che per i credenti risiede nel volto e nell’incontro di Gesù Cristo.

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Il testo si divide in due parti: nella prima parte il Padre Daniele Aucone si sofferma a scandagliare la società e la cultura occidentale e la prospettiva dell’attesa, a partire da diversi autori: Kojève e Zizek fra gli altri. Nella seconda parte, invece, egli si sofferma a generare una prospettiva teologico-sistematica della speranza, facendosi aiutare da diversi autori fra i quali Theobald, Durand e Mendoza – Alvarez.

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l’ultima opera del teologo domenicano Daniele Aucone

La prima parte può definirsi strictu sensu come una descrizione di un “urlo” della società post-moderna che, ormai tramontate le speranze mondane, si racchiude fra rassegnazione, disillusione e nuove paure.

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Alexander Kojève, nella veste di interprete del fine della storia in senso hegeliano, spalanca le porte ad una ricerca di immortalità terrena. Slavko Žižek allora conduce una analisi della prossimità del punto zero, in cui si porge una apocalittica di tipo classico in cui vive solo una panoramica di scenari di panico. In questa prima parte, ci sembra molto interessante, anche per il lettore meno esperto di materia filosofica, la accurata sezione che narra le nuove esperienze di millenarismo: fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21/12/12. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, finalmente l’autore può effettuare una transizione e spostarsi verso la prospettiva della speranza cristiana. Scrive il Padre Daniele Aucone:

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«In questo contesto di disagio dell’Occidente contemporaneo infatti, ma anche di ricerca di senso e di direzione, è chiamato a inserirsi il messaggio della speranza cristiana quale attesa dell’incontro definito con il Risorto come τέλος [N.d.R. telos, “scopo”, “fine”] e  πέρας [peras: “illimitato”, “infinito”] della storia». [cit. pag. 114].

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La speranza è allora un dono, un generare un desiderio all’Homo Desiderans, oltre la pretesa postmoderna di una vita liquida, per fondare saldamente una vita degna nel tempo della Fine. È speranza che infine permette di fuggire dalla tirannia del tutto e subito, di un’attesa del tempo definitivo fondata sulla memoria resurrectionis; infine, spunto molto interessante che l’Autore riprende dal teologo Roberto Repole: la speranza intesa come Pensiero Umile ed apertura alla prospettiva della Rivelazione, oltre il pensiero debole vattimiano, ma senza neanche pretendere di risolverla del tutto, oltre l’impensabile ritorno ad un pensiero forte: la speranza è radice di un pensiero umile [cit. pag. 116].

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Nella analisi della sezione biblica, si chiarifica abbondantemente il senso della apocalittica nell’orizzonte esegetico attuale, mostrando come l’analisi dell’ultimo libro della Bibbia, lungi da prospettive circa «la fine del mondo» vuole invece mostrare come ci siano varie fini, che chiudono diverse epoche storiche; e al tempo stesso l’Apocalisse svela un narcisismo di fondo dell’uomo contemporaneo, che nasconde una profonda instabilità esistenziale [cit. pag. 126].

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la precedente opera del teologo domenicano Daniele Aucone

A partire dagli studi di Cristoph Theobald, il Padre Daniele Aucone propone infine il Cristianesimo come stile di vita col quale abitare e vivificare il mondo; ciò è possibile perché esso genera legami di fraternità oltre lo spazio e il tempo, che superano l’individualismo attuale. [cit. pag. 142]. Nella sezione teologica, egli si lega al pensiero del confratello domenicano Emanuel Durand che offre riflessioni interessanti sulla teologia della Provvidenza. Per molti credenti si è infatti notato che la fede nel Dio Creatore non portava ad una profonda attenzione alla sua opera di provvidenza, anche nel più piccolo quotidiano. Con il Padre Emanuel Durand c’è il recupero di una teologia della provvidenza in cui, l’uomo è fondato da una continua relazione vivente con Dio. Il Signore della creazione, ne conclude quindi il nostro Autore insieme al teologo domenicano Emanuel Durand, agisce tramite fenomeni puramente naturali, oltre che in quelli miracolistici: la provvidenza ha dunque un’azione nel necessario e nel contingente: nulla sfugge alla mano invisibile, materna e al tempo stesso collaborante con l’uomo del Dio Trinitario [cit. pag. 163].

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Interessantissimi sono infine i cinque spunti finali sulle attuali missioni ecclesiali, che compongono l’ultimo capitolo: una nuova missionarietà della Parola [cit. pag. 267], una evangelizzazione nel soffio dello spirito [cit. pag. 270], una attenzione per una ecologia umana integrale [cit. pag. 273], una formazione alla fraternità e comunione [cit. pag. 277] e infine una trasfigurazione del tempo mediante la celebrazione liturgico – sacramentale [cit. pag. 281].

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Il libro è vivamente consigliato agli appassionati della teologia, oltre che agli addetti ai lavori per la una ventata di novità circa la speculazione teologica sulla speranza e l’escatologia, in grado di uscire dagli schemi classici e proporsi anche in confronto con la cultura attuale. Soprattutto, gli spunti circa le missioni ecclesiali possono essere fonte per una meditazione personale, oltre che speculativa, anche per gettare linee guida pastorali.

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Roma 27 maggio 2019

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C’erano una volta l’Eucaristia ed il Sacerdozio Cattolico, poi giunsero Kiko Argüello e Carmen Hernandez fondatori del Cammino Neocatecumenale … e l’eresia si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi

 — i saggi di Theologica —

C’ERANO UNA VOLTA L’EUCARISTIA E IL SACERDOZIO CATTOLICO, POI GIUNSERO KIKO ARGÜELLO E CARMEN HERNÁNDEZ FONDATORI DEL CAMMINO NEOCATECUMENALE … E L’ERESIA SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI

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INDICE: I. Eresia non è una parola indecente e dare dell’eretico a chi cade e permane in eresia sostanziale e formale non è un insulto, ma una semplice constatazione di fatto — II. Il primo equivoco da sfatare: se il Cammino Neocatecumenale si è sviluppato sotto i pontificati di due Sommi Pontefici Santi, questo lo rende per caso santo e dogma intangibile della fides catholica? — III. I Neocatecumenali prendono vita sulla crisi di autorità della Chiesa e si sviluppano sotto il pontificato di Giovanni Paolo II dopo avergli presentata la famiglia de Il Mulino Bianco — IV. Il Cammino Neocatecumenale ha resa nuovamente attuale la vecchia eresia degli albigesi, senza che l’autorità ecclesiastica ponesse freno al fatto che l’Eucaristia non è un bene privato di cui essi possano disporre a proprio piacimento — V.  Quando la Chiesa trova tutte le scuse per non ascoltare le vittime di vario genere, alla fine finisce col ritrovarsi con i cardinali alle sbarre dei tribunali penali, ma anche in tal caso seguita imperterrita a non ascoltare — VI. La grande menzogna dei dirigenti del Cammino Neucatecumenale: affermare che la Chiesa ha riconosciute e pienamente legittimate le loro stramberie liturgiche e catechetiche — VII. A rendere sano un movimento bastano le tante brave persone che lo formano? sono sufficienti le testimonianze di chi afferma: «Nel Cammino mi sono convertito», «Nel Cammino mi sono riavvicinato alla Chiesa»? VIII. Il Pontefice regnante non ha tardato a lanciare anch’esso precisi richiami ai kikos ed ai mega-catechisti del Cammino Neocatecumenale ottenendo l’effetto ottenuto dai suoi tre predecessori: orecchi da mercante — IX. I Neocatecumenali sono la negazione del sapiente spirito missionario della Chiesa, ed anziché portare nuove genti al Cattolicesimo fanno nuovi adepti al Neocatecumenalesimo — X. Il Cammino Neocatecumenale è una psico-setta nella quale si annulla il senso critico dopo avere invasa la coscienza degli adepti e mutando la crassa ignoranza e la superbia in un dono di elezione dello Spirito Santo — XI. Al grave problema della errata percezione della Santissima Eucaristia si unisce la errata percezione del Sacerdozio, specie tra il sacerdozio comune dei battezzati ed il sacerdozio ministeriale di Cristo al quale partecipano solo i ministri in sacris dotati di un munus triplice: docendi, regendi, sanctificandi — XII. Conclusione.

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Autore:
Ariel S. Levi di Gualdo

Prima di avviarci nel lungo discorso è necessario chiarire il significato della parola eresia. La necessità del chiarimento è dovuta al fatto che all’interno della Chiesa stessa si è insidiata da tempo una neolingua, com’ebbi modo di spiegare anni fa in uno dei primi articoli su questa nostra Isola di Patmos [2014, vedere QUI], ed a seguire poi in una mia cosiddetta lectio magistralis [vedere video, QUI]. Neolingua non vuol dire solo dar vita a nuove parole, o cosiddetti neologismi, ma compiere un’operazione persino peggiore: dare alle parole un significato diverso da quello ch’esse etimologicamente hanno. Lo svuotamento delle parole dal loro significato riempite di tutt’altri significati, è un fenomeno di grave pericolosità che prende sviluppo prima, durante e dopo la Rivoluzione Francese. Un esempio esaustivo è dato dai concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, che sono dei suffissi fondanti del Cristianesimo, non un’invenzione della Rivoluzione Francese. Principi che però, sul finire del Settecento, ed appresso nel corso di tutto l’Ottocento, si muteranno in principi antitetici al Cristianesimo, per di più usati per colpire e per tentare d’affossare il Cristianesimo stesso […]

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Torna su L’Isola di Patmos Carlo Magno con un quesito di Cristo Signore: «Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, chi dite che io sia?»

La penna d’oca di Carlo Magno

TORNA SU L’ISOLA DI PATMOS CARLO MAGNO CON UN QUESITO DI CRISTO SIGNORE: «CHI DICONO GLI UOMINI, LE FOLLE CHE IO SIA? E VOI, CHI DITE CHE IO SIA?»

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La Speranza cristiana non è un immaginifico e obnubilante «Sol dell’ Avvenire» né il «glorioso futuro» predicato da tutti gli aspiranti dittatori di ogni tempo. Non è neppure un mondo nuovo forgiato dalla cultura di un dialogo fra falsi e imbonitori. Non è neppure, infine, il regno misericordiante che profeti di menzogna invocano, a piacimento e sempre più spesso a sproposito, sulle immani tragedie della Storia e l’immutabile lordura del mondo. La Speranza cristiana ha invece — come insegna Sant’Agostino d’Ippona — ancora un solo nome ha e un solo certo avvenire annuncia: Cristo!

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Autore
Carlo Magno

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Io Karl der Große, noto come Carolus Magnus, conosciuto universalmente come Carlo Magno, battezzato nella fede in Cristo Gesù nella Santa Madre Chiesa Cattolica nella Città di Aquisgrana, in un giorno di non pochi anni fa, correndo all’epoca l’Anno del Signore 742; io che dunque a buon e legittimo titolo scrivo in quanto parte di quel Corpo Mistico e Storico che solo è di Cristo, e del quale mi reputo con convinzione «la meno onorevole delle sue membra» ma che proprio per questo umilmente credo che, come scrive l’Apostolo «Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre» [I Corinzi 12, 24-25].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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I Vangeli non ci riferiscono gli esiti di un sondaggio Gallup né un estemporaneo focus group di Gesù di Nazareth con i suoi discepoli, prima, e con gli Apostoli, poi.

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Gesù, al contrario, sfida gli uomini [οι άνθρωποι, Marco 8, 27 e Matteo 16, 13] e le folle [οι όχλοι, Luca 9, 18] con il messaggio stesso, essenziale, radicale e, non da ultimo, inquietante e drammatico del Logos cristiano.

