Quella Parola di Dio che sottrae l’uomo all’ansia mondana delle sterili chiacchiere e della spasmodica ricerca del successo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUELLA PAROLA DI DIO CHE SOTTRAE L’UOMO ALL’ANSIA MONDANA DELLE STERILI CHIACCHIERE E DELLA SPASMODICA RICERCA DEL SUCCESSO

Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza, come già aveva affermato per mezzo del profeta: «La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nel Santo Vangelo di questa XI domenica del tempo ordinario (anno B) Gesù pronuncia un lungo discorso in parabole che rivolge sia ai discepoli che alle folle richiamate dalla sua predicazione sul Regno veniente:

«In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Diceva: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,26-34).

All’apparenza enigmatico, il linguaggio metaforico delle parabole adoperato da Gesù è il suo modo privilegiato di rivolgersi a tutti, di seminare quel seme della Parola (Mc 4, 14) che può diventare «mistero» per alcuni, coloro che lo seguono più da vicino, che usufruiscono delle sue spiegazioni. Ma altri, che pure «potevano intendere», sono destinati a rimanerne fuori (cfr. «exo», in Mc 3,31-32; 4,11), perfino i parenti più stretti di Gesù: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole».

Gesù parla in parabole perché gli ascoltatori modifichino il loro modo di pensare e diventino capaci di accogliere il nuovo che Egli sta annunciando, in termini di cambiamento del modo di vivere, di sentire, giudicare e operare. Lo fa cogliendo esempi alla portata di tutti o insospettabili paragoni, manifestando una non comune capacità di osservazione del reale e una conoscenza dell’uditorio che solo a tratti si meraviglia della incredulità o incapacità di cogliere l’aspetto nascosto del suo predicare. Nella pericope evangelica di questa domenica, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli come semina della Parola di Dio (Mc 4,1-20), e i due brevi detti, uno sulla lampada «che viene» per essere vista e l’altro sulla misura dell’ascolto (Mc 4,21-25), Gesù narra due ultime parabole che vogliono attestare l’efficacia della Parola seminata. La prima, presente solo in Marco, afferma che:

«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa».

Gesù parla nuovamente del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che rimane dal raccolto precedente: è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se viene piantato, allora nella terra marcisce, si disfa e scompare; in realtà, però, genera vita, che diventa un germoglio, poi una pianta, e alla fine apparirà nei suoi frutti abbondanti, addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione dell’originario singolo seme. Per questo motivo la vicenda del seme, nelle parole di Gesù, è adatta ad esprimere il mistero del Regno.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è infatti paragonata da Gesù al processo agricolo che ogni contadino conosce bene e che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, rimirando la virtualità celata in quel piccolo seme seccato, che appare addirittura morto. Così è il regno di Dio: piccola realtà, con in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Seminato il seme il contadino non ne ha un controllo speciale, sia che dorma o vegli per andare a controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.

Ecco allora l’insegnamento: occorre meravigliarsi del Regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo e di conseguenza occorre avere fiducia in esso e nella sua forza. E il seme è la Parola che, seminata dall’annunciatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge, né può verificare il processo: di questo deve essere certo. Nessuna ansia, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è Parola di Dio essa darà frutto in modo insospettato.

Di seguito Gesù propone un’altra parabola, ancora su un seme, ma questa volta di senape:

«È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno».

Il Regno è una realtà piccolissima, così come piccolissima era la presenza di Dio tra gli uomini in quell’uomo che era Gesù, da quel minuscolo villaggio di Nazareth Egli percorre le strade di una porzione terra, con un limitato gruppo di discepoli. Eppure questo piccolo seme donato alla nostra umanità diventa un albero grandissimo. Tutto questo in un modo misterioso che chiede semplicemente di accogliere il seme, di custodirlo in un cuore che attende. Non a caso Gesù parla in questa sua parabola solo della semina, mentre tace su tutto il lavoro che viene dopo per far crescere il seme. Tralascia tutto questo non perché non sia importante, ma vuole offrirci la lezione precisa sul fatto che il Regno cresce comunque e non sono gli uomini a dare forza alla sua Parola, né possono fermare la vita che porta in sé. Di nuovo richiama i discepoli a lasciare ogni ansietà per abbandonarsi a questo dono:

«…Viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

Così l’idea efficace di Gesù che paragona il Regno al seme, la quale aveva già le sue radici bibliche in quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cfr. Dn 4,6-9.17-19), permane nell’immaginario dei futuri missionari della primissima generazione cristiana. Paolo ricorda che la Parola di Dio può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne semplici, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cfr. 1Cor 1,26). Eppure essa è: «Potenza di Dio» (Rm 1,16). Ma di un’efficacia non mondana, non misurabile in termini quantitativi, perché la Parola del Signore è: «Parola della croce» (1Cor 1,18).

L’Apostolo Pietro sottolinea nel suo scritto che quella stessa Parola diventa un seme di vita immortale e fonte di amore:

«Amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23).

La rivelazione dell’efficacia della Parola di Dio è decisiva per cristiani, perché li sottrae alle ansie mondane del risultato e del successo. Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza, come già aveva affermato per mezzo del profeta:

«La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11).

 

Dall’Eremo, 15 giugno 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La Pentecoste del «chiamato accanto» come difensore, soccorritore e consolatore

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PENTECOSTE DEL «CHIAMATO ACCANTO» COME DIFENSORE, SOCCORRITORE, CONSOLATORE 

I Vangeli sinottici dicono che Gesù aveva parlato dello Spirito Santo, disceso su di lui nel battesimo, lo aveva poi promesso come dono ai discepoli, in particolare per l’ora della persecuzione, quando lo Spirito sarà la loro vera difesa: parlando in loro e insegnando loro ciò che occorre dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il lezionario della Chiesa italiana presenta per questa Domenica di Pentecoste due brani tratti dal Quarto Vangelo che in verità sono costruzioni un po’ artificiali, in quanto costituiti da versetti appartenenti a contesti diversi. In questo anno B il testo è composto da due versetti dove Gesù promette ai discepoli lo Spirito Santo (Gv 15,26-27) e da altri quattro nei quali egli specifica l’azione dello stesso Spirito nei giorni della Chiesa (Gv 16,12-15). Gesù pronuncia queste parole mentre è ancora a tavola con i suoi discepoli dopo la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,1-20) e comunica parole di addio, perché è «venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Ecco il brano evangelico della Solennità:

Pentecoste, affresco di Quirino De Ieso (1999)

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 15,26-27; 16,12-15).

I Vangeli sinottici dicono che Gesù aveva parlato dello Spirito Santo, disceso su di lui nel battesimo (cfr. Mc 1,10), lo aveva poi promesso come dono ai discepoli, in particolare per l’ora della persecuzione (cfr. Mc 13,11 e par.), quando lo Spirito sarà la loro vera difesa: parlando in loro e insegnando loro ciò che occorre dire. La medesima promessa troviamo nel Vangelo secondo Giovanni (cfr. Gv 14,26-27). Verrà il Parákletos (παράκλητος) un termine non di immediata comprensione, il cui significato è: «il chiamato accanto» come difensore, soccorritore e consolatore. Lo Spirito santificatore che Gesù, salito al Padre, invierà. Allora lo Spirito darà testimonianza a Gesù, così come faranno i discepoli stessi, che sono stati con lui fin dall’inizio della sua missione. Questa è la funzione decisiva dello Spirito Santo che, come fu «compagno inseparabile di Gesù» (Basilio di Cesarea), dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, diventa il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Egli è quell’alito di Dio che Gesù soffia sui discepoli dopo la risurrezione e la vita stessa di Dio che è anche di Gesù diventa vita nei discepoli e li abilita ad essere testimoni suoi. Si produrrà una sinergia fra la testimonianza dello Spirito e quella dei discepoli. E questo riguardo al Cristo. Anche quando gli uomini sentiranno estranei i cristiani, nelle persecuzioni o nelle ostilità subite da parte del mondo, nella potenza dello Spirito i cristiani continueranno a rendere testimonianza a Gesù.

