Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Il mercante in cerca della perla del Regno di Dio

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

IL MERCANTE IN CERCA DELLA PERLA DEL REGNO DI DIO

«Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra»

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

il tempo estivo può diventare un momento propizio per cercare di approfondire la nostra fede e i suoi contenuti. Esso è un periodo di libertà che è un tempo sacro in cui, come Dio, ci riposiamo. Per questo diventa un tempo in cui quel riposo può essere anche dedicato alle letture e alla preghiera. La nostra ricerca di Dio, del nostro stare con Lui non cessa mai di attuarsi. Scriveva il padre Henri De Lubac:

«La mente umana è così fatta che non può avere una verità e mantenerla, se non cercando e cercando sempre. Il riposo del pensiero equivale alla sua morte».

Nelle parabole di Gesù, che già da qualche domenica parlano del Regno, in questa XVII domenica del tempo ordinario ci si sofferma sulla ricerca continua del Regno. Una ricerca che per noi prosegue incessantemente. In effetti Gesù esprime tre parabole. Quella che mi sembra centrale è proprio quella del mercante e della perla di grande valore nella quale il Signore narra:

«Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra»

Gesù usa la similitudine del mercante. Una figura che doveva essere molto conosciuta al tempo dagli ascoltatori del Signore. Abbiamo innanzitutto un mercante che va in cerca. Un mercante che cerca è una persona molto attenta al territorio in cui sta cercando, ai movimenti degli altri cercatori e mercanti. È una persona che si è informata appunto prima di mettersi in viaggio, ha svolto ricerche sui luoghi dove cercare le perle prima di viaggiare.

Il mercante è la metafora del credente che coerentemente si pone alla ricerca di Dio. Noi cattolici abbiamo tre grandi “segnavia” sul sentiero della fede: la Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero. Queste sono le nostre fonti previe, con cui poi costruiamo il nostro atto di fede. Ognuno ha il suo personale sì al Signore, in cui costruisce la propria spiritualità e il suo modo di credere e vivere la fede.

Il mercante è in cerca delle perle. Fino a quando non trova la perla preziosa che poi decide di acquistare. Una perla che per gli ascoltatori del tempo è una pietra che ha un valore inestimabile, perché importata dall’India. Perciò il mercante è colui che va in cerca di diverse perle preziose e alla fine trova la perla, quella inestimabile per cui vende tutto.

Perché Gesù usa l’immagine della perla (margariten in greco)? La perla è immagine biblica che si trova in diversi passi. Ad esempio, nel Cantico dei Cantici (Ct 1,10) le perle sono i gioielli che l’Amata porta al collo. Mentre in Apocalisse, la perla è uno dei materiali con cui è costruita la nuova Gerusalemme (Ap 21,21).

La Perla che il credente cerca di acquistare è il regno di Dio. Questo regno di Dio se è assimilata alla perla di Cantico dei Cantici, potremo dire che è la Chiesa. Infatti, il Cantico tradizionalmente è ritenuto un dialogo di amore fra l’Amato che è Cristo e l’Amata che è la Chiesa. Se invece la perla è il materiale con cui è costruita la Gerusalemme Celeste, diremo che il Regno di Dio del quale appropriarsi in tutti i modi è il Paradiso.

Applicato il tutto a noi credenti che cerchiamo Dio, potremmo dire che la perla preziosa è raggiungere la vita Eterna in Paradiso, camminando nella Chiesa Cattolica, liberandoci da tutto ciò che ostacola la nostra fede. Così, anche le altre perle che sono di seconda mano, sono dunque quei beni sia materiali che spiritali che sembrano tali solo all’apparenza, ma che in realtà ci allontanano dalla comunione nella Chiesa Cattolica e con Dio, e che non ci fanno arrivare al Regno di Dio in Paradiso.

La metafora del mercante che vende tutto e va, infine mostra che il Signore ci pone su un cammino di fede in cui ci chiede di dare tutto per arrivare al regno, invita a sforzarci il più possibile di essere coerenti nella fede, mettersi in gioco sapendo che si perde tutto per guadagnare tutto (Fil 3, 8: R, Manes 211). Cioè che camminando sul sentiero verso il regno di Dio tutte le rinunce che avremmo fatto per arrivare in Paradiso, già da adesso saranno dei guadagni spirituali, un centuplo ottenuto con la grazia di Dio.

Chiediamo al Signore di essere mercanti sempre più desiderosi di ottenere le perle di Dio, per imparare ad amare tutto il mondo con la gioia di chi ha ricevuto il tesoro del cielo.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 29 luglio 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La patologia difensiva del «siamo solo noi» e la medicina curativa del Santo Vangelo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PATOLOGIA DIFENSIVA DEL «SIAMO SOLO NOI» E LA MEDICINA CURATIVA DEL SANTO VANGELO

La patologia del “siamo solo noi” non è comparsa adesso ai nostri giorni, perché già Gesù, narra il Vangelo di Luca, fu costretto a rimproverare due apostoli, Giacomo e Giovanni, che, siccome il gruppo non era stato accolto dai samaritani, volevano invocare dal cielo fuoco e fiamme.

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La patologia del «siamo solo noi» non è comparsa adesso ai nostri giorni, perché già Gesù, narra il Vangelo di Luca, fu costretto a rimproverare due apostoli, Giacomo e Giovanni, che, siccome il gruppo non era stato accolto dai samaritani, volevano invocare dal cielo fuoco e fiamme.

Vasco Rossi in occasione della presentazione del film concerto Tutto in una notte, Live Kom 015′ a Milano, 14 marzo 2015. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

«Siamo solo noi» ripeteva Vasco Rossi in una sua vecchia hit [cfr. QUI] dove vi elencava situazioni nelle quali potevano riconoscersi quei suoi fans che condividevano i malesseri di una generazione di qualche tempo fa. Anche nella Chiesa, scossa dalle vicissitudini del mondo moderno, si è diffuso un certo qual malessere che potremmo definire del «Siamo solo noi». Esso compare tutte quelle volte che persone o gruppi di opinione manifestano scontento e lamentela, con la conseguenza di sentirsi come attaccati o assediati e perciò arroccati in posizione di difesa o in quella di appartenere alla sola élite capace di durare e comprendere ciò che convulsamente sta accadendo.