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Scriveva Romano Guardini:

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«Il cristianesimo infatti non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino, cioè da una personalità storica. […] Non lUmanità o l’umano divengono in tal caso importanti, ma questa Persona. Essa determina tutto il resto, e tanto più profondamente e universalmente quanto più intensa è la relazione» [L’essenza del Cristianesimo, 1984, p. 23].

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L’essenza della Fede cristiana risiede, in verità, nella risposta che l’uomo individualmente e collettivamente offre a questa essenziale domanda con cui Gesù di Nazareth sfida heri, hodie et semper [cfr. Lettera agli Ebrei 13, 8] l’individuo e le società.

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La Fede, la Speranza e la Carità cristiane non hanno né il loro fondamento né la loro prima e ultima ragione in neutrali valori di tolleranza, convivenza, solidarietà, accoglienza e universale armonia degli uomini e dei popoli.

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La Fede cristiana non è un cangiante contenuto, secondo le mode e i bisogni del tempo, ma un unico, immutabile, vitale e salvifico incontro.

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«Sei andato, ti sei lavato, sei venuto all’altare, hai cominciato a vedere ciò che prima non eri riuscito a vedere. Cioè, mediante il fonte del Signore e l’annuncio della sua passione, i tuoi occhi si sono aperti in quel momento. Tu, che prima sembravi acce­cato nel cuore, hai cominciato a vedere la luce dei sacramenti» [Sant’Ambrogio, De Sacramentis I, 3,15].

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La Speranza cristiana, poi, non è un immaginifico e obnubilante «Sol dell’ Avvenire» né il «glorioso futuro» predicato da tutti gli aspiranti dittatori di ogni tempo. Non è neppure un mondo nuovo forgiato dalla cultura di un dialogo fra falsi e imbonitori. Non è neppure, infine, il regno misericordiante che profeti di menzogna invocano, a piacimento e sempre più spesso a sproposito, sulle immani tragedie della Storia e l’immutabile lordura del mondo. La Speranza cristiana ha invece — come insegna Sant’Agostino d’Ippona — ancora un solo nome ha e un solo certo avvenire annuncia: Cristo!

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«E come è diventato la nostra speranza? Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra speranza. In lui puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua ricompensa nella resurrezione. È così che è diventato la nostra speranza. Perché noi abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l’altra è quella in cui speriamo. Quella in cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta […]. Con le sue fatiche, le tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la resurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l’uomo nasce e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo Cristo è diventato la nostra speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la speranza» [Enarrationes in Psalmos, 60, IV]. 

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La Carità cristiana, poi, non è un vacuo amalgama di buone intenzioni né il contenuto indifferenziato di una illusoria fraternità cosmica e, neppure, il precetto fondante di un mondano ordine globale, piacevolmente amoreggiante e lietamente intriso d’opere presunte come buone.

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Ancora, una volta, è sempre e solo il riconoscimento della Persona di Cristo che fonda e radica nell’umana vicenda l’unico ed essenziale Amore possibile: «Se non credi, infatti, non ami. Così, cominciando dalla fine e risalendo al principio, disse perciò l’Apostolo: Pace e carità, unita alla fede. Diciamo noi: Fede, carità e pace. Credi, ama, regna. Se infatti credi e non ami, non hai ancora diversificato la tua fede dalla fede di quelli che tremavano e dicevano: Sappiamo chi sei, il Figlio di Dio. Tu, perciò, ama; perché la carità unita alla fede stessa ti conduce alla pace. Quale pace? La pace vera, la pace piena, la pace reale, la pace sicura; dove non esiste sciagura, nemico alcuno. Questa pace è il fine di ogni buon desiderio. Carità unita alla fede; e sei vuoi dire così, dici bene. Fede unita alla carità» [Sant’Agostino, Sermones 168, II, 2, 9].

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Fede, Speranza e Carità, dunque, sole e solo in Cristo aprono all’umanità e alla Storia l’unico possibile orizzonte di Salvezza: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» [Romani 10, 9].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La questione posta da Gesù di Nazareth non è solo essenziale ma altresì radicale e, per la sua stessa natura, oltremodo divisiva. Non è né una domanda aperta né un quesito a multiple choices. Al contrario, esige un’opzione radicale!

«Il cristianesimo afferma che per l’incarnazione del Figlio di Dio, per la sua morte e la sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta la creazione è richiesto di rinunciare alla sua — apparente — autonomia e di mettersi sotto la signoria di una Persona concreta, cioè di Gesù Cristo, e di fare di ciò la propria norma decisiva» [Romano Guardini, Ibidem, p. 26].

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L’unica radice e fonte dell’annuncio cristiano non risiede in un ostentato pietismo e in una grottesca e ben pubblicizzata accozzaglia di buoni propositi per l’Umanità e l’umano.

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La Persona di Cristo — ebbene sì, diciamolo una volta e per tutte e con sano rigore intellettuale, ancor prima che cristiano! — è divisiva nella sua radicale verità su Dio e sull’uomo!

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«Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» [Matteo 10, 32-36].

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L’originale radice e l’esclusiva fonte del Logos cristiano è, infatti, il Verbo stesso fatto carne e fatto sangue per la vita eterna e per la resurrezione finale.

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Nei Vangeli in Marco e Matteo, la domanda segue il racconto della moltiplicazione dei pani, che è direttamente evocato agli ascoltatori: «Non ricordate? Quando spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di frammenti portaste via?» [Marco 8, 19]; «Non capite ancora? Vi siete dimenticati dei cinque pani che bastarono per i cinquemila uomini e delle sporte che raccoglieste?» [Matteo 16, 9].

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In Luca, il racconto del medesimo evento precede immediatamente l’interrogativo di Gesù: «Allora Gesù, presi i cinque pani e i due pesci e levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e dei pezzi loro avanzati portarono via dodici ceste” [Luca 9, 16-17].

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In Giovanni, infine, non c’è l’esplicita domanda di Gesù, ma è messa in evidenza la reazione di “molti dei discepoli” all’annuncio  che: «chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. La mia carne è infatti vero cibo e il mio sangue è vera bevanda» [Giovanni 6, 54-55]. «Da quel momento», infatti, «molti dei discepoli si ritrassero indietro e non camminavano più con lui» [Giovanni 6, 66]. Diviene, pure, una sfida aperta ai restanti: «Volete pure voi andarvene?» [Giovanni 6, 67].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La risposta a questa domanda risolve il conturbante dramma di ogni tempo umano, travagliato dal Male Assoluto e dal male individuale.

La risposta a questa domanda risolve le sconvolgenti tragedie che in ogni tempo e luogo sgorgano e sempre sgorgheranno dai limiti stessi dell’umana natura, decaduta e decadente, sempre esposta alle lusinghe della corruzione intellettuale e morale, e perennemente in balia «dell’omicida fin dal principio», «del menzognero e padre della menzogna» [Giovanni 8, 44] e del “principe di questo mondo” [Giovanni 14, 30].

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Gesù il Cristo pone se stesso e realmente nel suo Corpo donato e nel suo Sangue effuso — Corpo, Sangue, Anima e Divinità — ben al di là e al di sopra di ogni fisica legge, l’unico alimento di reale sussistenza per l’uomo e l’umanità e l’unica vera bevanda di liberazione e salvezza.

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Questo vero e solo Nutrimento, Gesù stesso invita i discepoli a invocare: «τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον», il pane di noi ultra-sostanziale, «δὸς ἡμῖν σήμερον», tu da a noi quotidiano.

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«Dunque tutto abbiamo in Cristo […]» — scrive ancora Sant’Ambrogio — «e Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se fuggi le tenebre, egli è la luce; se cerchi cibo, egli è l’alimento» [De Virginitate, 99].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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L’interrogativo di Gesù si colloca, poi, nel momento più drammatico della Rivelazione Divina. È l’interrogativo del vero Uomo e Unico Dio che «mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, rende duro il suo volto incamminandosi verso Gerusalemme» [Luca 9, 51].

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La risposta alla sua domanda, infatti, diventa sulla bocca del sommo Sacerdote lo stesso drammatico e tremendo atto d’accusa che conduce alla condanna a morte e alla spietata esecuzione sul patibolo della Croce: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio? Rispose Gesù: Sono io! Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: Avete sentito la bestemmia, che ve ne pare? Tutti lo giudicarono reo di morte»[Marco 14, 61-64].

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Nel Mistero della Passione, Croce e Morte della Persona di Cristo, che si annichilisce «cum esset Deus» [Filippesi 2, 6] — non benché fosse ma mentre è Dio — infatti, «il soggetto che si annienta prendendo forma di servo non è il Cristo già incarnato, ma colui che è al di sopra del mondo, che si  trova nella forma di Dio» [Hans Urs Von Bathasar, Theologie der drei Tage, 1969, p. 37].

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«Gesù il Cristo», spiegava Sant’Atanasio, «ha assunto, essendo Dio, forma di servo e in forza di questa assunzione non sì innalzò, ma si abbassò. L’uomo, al contrario, aveva bisogno di essere innalzato a motivo della bassezza della carne e della morte. Egli patì come uomo nella sua carne la morte per noi, per presentarsi così al Padre nella morte in vece nostra e innalzarci assieme a lui all’altezza che gli compete dall’eternità» [Adversus Arium I, 40-41].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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questa domanda con la sua risposta costituisce il cuore stesso del Vangelo, nella sua drammatica attualità: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” [Marco 1,15]. È questa domanda con la sua risposta l’unica e lecita esegesi di lettura di un «mistero che non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo» [Efesini, 3, 5-6]. È questa domanda con la sua risposta l’atto fondante del Mistero Cristiano e anche il suo drammatico discrimine: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde» [Matteo 12, 30]. È questa domanda con la sua risposta la sola via di possibile Salvezza: «Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» [I Corinzi 15, 17-22].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La risposta a questo interrogativo esistenziale non lascia scampo! Heri, hodie et semperIl cristiano non crede per absurdum quia est absurdumIl cristiano crede rispondendo «Tu sei il Cristo, il Messia» [Marco 8, 29] perché in Gesù il Cristo ha incontrato, conosciuto e per questo creduto che in Lui e in Lui solo può trovare l’infinita e inesauribile dignità del suo essere-in ed essere-di Cristo.

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«Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della natura divina, non voler tornare all’antica bassezza con una vita indegna. Ricorda a quale Capo appartieni e di quale corpo sei membro. Ripensa che, liberato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio» [San Leone Magno, Sermo 21, 3].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Il cristiano non professa un vago teismo intellettuale, la cui divinità è un imprecisato essere supremo o un etereo valore trascendente.

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Il cristiano «crede fermamente e confessa apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo: tre Persone, ma una sola essenza, sostanza, cioè natura assolutamente semplice» [Concilio Lateranense IV, De fide catholica, 1].

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Il cristiano riconosce in Colui che si è rivelato a Israele come «Io sono colui che sono!» [Esodo 3, 14], il solo vero Dio, che è Dio dei Padri e, insieme, stringe un’alleanza di generazione in generazione, che stabilisce un «trono su amore e fedeltà» e fa «camminare un popolo alla luce del suo volto» [Salmo 89].

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Professando «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!» [Matteo 16, 16] il cristiano riconosce «una verità fondamentale: “Abbiamo un Maestro. Più che un Maestro, un Emmanuele, cioè un Dio con noi; abbiamo Gesù Cristo! È impossibile, infatti, prescindere da Lui, se vogliamo sapere qualche cosa di sicuro, di pieno, di rivelato su Dio; o meglio, se vogliamo avere qualche relazione viva, diretta e autentica con Dio» [Paolo VI, Udienza Generale, 18 dicembre 1968].  