La Pentecoste allora è la pienezza della Pasqua. Con essa la Chiesa celebrando il dono dello Spirito, per un verso ricorda ciò che Dio ha già operato in Gesù di Nazaret e dall’altro invoca ciò che non ancora è, ovvero l’estensione universale e cosmica delle energie di vita e salvezza dispiegate da Dio stesso nella resurrezione di Gesù. La Pentecoste è simultaneamente celebrazione e invocazione. La prima lettura dell’odierna Solennità (At 2,1-11) mostra lo Spirito nel suo aspetto di dono dall’alto che rende i discepoli capaci di comunicare le grandi azioni di Dio nelle lingue degli uomini. È un’apertura ai linguaggi e alle capacità comunicative dell’altro. Lo Spirito è così all’origine di una missione che sia al contempo di inculturazione, per raggiungere l’altro là dove egli è; e di corrispettiva deculturazione, per non annunciare come Vangelo ciò che è semplicemente cultura. Così come dice la Scrittura:

«Lo spirito del Signore riempie l’universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce» (cfr. Sap, 1,7).

La seconda lettura presenta i frutti dello Spirito. Egli che è invisibile si rende riconoscibile dai frutti che produce nell’uomo se accoglie la sua presenza. Lo Spirito con la sua «inabitazione» fa passare l’uomo dall’essere una individualità chiusa e autoreferenziale, a questo allude Paolo parlando di «soddisfare i desideri della carne» (Gal 5, 16-21); ad essere aperto alla relazione con gli altri e con Dio. Paolo afferma: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé… Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5, 22.25). Così lo Spirito plasma il volto del credente a immagine del volto di Cristo guidandolo sulla strada della santità: frutto dello Spirito è l’uomo santo.

Nella seconda parte dell’odierno brano evangelico Gesù dice ancora alcune parole su questo soffio divino che è lo Spirito. Egli è consapevole di essere il rivelatore del Padre secondo quanto affermato dal prologo giovanneo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (cfr. exeghésato di Gv 1,18, dal greco ἐξηγητής). Lo ha fatto con eventi e parole e soprattutto amando i suoi fino alla fine (cfr. Gv 13,1), ma sa anche che avrebbe potuto dire molte cose in più. Gesù ci avvisa che esiste una progressiva iniziazione alla conoscenza di Dio, una crescita in questa stessa conoscenza, che non può essere data una volta per tutte. In questo modo il discepolo impara a conoscere il Signore ogni giorno della sua vita, «di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine» (cfr. Gregorio di Nissa). La vita del discepolo si apre ad una comprensione sempre più grande e tutto ciò che una persona vive, grazie all’azione dello Spirito Santo, acquista un senso nuovo in Dio. Ognuno di noi lo sperimenta; più andiamo avanti nella vita personale e nella risposta alla chiamata del Signore nella storia, più lo conosciamo: «Nell’illuminazione dello Spirito, noi vedremo la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (cfr. San Basilio).

«Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre» (Eb 13,8), non cambia, ma lo Spirito ci guiderà alla verità tutta intera. Questi, inviato ai discepoli, ricorda loro le sue parole (cfr. Gv 14,26), le approfondisce e nuovi eventi e realtà sono illuminati e compresi proprio grazie alla presenza dello Spirito Santo. A Cristo non succede lo Spirito Santo, all’età del Figlio non segue quella dello Spirito, perché lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio: «Tutto quello che il Padre possiede è mio». Dove c’è Cristo c’è lo Spirito e dove c’è lo Spirito c’è Cristo. Egli è la fonte perenne dello Spirito che mai si esaurisce e sempre rinnova la Chiesa, come lo stesso Giovanni ci ricorda: «Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7, 37-39).

Per questo la Chiesa continuamente invoca quest’acqua, lo Spirito del Padre e del Figlio, che è anche alito di vita sempre creante, secondo le parole del Salmo: «Manda il tuo Spirito, tutto sarà creato e rinnoverai la faccia della terra» (Sal 104, 30).

 

Dall’Eremo, 19 maggio 2024

 

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La Chiesa è figlia dei primi discepoli titubanti

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA CHIESA È FIGLIA DEI PRIMI DISCEPOLI TITUBANTI

Le persone possono apprezzare molto la religione, ma difficilmente arrivano poi alla fede. In occasione della Pasqua abbiamo visto, moltiplicate dai social, manifestazioni religiose della tradizione popolare che chiamiamo “sacre” e che giocano molto sul filo dell’emozione e del sentimento, ma approdano poi davvero a Gesù Cristo e alla sua Parola?

 

 

 

 

 

 

 

 

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

Il Vangelo di questa Terza Domenica di Pasqua racconta l’ultima apparizione di Gesù Risorto, secondo il piano narrativo del Vangelo di Luca. Siamo tra la scena di Emmaus e quella dell’ascensione e Gesù si mostra ai discepoli che hanno appena ascoltato ciò che due viandanti hanno riferito loro. Ecco il brano:

Risurrezione, opera di Quirino De Ieso, 1996

«In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”». (Lc 24,35-48). 

Sempre nel medesimo giorno, «il primo della settimana» (Lc 24,1), ma stavolta di sera, due discepoli tornati a Gerusalemme sono nella camera alta (cfr. Lc 22,12; Mc 14,15), a raccontare agli Undici e agli altri «come hanno riconosciuto Gesù nello spezzare il pane» (Lc 24,35). Ed ecco che, improvvisamente, si accorgono che Gesù è in mezzo a loro e fa udire la sua voce. Non rivolge loro parole di rimprovero per come si sono comportati nelle ore della sua passione. Il fatto di menzionare che adesso sono in undici e non più dodici, come quando li aveva scelti, dice molto del loro stato d’animo. Piuttosto si rivolge loro così: «εἰρήνη ὑμῖν! (Pace a voi!)»; un saluto all’apparenza abituale fra ebrei, ma che quella sera, rivolto a discepoli profondamente scossi e turbati dagli eventi della passione e morte di Gesù, significa innanzitutto: «Non abbiate paura!».

Le cose sembrano tornate alla normalità, ma è così davvero? La resurrezione ha radicalmente trasformato Gesù, l’ha trasfigurato, reso «altro» nell’aspetto, perché egli ormai è «entrato nella sua gloria» (Lc 24,26) e può solo essere riconosciuto dai discepoli attraverso un atto di fede. Quest’atto di fede è però difficile, faticoso: gli Undici stentano a viverlo e a metterlo in pratica.  Non a caso Luca annota che i discepoli «sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito» (πνεῦμα θεωρεῖν), allo stesso modo che i discepoli di Emmaus credevano di vedere un pellegrino o Maddalena un giardiniere. In particolare il corpo di Gesù è cambiato, è ormai risorto, glorioso. Ci potremmo chiedere, infatti, come mai con un evento tanto grande come una risurrezione da morte il corpo del Signore non sia uscito dal sepolcro riparato, ma conservi i segni evidenti della passione. Gesù interroga i discepoli:

«Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho».

Nel dire questo, mostra loro le mani e i piedi con i segni della crocifissione. Il Risorto non è altro che colui che è stato crocifisso. Questa ostensione da parte di Gesù delle sue mani e dei suoi piedi trafitti per la crocifissione è un gesto che secondo alcuni sta a significare che ormai è possibile incontrare il Signore nei sofferenti, nei poveri e nei disprezzati che subiscono ingiustizie. Questo è vero, ma è anche innanzitutto una domanda di fede che si basa su segni evidenti che rimandano a tutto quello che Gesù è stato e al significato di quello che ha subito: la resurrezione di Gesù non è un mito religioso, è un fatto reale, fisico.