La patologia del «Siamo solo noi» non è comparsa adesso ai nostri giorni, perché già Gesù, narra il Vangelo di Luca, fu costretto a rimproverare due apostoli, Giacomo e Giovanni, che, siccome il gruppo non era stato accolto dai samaritani, volevano invocare dal cielo fuoco e fiamme[1].

Per guarire da questa condizione il Vangelo di questa domenica ci offre un farmaco che dal nome sembra proprio una medicina: la makrothimia (μακροθυμῖα), cioè la pazienza. È un termine che in verità non c’è nel brano evangelico proclamato oggi, ma ne esprime il senso. Lo troviamo, invece, nella seconda lettera di Pietro dove l’apostolo afferma:

«Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è paziente ― μακροθυμεῖ makrothimei ― con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» [2Pt 3, 9].

Questo per indicare che già nella primissima generazione cristiana c’era il desiderio di forzare i tempi e di mettersi al posto di Colui per il quale «[…] un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno» [2Pt 3, 8]. Ma ecco la pagina evangelica di questa sedicesima domenica per annum (Mt 13, 24-43):

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Come già ho cercato di spiegare [cfr. mia precedente omelia]. Gesù amava parlare in parabole presentando realtà immediatamente comprensibili tratte dal mondo contadino o casalingo come in questa domenica. Contestualmente, usando metafore, metteva in scena situazioni paradossali affinché la stessa realtà potesse esser vista diversamente da come la si percepisce abitualmente. Essa viene da Lui rimodellata non solo al fine di presentare una nuova etica, ma soprattutto per raccontare cos’è il regno di Dio, realtà che sfugge a qualsiasi appropriazione o catalogazione. È il mondo di Dio che Gesù rivela e vive e che continuamente spiazza.

La prima parabola del buon grano e della zizzania[2] si differenzia da quella del seminatore ascoltata domenica scorsa perché mentre lì si trattava di semina e ricezione del terreno, qui si descrive insieme alla semina (v. 24), anche la crescita del seme, la sua fruttificazione (v. 26) e la mietitura (v. 30). Tuttavia i lettori a differenza dei servi del padrone sono avvertiti subito che qualcuno, approfittando dell’oscurità della notte, ha seminato zizzania nello stesso campo. La scoperta della zizzania, operata dai servi, porta questi ultimi a esprimere il loro stupore e il loro sconcerto al seminatore (v. 27). Nelle loro parole si può forse cogliere anche una punta di sospetto o un dubbio sulla semina, e dunque sul padrone stesso. Ma la risposta del seminatore mostra che la presenza della zizzania in mezzo al grano non è per niente sorprendente, non deve stupire o far gridare allo scandalo. E così anche la reazione del lettore viene orientata non tanto a interrogarsi sull’origine della zizzania, ma sul come comportarsi constatandone la presenza. Lo spiazzamento del lettore, come dei servi, avviene lì. Non sradicate la zizzania, che tra l’altro è anche simile al grano, ma lasciate che le due piante crescano insieme: si rischierebbe infatti di strappare anche quelle di grano. La zizzania andrà certamente separata dal grano, ma a suo tempo. Non ora. Ora è il tempo della pazienza. La pazienza è forza nei confronti di se stessi, è capacità di astenersi dall’intervenire dominando l’istinto che porterebbe immediatamente a “far pulizia”. Ma questo non è l’agire di Dio. Dio è paziente e longanime.

Quante volte gli uomini si sono interrogati sulla presenza del male nella storia umana o nella stessa singola vita di ognuno di noi. Perché se seminiamo il bene talvolta ci vengono restituite cattiverie? Chi è questo operatore notturno che come nemico geloso dei buoni frutti della vita fa in modo che nascano tante situazioni nelle quali inciampiamo come su erbacce indesiderate?

Anche nella comunità cristiana può esistere questa commistione fra buono e cattivo, fra giusti e ingiusti come fu già nella piccola comunità di quelli che seguivano Gesù: qualcuno lo tradì, un altro lo rinnegò e alcuni pavidi se la dettero a gambe levate.

Però il Figlio dell’Uomo, Gesù, insegna ai suoi ad avere pazienza comportandosi come figli del Regno finché non verrà il giudizio che liquefarà ogni scandalo e bruttura. Scomparso il fumo delle opere dell’avversario ridotte a nulla, finalmente splenderà solo la luce del giorno senza tramonto[3].

Ma fino ad allora siamo nel tempo della crescita del Regno di Dio la quale può incontrare mille ostacoli e difficoltà. Ecco allora perché è importante imparare la pazienza di Dio stupendamente raffigurata dal libro della Sapienza nella prima lettura di questa Liturgia della Parola:

«[…] Il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento» [Sap 12, 19-20].

La comunità dei credenti, la Chiesa, è il luogo dove si fa esperienza di questa indulgenza divina ed essa, a sua volta, la testimonia al mondo. Come è espresso in queste belle parole del Concilio:

«La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria».[4]  

Nelle parole del Concilio viene detto esplicitamente che la Chiesa non è il Regno di Dio, ma vi anela mentre cammina nel tempo. Poiché essa stessa è composta di santi e peccatori bisognosi della pazienza e della misericordia divine. Mentre una pianta spunta per rimanere sé stessa, o grano buono o zizzania, le persone possono cambiare, tornare indietro, cadere e pure pentirsi. Una miriade di santi è lì a testimoniarlo e lo stesso apostolo Paolo più volte lo ricorda nelle sue lettere. Nella seconda lettura di questa Liturgia si spinge ad affermare che neanche «sappiamo come pregare in modo conveniente» se non intervenisse lo Spirito di Dio a intercedere per i santi. Questo ci mette al riparo dal sentirci non solo già arrivati, ma anche migliori di altri, i soli puri e santi desiderosi di estirpare già da ora quanti secondo noi sono simbolicamente zizzania.