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Il cristiano non aderisce a una imprecisata dottrina creazionistica che confonde l’immagine e somiglianza con Dio Creatore e Padre con una eguaglianza universalistica. Professa, invece, che solo il Figlio-Logos è immagine perfetta del Padre e la nostra

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«è una rassomiglianza imperfetta, quella per la quale l’uomo è detto a immagine e si aggiunge nostra perché l’uomo fosse immagine della Trinità; non uguale alla Trinità, come il Figlio al Padre, ma accostandosene per una certa rassomiglianza nel modo in cui degli esseri lontani sono vicini non per contatto spaziale, ma per imitazione. È questo che intendono significare le parole seguenti: “Trasformatevi rinnovando il vostro spirito ed ai suoi destinatari l’Apostolo dice anche: “Siate dunque imitatori di Dio, come figli dilettissimi. È all’uomo nuovo infatti che è detto: “Si va rinnovando in proporzione della conoscenza di Dio, conformandosi all’immagine di colui che l’ha creato”» [Sant’Agostino, De Trinitate, VII, 6.12].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Il cristiano non è tale perché aderisce a un imprecisato e cangiante codice di pii propositi e onesti comportamenti: «Abbiamo creduto all’amore di Dio, così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» [Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 1].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Il cristiano non fonda la sua Fede, la sua Speranza e la sua Carità su di un’ipotetica grande e universale fraternità, capace di generare tolleranza, verità e pace in un’indistinta melassa di religioni e culti dove non si tratta di abbandonare la propria fede  — come professano i teorici della Nuova Religione Universale — per esser parte di questa nuova e universale istituzione e dove si crede senza appartenere [cfr. Grace Davie, Believing without Belonging, in: Social Compass 37(4), 1990, 455-469].

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Il cristiano  tale è proprio perché confessa «Tu sei il Santo di Dio» [Giovanni 6, 69] riconoscendo di appartenere intimamente ed essenzialmente  al Corpo stesso di  Cristo «non soltanto perché ci ha fatti diventare cristiani, ma perché ci ha fatto diventare Cristo stesso. Di quale grazia ci ha fatto Dio, donandoci Cristo come Capo? Esultate, gioite, siamo divenuti Cristo. Se egli è il Capo, noi siamo le membra: siamo un uomo completo, egli e noi. […] Pienezza di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa, e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa» (Sant’Agostino, In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La risposta a questa domanda rende essenziale e radicale l’inquietante dramma dell’essere cristiano, cioè essere di Cristo! Cioè della Sua Chiesa, della Chiesa di Cristo! E non la Chiesa di qualcun altro!

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Di fronte alle esecrabili malefatte di tanti e troppi dei suoi, persino più insigni e onorati figli, allo spergiuro orrendo di tanti e troppi di coloro che se ne proclamano servi, al complice silenzio e alle falsità abominevoli di tanti e troppi degli acclamati profeti e maestri del nuovo tempo, chi è di Cristo e della Chiesa trova ancora la Grazia di esclamare in cuor suo: «Che stupendo mistero! Vi è un solo Padre, un solo Logos dell’universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è anche una sola Vergine divenuta Madre, e io amo chiamarla Chiesa» [Clemente d’Alessandria, Paedagogus, 1, 6, 42].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Fede, Speranza e Carità, sono per il cristiano l’esistenziale sua risposta alla Divina Rivelazione della Persona e del Nome per il quale «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» [Atti 4, 12] e alla quale  — come scrive dogmaticamente il Sacrosanto Concilio Vaticano II — «è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa» [Dei Verbum, 5].

Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La risposta a questa domanda rivela l’essenziale, radicale, inquietante e drammatica scelta fra il credere e il non credere, fra il professare o il non professare, fra la fede in Cristo e il rinnegamento di Cristo.

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Da essa dipende, infatti, quel διχάζω — dividere in due, separare, e disunire — αφορίζω — distinguere, espellere, bandire — che sono verbi frequentemente utilizzati da Gesù nel suo quotidiano ammaestrare gli uomini e le folle, sopratutto nelle Parabole del Regno, per indicare il tragico destino dell’esigente, e per nulla a buon prezzo, risposta che questa domanda esige.

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Dividere in due, separare, disunire, distinguere, espellere, bandire: i verbi del giudizio definitivo su chi nega di rispondere alla domanda di Cristo.

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Verbi che i Vangeli mettono sulle labbra dello Sposo non atteso dalle vergini stolte [Matteo 25, 1-13]; dello Sposo di cui si rifiuta l’invito [Luca 14, 16-24] o che gli invitati deludono per la negligenza dell’abbigliamento  [Matteo  22, 1-14]; dell’Uomo disilluso dalle capacità dei suoi servi di far fruttare i suoi beni [Matteo 25, 14-30] ; del Proprietario del campo che attende pazientemente che il buon grano cresca insieme alla zizzania, prima che questa sia gettata nel fuoco che divora [Matteo 13, 24-30]; del Pescatore nella cui rete s’impigliano pesci cattivi che saranno divisi dai buoni «per essere gettati nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» [Matteo 13, 47-50]; e del Giudice Eterno il cui implacabile giudizio si conclude con due separati e separanti verdetti: «E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» [Matteo 25, 46].

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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La risposta a questa domanda non suscita né fatuo gaudium né un’ammorbante laetitia! L’incontro con il Cristo di Dio è sempre e solo una grazia a caro prezzo! Il caro prezzo della sola santificante Verità!

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La risposta a questa domanda esige una risposta a caro prezzo per una grazia che, come scriveva il teologo luterano Dietrich Bonhoefer, «non è mai una Grazia a buon prezzo».

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Nell’apostasia sempre più diffusa che afferra come un morbo pestifero la Chiesa Cattolica dal suo vertice gerarchico come fra sempre più numerosi dei suoi ministri, dimentichi di essere  stati costituiti solo quali cooperatores Veritatis e non come novatores Veritatis questa domanda del Figlio di Dio, del Gesù di Nazareth della Storia e dei Vangeli esige, oggi più che mai, una risposta sola e univoca, senza esitazioni e tentennamenti davanti al sempre più tragico «conformarsi alla mentalità di questo mondo» che rende urgente per la Chiesa intera la necessità di «rinnovare la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» [Romani 12, 2]. Si tratta, in verità, di affrontare una grazia a caro prezzo, che sola, tuttavia, può essere liberante e salvifica.

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Chi dicono gli uomini, le folle che io sia? E voi, voi chi dite che io sia?

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Risuonino a Roma in questi giorni – speriamo e preghiamo – le profetiche parole di Bonhoefer quando inutilmente avvertiva la sua Chiesa luterana, ma con essa l’intera cristianità, dal rischio esiziale di silenziare questa esistenziale, radicale, inquietante e drammatica Verità di «Cristo, Figlio del Dio vivente» [Matteo 16, 16].

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L’intero e fedele Corpo di cui Cristo il Vivente è solo Capo ne sia ammonito: senza una coraggiosa e risolutiva risposta — a caro prezzo — all’interrogativo di Gesù svanisce lo stesso Logos della nostra Fede, della nostra Speranza, della nostra Carità.

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«Un popolo era divenuto cristiano, luterano, ma sacrificando il desiderio di seguire Gesù; lo era divenuto a poco prezzo. La grazia a buon prezzo aveva vinto. Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese istituzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo basso; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribuivano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. […] Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di anime uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammonimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica. E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disobbedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? […] Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessariamente lasciava la via alla quale era chiamato da Gesù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di riconoscere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diversamente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la grazia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente forte, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbedire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque comandamento di buone opere» [Dietrich Bonhoefer, Nachfolge, 2007, p. 51-55].

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 da Aquisgrana all’Isola di Patmos, 20 febbraio 2019

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* Sotto lo pseudonimo di Carlo Magno si cela un battezzato cattolico, giurista, politologo, filosofo, esperto di relazioni internazionali e diplomatiche che per lunghi anni ha ricoperto numerosi alti uffici in importanti organizzazioni internazionali inter-governative.  

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Il paradigma della “suorina stolta”: dai monasteri del XV secolo ridotti a bordelli alla sterilità del XXI secolo. Il rifiuto della realtà genera quella decadenza che conduce alla morte. Possiamo dire che nella vita religiosa femminile tutto è andato bene dopo il Concilio Vaticano II ?

 — Theologica —

IL PARADIGMA DELLA SUORINA STOLTA: DAI MONASTERI DEL XV SECOLO RIDOTTI A BORDELLI ALLA STERILITÀ DEL XXI SECOLO. IL RIFIUTO DELLA REALTÀ GENERA QUELLA DECADENZA CHE CONDUCE ALLA MORTE. POSSIAMO DIRE CHE NELLA VITA RELIGIOSA FEMMINILE TUTTO È ANDATO BENE DOPO IL CONCILIO VATICANO II ?

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I prodotti postumi al Concilio Vaticano II sono oggi sotto gli occhi di tutti: a mezzo secolo da quello che taluni indicano come il più grande Concilio della Chiesa, od il concilio dei concili, la Chiesa versa in una crisi dottrinale, morale e spirituale dinanzi alla quale è davvero difficile trovare dei precedenti storici, perché si tratta di una situazione e di una crisi del tutto nuova. Pertanto, dinanzi alla suorina stolta che afferma: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!», penso di poter replicare che sul piano della vita religiosa femminile, forse sarebbe meglio tornare al periodo precedente al Concilio di Trento, quando molti monasteri femminili erano ridotti a degli autentici bordelli, perché di fatto ce la passavamo meglio, perlomeno, convivevano assieme il buon grano e la gramigna.

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PDF  articolo formato stampa
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Autore:
Ariel S. Levi di Gualdo

Correva la fine del lontano anno 1563 quando il 3 dicembre, due giorni prima della chiusura dei lavori, il Concilio di Trento approvò un decreto sui religiosi e sulle monache. All’interno di questo documento furono anche stabilite delle norme più precise sulla materia della clausura, legate alle religiose ed agli spazi interni ed esterni delle loro case. Già sul fine del XIII secolo, con la bolla Periculoso promulgata nel 1298 dal Sommo Pontefice Bonifacio VIII, entrata poi in vigore nel 1302, furono ribadite le norme sulla osservanza della clausura e della sua reintroduzione dovunque fossero state abbandonate [1]. Pur malgrado, a cavallo tra il XV ed il XVI secolo, le norme sulla clausura non erano state di fatto messe in pratica, se non da pochi ordini religiosi femminili: le Francescane Clarisse, le Domenicane, le prime Carmelitane e le Certosine. Tutte le altre monache, specie quelle che vivevano proprio nelle grandi abbazie e monasteri, s’erano sempre più allontanate dall’applicazione di quelle norme molto precise e rigorose mirate alla salvaguardia morale delle istituzioni religiose femminili.

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Sarebbe interessante ed istruttivo studiare a fondo la vera vita di Teresa d’Avila, quella che le sue figlie per prime si guardano bene dal trasmettere, facendo ad esse più comodo ricordare e narrare solo le sue sublimi estasi mistiche, che giunsero però verso il finire della sua vita. Diversa fu l’esistenza di questa grande Santa e riformatrice dell’Ordine Carmelitano, basti ricordare che quando fu nominata priora del Monastero dell’Incarnazione in Avila, le centotrenta monache che lo abitavano dettero vita a disordini per impedirle di entrare, sino ad aggredire fisicamente sulla porta del monastero il corteo che accompagnava la nuova priora, che non fu eletta dal capitolo delle monache, ma scelta dai superiori dell’Ordine su sollecitazione delle Autorità Ecclesiastiche del luogo, per rimettere in riga le turbolente e rilassate abitanti di quel monastero. Perché dunque non ricordare che questa grande riformatrice tridentina, prima delle estasi mistiche, dovette avvalersi come priora di quel popoloso monastero di un servizio di guardia, usato all’occorrenza anche per far bastonare le monache ribelli? E perché, non ricordare che la sua stanza era sorvegliata di notte e la sua cucina ed i suoi cibi controllati con cura per evitare che fosse avvelenata? Pertanto, la figura di Santa Teresa d’Avila unicamente ridotta ad una mistica in estasi cristologiche d’amore, è un’immagine che se da una parte fa di certo più comodo, dall’altra imbarazza meno tutte coloro che ai giorni nostri, seppure in modi e forme diverse, in oltre cinquecento anni non hanno ancóra recepita la solenne lezione della loro Santa Madre.