Per questo, paradossalmente, dobbiamo essere grati alla ritrosia dei discepoli conservata nei Vangeli. Nonostante le parole e il gesto di Gesù i discepoli non arrivano a credere, malgrado l’emozione gioiosa non giungono alla fede. Non è forse l’esperienza che ancora si perpetua nelle nostre comunità? Le persone possono apprezzare molto la religione, ma difficilmente arrivano poi alla fede. In occasione della Pasqua abbiamo visto, moltiplicate dai social, manifestazioni religiose della tradizione popolare che chiamiamo “sacre” e che giocano molto sul filo dell’emozione e del sentimento, ma approdano poi davvero a Gesù Cristo e alla sua Parola?  In ciò che accadde agli Undici possiamo leggere la vicenda delle nostre comunità, nelle quali si vive la fede e la si confessa, ma si manifesta anche l’incredulità. Eppure il Risorto ha grande pazienza, per questo offre alla sua comunità una seconda parola e un secondo gesto.

Egli non risponde ai dubbi  ― «perché sorgono dubbi nel vostro cuore?», Lc 24,38 ― nel modo che ci aspetteremmo, ma si pone piuttosto su un altro piano, quello dell’incontro, e, cosa ancor più significativa, nella forma della convivialità. Gesù mangia coi suoi, come aveva abitualmente fatto nella sua vita terrena. Anzi, questa volta è lui stesso a dire: «Avete qualcosa da mangiare?» (Lc 24,41). Ci sorprende un gesto così semplice, quotidiano e normale, che tante volte Gesù ha compiuto. Anzi, sembra proprio il gesto del mendicante che chiede del cibo e lo cerca umilmente entrando in casa, proprio mentre gli altri sono già a tavola. Con la medesima discrezione che avevamo visto nell’episodio di Emmaus. Gesù, si dirà nel libro dell’Apocalisse, è colui che sta alla porta e bussa: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Ma evidentemente c’è di più. Gesù mangia davanti a loro non perché ci sia una causa da continuare e il pasto diventa, come in occasione dei funerali, un modo per attenuare il dolore del distacco e rinsaldare la memoria di chi non c’è più. Gesù offre dei segni e compie dei gesti perché si creda che egli è veramente Risorto e che il suo corpo crocifisso è ora un corpo vivente, «un corpo spirituale» (1Cor 15,44), cioè vivente nello Spirito, dirà l’Apostolo Paolo. È per questo che ancora oggi la Chiesa incontra il Risorto nei Sacramenti e in particolare nella celebrazione eucaristica.

I discepoli, narra il Vangelo, restano in silenzio, muti, sopraffatti dalle emozioni della gioia e del timore, che insieme non ce la fanno ad accendere la luce della fede pasquale. Luca scriverà in seguito, all’inizio degli Atti degli apostoli, che Gesù «si presentò vivente ai suoi discepoli… con molte prove» (At 1,3). Allora Gesù, per renderli finalmente credenti chiede di ricordare le parole dette mentre era con loro e soprattutto come doveva trovare compimento tutto ciò che era stato scritto su di lui, il Messia, nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi, cioè nelle sante Scritture dell’Antica Alleanza. Quest’azione ermeneutica compiuta dal Risorto che noi riviviamo ogni domenica nell’Eucarestia è descritta dalle parole: «Aprì loro la mente (diénoixen autôn tòn noûn) per comprendere le Scritture».

Il verbo qui utilizzato (dianoígo) nei Vangeli ha il senso di «aprire e mettere in comunicazione». Così sono aperti gli orecchi dei sordi, la bocca dei muti (cfr. Mc 7,34) e gli occhi ciechi dei discepoli di Emmaus (Lc 24,31). In questa circostanza indica l’operazione compiuta dal Risorto che come un esegeta aiuta i discepoli a capire che le Scritture parlavano di lui. Non aveva forse conversato con Mosè ed Elia proprio su quell’esodo pasquale che doveva compiersi a Gerusalemme (Lc 9,30-31)?

La Chiesa è figlia di quei primi discepoli titubanti ai quali Gesù subito fa questa promessa: «Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49). Grazie al dono e alla forza dello Spirito del Risorto ancora oggi i discepoli ascoltano la Scrittura, sommamente nella Liturgia, che parla di Lui, si nutrono di Lui nell’Eucarestia e Lui testimoniano invitando alla conversione e al perdono che da Gerusalemme prese l’abbrivio. Da quel primo giorno i cristiani non hanno cessato di professare e poi testimoniare la loro fede condensata nel Simbolo: «Morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture (resurrexit tertia die secundum Scripturas)» (cfr. 1Cor 15,3-4). 

Buona domenica a tutti!

Dall’Eremo, 14 aprile 2024

 

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“Beati noi” che pur non avendo visto abbiamo creduto a Cristo vero Dio e vero uomo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

“BEATI NOI” CHE PUR NON AVENDO VISTO ABBIAMO CREDUTO A CRISTO VERO DIO E VERO UOMO

Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade piuttosto sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano già fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede.

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Il brano di questa Seconda Domenica di Pasqua, o detta anche della Divina Misericordia, è l’ultimo dei componimenti narrativi che terminano con la «prima» finale del Vangelo di Giovanni (vv. 30-31) e sono divisibili in quattro piccoli quadri: Maria Maddalena che si reca al sepolcro; dopo di che sono Pietro e l’altro discepolo che vanno alla tomba; quindi Maria Maddalena incontra il Signore e crede sia il giardiniere; infine, l’ultimo quadro, vede come protagonisti i discepoli e Tommaso.

Incredulità di San Tommaso, opera di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Bildegalerie

Il testo evangelico è il seguente:

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,19-31).

Anche un lettore disattento si accorge che in questo testo sono assemblate così tante tematiche che sarebbe veramente pretenzioso raccoglierle in un unico e breve commento. Si pensi all’indicazione temporale, quel primo giorno della settimana che scandirà per sempre la memoria liturgica della Risurrezione di Gesù per i cristiani. Ci sono poi i tre doni della pace, della missione e del perdono che scaturiscono dal Risorto che sta «in mezzo» ai discepoli e ne provano gioia. Si pensi al tema del «vedere» che diviene sinonimo di credere, nella sequenza che ha come protagonista Tommaso.

C’è anche il dono dello Spirito da parte di Gesù. Il modo in cui il Quarto Vangelo ne parla è unico in tutto il Nuovo Testamento. Solo Giovanni, infatti, e solo qui al versetto 22, dice che Gesù «soffiò» sui discepoli. Viene usato un verbo, emphysao, «insufflare, alitare», utilizzato per la prima volta nel libro della Genesi, durante il racconto della creazione dell’uomo. Tutta la realtà creata, si racconta lì, viene dalla parola di Dio, ma per fare l’uomo questa non basta: Dio deve alitare dentro le sue narici. A guardar bene, però, l’azione di Gesù non è solo quella di «soffiare sopra», ma indica anche il «respirare» di Gesù: perché Egli è di nuovo vivo! È la prova che non è un fantasma e infatti a lui non basta mostrare le mani e il costato: Gesù respira. Questo verbo emphysao si trova ancora altre volte nella Bibbia, ad esempio in 1Re 17,21 e in Ez 37,9. Nel testo di Ezechiele il popolo può risorgere solo se lo Spirito dai quattro venti viene a «soffiare» la vita sui morti.

Emerge dall’uso veterotestamentario del nostro verbo una costante che si può riallacciare al racconto di Giovanni. Questi «proclama simbolicamente che, proprio come nella prima creazione Dio alitò nell’uomo uno spirito vitale, così adesso, nel momento della nuova creazione, Gesù alita il suo proprio Spirito Santo nei discepoli, dando loro la vita eterna. Nel simbolismo battesimale di Giovanni 3,5, ai lettori del Vangelo viene detto che da acqua e Spirito essi nascono come figli di Dio; la scena presente serve da battesimo per gli immediati discepoli di Gesù e da pegno di nascita divina per tutti i credenti del futuro, rappresentati dai discepoli. C’è poco da meravigliarsi che l’usanza di alitare sopra le persone da battezzare sia entrata nel rito del battesimo. Ora essi sono veramente fratelli di Gesù e possono chiamare suo Padre loro Padre (20,17). Il dono dello Spirito è l’acme finale delle relazioni personali fra Gesù e i suoi discepoli» (R. Brown).