Nelle altre due parabole che seguono quella del grano e della zizzania Gesù parla del Regno come fosse un seme che da piccolissime e umili origini inaspettatamente diventa un albero capace di accogliere vita nuova, simboleggiata dai nidi che vengono costruiti fra i suoi rami. Un’esperienza che la Chiesa che si rifaceva alla tradizione del Vangelo di Matteo già sperimentava, perché composta di persone provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo. Oppure ne parla come del lievito che fa crescere una gran quantità di farina. Tre misure sono quaranta chilogrammi! La Chiesa gioisce nel vedere questa opera divina e ne prova meraviglia. Allo stesso modo di Sara alla quale Abramo chiese di impastare la stessa quantità di farina per accogliere il Signore presso la quercia di Mamre[5]. Per questo la Chiesa, come a suo tempo Abramo e Sara, è chiamata alla fede nelle opere di Dio. Poco più oltre, infatti, nel Vangelo di Matteo Gesù dirà:

«Se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spostati da qui a là” ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile» [Mt 17, 20].

Possiamo a questo punto capire che il Regno che Gesù amava declinare in parabole è una realtà divina che sempre ci trascende. Una riserva di grazia, per usare parole di una teologia più matura, che ci insegna ad avere pazienza verso i peccatori, misericordia e fede in Dio fino al compimento del tempo quando opererà il giudizio escatologico.

In questa direzione vanno anche le due preghiere di colletta che possono usarsi in questa Liturgia. La prima più antica recita:

«Sii propizio a noi tuoi fedeli, o Signore, e donaci in abbondanza i tesori della tua grazia”.

La seconda più nuova ci fa pregare così:

«Ci sostengano sempre, o Padre, la forza e la pazienza del tuo amore, perché la tua parola, seme e lievito del regno, fruttifichi in noi e ravvivi la speranza di veder crescere l’umanità nuova».

Buona domenica a tutti.

dall’Eremo, 23 luglio 2023

 

NOTE

[1] «…Entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Si voltò e li rimproverò».  (Lc 9, 51-55)

[2] Pianta graminacea (Lolium temulentum), che infesta i campi di cereali.

[3] «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli». (Ap 22, 5)

[4] Lumen Gentium, 5.

[5] «Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce» (Gen 18,6).

 

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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Il cento, il sessanta, il trenta nel seme di Dio

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

IL CENTO, IL SESSANTA, IL TRENTA NEL SEME SACRO DI DIO

La fede infatti «è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela». Dunque è una risposta che diamo a Dio e che certi giorni può essere più certa ed altri più insicura.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari lettori de L’Isola di Patmos,

il tempo estivo è tempo in cui spesso molti di noi vanno in vacanza, specialmente nelle mete di mare. Inconsapevolmente stiamo facendo una scelta evangelica. Infatti, il mare è descritto nel brano evangelico di questa XV Domenica del tempo ordinario quale luogo in cui Gesù espone e spiega la parabola del seminatore. Una parabola che è una piccola mappa per tutti noi: una piccola chiave di lettura della vita di fede. Il mare, dunque, è il luogo dove Gesù offre chiarezza per il nostro cammino di credenti. Potremmo dire con il poeta Rainer Maria Rilke:

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso».

Il brano del Vangelo di oggi è composto per lo più da una parabola, una delle poche che Gesù decide di spiegare direttamente ai discepoli mentre invece rimane in forma di narrazione per tutti gli altri che lo ascoltano in riva al mare. Gesù usa le parabole. I discepoli gli domandano perché, Lui risponde:

«Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. […] Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono».

Sembra una risposta sibillina. Invece il Signore vuole far capire l’importanza della parabola.

Vorrei soffermarmi un momento sul perché. In effetti, la finalità delle parabole consiste nell’illuminare circa la natura del regno e di aprire alla comprensione di cose nuove, ad esempio su come agisce Dio. La parabola è un racconto basato sull’avvicinamento e la comparazione di due realtà, una reale e una fittizia che si richiamano ma non coincidono. Essa contiene metafore che fanno riferimento a una situazione “diversa” rispetto a quella narrata. In tal modo le parabole spingono gli uditori a un esercizio che richiede intelligenza, fantasia, elasticità mentale e capacità riflessiva. Insomma: richiede a tutti di trasferirsi idealmente nel racconto fittizio per tornare al reale con un’acquisizione nuova. Dunque le parabole selezionano realtà quotidiane come elemento di comparazione, e allo stesso tempo manifestando il loro limite per far emergere la “sporgenza” o “eccedenza” della realtà a cui rimandano. In tal modo esse operano un passaggio verso ciò che supera la mente umana e permettono agli uditori di esporsi personalmente a ”l’inedito” e “all’inaudito” di Dio. Diventano così rivelazioni “dell’atmosfera” amorevole e tenera di Dio e lo rendono in qualche modo più accessibile, conoscibile e attraente per chiunque le ascolti[1]

Ecco perché nella parabola del seminatore troviamo in controluce tutta la nostra vita di fede. Gesù spiega bene nei dettagli e offre una fenomenologia dei diversi credenti. Il seme seminato lungo la strada, potremmo dire che è il credente non praticante. Il seme seminato sul terreno sassoso è il credente che facilmente è preda dei facili entusiasmi, incostante nel tempo che spesso va in crisi, senza una scelta definitiva nella fede. Il seme seminato tra i rovi è il credente distratto tra le mille voci del mondo e della cultura attuale, mosso da buoni sentimenti e da una buona pratica di fede, ma che non riconosce poi facilmente i peccati e i vizi del tempo e così li asseconda. Infine, il seme seminato sul terreno buono che produce cento, sessanta e trenta è il credente che crede con convinzione forte e si sforza di essere coerente nella pratica della fede, ma date le sue fragilità non sempre riesce a dare il massimo. Gesù accetta però anche quei piccoli gesti di fede e carità attuati con tenerezza ed amore.

Tutti noi possiamo essere uno di questi credenti, dal meno fervoroso al più fervoroso. Direi anche che ciascuno di noi può avere delle fasi in cui passa dall’essere seme infecondo sulla strada a seme piantato sul terreno buono. Questi quattro semi descritti da Gesù possono rappresentare anche un momento della nostra vita di fede, in cui siamo più aridi o più convinti.

La fede infatti «è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela» [cfr. CCC 166] Dunque è una risposta che diamo a Dio e che certi giorni può essere più certa ed altri più insicura. A noi di essere sempre pronti a ricevere la grazia per un atto di fede sempre più fermo.

Chiediamo al Signore di crescere nella fede, per diventare un seme di vita eterna, un fermento sacro per tutto il mondo, affinché possiamo donare il nostro trenta, sessanta, cento al mondo sempre più orfano di Dio.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 16 luglio 2023

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NOTE

[1] Cfr R. Manes Vangelo secondo Matteo, Ancora, 2019, 197 – 198.