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In che modo la lezione teresiana non è stata recepita? Per farlo capire bisogna sempre ricorrere a dei pratici esempi concreti, come questo: alcuni anni fa mi trovai a celebrare la Santa Messa in un monastero di Carmelitane Scalze al posto del cappellano. Quando al momento della Santa Comunione mi avvicinai alla grata del coro, la priora si fece avanti a me con una teca a prendere l’Eucaristia per una monaca che non poteva camminare. Le bisbigliai:

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«Reverenda Madre, non si preoccupi, mi apra il cancello della grata che entro io dentro il coro a portare la Comunione alla monaca inferma».

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Replica la priora:

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«Non è possibile, lo sa: noi abbiamo la clausura papale, per questo sono ministro straordinario della Comunione».

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Non mi misi certo a fare storie con la pisside in mano contenente il Prezioso Corpo di Cristo, sicché le detti la Santissima Eucaristia da portare alla sorella. Dopo la Santa Messa uscii dalla chiesa e, prima di risalire in macchina, mi misi in un angolo nascosto del muro esterno della clausura, accesi il telefono cellulare e controllai se c’erano chiamate perdute e messaggi. E così, dall’interno della santissima clausura papale, odo delle voci maschili. Mi allontano dal muro e salgo su un vicino dosso per vedere a distanza se riesco a intravedere all’interno dello spazio claustrale. Oltre il muro della santissima clausura papale c’erano due giovani ventenni, vestiti in canottiera e pantaloncini corti — per meglio chiarire: i pantaloncini da calcio, in pratica delle mutande — che presumo stessero facendo lavoretti, anche perché avevano attrezzi di lavoro. Era evidente che in quel momento fossero in pausa, infatti stavano parlando sguaiatamente ad alta voce e armeggiando con uno dei loro telefoni cellulari, come se stessero guardando qualche cosa di particolarmente divertente sul display.

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Inutile a precisarsi, perché col buon senso ci giunge pure il più digiuno in diritto canonico: un presbìtero, nell’esercizio delle sue funzioni sacramentali può, anzi deve all’occorrenza entrare nella clausura papale, con tutte le modalità dettate dai canoni e dalle regole monastiche — che io conosco, ed i miei confratelli sacerdoti altrettanto —, per amministrare i Sacramenti alle monache inferme. Ma soprattutto ho piena facoltà di farlo proprio nel caso in cui, mentre la priora impediva a me di entrare nel coro durante la celebrazione della Santa Messa per portare la Santa Comunione ad un’inferma davanti a tutta la comunità e sotto gli occhi dei fedeli presenti in chiesa, al tempo stesso permetteva però ad un paio di giovanotti più svestiti che vestiti di muoversi disinvolti, sguaiati e irriverenti dentro gli spazi della santissima clausura papale delle Carmelitane Scalze. E mentre si seguita a propinare l’immagine diafana di Teresa d’Avila in estasi, al tempo stesso si seguita a ignorare che la Santa Madre, la riforma dell’Ordine Carmelitano, la fece all’occorrenza anche a bastonate. E con questo esempio credo sia stato spiegato e chiarito in che modo cinquecento anni, non per poche, anzi purtroppo per molte, siano trascorsi inutilmente, di secolo in secolo, di riforma in riforma.

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QUANDO LA TRAGEDIA È TROPPO TRAGICA, MEGLIO SMORZARE CON UNA NOTA DI COLORE

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Quando i problemi sono molto seri e le situazioni che ne derivano veramente tragiche, mi avvalgo sempre di una mia consolidata facoltà: partire da una nota di colore. In questo caso una nota rosa, femminilmente intesa. Infatti, ad ispirarmi questo scritto è stata una donna appartenente alla più infausta delle categorie femminili, che è quella delle cosiddette suorine stolte. Detto ciò è opportuno precisare che molti preti e frati, nella loro superficiale stoltezza, possono essere superati solo dalle suore. Le suore rimangono infatti insuperabili in un elemento al quale neppure i peggiori dei chierici e dei religiosi riuscirebbe mai a giungere: quella particolare cattiveria caratterizzata da elementi di crudeltà spesso indicibili che è del tutto unica e peculiare delle suore. E così, trovandomi a interloquire con una suorina stolta appartenente ad una delle sempre più numerose congregazioni in agonia destinate nei prossimi anni alla totale estinzione per mancanza di vocazioni e per l’età ormai molto elevata delle religiose in essa sopravvissute, alla mia domanda se per caso, durante il periodo successivo al Concilio Vaticano II, qualche cosa nella sua, come in tante altre congregazioni, non fosse andata per il verso giusto, la poverina risponde con questo sfoggio di acume mirabile: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!».

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Lo premetto e lo ammetto “candidamente”: io non chiedo di meglio che poter mettere in imbarazzo una suorina stolta, di quelle che da una parte paventano apertura, modernità e disinvoltura, dall’altra, se un bimbo di quattro anni del loro asilo deve essere aiutato ad orinare, ecco che per assisterlo spediscono la maestra laica, perché potrebbero rimanere turbate giorno e notte per una settimana intera dall’attributo imberbe di un piccolo angioletto, quantunque gli angioletti non orinino, mancando ad essi la materia prima, ossia l’attributo virile, dato che gli angeli non hanno sesso. Infatti, nessuno dei nostri Santi Angeli Custodi si è mai ammalato alla prostata, pur essendo costretti a fare da protettori ad alcuni dei peggiori preti, dei peggiori frati e delle peggiori suore, cosa questa che causerebbe un tumore alla prostata anche all’apparato urologenitale più sano. Forse per questo gli Angeli sono stati creati senza sesso, per evitare gravi malattie infiammatorie e tumorali all’apparato urogenitale reattive al dover adempiere al ruolo di custodi di preti, frati e suore. Premesso e ammesso il tutto, passai alla mia risposta che fu questa:

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«Vede, cara Sorella, il Concilio di Trento, casomai lei non lo sapesse, di meriti ne ha avuti tanti e, a dire il vero, dalla peggiore oscurità, semmai ci ha liberati. In modo del tutto particolare ha liberato anche voi religiose, per esempio proibendo la costituzione e la vita di quelle che in linguaggio secolare si chiamavano Case Chiuse».

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Dato però che la suorina stolta non capì, o chissà se finse invece di non capire, fui costretto ad illuminarla proseguendo così il discorso:

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«… lei lo sa che prima dell’oscuro Concilio di Trento avevamo monasteri e conventi femminili che erano degli autentici bordelli? Basti dire che durante una sua omelia dal pulpito della Basilica di San Marco tenuta il 25 dicembre 1497, il celebre predicatore francescano Timoteo da Lucca aveva inveito contro i peccati che si commettevano nei monasteri femminili di Venezia denunciando: “[…] quando viene qualche Signore in questa terra, voi gli mostrate i monasteri di monache, che però non sono monasteri, bensì postriboli e pubblici bordelli” [2]Tali erano infatti i monasteri — vale a dire dei bordelli — perché le nobili e ricche famiglie in modo del tutto particolare, per questioni legate spesso sia ai loro patrimoni, sia talvolta a questioni anche politiche, rinchiudevano — o come soleva dirsi monacavano — le loro figlie che, all’interno di quelle strutture religiose, avevano però i loro alloggi separati, la loro servitù e la loro personale cucina. Ci sono state potenti e nobili famiglie che hanno costruito appositamente abbazie e monasteri per le loro figlie, dotandoli di patrimonio e di rendite; e le giovani monacate di queste famiglie, in questi monasteri erano elette sempre e di rigore badesse, perché in caso contrario la potente famiglia avrebbe revocate le rendite. Animate quindi tutt’altro che da fede, vocazione e virtù di vita, le giovani conducevano dentro quelle sacre mura esistenze mondane, non di rado come vere e proprie cortigiane, con tanto di feste interne e di uomini che entravano ed uscivano senza problemi; ed i monasteri dove regnavano in assoluto le più indicibili dissolutezze morali, erano quelli delle monache benedettine e delle monache cistercensi».

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Nel 1514 il Tribunale dell’Inquisizione di Venezia ebbe modo di occuparsi di un caso al di là della stessa fantasia umana, quello delle pie monache benedettine del Monastero di San Zaccaria, che non contente di avere trasformato il loro parlatorio — e non solo il parlatorio —, in un salotto di accoglienza per giovanotti, cantanti e attori, un bel giorno organizzarono una festa in maschera che nel suo corso si mutò in un vero e proprio baccanale da fare invidia alle antiche città di Pompei ed Ercolano, che come ricordiamo agli eventuali digiuni di storia romana erano due postriboli a cielo aperto [3].

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La Chiesa del Concilio di Trento riportò anzitutto i monasteri ed i conventi ad essere ciò che dovevano essere: luoghi di preghiera e di penitenza. Il decreto del 3 dicembre 1563 vietò la professione dei voti prima dei sedici anni e l’ingresso in monastero prima dei dodici; impose l’obbligo di almeno un anno di noviziato e stabilì che il vescovo accertasse la reale volontà della giovane ad intraprendere liberamente la vita religiosa. Quel decreto ristabilì così il principio della clausura e fatte salve rare eccezioni nessuna monaca poteva uscire dal monastero e nessun estraneo poteva entrarvi, in modo particolare gli uomini. Nel 1566, con la bolla Circa pastoralis officii il Santo Pontefice Pio V comminò la scomunica a tutti i trasgressori, mentre le leggi ecclesiastiche avevano già chiarito e inserito tra i delitti quello del sacrilegio carnale. Sicché solo un sacerdote, preferibilmente anziano o scelto in ogni caso con accortezza dal vescovo, era ammesso all’interno della clausura e unicamente per amministrare i Sacramenti alle monache inferme o ammalate, ed era previsto dalle leggi canoniche che quattro monache anziane lo accogliessero all’ingresso della clausura, lo accompagnassero e poi lo conducessero di nuovo all’uscita. I rapporti delle giovani monache con la famiglia erano ridotti a brevi incontri nel parlatorio, il tutto con la rigida separazione creata da fitte grate, dalle quali si poteva udire la voce della monaca ma solo a malapena se ne poteva intravedere la figura. Le grandi famiglie nobili sollevarono molte proteste contro questo irrigidimento della vita conventuale, ma nessuna delle loro proteste impedì l’applicazione delle nuove norme nate dai «tempi oscuri del Concilio di Trento», che impedì alle famiglie di risolvere i loro problemi patrimoniali e di successione ereditaria spedendo le figlie nelle abbazie e nei monasteri, ed impedendo altresì a figlie senza alcun barlume di vocazione di mutare queste case religiose in autentici postriboli all’interno dei quali condurre vite da vere e proprie cortigiane. Un fenomeno, quello delle giovani costrette alla monacazione, che assunse risvolti a tratti non poco inquietanti, in modo particolare nelle città di Venezia, Napoli e Palermo.

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Alcuni decenni dopo la chiusura del Concilio di Trento, le autorità civili della Repubblica di Venezia giunsero ad introdurre una legge contro i monachini — in tal modo erano indicati gli amanti delle monache — che prevedeva sino alla pena di morte, ciò non solo per il sacrilegio carnale ma anche per la semplice violazione della clausura. Legge introdotta ma rimasta nei concreti fatti lettera morta, perché sia le monache dissolute, sia i loro monachini, appartenevano, se non di rigore ma comunque quasi sempre, alle famiglie più potenti e altolocate di quelle stesse città.