Vi è poi l’episodio di Tommaso che è importantissimo e non a caso ha segnato non solo un modo di tradurre il Vangelo, ma soprattutto la maniera di intendere la frase di Gesù a Tommaso, in particolare nel confronto fra i cattolici e i riformati. Notiamo subito che nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες) e anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt): «Tu hai creduto perché hai visto» ― dice Gesù a Tommaso ― «beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto». E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero «credere senza vedere», ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento è a Giovanni, l’altro discepolo che con Pietro era corso al sepolcro per primo (Vangelo del giorno di Pasqua). Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, la tomba vuota e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte e, pur nell’esiguità di tali indizi, aveva cominciato a credere. La frase di Gesù «beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto» rinvia proprio al «vidit et credidit» riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole dire che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è dunque la richiesta di una fede cieca, ma la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade piuttosto sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano già fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un errore di traduzione nella versione della CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla prova empirica richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: «E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente». Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: «E non essere incredulo, ma credente». Ora, nel testo originale, il verbo «diventare» suggerisce l’idea di dinamismo e di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare «credente». Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento e sembra quasi sottintendere che la fede consista in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. È un totale rovesciamento. Tommaso vede Gesù e sulla base di questa esperienza è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di «vedere» il Signore e accostarsi alle sue piaghe. Come vorrebbe l’idealismo, per cui è la fede a creare la realtà da credere, ma ciò è in contraddizione con tutto quello che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il «vedere» può essere una via d’accesso al «credere». Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo; per rifare l’esperienza di coloro che dal «vedere» sono passati al «credere»: si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale. Il Vangelo di Marco si chiude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: «Allora essi partirono e annunciarono il Vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all’orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione, che non sono una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie. «In manibus nostris codices, in oculis facta», dice Agostino: «nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti» (QUI). Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nella Incarnazione del Verbo:

«Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa ― solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini ― veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede». Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione» (CCC, nr 156).

 

Dall’Eremo, 07 marzo 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Lo spavento delle donne: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LO SPAVENTO DELLE DONNE: «HANNO PORTATO VIA IL SIGNORE DAL SEPOLCRO E NON SAPPIAMO DOVE L’HANNO POSTO» 

Sant’Agostino con l’acutezza che lo contraddistingue legge con onestà quello che queste parole dicono: «Era entrato e non l’aveva trovato. Avrebbe dovuto credere che era risorto, non che era stato rubato»

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Mentre nella notte di Pasqua abbiamo letto il racconto evangelico più antico sulla risurrezione di Gesù, quello di Marco, oggi viene proclamato l’inizio del capitolo ventesimo di Giovanni, probabilmente l’ultimo testo dei Vangeli sulla risurrezione di Gesù ad essere scritto. Siamo, in questo modo, davanti a una parabola che prende l’avvio da quello che è contenuto e ripreso da Marco, ovvero un resoconto «pre-marciano» della passione e risurrezione di Gesù e arriva fino all’ultimo racconto, quello giovanneo, risalente alla fine del primo secolo. La liturgia, nello spazio di una sola notte, dalla Veglia Pasquale alla messa del giorno di Pasqua, raccoglie fonti e tradizioni che si sono sedimentate nell’arco di alcuni decenni e ci permette di gustare le differenti prospettive degli evangelisti. Questo il testo proclamato:

Salvador Dalì, L’aurora, 1948

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario ― che era stato sul suo capo ― non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,1-9)

 Leggendo questo brano ci coglie una profonda emozione, la stessa provata dai primi testimoni della Risurrezione, una donna e due discepoli. Questa sembra proprio l’intenzione dell’evangelista. Ci aspetteremmo, infatti, una confessione matura e convinta circa l’evento, invece nel nostro testo non abbiamo ancora l’annuncio pasquale, anzi, ciò che Maria di Magdala corre a dire ai due discepoli è: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto». Maria, preda della paura e dello sconforto, dà per certo che il corpo di Gesù sia stato trafugato e la sua preoccupazione verte sul «dove» ora si possa trovare la salma. Il racconto evangelico mostra dunque la genesi della fede pasquale presentandone il momento incoativo, lo sprigionarsi della scintilla che presto diverrà un incendio. L’itinerario interiore che condurrà al grido e all’annuncio «È risorto» passa attraverso la presa di coscienza delle evidenze di morte costituite dalle bende e dal sudario che avvolgevano la salma e dal sepolcro in cui essa era stata deposta. Il Santo Vangelo ci fa sentire così questi discepoli molto vicini a noi, al nostro graduale cammino verso una fede salda nella Risurrezione di Gesù. Fede piena sarà quella di Tommaso che dirà: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28); ma non senza esser dovuto passare anche lui per la tentazione del non credere e della sfiducia.

L’assenza di fede nella Risurrezione viene simbolicamente anticipata dall’annotazione che fuori «era ancora buio» (Gv 20,1) quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. E il «buio» nella simbologia giovannea rinvia a ciò che si oppone alla luce (Gv 1,5; 3,19), designa la situazione problematica dei discepoli nell’assenza di Gesù (Gv 6,17), è la condizione di incertezza e sbandamento in cui si trova a vagare chi non segue Gesù (Gv 8,12), chi non crede in lui (Gv 12,46). Insomma, siamo al «primo giorno della settimana» (Gv 20,1), ma non è ancora spuntata l’alba, siamo ancora nel buio.

In questo contesto l’evangelista presenta le reazioni di tre discepoli di fronte alla tomba vuota e in particolare la fede incoativa del discepolo amato che, viste le bende per terra ed entrato nel sepolcro vuoto, «credette» (Gv 20,8), o meglio, «cominciò a credere» (cfr. l’aoristo ingressivo: epiesteuesen καὶ ἐπίστευσεν). Solo così si può infatti spiegare l’annotazione che l’evangelista pone a immediato commento: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura che egli doveva risuscitare dai morti» (Gv 20,9). Sant’Agostino con l’acutezza che lo contraddistingue legge con onestà quello che queste parole dicono: «Era entrato e non l’aveva trovato. Avrebbe dovuto credere che era risorto, non che era stato rubato» (cfr. QUI). La fede pasquale non nasce dalla mera constatazione di una tomba vuota: questa può condurre anche a formulare l’ipotesi di un trafugamento del corpo. I fatti vanno accostati alle parole della Scrittura e da essa illuminati. Solo allora essi daranno vita alla fede pasquale. Fede che troverà la sua pienezza con il dono dello Spirito che illumina le menti aprendole all’intelligenza delle Scritture, come fu per i discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,45),  perché: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16, 13).

La resurrezione infatti è un evento inaudito, impensabile e sconcertante. Ne saprà qualcosa Paolo quando proverà ad annunciarla agli ateniesi (At 17, 32). È la novità assoluta di Dio e i discepoli sono totalmente impreparati all’evento. Solo il discepolo amato, proprio per quella sua conoscenza intima che lo lega a Gesù, comincia a intuire e a lasciar spazio nel proprio animo alla novità compiuta da Dio.

C’è tuttavia in questi tre discepoli l’aspetto emotivo che a suo tempo li aveva portati a lasciare tutto per seguire Gesù. In Maddalena che teme di non poter più vedere e toccare il suo Signore e per questo corre. Corre verso Pietro e il discepolo amato, i due punti di riferimento del gruppo dei discepoli. E a loro volta corrono anch’essi, stavolta al contrario, di nuovo verso il sepolcro. Nel momento in cui il piano emotivo viene lasciato andare a briglia sciolta ognuno esprime se stesso senza più far valere le regole del gruppo. Giunto tuttavia al sepolcro il discepolo amato attende Pietro e lascia che lui entri per primo, rispettando il primato stabilito dal Signore. Il piano emotivo e affettivo di Maria (che corre dai due discepoli) e del discepolo amato (che aspetta Pietro e lo fa entrare per primo nel sepolcro) restano ordinati e sottomessi all’oggettività comunitaria. Ma per guidare l’emotività e l’affettività alla fede piena occorreranno l’intelligenza della Scrittura e la fede in essa, che è fondamento ineliminabile e oggettivante della fede pasquale e della vita ecclesiale.