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Il Vangelo narra che il seminatore uscì a seminare, non ci dice però che fece ritorno

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL VANGELO NARRA CHE IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE, NON CI DICE PERÒ CHE FECE RITORNO

Un missionario italiano ucciso nel 1985 in Brasile soleva dire: «Il seminatore uscì a seminare, ma non dice che poi ritornò». E proseguiva: «Il destino del seme non sarà differente dal destino del seminatore».

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Un missionario italiano[1] ucciso nel 1985 in Brasile soleva dire: «Il seminatore uscì a seminare, ma non dice che poi ritornò». E proseguiva: «Il destino del seme non sarà differente dal destino del seminatore».

Seminatore al tramonto, Vincent Willem van Gogh

Questa frase molto concisa condensa il cuore del messaggio evangelico di questa XV Domenica del Tempo Ordinario. Il Vangelo (Mt 13, 1-23) che verrà proclamato nella Liturgia della Parola si apre, infatti, con uno degli incipit più conosciuti di tutti i Vangeli: «Il seminatore uscì a seminare». A questo collegamento potrete trovare il testo nella versione più lunga[2].

Il brano da inizio al discorso in parabole[3] terzo dei cinque grandi discorsi che Matteo mette sulla bocca di Gesù ed è strutturato in quattro parti. Una breve introduzione (vv. 1-3a), la parabola del seminatore (vv. 3b-9) e la sua spiegazione (vv. 18-23). Nel mezzo (vv. 10-17) si trova una breve pericope che affronta la questione metodologica: perché Gesù parla alle folle in parabole?

La parabola è il genere che Gesù prediligeva quando voleva presentare, nella forma del racconto, una verità nascosta a partire da situazioni, esempi e realtà che i suoi uditori potevano immediatamente comprendere. È divenuta così un modello pedagogico che travalicando il tempo conserva il suo valore ancora oggi che viviamo nell’epoca del disincanto. Un’epoca, la nostra, in cui il simbolico possiede un forte impatto e proprio a questo tende il parlare in parabole di Gesù: cogliere il significato nuovo ed inaspettato della realtà, presentata simbolicamente. Mettendo in scena contadini e vignaioli, re e servi, pescatori oppure pastori, una massaia o una donna che ha perso una moneta, tutte realtà familiari agli uditori, Gesù parlò a questo modo del Regno di Dio, addirittura senza nominare Dio.

Ma l’immediatezza e la semplicità della parabola non devono ingannare, poiché essa ha anche un valore paradossale. Tutti conoscono i paradossi del filosofo greco Zenone di Elea[4] – famoso quello di Achille e la tartaruga – che avevano lo scopo di confutare la molteplicità e il movimento. Gesù invece, con le parabole, pone in essere realtà paradossali per invitare uditori e lettori a cogliere un senso ulteriore, altro, rispetto a ciò che normalmente si vede, crede e vive. L’inaspettato con Gesù abita la vita quotidiana.

Nessuno infatti getta del seme prezioso ovunque se non nei solchi preparati, nessuno dopo aver seminato frumento non si preoccupa più del terreno e aspetta solo la mietitura. Chi lascerebbe un gregge intero per andare a ritrovare una sola pecora perduta? Come fa un granello piccolissimo a diventare grandissimo? Chi dà la stessa paga a tutti senza guardare le ore di lavoro a giornata? Solo Dio e lo si può scorgere nell’agire di Gesù mentre annuncia il suo Regno. In fondo le parabole hanno questo come scopo: sorprendere e spiazzare per aiutare a rimodellare la realtà, guardandola altrimenti, secondo una logica nuova, quella paradossale del Vangelo, che Gesù incarna. Egli infatti è la parabola vivente di Dio o, come ebbe a dire Massimo il Confessore: «Egli è simbolo di sé stesso»[5].

Nella parabola di questa domenica il seme è simbolo, secondo la spiegazione che ne da Gesù, della Parola di Dio, realtà teologica che va ascoltata e compresa. La vicenda paradossale è che finisce su vari terreni generando tutta una serie di reazioni. La Parola divina, infatti, come dice il profeta Isaia nell’odierna prima lettura «non ritornerà a me senza effetto» allo stesso modo della pioggia o della neve che vengono dal cielo. Ora Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» aveva detto Gesù nel Discorso della Montagna (cfr. Mt 5, 45). La Parola di Dio, dunque, non è una realtà misterica rivolta ad iniziati, ma si compromette con le situazioni umane accettando anche l’insuccesso che, nella parabola, è grande, poiché su quattro terreni ben tre non produrranno frutti. Nella spiegazione che ne da Gesù, riprendendo le parole gravi del libro di Isaia[6], le persone che non ascolteranno la Parola non faranno altro che irrigidirsi nella loro situazione, non potranno cioè cambiare la loro realtà né aprirsi alla novità del Regno. Sono quelli che hanno mancanza di interiorità, i superficiali che si lasciano portar via il seme della Parola dalla prima cosa che arriva, come fosse un passero svolazzante. Sono quelli che mancano di perseveranza perché per loro la vita è come un sasso che forse difende dagli assalti esterni, ma neanche fa mettere radici alle cose buone e belle. Gli uomini dell’attimo li chiama il Vangelo (πρόσκαιρός, proskairos v. 21) che prendono fuoco al momento. La Parola l’ascoltano eccome, ma se c’è da durare tutto diventa faticoso. Non avendo radici di fronte alla prima difficoltà abbandonano. Ci sono poi quelli che pur avendo ascoltato poi preferiscono le sirene della vita dietro a ricchezze e mondanità e perciò le preoccupazioni e le ansie li avviluppano come rovi e spine che non lasciano filtrare la luce che permetterebbe alla Parola di emergere e permetter loro di guardare e vivere la vita diversamente.

Infine ci sono quelli che, per usare l’immagine della parabola, sono la minoranza del terreno buono che porta frutto a secondo delle possibilità. Sono coloro che non solo sanno ascoltare, ma sanno anche comprendere la Parola. Ovvero sanno mettere insieme (συνιείς, synieis v. 23) componendoli Parola e vita costantemente. Della Parola hanno una comprensione profonda, spirituale e vitale. Ma non è facile, perché il terreno potrebbe diventar duro e refrattario anche per loro, sassoso o riempirsi di spine e rovi infestanti. Ecco allora la necessità di una costante vigilanza e un lavoro spirituale perché da semplici “uditori della Parola”[7] essa divenga una realtà che cresca con loro. Come nella felicissima espressione di Gregorio Magno: «Textus crescit cum legenti»[8] (Il testo cresce con colui che lo legge).