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Non solo, col Concilio di Trento, fu restituita dignità alla vita religiosa, perché dopo quella stagione di riforme, la Chiesa ed il mondo poté assistere ad una sua straordinaria rinascita. Il tutto con buona pace della suorina stolta coi capelli al vento e le gonne a mezza gamba che starnazza sul cosiddetto «oscurantismo tridentino» al capezzale della propria congregazione ormai agonizzante nel reparto di oncologia della vita religiosa femminile, dove attualmente sono ricoverate decine di congregazioni religiose che entro pochi anni non esisteranno più.

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E il vero oscurantismo fu!

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IL CONCILIO DI TRENTO OFFRÌ  UNA GRANDE MEDICINA MA LA CURA NON FU TOTALE A CAUSA DI MOLTI MEDICI CHE NON LA PRATICARONO

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Il Concilio di Trento non fu propriamente un incontro tra fratelli convenuti a Roma per parlare un po’ di ammodernamento e pastorale, sostituendo il dialogo alla dura condanna e il rigore della dura dottrina al ragionamento teologico aperto e pluralistico, come cinque secoli appresso — tanto per chiarirsi —, fu ridotto il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel corso del quale fu prodotto: prima il para-concilio dei teologi in combutta coi giornalisti, poi appresso il ben più problematico post-concilio dal quale è nato quello che da anni vado definendo come il concilio egomenico dei socio-teologi. Il Concilio di Trento ebbe anzitutto una durata di ben diciotto anni [1545 – 1563] e si svolse sotto i pontificati dei Sommi Pontefici Paolo III, al secolo Alessandro dei principi Farnese [Canino 1468 – Roma 1549], Giulio III [Monte San Savino 1487 – Roma 1555], Pio IV [Milano 1499 – Roma 1565]. Ho reputato opportuno chiarire questa cronologia perché tra l’ignoranza che regna oggi sovrana — ahimè anche e soprattutto nel clero cattolico —, non rare volte ho udito ecclesiastici e pastori in cura d’anime affermare che il Concilio di Trento si sarebbe svolto sotto il pontificato del Santo Pontefice Pio V, che fu invece eletto due anni dopo la chiusura del concilio tridentino, nel 1566. Questa confusione generata purtroppo da crassa ignoranza deriva dal fatto che il Santo Pontefice Pio V pubblicò il 14 luglio 1570 l’edizione riformata ed unificata del Missale Romanum, anche noto come Messale di San Pio V o come Messale Tridentino.

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Il Concilio di Trento offrì, anche a livello disciplinare, delle indubbie, grandi ed efficaci cure. Potremmo dire che a suo modo istituì la chemioterapia per combattere il cancro ed impedire la diffusione delle metastasi nel Corpo della Chiesa. Pur malgrado la Chiesa visibile fu lungi dal mutarsi nei successivi decenni nella Gerusalemme Celeste, perché la lotta contro il cancro e le metastasi risulterà sempre inefficace se gli oncologi preposti omettono di praticare le cure con tutte le relative terapie. Il tutto lo apprendiamo dagli scritti e dalle parole di fuoco vergate e pronunciate da diversi Santi nei loro testi o sermoni. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa [1696-1726] non esitò a lamentare il desolante e basso livello dei Vescovi del Meridione d’Italia, i loro interessi economici ed il loro asservimento al potere politico in vista del conseguimento di benefici e prebende; non esitò neppure ad indicarne le scarse capacità pastorali, ma soprattutto la bassa formazione teologica, con tutto ciò che da simili vescovi poteva derivarne al loro clero. Inutile ricordare che siamo a circa due secoli di distanza dalla chiusura del Concilio di Trento.

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Lamentele analoghe a quelle del Santo vescovo e dottore della Chiesa Alfonso Maria de’ Liguori, affiorano diverse nello stile espressivo ma identiche nella sostanza dagli scritti del Beato Antonio Rosmini, raccolti oltre un secolo dopo nell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa [il testo curato dai Padri Rosminiani è leggibile QUI].

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Se Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, appresso il Beato Antonio Rosimini, si esprimevano rispettivamente nel Settecento e nell’Ottocento entro termini così reali e severi, ciò è dovuto al fatto che trascorsi due e tre secoli dalla chiusura del Concilio di Trento, persino alcuni dei suoi canoni fondamentali non erano stati ancóra applicati in molte regioni della vecchia Europa, incluse non poche antiche Chiese locali di fondazione apostolica. Così, per apparente paradosso, il Concilio di Trento ebbe migliore e più capillare applicazione nelle terre di missione per opera dei missionari, che muovendosi sulle discipline tridentine evangelizzarono interi continenti. Le conseguenze furono che, mentre nelle missioni dell’America Latina i missionari provvidero ad istituire nel XVI secolo i seminari resi obbligatori dai Padri del Concilio per la formazione dei sacerdoti, in molte antiche diocesi del Meridione d’Italia, alla metà del Settecento, i seminari non erano stati ancóra istituiti. E quando furono istituiti, lo furono per formare al loro interno i figli delle famiglie nobili o dell’alta borghesia, da destinare poi ad incarichi ecclesiastici di rilievo, mentre la gran parte dei futuri sacerdoti seguitavano a ricevere la loro scarsa formazione da parroci di campagna come avveniva prima del Concilio di Trento. Non va poi dimenticato che per questioni di carattere sia politico sia economico, in molti Stati europei, l’applicazione di molti canoni del concilio tridentino, fu ostacolata dai regnanti, ovviamente con la compiacente accondiscendenza dei vescovi del luogo, che se da una parte non applicavano, dall’altra lucravano, dai Borbone nel Meridione dell’Italia come dai prìncipi germanici nell’estremo Nord dell’Europa, i loro buoni benefici e prebende.

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Il Concilio di Trento stabilì l’età di venticinque anni per ricevere la sacra ordinazione sacerdotale, ma molti vescovi non si attennero a quella come ad altre disposizioni, n’è esempio esauriente uno dei grandi santi della carità, Vincenzo de’ Paoli [Pouy, 1581 – Parigi, 1660], proveniente da una famiglia molto povera ed avviato dal padre agli studi ecclesiastici grazie al sostegno di un ricco avvocato di Tolosa che pagò le sue spese di formazione, ma soprattutto non sappiamo bene se mosso inizialmente da una autentica vocazione, che in ogni caso giunse in seguito e con esiti del tutto straordinarî. Infatti, il padre, sperava che in futuro, acquisito uno status superiore, il figlio potesse aiutare e sostenere la famiglia. Incurante di quanto disposto quattro decenni prima dai canoni del Concilio di Trento, il Vescovo di Tolosa lo consacrò sacerdote ad appena diciannove anni il 23 settembre del 1600.

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DOPO IL CONCILIO DI TRENTO, SCOMPARVE FORSE IL MALCOSTUME DAI MONASTERI FEMMINILI?

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Il Cinquecento fu indubbiamente il secolo dei grandi riformatori e dei grandi Santi che dettero vita e concreta esecuzione alle riforme operate dal Concilio di Trento, si pensi a Sant’Ignazio di Loyola [Azpeitia, 1491 – Roma, 1556] ed ai suoi primi Compagni, a San Filippo Neri [Firenze, 1515 – Roma 1595] ed a San Felice da Cantalice [Cantalice, 1515 – Roma, 1587], a San Carlo Borromeo [Arona, 1538 – Milano, 1584], a San Pietro da Alcántara [Alcántara, 1499 – Arenas, 1562], a Santa Teresa d’Avila [Avila, 1515 – Alba de Tormes, 1582] ed a San Giovanni della Croce [Fontiveros, 1542 – Úbeda, 1591], a San Giovanni d’Avila [Almodóvar del Campo, 1499 – Montilla, 1569], a San Giovanni di Dio [Montemor-o-Novo, 1495 – Granada, 1550] … senza certo dimenticare la già richiamata figura del Santo Pontefice Pio V [Bosco Marengo, 1504 – Roma, 1572], che per questi Santi fu ispiratore ed autentico modello di dottrina, virtù morale e pastorale.   

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I vizi e le decadenze morali che serpeggiavano nei conventi e nei monasteri tra il Quattrocento ed il Cinquecento, furono lungi dall’essere estirpati. O per dirla con alcuni tristi esempi scelti a caso tra i numerosi storicamente a disposizione: ad un tiro di schioppo da Roma, nella cittadina di Sora, alla metà dell’Ottocento, nel territorio canonico della Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo, la badessa del monastero di Santa Chiara, Domna Maria Francesca Tronconi, comunicava all’Arciabate di Montecassino, Dom Celestino Gonzaga da Napoli, che il canonico Basilio Fortuna, membro del Capitolo della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Sora e confessore ordinario delle monache di Santa Chiara, aveva abusato di tre religiose durante le confessioni sacramentali e di averle messe incinte. Delle tre, una certa Iacobelli, nei giorni che la badessa vergava quella lettera sarebbe stata prossima al parto [4].

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Come dimenticare ciò di cui sono poi capaci certe religiose, basti narrare tra i tanti un caso emblematico: nel 1821, due monache del monastero di Sant’Andrea Apostolo ad Arpino e con loro una terza, ancora educanda, accusarono il confessore ordinario di gravi molestie. Dopo accurate indagini canoniche le accuse si rivelarono però infondate e le tre donne ritirarono la loro denuncia, tentando di sostenere che si erano sbagliate e che avevano solamente frainteso il sacerdote. La triste vicenda stava però in tutt’altri termini: una delle monache aveva marchingegnato il tutto con l’appoggio e la complicità delle altre due, desiderando ella vendicarsi in tutti i modi del confessore che l’anno precedente aveva denunciato all’Autorità Ecclesiastica un prete per gravi abusi su delle religiose. Il prete denunciato, era però parente di questa monaca, che riteneva infangato il buon nome della sua famiglia a causa di quella denuncia. Così, la religiosa, tentò di vendicarsi rivolgendo a questo innocente la stessa accusa [5].

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Secondo la locuzione del Santo vescovo e dottore della Chiesa Ambrogio di Milano [Gallia 337 – Mediolanum 397] la Chiesa è «casta meretrix», una meretrice casta. Espressione, quella dell’antico Vescovo di Milano sulla quale oltre un decennio fa, il Venerabile Pontefice Benedetto XVI strutturò una delle sue omelie indicando la Chiesa come «santa e composta di peccatori» [6] [il testo integrale è leggibile, QUI].  In alcuni particolari momenti storici, la Chiesa non appare neppure composta semplicemente da uomini defettibili e peccatori, bensì come una vera e propria struttura di peccato che produce al proprio interno peccato e che lo diffonde al proprio esterno.

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Prima ancóra del Concilio di Trento, i malcostumi e la grande decadenza morale che imperversava nel clero fu condannata in modo molto severo dal IV Concilio Lateranense, che promulgò settanta decreti di riforma e che fu convocato da quell’uomo di ferro del Sommo Pontefice Innocenzo III [Gavignano 1161 – Perugia 1216]. I canoni disciplinari di questo concilio lasciano intendere in modo molto chiaro ed esauriente quali fossero le profonde e gravi decadenze morali e le corruttele che impestavano il clero. Eppure, a pochi decenni di distanza dopo la celebrazione di quel Concilio, un altro Santo e dottore della Chiesa, Bonaventura da Bagnoregio [Bagnoregio 1221 – Lione 1274], si esprimeva in questi termini per nulla rassicuranti:

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«Roma corrompe i prelati che corrompono i preti che corrompono il Popolo di Dio».

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A valutare la situazione in cui versa al presente la Chiesa, viene da chiedersi se i canoni disciplinari contro i malcostumi morali del clero siano stati scritti per gli ecclesiastici del 1215 o per quelli di oggi [il testo in traduzione italiana è leggibile, QUI].