Noi oggi che ascoltiamo ancora una volta queste parole del Santo Vangelo proclamate esprimiamo gratitudine verso questi discepoli così importanti che hanno voluto conservare la loro titubanza di fronte ad un evento così inusitato. Li sentiamo vicini, grati per la loro testimonianza di fede che ci hanno tramandato proprio nelle Scritture. Ci hanno insegnato a cercare il Risorto non più nel sepolcro (mnemeîon in greco: lett. «memoriale»; Gv 20 1.2.3.4.6) che è memoria cimiteriale, morta. Ma ormai vivente nella sua gloria e presente quando ci amiamo, quando lo testimoniamo nei luoghi della nostra esistenza, quando incontriamo la sofferenza o quando portiamo speranza. Nel nostro radunarci ogni domenica, Pasqua della settimana, senza la quale non possiamo più vivere. Perché lì confessiamo non solo i nostri peccati, ma ascoltiamo di nuovo la Scrittura che ci parla di Lui e di Lui ci nutriamo, nell’attesa che Egli venga.

Termino con queste parole del poeta fiorentino Mario Luzi (1914 – 2005). Il Papa Giovanni Paolo II gli chiese di commentare le stazioni della Via Crucis al Colosseo nel giorno di Venerdì Santo del 1999. Ed egli finì così:

«Dal sepolcro la vita è deflagrata. / La morte ha perduto il duro agone. / Comincia un’era nuova: l’uomo riconciliato nella nuova alleanza sancita dal tuo sangue / ha dinanzi a sé la via. / Difficile tenersi in quel cammino. / La porta del tuo regno è stretta. / Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto, / ora sì che invochiamo il tuo soccorso, / tu, guida e presidio, non ce lo negare. / L’offesa del mondo è stata immane. / Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore. / Amen». (Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo, 1999)

Surrexit Dominus vere, et apparuit Simoni, alleluia!

Buona Pasqua a tutti.

 

Dall’Eremo, 31 marzo 2024

Santa Pasqua di Risurrezione 

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Meglio muoia un solo uomo che perisca una nazione intera

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

MEGLIO MUOIA UN SOLO UOMO CHE PERISCA LA NAZIONE INTERA

Per Gesù la vera morte non è quella fisica che gli uomini possono dare, ma sta nel rifiuto di dare la vita per gli altri, la chiusura sterile su se stessi; al contrario, la vera vita è il culmine di un processo di donazione di sé.

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Fraintendere, ovvero prendere una cosa per un’altra. Questa attività che si è diffusa ai giorni nostri contrassegnati dall’uso consistente dei social, per l’autore del Quarto Vangelo diventa un espediente letterario per mezzo del quale, utilizzando la momentanea incomprensione, il lettore è guidato verso una conoscenza ulteriore, spesso più profonda, della realtà, del mistero che vive in Gesù. Lo abbiamo visto nell’incontro fra Lui e la samaritana e prima ancora con Nicodemo, nel Vangelo di domenica scorsa. Lo ritroviamo ancora qui, nel brano evangelico di questa quinta Domenica di Quaresima. Cosa c’è di più semplice e naturale del desiderio di vedere Gesù? Non sarebbe una richiesta che anche noi porremmo ogni giorno? Eppure l’Evangelista ci dice che Egli sembra, apparentemente, non prenderla in considerazione; distratto o, per meglio dire, concentrato su una prova imminente, su ciò che potrebbe distoglierlo e dunque su una presentazione di sé che la semplice curiosità di vederlo potrebbe non capire. Che cosa o chi dobbiamo guardare quando desideriamo vedere Gesù?  

Secondo Tempio di Gerusalemme, modello di ricostruzione, Museo dello Stato d’Israele

«In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”. La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. Disse Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 20-33).

Per comprendere la pericope appena letta occorre far riferimento alla montante ostilità verso Gesù segnalata dalle seguenti parole che precedono il brano appena riportato:

«”Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”. Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”. Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11, 48-53).

Nelle parole delle oppositori vi è anche la constatazione che: «Il mondo (ho kósmos) gli è andato dietro» (Gv 12,19). In questo contesto, nel quale le decisioni degli avversari sono già prese, alcuni greci vogliono vedere Gesù. È un primo passo, non ancora quel vedere perfetto che fa contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito il senso delle cose, tutta la profondità della realtà che farà proferire a Gesù: «Chi  ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Questo desiderio però è positivo, di tutt’altro tenore dell’aspirazione omicida degli avversari di Gesù. Ma i greci, presenti per la Pasqua a Gerusalemme, forse simpatizzanti del monoteismo ebraico o addirittura già circoncisi, non possono entrare nella parte più interna del tempio dove probabilmente Gesù si trovava: il recinto riservato agli ebrei. A segnare questo spazio vi era infatti una balaustra di cui ci parla anche lo storico Giuseppe Flavio che riportava delle scritte, ancora oggi conservate a Gerusalemme e Istanbul, le quali recitavano in lingua greca, per essere comprese dai non ebrei:

«Nessun straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hierón (la zona del Tempio riservata, n.d.r.); chi venisse preso in flagrante sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà».

Questi che vogliono vedere Gesù si rivolgono al discepolo che porta un nome greco, Filippo, che era di una città abitata anche da molti greci e forse lui stesso parlava la loro lingua. La richiesta doveva essere singolare se lo stesso Filippo si fa aiutare ed accompagnare da uno dei primi due discepoli di Gesù, anch’egli con un nome greco: Andrea.

Ricevuta la notizia Gesù coglie il momento come un altro segnale che la sua «ora» è venuta (Venit hora), quella della sua glorificazione nella sua Pasqua (Gv 17,1). A Cana di Galilea, quando si era nella fase iniziale, Gesù ne fa menzione a sua Madre, adesso qui, invece, si dice espressamente che l’ora: «È giunta». E come allora gli sposi delle nozze di Cana spariscono dalla scena, anche qui i greci paiono scortesemente messi da parte, affinché emerga una rivelazione su Gesù. Stavolta non un segno, ma le sue stesse parole la palesano. La sua morte sarà feconda come accade al chicco di grano che per moltiplicarsi e dare frutto deve cadere a terra e quindi marcire, morire, altrimenti resta sterile e solo. Accettando di marcire e morire, il chicco moltiplica la sua vita e dunque attraversa la morte e giunge alla resurrezione. 

Ritorna il paradosso delle parabole che Gesù sente il bisogno di chiarire:

«Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la custodisce per la vita eterna».

Per Gesù la vera morte non è quella fisica che gli uomini possono dare, ma sta nel rifiuto di dare la vita per gli altri, la chiusura sterile su se stessi; al contrario, la vera vita è il culmine di un processo di donazione di sé. La vicenda del chicco di grano è la vicenda di Gesù ma anche quella di ogni suo servo, il quale, seguendo Gesù, conoscerà la passione e la morte come il suo Signore, ma anche la resurrezione e la vita per sempre. Non sarà solo Gesù a essere glorificato dal Padre ma anche il discepolo, il servitore che, seguendo il suo Signore, diventa suo amico (Gv 15,15). 