Possiamo porci a questo punto due domande, chi da la forza affinché la Parola cresca e dove trovo questa forza? Alla prima domanda si può rispondere ricordando un’altra parabola del seme che troviamo stavolta nel quarto Vangelo: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». (Gv 12, 24). Gesù sta parlando della sua morte sulla croce. Il redattore del Vangelo, infatti, reagendo all’affermazione di Gesù: «E io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» commenta: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 32-33).

Gesù dunque si paragona a un seme inviato dal Padre nel cuore della terra — «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3, 16a) —  e tutto questo amore che Gesù ha rivelato nel corso della sua esistenza si condenserà e porterà il suo massimo frutto proprio nel momento del suo morire, sulla croce. Secondo Giovanni il primo frutto della morte di Gesù è lo Spirito[9] che come acqua scende dal suo corpo morto verso i credenti: la madre ed il discepolo amato.

Questo Spirito non solo ha risuscitato Gesù dai morti[10] ma è l’ermeneuta che svela il senso della Parola di verità che è Gesù. Le sue parole, infatti, sono spirito e vita (Gv 6, 63). È dunque ormai lo Spirito di Cristo che aiuta i credenti ad essere quel terreno fecondo che sa accogliere la Parola e la fa comprendere perché porti frutti buoni.

In questo senso, secondo le parole del missionario riportate all’inizio di questo testo, Gesù, che si è fatto seme di amore fino alla croce, per mezzo del suo Spirito non smette di seminare la Parola e mai farà ritorno. Questa azione costante è espressa dalle parole del salmo responsoriale della Liturgia che annuncia:

«Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli» (Sal 64).

Nel tempo della difficile gestazione che l’intera opera creata patisce, come ricorda Paolo nella odierna seconda lettura. E, infine, per rispondere alla seconda domanda, è nella liturgia eucaristica Che la Chiesa sperimenta al massimo grado questa azione di Gesù e dello Spirito. Quando Egli nel brano del Vangelo di questa domenica afferma: «Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano» (v. 16) non sta privilegiando alcuni escludendo altri. È vero, l’esperienza diretta e concreta che fecero i discepoli di incontrare l’umanità di Gesù fu unica e irripetibile tanto da far affermare a Giovanni nella sua prima lettera: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1).

Ma questa umanità, ormai glorificata del Verbo la possiamo “toccare” ancora oggi quando durante l’azione sacramentale, grazie al medesimo Spirito[11] che agisce sulla parola e sulle offerte eucaristiche, ascoltiamo di nuovo quella Parola e ci nutriamo di Cristo. Questa grazia scende abbondante, oggi, qui e ora, sul terreno che è la nostra situazione vitale, in qualsiasi condizione esso si trovi al momento, nella speranza che tutto questo dono, che è l’amore del Padre in Gesù per mezzo dello Spirito non vada perduto, ma porti frutto a sua volta.

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 15 luglio 2023

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NOTE

[1] Padre Ezechiele Ramin, comboniano missionario in Brasile, fu ucciso il 24 Luglio 1985 mentre difendeva i piccoli agricoltori e gli indios nel Mato Grosso. San Giovanni Paolo II lo definì «testimone della carità di Cristo» durante un Angelus

[2] La liturgia prevede anche una forma più breve.

[3] Mt 13, 1-52.

[4] Zenone di Elea (489 a.C. – 431 a.C.) è stato un filosofo greco antico presocratico della Magna Grecia e un membro della Scuola eleatica fondata da Parmenide. Aristotele lo definisce inventore della dialettica.

[5] «Il Signore […] è diventato precursore di se stesso; è diventato tipo e simbolo di se stesso. Simbolicamente fa conoscere se stesso attraverso se stesso. Cioè conduce tutta la creazione, partendo da se stesso in quanto si manifesta, ma per condurla a se stesso in quanto è insondabilmente nascosto» (Cantarella R., Mistagogia ed altri scritti, 1931).

[6] Is 6,9-10.

[7] Rahner K., Uditori della Parola, Borla, 1967.

[8] Bori P. C., L’interpretazione infinita, L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, 1988.

[9] «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19, 30).

[10] «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rom 8, 15).

[11] Il vescovo orientale Mons. Neofito Edelby, il 5 ottobre 1964, durante i lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II lasciò un segno importante pronunciando queste parole: «La Sacra Scrittura non è soltanto una norma scritta, piuttosto quasi consacrazione della Storia della salvezza sotto le specie della parola umana, inseparabile però dalla consacrazione eucaristica nella quale si ricapitola tutto il Corpo di Cristo […] Non si può separare la missione dello Spirito Santo dalla missione del Verbo Incarnato. È questo il primo principio teologico di qualsiasi interpretazione della Sacra Scrittura. E non si può dimenticare che, oltre alle scienze ausiliari di ogni genere, il fine ultimo dell’esegesi cristiana è la comprensione spirituale della Sacra Scrittura alla luce di Cristo risuscitato».

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Dalle polemiche sulle croci in montagna alle vette e altezze della Parola di Dio

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DALLE POLEMICHE SULLE CROCI IN MONTAGNA ALLE VETTE E ALTEZZE DELLA PAROLA DI DIO

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Come una tempesta in un bicchier d’acqua la settimana scorsa è scoppiata la polemica sulle croci di vetta [vedere, QUI], fra l’altro scaturita da affermazioni mai pronunciate, che ha tenuto banco per qualche giorno sui quotidiani nazionali. Ancora una volta, alla fine dei discorsi, si è rischiato di banalizzare e far passare come un’imposizione quello che è il simbolo per eccellenza del Cristianesimo, la croce di Gesù rappresentazione visiva dell’amore fino alla fine [cfr. Gv 1, 3] offertoci dal Signore.