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Nessun Concilio, ha mai resa la Chiesa perfetta, nessuno di essi ha mai distrutta la corruzione dell’uomo ed il peccato. I concilî, alcuni di essi in particolare, hanno ridato alla Chiesa ossigeno e l’hanno messa nella condizione di continuare a vivere in un corpo ecclesiale formato da ecclesiastici e da fedeli laici all’interno del quale convivono da sempre assieme peccatori e santi. Tutto questo ci è spiegato dalla parabola della zizzania e del buon grano che si conclude con queste parole:

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«[…] Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio» [Mt 13, 27-30].

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QUAL È LA REALE SITUAZIONE DELLA VITA RELIGIOSA FEMMINILE DOPO LA GRANDE VENTATA DEL CONCILIO VATICANO II ?

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Per rispondere a questo quesito partiamo dai dati numerici: la popolazione mondiale oggi conta sette miliardi e mezzo di persone, nel mondo di oggi l’età media della vita di una donna è di 70 anni e otto mesi; quella di una donna europea è di 84 anni e nove mesi. Oggi nel mondo i fedeli cattolici sono circa un miliardo e trecento milioni. Le religiose degli ordini e delle congregazioni religiose femminili, secondo le statistiche che il 30 ottobre 2018 hanno ufficializzato i dati del 2017, ammontano a 659.445, sottraendo il numero dei decessi al numero delle nuove professioni religiose abbiamo una decrescita di meno 10.885, l’età media delle religiose è pari a 64 anni, ma se alla statistica fossero sottratte l’Africa e alcuni Paesi dell’Asia, l’età media delle religiose sarebbe al di sopra dei 70 anni, n’è prova che in Europa, da un ventennio a questa parte, le religiose stanno progressivamente sparendo da intere diocesi [cf. dati statistici ufficiali, QUI]. Andiamo adesso indietro di sessant’anni, per l’esattezza cinque anni prima l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, quando secondo il paradigma della suorina stolta usato come filo conduttore di questo mio scritto, vigevano le regole «oscurantiste» del Concilio di Trento. Nel 1958 la popolazione mondiale contava due miliardi e novecento milioni di persone, i cattolici nel mondo erano circa 800 milioni, l’età media della vita di una donna era di 49 anni, quella di una donna europea di 67 anni, le religiose degli ordini e delle congregazioni religiose femminili risultavano nel 1957 un milione e sessantamila, l’età media delle religiose era di 41 anni, sottraendo il numero dei decessi al numero delle nuove professioni religiose abbiamo un incremento di più 12.450.

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Faccio notare, a chi eventualmente non vi avesse prestata attenzione, quando siano allarmanti questi due diversi dati statistici: quello registrato quando vigeva sempre «l’oscurantismo tridentino», quello registrato mezzo secolo dopo l’esplosione della nuova Pentecoste avvenuta con il Concilio Vaticano II. Il dato allarmante si regge sia sul numero della popolazione mondiale sia su quello dei cattolici nel mondo. Infatti, quando in epoca «oscurantista» la popolazione mondiale non arrivava a tre miliardi di persone ed i cattolici erano circa 800 milioni, le religiose nel mondo erano oltre un milione, mentre mezzo secolo dopo la nuova Pentecoste, a fronte di un popolazione mondiale più che raddoppiata — sette miliardi e mezzo di persone —, nonché a fronte di una popolazione cattolica mondiale passata da circa 800 milioni di fedeli a un miliardo e trecento milioni, le religiose risultano calate per un numero pari ad oltre 400.000 in soli sessant’anni, il tutto — lo ripeto di nuovo — mentre la popolazione mondiale era più che raddoppiata e mentre i cattolici erano mezzo miliardo di fedeli in più rispetto a quelli di circa mezzo secolo prima.

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Se i numeri sono aridi e non hanno un’anima, hanno però una storia, soprattutto una ragion d’essere, ecco allora sorgere la prima domanda: se dopo quello che taluni ecclesiastici e teologi contemporanei definiscono trionfalmente come il più grande concilio della storia della Chiesa, siamo giunti a questi dati statistici; se di giorno in giorno chiudono istituti religiosi, monasteri e conventi storici di lunga tradizione, qualcuno, intende cominciare a chiedersi se per caso, in quella che a suo tempo fu definita come nuova Pentecoste, qualche cosa non è andata per il verso giusto? È una risposta, questa, che viene richiesta in modo serenamente doloroso alle Autorità Ecclesiastiche ed ai Pastori della Chiesa, non è affatto reclamata dalla prevenzione, né dall’ironia e meno che mai dalla cieca ideologia: è una risposta reclamata dai numeri, che come dicevo poc’anzi non hanno un’anima, ma hanno una loro storia e una loro ragione d’essere. E, questi numeri sconcertanti, a mezzo secolo dalla chiusura dell’ultimo concilio della Chiesa rappresentano una domanda che reclama appunto risposta, anche se costasse dover ammettere che poco prima, che durante e che dopo il Concilio Vaticano II, qualche cosa non ha funzionato, coi conseguenti risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi; risultati resi del tutto innegabili dall’aridità, ma al contempo dalla innegabile precisione dei numeri.

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ERA NECESSARIO UN «AGGIORNAMENTO» DELLE RELIGIOSE A COLPI DI TAILLEURS, TESTE SCOPERTE E MESSE IN PIEGA DAL PARRUCCHIERE ?

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Tra la metà degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta del Novecento, la vita di gran parte delle congregazioni femminili è stata sconvolta — più e peggio di quelle maschili —, dalla grande ventata del cosiddetto “aggiornamento”. Diversi sono stati i capocomici nel corso della infelice stagione del post-concilio egomenico — in testa a tutti i Gesuiti, che in molti istituti religiosi femminili svolgevano da molti anni il ministero di confessori e di direttori spirituali —, i quali hanno letteralmente stravolta la vita, il senso della vita ed il carisma di quegli istituti. O, sempre per ricorrere a degli esempi concreti: sino al 1965 le religiose erano ricoperte coi propri abiti dalla testa ai piedi e con i capelli interamente nascosti dal velo, il significato ed il senso del quale risale sino ai tempi dell’epoca apostolica. La stessa Beata Vergine Maria è raffigurata nella iconografia sin dai primi secoli col cosiddetto μαφόριον [maphórion]. Il μαφόριον, noto poi come “velo monastico”, era ed è tutt’oggi il segno delle vergini consacrate a Dio. Il Beato Apostolo Paolo, rivolgendosi agli abitanti di Corinto, raccomanda alle donne di coprirsi il capo. Si tratta di una lettera apostolica da collocare indubbiamente nell’epoca e nella cultura in cui fu scritta, ma che attraverso un messaggio che mai ha perduta attualità sottintende il segno e l’intimo senso di appartenenza a Dio della donna a lui consacrata [I Cor 11, 1-6]. Ecco però che d’improvviso, a pochi anni di distanza dall’ultimo Concilio, ci siamo ritrovati dinanzi a suore vestite in tailleurs, con le gonne che coprivano a malapena il ginocchio e con i capelli tinti trattati con la permanente e curati dalla messa in piega fatta dal parrucchiere. Mi domando e domando: è forse un attentato di lesa maestà, dire solo e null’altro che il vero, ossia che cose di questo genere, nel Nord America e in vari Paesi europei, sono avvenute principalmente presso quelle congregazioni religiose che da sempre, se non per vera e propria tradizione, si avvalevano dei Gesuiti come confessori, direttori spirituali, insegnanti e predicatori? [un solo esempio tra i tanti, QUI].

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I fatti dimostrano che il cosiddetto «aggiornamento» delle religiose in tailleurs, con le teste scoperte e le messe in piega del parrucchiere, ha prodotto lo svuotamento di intere congregazioni religiose, che scompariranno definitivamente quando le ottantenni oggi sopravvissute saranno finalmente sepolte con i loro tailleurs, le loro teste scoperte e le loro messe in piega del parrucchiere. Però, moriranno aggiornate! E con loro sarà consegnata alla tomba la loro congregazione religiosa, altrettanto ed anch’essa aggiornata.

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LE CASE RELIGIOSE VUOTE E LE SCELLERATE “CAMPAGNE ACQUISTI” DELLE VARIE CONGREGAZIONI RELIGIOSE RASENTI A VOLTA LA … “TRATTA DELLE NERE”

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In certi discorsi bisogna procedere con cautela perché purtroppo c’è una chiusura ideologica a priori: infatti, tutto ciò che è nero, di per sé è bello e buono. Soprattutto, tutto ciò che è nero, è vittima sopravvissuta, o vittima discendente delle scellerate politiche coloniali e di conquista dei vari Paesi dell’Occidente. Se in diversi Paesi del Continente africano oggi ci ritroviamo con un clero ingestibile che partendo dalla grande chimera dell’inculturazione — altra parola magica del post concilio — ha finito per divenire un clero che spazia tra l’animismo ed un cattolicesimo adulterato e corrotto, ciò è dovuto al fatto che tra la metà e la fine degli anni Sessanta del Novecento, il Santo Pontefice Paolo VI ebbe la discutibile lungimiranza di voler creare a tutti i costi dei vescovi locali, incurante che alcuni di quei Paesi erano stati evangelizzati neppure trent’anni prima. Numerosi sono stati i casi di soggetti elevati alla dignità episcopale ad appena quarant’anni, od a trentasette o trentotto, che erano stati battezzati e divenuti cristiani a tredici o quindici anni, dopo essere nati e cresciuti in famiglie che li avevano istruiti sin da bambini ai culti animistici ed al culto degli spiriti degli antenati.

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Nei tempi che furono qualcuno ci provò a dire al Santo Pontefice Paolo VI che per dare vita ad un clero autoctono occorrevano generazioni e che per creare i primi vescovi scelti tra i nativi era bene attendere un secolo, o comunque non meno di settanta od ottant’anni, ma a questo, lui che pure lo sapeva bene, non volle prestare ascolto, commettendo, in questo come in altri casi, degli errori notevoli. Chiariamo il tutto con un esempio legato ad una triste figura, quella dell’Arcivescovo Emmanuel Milingo, scomunicato nel 2006 e poi dimesso dallo stato clericale nel 2009 [documento ufficiale, QUI] …

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… Emmanuel Milingo nasce nel 1930 nello Zambia, Paese africano dove la vera e propria evangelizzazione — dopo alcuni sporadici tentativi fatti solo a fine Ottocento in poche località ad opera di piccoli gruppi di missionari —, prende avvio solo dopo il 1915. Riceve il battesimo nel 1942 all’età di dodici anni e la sacra ordinazione sacerdotale nel 1958 all’età di 28 anni. Nel 1959, ad appena 39 anni, è eletto Arcivescovo Metropolita di Lusaka, Capitale dello Zambia. Riceve la consacrazione episcopale dal Sommo Pontefice Paolo VI, che lo aveva voluto vescovo e che lo salutò come il vescovo più giovane dell’intero Continente africano. Questa cronologia non necessita commenti, perché l’apoteosi dell’imprudenza è racchiusa tutta nelle date, alle quali basta aggiungere che i vicariati apostolici istituiti attorno al 1915 nello Zambia, sono stati elevati a diocesi solo tra il 1959 ed il 1976. Emmanuel Milingo fu il primo arcivescovo autoctono dell’Arcidiocesi di Lusaka, suoi predecessori furono due missionari polacchi gesuiti nominati vescovi titolari e posti alla guida di quel vicariato apostolico: Bruno Wolnik dal 1927 al 1950; Adam Kozłowiecki dal 1955 al 1969. Quest’ultimo, prima coltivò e poi indicò a Paolo VI il giovane Emmanuel Milingo come figura di profilo episcopale. Nel concistoro del 21 febbraio 1998 Adam Kozłowiecki fu creato cardinale dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II, mentre Emmanuel Milingo, per la sua problematicità non più sostenibile in loco, era già stato costretto a rinunciare al governo della sua diocesi e chiamato a Roma nel 1983. Già quindici anni prima che il méntore di Emmanuel Milingo fosse creato cardinale per i suoi meriti missionari e pastorali — meriti ai quali si potrebbe aggiungere un concetto molto in voga nella Compagnia di Gesù, ovvero la “capacità di discernimento” —, egli aveva già dato tutti i peggiori problemi, sino alla sua grottesca partecipazione come cantante ospite al Festival della canzone italiana di San Remo nel 1997, per seguire con la sua entrata in una sétta, il suo matrimonio-farsa con una Signora coreana, il suo atto di apostasia dalla fede e di scisma dalla Chiesa Cattolica. Alla concreta prova dei fatti Emmanuel Milingo non s’è fatto mancare niente, resta però senza risposta il quesito fondamentale: chi è che di tanto in tanto favorisce con la propria leggera, emotiva e fantasiosa imprudenza la nascita e lo sviluppo di simili “mostri”, in questa nostra Chiesa nella quale Cesare non sbaglia mai e la moglie di Cesare è sempre e di rigore al di sopra di ogni possibile sospetto? 