Che cosa, dunque, Gesù promette di vedere? La sua passione, morte e resurrezione, la sua glorificazione, la croce come rivelazione dell’amore vissuto fino alla fine (cfr. Gv 13,1). A ogni discepolo, proveniente da Israele o dalle genti, è dato di contemplare nella sua morte ignominiosa la gloria di chi dà la vita per amore. L’Evangelista ci permette anche di gettare uno sguardo sui sentimenti più intimi vissuti da Gesù e sulla sua coscienza filiale. Come i sinottici racconteranno l’angoscia di Gesù al Getsemani (cfr. Mc 14,32-42 e par.), nel momento che precede la sua cattura, Giovanni riporta la sua confessione: «Ora l’anima mia è turbata». Egli è turbato per quel che sta per accadere, come già si era turbato e aveva pianto alla morte dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,33-35). Ma questa angoscia umanissima non diventa un inciampo posto sul suo cammino: Gesù è si tentato, ma vince radicalmente la tentazione con l’adesione alla volontà del Padre. In modo diverso dai sinottici, ma concorde con loro, per Giovanni Gesù non ha voluto salvarsi da quell’ora, né esserne esentato, ma rimane fedele alla sua missione compiendo la volontà del Padre, in unione profonda con Lui, tanto che la gloria è fra loro condivisa: «Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora». Ritornano alla mente le parole della Lettera agli Ebrei:

«Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui (sua reverentia), venne esaudito» (Eb 5,7). 

Ma l’ora di Gesù corrisponde anche al giudizio sul mondo che non conosce l’amore del Cristo e vi si oppone:

«Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me»

un rimando a quel serpente innalzato da Mosè (cfr. Nm 21,4-9; Gv 3,14) che salvava gli israeliti. L’«ora» messianica di Gesù espelle il principe del mondo che preferisce le tenebre del male e lascerà spazio all’autentico Re che, anche se governa da una croce, attrae tutti per amore e verso il quale bisogna rivolgere uno sguardo di fede. Ecco la vera risposta a quanti volevano, e ancora oggi vogliono, «vedere Gesù». 

La pagina odierna del Vangelo è la buona notizia soprattutto per tutti quei discepoli che conoscono la dinamica del cadere a terra, del «marcire» nella sofferenza, nella solitudine e nel nascondimento. In alcune ore della vita sembra che tutta la sequela si riduca solo alla passione e alla desolazione, all’abbandono e al rinnegamento da parte degli altri, ma allora più che mai occorre guardare all’immagine del chicco di grano consegnataci da Gesù; più che mai occorre rinnovare lo sguardo della fede: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37).

Secondo un’antica tradizione il Vescovo Ignazio di Antiochia (35 circa – Roma, 107 circa) conobbe l’apostolo San Giovanni. Non sorprende perciò ritrovare in una sua lettera indirizzata ai cristiani di Roma, dove troverà il martirio, una concordanza di termini e di vedute con il Vangelo che oggi abbiamo letto:

«Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo… È meglio per me morire per Gesù Cristo che estendere il mio impero fino ai confini della terra… Il principe di questo mondo vuole portarmi via e soffocare la mia aspirazione verso Dio. Ogni mio desiderio terreno é crocifisso e non c’é più in me nessuna aspirazione per le realtà materiali, ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: “Vieni al Padre”».

Dall’Eremo, 17 marzo 2024 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il Regno di Dio

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SE UNO NON NASCE DALL’ALTO, NON PUÒ VEDERE IL REGNO DI DIO

La morale giovannea è una morale della verità: «Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Nella crescente consapevolezza che «senza di me non potete far nulla», le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere, vivere come Gesù: «Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato».

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

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Poiché il Vangelo di Marco è più breve degli altri, alcuni brani del Vangelo di Giovanni concorrono a coprire tutte le domeniche dell’anno liturgico, soprattutto nel tempo di Quaresima. Sono testi che aiutano a comprendere quel mistero pasquale che si celebrerà in particolare nei giorni del «Triduo». Essi anticipano temi importanti, come quello dell’innalzamento del «Figlio dell’uomo» a cui accenna il seguente brano evangelico che si proclama nella quarta domenica di Quaresima. 

Henry Ossawa Tanner: Gesù e Nicodemo, olio su tela,  1899, Pennsylvania Academy of the Fine Arts (USA)

«In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”» (Gv 3,14-21)

Nei Sinottici, Gesù predice che dovrà soffrire molto; annuncia che «sarà schernito, flagellato e crocifisso» (Mt 20,19) e che il terzo giorno risorgerà. Giovanni, invece, annunciando la passione di Gesù la presenta come una «esaltazione». Lo fa nei capitoli 3 (vv. 14-15), 8 (v. 28) e 12 (v. 32). L’ultimo è il brano più esplicito: «Quando io sarò innalzato [exaltatus] da terra attirerò tutti a me». Nel versetto precedente Gesù aveva detto: «Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo [Satana] sarà cacciato fuori». Gesù, innalzato da terra, prenderà il suo posto, divenendo re e attirando tutti a sé. Ma l’esaltazione di Gesù non avverrà in Paradiso, bensì sulla croce. Molti hanno interpretato, infatti, l’innalzamento di Gesù come un anticipo giovanneo della sua Ascensione, mentre qui si fa invece esplicito riferimento alla morte del Signore. Tutto questo potrebbe apparire sconcertante perché nel nostro brano, fra l’altro, siamo all’inizio del Vangelo e non alla fine, eppure Gesù già parla della sua morte. Del resto anche nel prologo avevamo letto che: «I suoi non l’anno accolto» (Gv 1,11). E non dimentichiamo che questa è anche la Domenica «In Laetare» come proclama l’antifona d’ingresso della liturgia eucaristica. Dove trovare dunque i motivi per rallegrarsi? Evidentemente in questa verticalità evangelica che da vertigini.

Il primo ad essere sconcertato è Nicodemo, l’interlocutore di Gesù, al quale viene chiesta una rinascita dall’alto (desuper), cioè dallo Spirito effuso dall’alto. La reazione stupìta di Nicodemo ― «Come può accadere questo?» ― incontra una risposta da parte di Gesù che sconcerta anche noi:

«Se non credete quando vi ho parlato di cose della terra, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (Gv 3,12).

Stando al contesto le cose terrestri consistono proprio nella dinamica di rinascita spirituale che deve avvenire in vita, qui sulla terra, nell’umanità della persona che, grazie alla fede, si apre all’azione dello Spirito. Mentre le cose celesti sono il paradosso di un innalzamento che coincide con una condanna a morte e una crocifissione che, secondo Giovanni, è esaltazione e glorificazione. Ritroviamo l’eco delle parole del profeta Isaia: «Chi crederà alla nostra rivelazione?» (53,1); le quali seguono l’annuncio che il «servo del Signore sarà innalzato» (Is 52,13). Il verbo greco, nella versione della Settanta (LXX), ypsóo, sarà usato anche da Giovanni nel nostro testo per indicare l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Così al cuore della fede cristiana vi è qualcosa di sorprendente specificato subito dopo: l’innalzamento del Figlio dell’uomo è l’evento che adempie e realizza in pienezza il dono che il Padre ha fatto all’umanità: il dono del Figlio. L’innalzamento sulla croce che sembra apparire come il punto più infimo della vita di Gesù, per lo sguardo di fede è il momento nel quale si nasce dall’alto, come veniva chiesto a Nicodemo: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio»; grazie al dono dello Spirito che il crocifisso effonde. È qui il motivo per rallegrarci, poiché se «nessuno mai è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo» (Gv 3,13), l’evento che potremmo leggere come il più basso della vita di Gesù, la sua croce, diviene secondo Giovanni il momento più alto per lui e per noi: occasione di un dono che palesa tutto l’amore di Dio. Un amore che, in quanto tale, non intende minimamente condannare, ma solo salvare. Un amore gratuito e incondizionato che si può diffondere e può manifestare le sue energie in chi vi fa spazio accogliendolo in sé attraverso la fede: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». Un dono che è verticale e asimmetrico perché non cerca reciprocità: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

Qui dobbiamo insistere sull’assoluta novità di una affermazione. Nelle altre religioni si parla per esempio della profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua eternità, della sua giustizia, ecc.. Ma solo il cristianesi­mo ci insegna:

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui […] abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).

Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, che è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui ha amato noi (Gv 13, 34). Solo così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che tutta la morale giovannea è praticamente una morale della verità. Si compendia in due pre­cetti fondamentali: la fede che ci apre al Mistero e l’amore che ci fa vivere nel mistero della rivelazione. Per converso Giovanni sembra conoscere, nella sua essenzialità e semplicità ricchissime, solo due peccati: il rifiuto della fede in Gesù e l’odio del fratello.

Così la morale giovannea è una morale della verità: «Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Nella crescente consapevolezza che «senza di me non potete far nulla», le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere, vivere come Gesù: «Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2,6). «Chiunque rimane in Lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto» (1Gv 3,6). Se il cristiano, come Giovanni, rimane stupito a guardarlo, anzi se veramente rimane in Lui, allora non pecca più. In quanto chi rimane in quello stupore e in quella grazia non può peccare. È bellissimo, nella sua sinteticità, il commento di Agostino a questo versetto: «In quantum in ipso manet, in tantum non peccat». Una percezione comune soprattutto tra i padri della Chiesa orientale. Anche Ecumenio, un teologo della tradizione antiochena di Crisostomo, nel suo commento alla Prima lettera di Giovanni, scrive:

«Quando colui che è nato da Dio si è completamente dato a Cristo che abita in lui mediante la filiazione, egli resta fuori della portata del peccato».

Diventiamo impeccabili in quanto ci abbandoniamo totalmente a Gesù Cristo, in quanto rimaniamo in Lui.

Per concludere e riassumere, se mai fosse possibile, temi di così grande densità teologica ricavabili dal brano evangelico di questa domenica, riporto un brano della costituzione dogmatica Lumen Gentium:

«Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue».

Dall’Eremo, 10 marzo 2024 

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Viaggio nella notte con Nicodemo

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

VIAGGIO NELLA NOTTE CON NICODEMO

«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari fratelli e sorelle,

nelle nostre vite abbiamo avuto momenti di grande notte e tenebra esistenziale e spirituale. In quei momenti il Signore ci è stato vicino con la sua Luce, anche se forse all’inizio non ce ne siamo accorti. In questo cammino di Quaresima possiamo ripensare a quei momenti e scoprire il senso della speranza come carità teologale. Nicodemo stesso era andato da Gesù di notte. I due hanno un lungo scambio di cui oggi effettivamente è riportata solo una parte. La sezione più importante:

Cristo e Nicodemo, opera di Pieter Crijnse Volmarijn, XVII sec.

«In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”» (Gv 3, 14-21).

Inizialmente Gesù fa riferimento al serpente nel deserto innalzato da Mosè (14-15), sostenendo con gran forza che Lui è il nuovo innalzato che donerà la vita eterna. In effetti, il richiamo al serpente non era nuovo per Nicodemo. Infatti qui, Gesù, fa riferimento all’episodio in cui Mosè aveva preso un serpente e postolo su di un’asta liberava dalla morte gli ebrei avvelenati (cfr. Nm 21,8 ss).

Ecco allora che Gesù è il Nuovo Innalzato: colui che se accolto con fede e amore libera da tutti i veleni della nostra vita. I peccati, i vizi e le fragilità. Accogliere la vita vera ed autentica è scoprire tutte le proprie potenzialità, i doni di Dio e offrirli nella carità al prossimo.  Occorre dunque purificare lo sguardo della nostra fede per cercare di incontrare Gesù innalzato anche nei momenti di difficoltà e sofferenza. Anche quel momento, se vissuto con fede dona momenti di crescita: si entra nella vita nuova quando si è innalzati sulla propria croce in Lui, nei momenti cruciali della vita.

Questo fiorire nella vita nuova in Cristo spalanca la speranza per un mondo migliore già adesso, che costruisce il Bene Comune nella Carità, e anche la speranza escatologica. La speranza cioè di essere redenti e un giorno di andare in Paradiso. Gesù stesso lo promette a Nicodemo:

«Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

La salvezza che Gesù ci offre avviene proprio sulla croce, in cui, con un’opera supererogatoria ci ha riscattato dal dominio del peccato e del demonio; noi abbiamo attinto a questa salvezza direttamente nel nostro battesimo e l’abbiamo rinvigorita nella cresima.

In questo tempo di Quaresima possiamo rinvigorire la fede e la speranza della vita eterna, sempre con degli atti di carità, ma anche con uno sguardo di speranza e di bene sulla storia che viviamo. Infatti, la micro-storia personale che viviamo nella nostra quotidianità è un grande dono di grazia: Dio ci ha donato vita, libertà e vocazione personale, perciò, le nostre scelte personali influiscono nella costruzione del nostro quotidiano. Il nostro quotidiano se vissuto con fede e carità ci permette di sperare di costruire una macro-storia del mondo in cui viviamo, che spalanca la strada della speranza per la vita eterna. Dunque, nel nostro piccolo percorso quotidiano amiamo, crediamo e operiamo nel Bene al contempo fondiamo la speranza di una vita che sarà eternamente bella perché al cospetto di Dio. La vita eterna che sarà inaugurata dalla mattina di Pasqua in cui con Cristo saremo chiamati a nascere per non morire mai più.

La Quaresima ci purifica per imparare a sperare nell’Eterno e non più solo sulle realtà temporanee. Chiediamo al Signore di crescere sempre più nella speranza e generare sempre più un cuore effuso dal suo Santo Spirito e dall’amore mariano.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 10 marzo 2024

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Essere scrutati dal cuore di Dio

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

ESSERE SCRUTATI DAL CUORE DI DIO

Gesù scruta il cuore degli uomini testimoni dei suoi miracoli e si accorge che la loro non è una vera fede ma solo emozione. È una fede che cerca solo il sensazionalismo, quello che oggi definiremmo “fideismo”. Gesù cerca invece di donare loro una fede che sia autentica e forte.

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

In questa terza tappa verso la Pasqua osserviamo un momento molto forte della vita di Gesù. L’unico episodio in cui il Signore sembra quasi utilizzare delle azioni violente in cui combatte la mentalità del suo tempo. In effetti ogni scena di combattimento è sempre forte agli occhi. Pensiamo alle scene di guerra descritte nelle grandi opere classiche come l’Iliade o la Gerusalemme Liberata. Il combattimento di Gesù, però, non è finalizzato alla guerra, ma finché nel cuore dell’uomo e in ciascuno di noi sgorghi un sentimento di fede e di conversione continua.

In questa III domenica di quaresima Leggiamo il celeberrimo passo della cacciata dei mercanti dal tempio nel (testo del Vangelo QUI). Una scena davvero forte. Una modalità da parte del Signore per purificare il Tempio, cioè la casa di Dio, dalle impurità che le vendite non sempre giuste venivano qui operate. D’altronde, il Tempio, è spazio sacro in cui i mercanti davvero non potevano entrare per finalità di compravendita.

Questo episodio si applica generalmente al nostro tempo come condanna del mercato e delle speculazioni finanziarie disumane e che non rispettano la dignità e la sacralità dell’uomo. Ma questo è anche segno che Gesù non è attento alla singola materialità economica in sé stessa ma come mezzo per il fine. Il denaro, dunque, per quanto mezzo necessario, non può mai diventare un sostituto di Dio.

Il dialogo successivo è scusa che Gesù usa per annunciare la sua Passione. Per affermare il suo atto d’amore finale. Questo atto d’amore è Redenzione e liberazione dal peccato. Ed è anche il Grande Segno di Gesù, più grande di tutti gli altri segni, che dobbiamo riscoprire anche noi in questa Quaresima. Se infatti leggiamo con attenzione questa pericope:

«Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo».

Comprendiamo in che modo Gesù, tramite la sua conoscenza divina per via eternitatis, scruta il cuore degli uomini che erano testimoni dei suoi miracoli. E si accorge che la loro non è una vera fede ma solo emozione. È una fede che cerca solo il sensazionalismo, o quello che oggi definiremmo “fideismo”. Gesù cerca invece di donare loro una fede che sia autentica e forte.