Croce di vetta di Piccola Legazuoi [immagine di Stefano Zardini cfr. QUI]

Per questo, proprio come quell’acqua fresca che a volte trovi in montagna dopo un’erta salita, ben venga la sequenza di letture di questa XIV Domenica del tempo per annum. Non sempre accade di trovare in un’unica Liturgia della Parola una serie di scritti dove ogni singola frase è bella di per sé tanto che andrebbero conservate e rimeditate nel corso della settimana. Al culmine di essa leggiamo la pericope evangelica [Mt 11, 25-30] che è tanto preziosa, quanto rara, perché ci offre uno spaccato di quella che fu la coscienza profonda di Gesù, la sua coscienza filiale. Non a caso questo brano di Matteo è stato definito come il più giovanneo di tutti i Vangeli sinottici. Solitamente, infatti, è nel quarto Vangelo che troviamo simili altezze e profondità, spesso, come qui in Matteo, in un contesto di preghiera nel quale Gesù si rivolge al Padre, come nella nota pericope, quella cosiddetta della sua ora: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» [Gv 17, 1]. Ecco il brano del Vangelo della prossima domenica:

«In quel tempo Gesù disse: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”».

Il rigo iniziale del brano nel testo greco precisa: «In quel tempo, rispondendo[1], Gesù disse». A cosa Gesù sta rispondendo e perché in questo momento cruciale [2]? Agli eventi precedenti che non sono stati felici. Dapprima la domanda di Giovanni Battista tramite i discepoli, poiché lui era imprigionato: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» [11,3] e poi la mancata risposta alla predicazione e all’azione di Gesù delle tre cittadine di Corazin, Betsaida e Cafarnao, dove egli ha sperimentato il fallimento o perlomeno uno scarso successo [11, 21-24].

Chi può dire di non aver provato scoramento a fronte di una situazione di empasse, di mancata riuscita o non comprensione da parte di altri di chi siamo veramente? Gesù integra queste situazioni spiacevoli nella preghiera. Mette tutto, anche l’insuccesso, davanti al Padre e rinnova il suo “Sì” [v. 26] poiché comprende che tutto è parte del suo progetto di benevolenza. Il “no” che ha ricevuto diviene un “Sì” svincolato dal successo in vista di una adesione più radicale.

Con la preghiera che si apre al ringraziamento ― «ti rendo lode» ― anche il fallimento, o ciò che noi giudichiamo tale, come il fallimento pastorale, l’assenza di frutti del ministero, la sterilità della predicazione, il rifiuto o il disinteresse degli altri, diviene non causa di scoraggiamento o di abbandono, ma momento di paradossale conferma della sequela del Signore.

È a questo punto che Gesù ci porta nella profondità del suo rapporto col Padre, in quanto Figlio suo. San Giovanni direbbe che è qui che si dovrebbe “rimanere” in quanto discepoli amati. Ma questo discorso, però, ci porterebbe troppo lontano. Matteo, invece, da par suo[3] presenta Gesù come colui che rivela[4] l’intenzione profonda del Padre che solo lui conosce perché solo a lui tutto è stato consegnato.

«Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

A Gesù è stato dato tutto perché è il Figlio del Padre, colui che il Padre solo conosce, fino a poter dire di lui: «Tu sei il mio Figlio, l’amato» [Mt 3,17; 17,5]. Ma anche Gesù solo conosce pienamente il Padre, Dio, perché da lui è venuto nel mondo, e solo Gesù può far conoscere Dio al suo discepolo, perché nessuno va al Padre se non attraverso di lui [Gv 14,6]. Ecco la rivelazione dell’identità di Gesù, del suo rapporto con Dio e della conoscenza di Dio da parte del discepolo. Siamo al vertice della rivelazione divina di Gesù secondo il primo Vangelo. Questo mistero ora è consegnato al discepolo: mistero da adorare, da accogliere in silenzio, da viversi quotidianamente nella fedele sequela di Gesù che ci porta al Padre.

Il Vangelo ci dice anche a chi è rivolta questa rivelazione e chi può comprenderla. Sono i piccoli (νηπίοις), che in quanto tali sono senza voce. Sono coloro che testimoniano a Giovanni Battista che il regno è qui e non c’è bisogno d’aspettare altro: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» [11, 5]. E il piccolo secondo Gesù è beato perché «non trova in me motivo di scandalo!» [11, 6].

Invece la rivelazione è chiusa per i sapienti ― «Perirà la sapienza dei sapienti e si eclisserà l’intelligenza degli intellettuali» [Is 29,14] ― perché, pur avendo visto e udito, non sono stati capaci di aprirsi alla buona notizia del Vangelo e di accoglierla.

Per tornare all’esempio iniziale, non so se avete fatto l’esperienza di salire in montagna. Quando si arriva sulla vetta, insieme alla soddisfazione di essere arrivati fin lì e godere la splendida visuale su ciò che circonda, la cosa più bella è potersi riposare, lasciare a terra lo zaino e i bastoncini, mangiare e bere, riprendere le forze.

Ugualmente Gesù dopo averci condotto sulla cima del suo intimo e profondo rapporto col Padre ora ci invita a riposare:

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» [vv 28-30].

Solo lui conosceva il sentiero, anzi lui stesso si è fatto via [Gv 14, 6], che poteva portarci fin lassù. Ora qui riposiamo e ci ritempriamo, nell’intimità con lui che incarna la beatitudine di coloro ai quali è stata data la terra, che sono figli di Dio, figli nel Figlio[5]. Una terra presa non con la violenza e la guerra perché suo tratto distintivo è la pace, la giustizia e la misericordia[6].

Così Zaccaria prefigurava il Messia nella odierna prima lettura: «Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni” [Zac 9, 10]. E il salmo gli risponde: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature» [Sal 144].

E per finire il giogo. Che cosa avrà voluto dire Gesù? Permettetemi ancora di far riferimento alla montagna. Se c’è una cosa fra le più sconsigliate da fare quando si percorre i sentieri è quella di uscirne fuori, di far di testa propria a sprezzo del pericolo e contro le indicazioni della guida. Soprattutto su certi terreni, non seguire la traccia, vuol dire mettere a rischio sé stessi e il gruppo. In positivo: è consigliabile rimanere in gruppo per non perdere nessuno, procedere sulla via segnata, ascoltare ciò che suggerisce la guida.