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Quali sono stati i risultati di certe scelte pastorali? Furono purtroppo che molti vescovi di questi Paesi appena evangelizzati, di fatto si comportavano come dei grandi capi tribù, ma soprattutto avevano sempre a proprio servizio gruppi di giovani suore appartenenti alla miriade di congregazioni di diritto diocesano sorte come funghi in tutta quanta l’Africa; e tutte con lo stesso originale e strano carisma: assistere vescovi e sacerdoti. D’altronde, in un contesto socio-culturale nel quale tutt’oggi il celibato sacerdotale, ma soprattutto la castità ad esso legata, non è facile da far penetrare, si rendeva necessario raccogliere, per i vescovi e per i preti, delle domestiche sessuali in modo per così dire pulito, evitando semmai che i preti lasciassero ragazze incinte da un villaggio all’altro. E che cosa accadeva di prassi, se la suora rimaneva incinta? Se non veniva fatto ricorso all’aborto — cosa purtroppo ripetutamente avvenuta —, a quel punto la suora finiva sbattuta fuori dalla comunità, ed il prete mandato invece a studiare a Roma a spese della Congregazione de propaganda fide.

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Siccome il lupo antropologico perde il pelo ma non il vizio, ecco che nel 2008, ai quattro angoli del grande refettorio del Collegio romano San Pietro adiacente la Pontificia Università Urbaniana, appaiono dei cartelli che avvisano: «È proibito ai sacerdoti far salire le suore nelle proprie camere». Cartelli che furono letti da decine e decine di preti, compresi due che oggi, ad oltre un decennio di distanza, sono divenuti vescovi, uno di una diocesi africana, uno di una diocesi missionaria dell’America Latina; furono infatti proprio loro, ad informarmi di questi cartelli affissi dal rettore del collegio ed a farmene vedere le immagini da loro stessi fotografate.

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Mentre nel pieno della nuova Pentecoste le case degli istituti religiosi si svuotavano nel corso degli anni Settanta, mentre molti noviziati erano ormai deserti e da lì a poco, le suore della vecchia Europa avrebbero dovuto cominciare a fare i conti con l’età, ecco che le loro lungimiranti superiore generali decisero assieme ai loro consigli di aprire missioni in diversi Paesi africani e asiatici. E tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta prese avvio quella invereconda e per certi versi immorale campagna acquisti che potremmo per taluni versi paragonare ad una vera e propria tratta delle nere.

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Dobbiamo però prudentemente sorvolare su quanto siano difficili da trattare e da mettere sulla giusta riga certe giovani africane, culturalmente refrattarie anche alle forme più elementari di disciplina sulle quali si fonda la vita comune nelle comunità religiose, perché affrontando certi temi si leverebbe prontamente per tutta risposta un coro polifonico di anime politicamente corrette per dare inizio al solenne inno: Al razzista, al razzista! E non parliamo di che cosa è accaduto in certe comunità religiose quando sono giunti invece gruppi di brasiliane, con le suore anziane che pregavano per avere la grazia di una veloce e buona morte o perlomeno la grazia di rimanere quanto prima possibile sorde e cieche, ond’evitar d’assistere a certi scempî.

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Questa manovalanza acquisita in siffatte campagne acquisti per evitare l’estinzione di certe congregazioni, benché non si dica, quasi sempre è stata anche particolarmente costosa, con risvolti tutt’altro che puliti. Molte di queste congregazioni, l’acquisizione di certe religiose, l’hanno pagata e seguitano a pagarla col mantenimento economico di tutti i nuclei familiari delle suore. A questo vanno poi aggiunte le ruberie delle suore stesse, che appena hanno potuto si sono impossessate di danaro dalle casse o dalle risorse delle comunità religiose, per inviarlo ai loro parenti nei propri Paesi di origine. Più volte, queste suore, sempre a spese delle comunità hanno portato in Europa loro fratelli e sorelle, costringendo la congregazione a provvedere alla loro sistemazione, inclusa quella di fratelli e nipoti tutt’altro che propensi al lavoro, perché, in alcuni Paesi e culture africane, a lavorare è la donna, non l’uomo. E qui, per evitare che il coro polifonico di anime politicamente corrette pronto a inneggiare Al razzista, al razzista! Dal canto passi alla denuncia, è bene tacere sulla nazionalità di alcuni di questi uomini africani, a tal punto allergici al lavoro che, se un giorno incontrassero la persona che il lavoro l’ha inventato, non esiterebbero ad ammazzarla di botte. Mi riferisco ovviamente a quelli che, pur di non lavorare, preferiscono molto di più portare le loro mogli e le loro figlie a prostituirsi sulle strade delle nostre città, esercitando infine il loro lavoro: togliergli i soldi di tasca quando poi vanno a riprenderle al termine del loro servizio.

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Dopo l’ondata di africane e di brasiliane, è giunta appresso quella delle indiane. In quel caso ci siamo ritrovati più volte dinanzi a giovani ragazze veramente molto belle. E quando una ragazza europea molto bella diventava suora, ciò era quasi sempre segno di una particolare e solida vocazione, perché se avesse voluto, avrebbe potuto aver lieta e felice vita scegliendosi il miglior marito che si sarebbe potuta scegliere, perché da sempre, la bellezza femminile, è una ricchezza che può produrre ottimi matrimoni.

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La campagna acquisti indiana non ha però tenuto conto di una cosa, o meglio non ha voluto tenerne conto: in gran parte delle zone dell’India, se una famiglia non ha i soldi necessari per costituire una dote alla figlia, questa, fosse anche una perla di rara bellezza, non può sposarsi. E le ragazze che non possono sposarsi, spesso scelgono tra due diversi mestieri: fare le prostitute a Calcutta, oppure fare le suore. E tra le due scelte, molte scelgono giustamente la seconda opzione.

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Le superiore generali delle congregazioni che hanno fatto campagne acquisti in India, vogliono per caso narrarci che fine hanno fatto, quelle ragazze tanto belle ma tanto povere, prive per questo di dote matrimoniale, quando sono giunte suore in Italia? Ebbene, premesso che più bugiardi dei preti lo sono solo le suore, sapendo che una domanda simile rimarrebbe senza risposta o comunque sarebbe evasa con una risposta del tutto menzognera, la verità sarà bene che ve la narri io: la maggior parte di queste splendide ragazze, giunte in Italia o in altri Paesi europei, poco dopo si sono trovate un uomo che se l’è prese in moglie trattandole come delle autentiche regine. Infatti, per l’uomo italiano, ed in genere per gli uomini europei, una donna giovane, bella e soprattutto dotata di quella femminilità ormai da tempo perduta da molte delle nostre donne maschiacce capaci solo a porsi in competizione professionale e sociale con gli uomini, è una ricchezza che non ha prezzo. Ecco dove sono finite molte delle ragazze bellissime, giunte in Italia come suore, in seguito alle campagne acquisti da parte di molte morenti congregazioni religiose che stanno esalando i propri ultimi respiri grazie alla nuova Pentecoste.

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TRA POCO ASSISTEREMO ALLA PIÙ GRANDE SVENDITA DEL PATRIMONIO RELIGIOSO

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Molte congregazioni religiose femminili sono dotate di grandi patrimoni immobiliari. Numerose posseggono stabili grandi e di gran pregio storico e artistico, altre posseggono grandi stabili che un tempo erano asili, scuole, istituti d’istruzione e collegi. Girando per la sola Roma, è visibile agli occhi di tutti che già molti di questi stabili sono stati trasformati in case di accoglienza o alberghi, altri dati in affitto o venduti a privati. Naturalmente, ed in specie uscendo dai centri storici delle grandi città, non sarà possibile convertire tutte queste strutture in alberghi od in sedi di prestigiosi uffici di rappresentanza di aziende private o di liberi professionisti con le parcelle a sei zeri. Pertanto, gran parte di questi patrimoni, sono destinati in breve tempo ad essere svenduti. Sicché, entro breve tempo, assisteremo alla più colossale svendita del patrimonio immobiliare religioso. Forse, affaristi ed avvoltoi vari, avranno già fatto i loro conti, o forse, con lucida freddezza, avranno già fatto il progetto per spartire la torta tra varie società immobiliari e gruppi di singoli e ricchi affaristi.

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A questo dato, o se preferiamo alla tragica cronaca di questa morte annunciata, si uniscono tutte le complicazioni derivanti dalle scellerate campagne acquisti. Esempio: ci sono congregazioni religiose che per lunghi decenni, se non addirittura per secoli, si sono dedicate alla istruzione dell’infanzia od alla gestione di scuole medie superiori caratterizzate dall’alta qualità dell’offerta formativa. Questi istituti, per la maggiore, si reggevano in piedi grazie alle suore che erano tutte quante insegnanti; a onor del vero, erano anche delle insegnanti di indubbio ed alto livello. Durante la nuova Pentecoste, lo Spirito Santo, anziché riempire di vocazioni i noviziati, pare però che per mistero imperscrutabile di grazia li abbia svuotati, nel mentre, le suore, col passar del tempo invecchiavano. Grazie alla campagna acquisti diverse congregazioni sono riuscite a sopravvivere acquisendo un certo numero di suore africane e indiane, le quali però, lungi dall’essere laureate e lungi dal destreggiarsi perfettamente nella lingua italiana, avevano una scarsa formazione scolare e non riuscivano a parlare bene la lingua italiana, figurarsi dunque se potevano sostituire nell’insegnamento scolastico le loro anziane consorelle. A quel punto, laddove è stato possibile, l’istituto è stato mutato in un albergo all’interno del quale oggi, un gruppo di giovani suore africane e indiane, fanno le cameriere, mentre le poche anziane italiane sopravvissute gestiscono e seguiteranno a gestire finché vivranno o finché potranno tutta quanta l’amministrazione. Domanda: che cosa accadrà, quando le anziane suore italiane moriranno e questi istituti, con i relativi patrimoni, finiranno in mano ai frutti della scellerata campagna acquisti? Perché domani, le cosiddette “proprietarie del tutto”, saranno gruppi di suore straniere di bassa cultura, senza adeguata istruzione, con una conoscenza sommaria della lingua italiana e via dicendo a seguire.