Questo è il nostro cammino quotidiano che in questo periodo forte possiamo intraprendere con coraggio. Facciamoci aiutare con la preghiera, i Sacramenti e l’affidamento al Signore a liberarci da una fede poco matura, emotiva e fragile. Questo percorso può anche aiutarci a comprendere quali sono le nostre difficoltà e distrazioni nella preghiera e nella pratica delle opere di misericordia.

Il tutto ci porterà a crescere nell’essere conosciuti per divenire gradualmente sempre più intimi col Signore. E questa intimità sarà fonte di gioia e soddisfazione.

Chiediamo al Signore di avere sempre un cuore aperto alle sue ispirazioni d’amore e di verità per diventare uomini nuovi in Lui.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 3 marzo 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Sul Monte Tabor i discepoli ricevono la rivelazione del figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

SUL MONTE TABOR I DISCEPOLI RICEVONO LA RIVELAZIONE DEL FIGLIO DELL’UOMO IN UNA FORMA TRASFIGURATA DALLA LUCE DIVINA

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre»

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Intraprendere il percorso quaresimale significa porsi di nuovo la domanda fondamentale su Gesù: Chi è costui? Allo stesso modo dei discepoli seduti sulla barca sballottata dalle onde, figura della Chiesa nel periodo post pasquale, che svegliato il Signore dormiente a poppa e a tempesta sedata si chiedevano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4, 41). Il racconto marciano della Trasfigurazione che si legge in questa seconda Domenica di Quaresima desidera rispondere a questa domanda.

La trasfigurazione di Cristo, opera di Giovanni Bellini, 1478. Musei Capodimonte, Napoli.

«In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti». (Mc 9,2-10)

Tutti e tre i Vangeli sinottici inseriscono la Trasfigurazione nello stesso contesto, ossia dopo l’annuncio di Gesù della sua passione. Per il lettore si crea così un ponte fra il ministero pubblico di Gesù e la morte che avverrà in Gerusalemme. Ma anche un collegamento fra la odierna proclamazione di Gesù «Figlio di Dio», che si ode dalla nube, e altre due analoghe. Quella del Battesimo, quando: «Si sentì una voce dal cielo» che diceva «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11); e l’altra, che si trova solo in Marco, all’inizio del Vangelo, nel primo versetto del primo capitolo: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio».

È molto probabile che l’episodio narrato, in origine, fosse un racconto di apparizione del Risorto, che Marco, il quale ha escluso dalla sua narrazione siffatti racconti, avrebbe inserito al centro del Vangelo, subito dopo la confessione messianica di Pietro, per bilanciare l’annuncio del destino di morte del Figlio dell’uomo (Mc 8, 31) con la visione prolettica della sua glorificazione (Mc 9, 2-13). Una scelta che ne avrebbe determinato la collocazione anche in Matteo e Luca. A supporto di questa ipotesi sta il fatto che nel prosieguo dei tre racconti l’incomprensione dei discepoli nei riguardi di Gesù resta intatta, malgrado alcuni fossero stati testimoni di un evento tanto eclatante. Mentre, collocato dopo la sua morte, il racconto assume un significato cruciale. È il punto di svolta. I tre discepoli ricevono la rivelazione del Figlio dell’uomo in una forma trasfigurata dalla luce divina. Dopo la sua morte, hanno la visione di Gesù collocato allo stesso livello di Mosè ed Elia, cioè di due figure bibliche già innalzate alla gloria celeste, e ascoltano la proclamazione della sua elezione divina, la stessa che risuona al momento del battesimo. Finalmente i discepoli «sanno» chi è Gesù, ed è alla luce di tale comprensione che l’episodio storico e iniziale del battesimo assume il suo «vero» significato di investitura divina.

Nel versetto che precede la scena della Trasfigurazione che oggi leggiamo nella Liturgia Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1). Sei giorni dopo questo annuncio Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni con sé sopra un monte alto, in un luogo appartato, e si trasfigura davanti a loro. L’episodio non solo è descritto da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche dalla Seconda Lettera di Pietro. Lì l’Apostolo ricorda e scrive di essere stato testimone oculare della grandezza di Gesù:

«Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

A differenza del Battesimo, dove la voce che proclama Gesù «Figlio» sembra sia stata udita solo da Lui, nella Trasfigurazione le parole sono indirizzate ai discepoli, che non possono ignorarle: «Ascoltatelo». È infatti importante che nel momento in cui Gesù annuncia la sua passione venga ribadita l’idea che Dio non abbandonerà il suo Figlio, anche se verrà consegnato per la crocifissione. Questa non offuscherà la fedeltà del Padre, cosicché anche il duro annuncio della passione e morte sono dentro il Vangelo, sono la buona notizia di cui il lettore deve essere consapevole, allo stesso modo dei discepoli che fecero quella esperienza.

Pietro, insieme ai compagni, è colui che più di tutti ha bisogno di ascoltare Gesù. Dopo la confessione di Cesarea di Filippo, ha preteso di mettersi davanti a lui per evitargli il pellegrinaggio a Gerusalemme. Gesù per questo chiama Pietro «Satana» (Mc 8,33),  ma poi lo invita a salire sul monte con lui. In altre parole qui siamo di fronte alla reazione di Dio all’incredulità di Pietro. Non solo. Se i discepoli devono prepararsi alla passione del loro maestro, anche Gesù ha bisogno di istruzioni per intraprendere il «suo esodo», come specificherà Luca in 9,31: Mosè aveva condotto gli ebrei fuori dall’Egitto, Elia aveva ripercorso i suoi passi, e ora il Messia, aiutato da coloro che hanno vissuto un’esperienza analoga di sofferenza e liberazione, potrà andare deciso verso Gerusalemme.

L’interpretazione tradizionale della presenza di Mosè ed Elia sul monte dice, infatti, che essi rappresenterebbero la Torà e i Profeti, ovvero tutta la Scrittura prima di Gesù. Ma oggi si pensa piuttosto che il significato della loro presenza sia importante se riferita a quanto Gesù sta vivendo nel momento in cui sale su quella montagna. Mosè ed Elia hanno vissuto eventi paragonabili alla reazione di Pietro all’annuncio della passione di Gesù di cui sopra. L’analogia tra gli eventi è data dal modo in cui Gesù interpreta il rifiuto di Pietro: come una nuova tentazione, analoga a quelle dell’inizio del suo ministero; così Mosè provò l’esperienza del vitello d’oro ed Elia quella della fuga verso l’Oreb. Questi due fatti ebbero luogo proprio su un monte, dopo un fallimento del popolo di Israele che aveva, nel primo caso, costruito un idolo e, nel secondo, sostenuto i sacerdoti di Baal contro cui Elia doveva lottare. A fronte di queste due delusioni, sia Mosè che Elia chiedono a Dio di morire (cfr. Es 32,32; 1Re 19,4), ma, in risposta, a tutti e due è concessa invece la visione di Dio. Mosè, spaventato, però, si nasconde nella rupe (Es 33,21-22), ed Elia si copre il volto (1Re 19,13). Mentre allora non videro Dio, ora finalmente stanno davanti a Gesù, nella sua gloria e non si velano più il volto; non hanno più paura di lui, perché «Gesù, il «Figlio amato» del Padre (Mc 9,7), «l’eletto» (Lc 9,35), è egli stesso la visibilità del Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In lui Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù dovrà intraprendere» (M. Gilbert).

Nella narrazione evangelica e nel cammino quaresimale viene così aggiunto un altro quadro che aiuta a rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio: Chi è costui? Ora è il Padre stesso che rivela l’identità profonda di Gesù non solo a chi assiste sul monte della Trasfigurazione, ma anche ai lettori e ai credenti in Cristo: Egli è il Figlio. Una teologia molto presente nei Vangeli che ci fa tornare alla mente quanto è scritto nel Primo Vangelo, quando Gesù dice: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre» (Mt 11,27).

Dall’Eremo, 24 febbraio 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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