Ugualmente nella vita cristiana. Un giogo rimane tale e sembra un peso ed un’imposizione. Ma seguendo la linea che il Vangelo ha tracciato fin qui, nelle parole di Gesù esso appare più come un legame che ci tiene uniti senza assoggettarci. Non siamo per lui buoi muti. Egli la strada la fa con noi e se capita «sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto» (salmo di oggi).

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 9 luglio 2023

 

NOTE

[1] ἀποκριθεὶς: rispondendo

[2] Ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ: in quel tempo

[3] Qualche commentatore ha colto nella struttura tripartita del brano matteano una somiglianza col testo sapienziale di Sir 51. Un inno di ringraziamento (vv. 25-26), un monologo sul rapporto tra Gesù e il Padre (v. 27) e l’invito a mettersi alla scuola di Gesù e ad assumere il suo giogo (vv. 28-30). in Sir 51 abbiamo un inno di ringraziamento (vv. 1-12), un monologo sulla ricerca della sapienza (vv. 13-22), un invito a mettersi alla scuola della sapienza e a prendere su di sé il suo giogo (vv. 23-30). Non è un caso che in Mt 11,19 si parli delle opere della Sapienza riferendosi alle opere del Messia (cfr. Mt 11,2-6): Cristo è la Sapienza di Dio.

[4] “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto” (10, 26)

[5] “Beati i miti, perché avranno in eredità la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 5-9)

[6] “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia… Beati i misericordiosi… Beati gli operatori di pace” (Mt 5, 6-9)

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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I Padri dell’Isola di Patmos

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«Non abbiate dunque paura: voi valete molto più dei passeri»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«NON ABBIATE DUNQUE PAURA: VOI VALETE PIÙ DI MOLTI PASSERI»

 

… c’è la paura che blocca, che fa perdere il coraggio dell’annuncio e della testimonianza, la paura che si prova di perdere la faccia, un privilegio o di non essere à la page. E si diventa pigri e man mano si perde forza e si arriva a non riconoscere più Gesù, il Maestro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ogni mattina, appena sveglio, provvedo a versare un bicchiere generoso di chicchi di riso soffiato in un contenitore poggiato su un albero del giardino. Appena rientrato in casa mi godo lo spettacolo. Decine e decine di passeri prima svolazzanti intorno, sugli alberi o nelle siepi, cominciano a planare, azzuffandosi o rincorrendosi, sulla ciotola di riso e un po’ lo mangiano, altro ne gettano intorno, oppure se lo portano via, probabilmente per sfamare i nuovi nati che in questo periodo dell’anno escono dalle uova.

Nel Vangelo di questa XII domenica del tempo ordinario, proprio al centro del breve discorso di Gesù si parla dei passeri. Egli rassicura i discepoli: “Voi valete più di molti passeri”. Ecco il brano del Vangelo:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: “Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”» [Mt 10, 26-33].

Siamo all’interno del decimo capitolo del Vangelo di Matteo, dove si racconta dell’invio in missione dei dodici apostoli. Ma è anche un discorso che è rivolto ai discepoli di ogni tempo e luogo, quindi anche a noi che sentiamo proclamare oggi una pagina che ci giunge da lontano e che probabilmente già risentiva di quelle difficoltà che non solo incontrarono i primissimi discepoli del Signore inviati ai territori di Israele e solo a quelli, ma anche le asperità del cammino che trovarono le successive generazioni di discepoli che si ispirarono alla tradizione dello scritto matteano.

Gesù, proprio nel Vangelo di domenica scorsa, aveva avvisato i discepoli che sarebbe toccata loro la stessa sorte del maestro:

«Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!» (Mt 10,24-25).

Ovvero, ciò che Gesù ha vissuto, sarà vissuto anche dai suoi inviati, che verranno chiamati diavoli, al servizio del capo dei demoni, Beelzebul, e verranno perseguitati fino a essere uccisi da chi crede di dare in questo modo gloria a Dio (Gv 16,2). Per questo motivo nel Vangelo odierno Gesù sente il bisogno, non di indorare la pillola, ma di rincuorare i discepoli e per tre volte (vv. 26. 28.31) li invita a non temere: «Non abbiate paura!».

Vorrei dire la stessa cosa ai miei passeri che, se faccio un movimento brusco o involontario, fuggono via spaventati. La paura è un precoce istinto che l’imprinting ha fissato nelle diverse specie, anche nella nostra. C’è una paura buona che ci consente di non cadere nei pericoli e di essere prudenti. Nello stesso discorso Gesù aveva infatti detto:

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». (10, 16).

E poi c’è la paura che blocca, che fa perdere il coraggio dell’annuncio e della testimonianza, la paura che si prova di perdere la faccia, un privilegio o di non essere à la page. E si diventa pigri e man mano si perde forza e si arriva a non riconoscere più Gesù, il Maestro.

Come Pietro nella notte della passione: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (v. 33). Ma «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro»¹.

Mi dispiace per i traduttori della Conferenza Episcopale Italiana, ma «volere» non c’è in greco. E invece occorre rendere, alla lettera: «… senza il Padre vostro». Ovvero, neppure un passero, cadendo a terra, è abbandonato dal Padre! A maggior ragione i discepoli e pure Pietro che ne è a capo. Allo stesso modo, anche i capelli della nostra testa (v. 30), che perdiamo ogni giorno senza accorgercene: sono tutti contati, tutti sotto lo sguardo del Padre. Da una tale contemplazione nasce la fiducia che scaccia il timore: Dio vede come ci vede un padre, che ci guarda sempre con amore e non ci abbandona mai, neanche quando cadiamo.

Quando pensiamo di essere soli come discepoli, lasciati in balìa delle prove che la vita ci presenta o degli avversari che non danno tregua, ripensiamo al profeta Geremia della prima lettura di questa domenica: «Sentivo la calunnia di molti. Terrore all’intorno… Ci prenderemo la nostra vendetta» (Ger 20,10). Geremia si lascia andare a un momento di rabbia per la situazione che si è creata: «possa io vedere la tua vendetta su di loro» (v. 12). Chi non lo capirebbe? Ma poi prevale l’uomo di fede chiamato dal seno della madre: «Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero» (v. 13). Gli fa eco il salmista del responsorio odierno:

«Vedano i poveri e si rallegrino; voi che cercate Dio, fatevi coraggio, perché il Signore ascolta i miseri non disprezza i suoi che sono prigionieri. A lui cantino lode i cieli e la terra, i mari e quanto brùlica in essi» (Sal 68).