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Premesso che dalle attuali suore ho sempre cercato di stare alla larga, come credo sia bene stare alla larga da dei cadaveri messi dentro le celle frigorifero dell’obitorio in attesa che si liberi qualche posto per la loro sepoltura nel cimitero sovraffollato, nella mia personale esperienza sacerdotale e pastorale posso dire di avere conosciuto in Italia solo pochissime suore africane ed asiatiche dotate di profonda formazione e di competenze professionali. Per esempio: ricordo alcune suore indiane che all’interno di una delle migliori cliniche di Roma, di proprietà e gestita dalla congregazione di queste religiose, sono delle infermiere professioniste che tutti i chirurghi che operano in quella struttura cercano sempre di avere vicine come assistenti di sala operatoria, perché sono di una bravura straordinaria. Bisogna però notare che queste suore indiane sono originarie dello stato del Kerala, dove la cultura cristiana è molto antica e dove quella Chiesa particolare vanta la propria fondazione apostolica, avvenuta nell’anno 52 d.C. per opera dell’Apostolo Tommaso. E per cultura ed antica tradizione cristiana, le religiose del Kerala sono del tutto diverse da quelle religiose di altre regione dell’India che sono vegetariane e che non mangiano carni per paura di potersi cibare di qualche loro antenato reincarnato in una mucca o in un vitello. Sempre a Roma ho conosciuto una eccezionale suora filippina, oggi quasi settantenne, giunta in Italia ad appena diciannove anni d’età, che per anni è stata insegnante e direttrice di una scuola media gestita dalla sua congregazione religiosa. Oltre alla sua operosità ed alle sue straordinarie capacità di lavoro, questa religiosa parla l’italiano come una vera e propria madrelingua, conseguì a suo tempo la laurea in lettere ed è stata per quasi quarant’anni un’ottima insegnante e poi direttrice didattica della scuola. Anche in questo caso, però, stiamo parlando di una donna nata nelle Filippine, dove il cattolicesimo non è stato portato pochi decenni fa, ma ha una storia di oltre cinquecento anni, peraltro caratterizzata da una popolazione cattolica particolarmente legata alla fede cristiana e profondamente devota a Roma. Storia diversa ma del tutto analoga a quella della suora filippina, quella di una suora congolese che si destreggia con un perfetto italiano e che parla a meraviglia inglese, francese e spagnolo. Questa religiosa di origine congolese proviene da una vecchia famiglia che è cattolica da generazioni e che decise di diventare suora quando, con una borsa di studio, giunse poco più che diciottenne a Roma per svolgere gli studi universitari, dopo avere studiato per quattro anni italiano alla scuola media superiore della sua città, avendo in programma i suoi genitori di mandarla a studiare in quella metropoli europea da loro considerata la grande capitale mondiale della cristianità. E qui facciamo notare che l’evangelizzazione del Congo prese avvio sul finire del Quattrocento, mentre agli inizi del Seicento i Gesuiti fondarono in quel Paese l’istituto del Santissimo Salvatore, che formerà per gli anni a seguire le classi dirigenti congolesi, mentre a metà del Seicento giunsero i Frati Minori Cappuccini, ai quali fu invece affidato il compito di istruire e di assistere il clero locale nella erezione delle parrocchie.

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Fatte salve le eccezioni e senza temere che la corale polifonica del politicamente corretto dia avvio all’inno Al razzista, al razzista! I prodotti di queste campagne acquisti, oltre all’elevato numero di suore indiane approdate alle vita religiosa perché prive di dote e quindi del mezzo fondamentale per potersi sposare, è stata la introduzione in molte congregazioni religiose di numerose suore provenienti da vari Paesi africani di recente evangelizzazione, divenute cristiane da adolescenti, prive di una profonda formazione cristiana e prive di adeguata formazione religiosa dovuta proprio alla loro carente formazione cristiana, intrise di animismo, affette da non poche superstizioni e di fatto legate ancóra ai culti degli antenati. Quando le vecchie suore italiane che oggi reggono ormai le propri vite coi denti e che dall’altra seguitano a reggere ed a gestire queste congregazioni, verranno a mancare, quale fine faranno questi istituti, inclusi i loro patrimoni spesso cospicui, quando il tutto sarà in mano ai prodotti della infelice campagna di acquisti?

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ERA MEGLIO NEL PERIODO PRECEDENTE IL CONCILIO DI TRENTO QUANDO MOLTI MONASTERI ERANO DEGLI AUTENTICI BORDELLI

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I frutti prodotti dalla nuova Pentecoste, o come dicono altri «da quell’aria di primavera entrata negli armadi da troppo tempo chiusi della Santa Chiesa di Dio», sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: sono frutti che hanno prodotto una crisi religiosa negli istituti femminili come mai s’era vista prima. In fondo noi abbiamo piantato un albero che doveva essere il più bello e rigoglioso del giardino, ed anche se nei fatti non lo è, c’è chi lo dichiara tale, lanciando tutti i fulmini e le saette dell’ostracismo verso chiunque osi indicare che l’albero è brutto e ammalato. Eppure il Santo Vangelo, tramite le parole di Cristo Signore, ci insegna come riconoscere gli alberi:

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«Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» [Lc 6, 43-45].

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Dovremmo pertanto domandarci: se l’albero è cresciuto storto ed i frutti da esso dati sono morti prima ancóra di germogliare, può essere che sia nel piantarlo sia nel farlo crescere, qualche cosa non sia andata per il verso giusto?

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Il Vaticano II è stato un concilio della Chiesa, per l’esattezza il XXI°, non è stato né un super-concilio né il concilio dei concili. Ma soprattutto, come ci spiegò il Venerabile Pontefice Benedetto XVI, il Vaticano II non può essere mutato in una sorta di superdogma. Concetto questo ripreso dal Sommo Pontefice il 14 febbraio del 2013, tre giorni dopo avere fatto atto di rinuncia al sacro soglio. In questo suo discorso rivolto al clero romano Benedetto XVI ammette chiaramente che nella Chiesa imperversa una grave crisi di ordine dottrinale e morale, attribuendola sia al para-concilio celebrato dai teologi sulle colonne dei giornali, sia al post-concilio:

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«[…] Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale […]» [testo integrale, QUI].

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A metà degli anni Sessanta fu annunciato l’arrivo delle nuova primavera della Chiesa, alla prova dei fatti siamo invece sprofondati in uno dei peggiori inverni siberiani, o come scrissi in un mio articolo due anni fa: siamo alla nuova caduta dell’Impero Romano. [vedere testo QUI].

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Come ho spiegato nel corso di questo mio scritto, dopo il Concilio di Trento abbiamo assistito ad una grande rifioritura della Chiesa unita ad una grande attività missionaria, il tutto collocato nella storia di quel Cinquecento che fu un secolo di grandi riformatori e di grandi Santi. Pur malgrado, il Concilio di Trento non debellò affatto i malcostumi, ed a distanza di alcuni secoli molti dei suoi canoni fondamentali non risultavano ancora applicati ovunque, oppure erano solo parzialmente applicati. 

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I prodotti postumi al Concilio Vaticano II sono oggi sotto gli occhi di tutti: a mezzo secolo da quello che taluni indicano come il più grande Concilio della Chiesa, od il concilio dei concili, la Chiesa versa in una crisi dottrinale, morale e spirituale dinanzi alla quale è davvero difficile trovare dei precedenti storici, perché si tratta di una situazione e di una crisi del tutto nuova. Concludendo pertanto con l’iniziale paradigma della suorina stolta che affermava: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!», come estrema risposta conclusiva penso di poter replicare che sul piano della vita religiosa femminile, forse sarebbe meglio tornare al periodo precedente al Concilio di Trento, quando molti monasteri erano ridotti a degli autentici bordelli. Non dimentichiamo infatti che al loro interno, oltre alle monache divenute tali per costrizione, c’erano anche delle Sante che come buon grano vivevano a fianco a fianco con la gramigna [cf. Mt 13, 27-30], perché come insegna il Beato Apostolo: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» [Rm 5, 20]. E sul finire merita ribadire che la grande Santa e riformatrice Teresa d’Avila nacque proprio in questo genere di monasteri popolati di monache dissolute, divenendo ciò che è divenuta e producendo i frutti che ha prodotto.

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Oggi questo non è possibile, perché non stiamo più parlando di grano e gramigna che vivono assieme e che devono essere lasciati assieme per evitare il rischio di distruggere anche una spiga sola di buon grano; oggi noi siamo di fronte al cadavere della vita religiosa femminile posto dentro la cella frigorifera dell’obitorio per evitare che si decomponga. E lo stato di grazia, come risaputo, abbonda anche e soprattutto nel peggior peccato, ma sui corpi dei viventi, non sui cadaveri dei morti. Mai nessuno potrà infatti pronunciare su di un cadavere la formula: «Io ti battezzo…», oppure «Io ti assolvo dai tuoi peccati», meno che mai si può porgere la Santissima Eucaristia sulla bocca di un morto dicendo al cadavere inanimato «Il Corpo di Cristo».

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Ma questo, la suorina stolta con la chioma al vento e la gonna a mezza gamba, abbeveratasi al post-concilio nato dal para-concilio, non lo sa, come tutte le persone che vivono incoscienti e irresponsabili con l’idea di una primavera sotto il gelo invernale delle temperature glaciali della Siberia. Perché gli alberi, belli e rigogliosi, lo sono per i frutti che danno, non per i frutti non dati ma da noi in ogni caso immaginati. La fede non si basa sulle emotività ideologiche ma sui fatti, per quant’è vero ciò che insegnava uno dei grandi maestri della scolastica, Sant’Anselmo d’Aosta: fides quaerens intellectum, intellectus quaerens fidem [La fede richiede la ragione, la ragione richiede la fede]. Fantasia e illusione, non sono elementi fondanti della nostra fede, ma elementi di distruzione della fede, perché togliendo il grande lume della ragione che produce le opere e che è dono di grazia mirabile dello Spirito Santo, a quel punto prende vita uno pseudo cristianesimo fondato sul sentimentale e sull’emotivo. E così, si passa dal cristianesimo al neo-paganesimo, allo gnosticismo, se non peggio: all’ateismo. Infatti «la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa […] mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» [II Gc 1, 17-18]. Ecco la terribile domanda fondamentale di cui molti, troppi, dovranno rendere seriamente conto a Dio: quali sono stati i frutti delle opere e che genere di fede hanno prodotto? È infatti da questi frutti che saremo riconosciuti e poi giudicati da Dio, perché «alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere» [Mt 11, 19].

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dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2019

Presentazione del Signore Gesù al Tempio

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Non è necessario de-sacralizzare e prendere il giro la Chiesa Cattolica, perché la Chiesa Cattolica si de-sacralizza e si prende in giro da sé stessa

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NOTE

[1] «Ubi violata […] diligenter restitui, et ubi inviolata […] conservari»: Concilii Tridentinii actorum. Pars sexta complectens acta post sessionem sextam (XXII) usque ad finem concilii (17 sept. 1562-4 dec. 1563).

[2] Citazione originale in italiano arcaico: «[…] quando vien qualche signor in questa terra, li mostrate li monasterii di monache, non monasterii ma prostribuli e bordeli publici» —  Marino Sanuto, Diarii (a cura Federico Stefani), Venezia, 1879, t. I, col. 836. Cfr. anche Pio Paschini, I monasteri femminili in Italia nel ‘500, in AA. VV., Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento. Atti del convegno di storia della Chiesa in Italia, Bologna, 2-6 settembre 1958, Editrice Antenore, Padova, 1960, pp. 31-60 e Innocenzo Giuliani, Genesi e primo secolo di vita del Magistrato sopra monasteri (Venezia, 1962).

[3] S. F. Wemple – S. Salvatore – S. Giulia: A case study in the endowment and patronage of a major female monastery in northern Italy, in Women of the medieval world. Edited by Julian Kirshner and Suzanne F. Wemple. New York: Blackwell, 1985.

[4] Archivio della Nunziatura Apostolica di Napoli, Scat. 44, Denuncia della badessa Domna Maria Francesca Tronconi, 21 aprile 1836.

[5] ASDS, Atti per luogo, Arpino, B. 61, fasc. 4. ASV, Congregazione dei vescovi e regolari, Positiones monialium, Novembre 1822, S. Germano, Placida Scafi.

[6] Cf. S.S. Benedetto XVI, Omelia alla liturgia dell’Epifania, Papale Arcibasilica di San Pietro, 6 gennaio 2008.

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