Ora ditemi se c’è un protagonista della Scrittura al quale il Signore Dio non abbia rivolto l’incoraggiamento che Gesù dice in forma triplice ai discepoli: non aver paura e non temere. Neanche uno, da Abramo a Giuseppe di Nazareth. Pensate che la Vergine Maria non se lo sia sentito dire? Anche lei: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,30). Poi possiamo discutere fino a domattina sulla differenza fra il temere di Maria e quello del parente Zaccaria, fra quello di Geremia o di San Pietro mentre Gesù veniva interrogato nel Sinedrio. La cosa importante che il Vangelo di oggi ci rivela è questo invito a lasciar cadere la paura, a non permettere che questa emozione primaria prenda il sopravvento, a motivo della speciale protezione di Dio, il Padre che Gesù ci rivela, il quale non ci abbandona come spazzatura², la qual cosa fa invece l’avversario per eccellenza.

Perché Gesù dopo aver inviato i suoi, compresi noi oggi, invita a non aver paura davanti a niente e nessuno? Perché questo è il tempo della rivelazione (v. 26) o come qualcuno ha detto «il tempo della fine»³ inaugurato da Gesù. Il tempo della missione è un tempo di apocalisse, non nel senso catastrofico solitamente attribuito a questo termine, ma nel senso etimologico di ri-velazione, di alzata del velo. L’annuncio del Vangelo, infatti, richiede che ciò che Gesù ha detto nell’intimità sia proclamato in pieno giorno, ciò che è stato detto nell’orecchio sia gridato sui tetti.

«Nulla vi è di nascosto (verbo καλύπτω, kalýpto) che non sarà ri-velato (verbo αποκαλύπτωapokalýpto) né di segreto (κρυπτός, kryptós) che non sarà conosciuto (verbo γιγνώσκω, ghinósko)» (v. 26).

Le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Mt 13,35; Sal 78,2) sono rivelate da Gesù e poi dai discepoli nella storia. E, nascosto nel cuore di questo messaggio inesauribile, sta l’annuncio di Dio come Padre, che è quel «molto di più» come lo chiama l’Apostolo Paolo nella seconda lettura di questa domenica (Rm 5, 12), ovvero l’abbondanza della sua grazia che salva, redime e ama.

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 25 giugno 2023

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NOTE

1 Mt 10, 29b “καὶ ἓν ἐξ αὐτῶν οὐ πεσεῖται ἐπὶ τὴν γῆν ἄνευ τοῦ πατρὸς ὑμῶν”. Traduzione CEI: «Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro».

2 La Gehenna (Mt 10,28) era la valle che raccoglieva la spazzatura di Gerusalemme

3 G. Gaeta, Il tempo della fine, prossimità e distanza della figura di Gesù, Quodlibet 2020

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294)

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Apostolicità, verità e tenerezza per le pecore senza pastore

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

APOSTOLICITÀ, VERITÀ E TENEREZZA PER LE PECORE SENZA PASTORE

Apostoli però sono, accanto ma in modo distinto rispetto ai sacerdoti, anche i religiosi e i laici. Anch’essi nella vocazione alla vita consacrata e nel matrimonio, si impegnano a portare la carezza di Gesù al prossimo bisognoso. Per questo che Gesù dice a tutti: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

in questo tempo estivo proviamo a prendere sempre più in mano la Bibbia e leggerla; specialmente i Vangeli possono diventare un compagno di strada per le giornate calde ed afose. Infatti, nel Vangelo, Gesù cammina con noi, ci porge tanta tenerezza ed affetto e chiede così di donare gratuitamente quanto abbiamo ricevuto da Lui. Gesù sceglie la tenerezza perché come diceva lo scrittore tedesco Rudolf Leonard «La tenerezza è il linguaggio segreto dell’anima».

Vediamo. Nel Vangelo di oggi leggiamo:

«In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».

Gesù cammina con le folle e si accorge che si sentono sperdute e senza un punto di riferimento. Le difficoltà esistenziali e il dissidio politico fra ebrei e romani deve aver loro recato molte sofferenze anche da un punto di vista emotivo e morale. Gesù decide di trattarli con compassione, in greco splanchne, che indica la tenerezza della madre che accoglie i figli con amore viscerale. Immaginiamo quindi una mamma che accoglie i figli che piangono e che si sentono disperati.

La stessa cosa fa Gesù con noi oggi. Nelle nostre solitudini esistenziali ci dona la sua tenerezza e compassione, ci fa sentire che nonostante l’instabilità generale, le tante difficoltà spirituali, materiali ed economiche che possiamo trovare Lui è con noi. Ogni volta che ci comunichiamo ci offre una carezza ed un abbraccio intenso, insieme con il Padre e lo Spirito Santo.

Questa carezza ci è offerta in un modo concreto. In un certo senso è una carezza apostolica. Infatti, Gesù stesso ha chiamato per nome i dodici apostoli e li ha istituiti per continuare la sua missione nel corso dei secoli. I dodici apostoli poi hanno istituito i loro successori, e quindi i vescovi e con essi Gesù ha voluto i sacerdoti per una messe numerosa di persone bisognose di Dio. Per questo che il vescovo e il sacerdote, nonostante i loro limiti personali, tendono a donarci la carezza eucaristica del Signore. È importante la loro presenza e la risposta a questa vocazione sacerdotale.

Apostoli però sono, accanto ma in modo distinto rispetto ai sacerdoti, anche i religiosi e i laici. Anch’essi nella vocazione alla vita consacrata e nel matrimonio, si impegnano a portare la carezza di Gesù al prossimo bisognoso. Per questo che Gesù dice a tutti:

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

La modalità in cui tutti noi credenti clero, religiosi e laici siamo mandati dal Signore è la dimensione del dono di sé. Esattamente come senza nessun diritto, abbiamo ricevuto il dono dell’amore e della tenerezza del Signore, così possiamo portarlo a tutti gli altri. Così quando incontreremo il nostro prossimo che non si sente amato da nessuno, e anzi forse si sente abbandonato ed isolato da tutti, allora in quel momento potremo fargli il dono della tenerezza e carità del Signore. Cioè un amore che non è melenso e privo di valore, ma che appunto comunica a chi si sente disperato che Dio lo ama e fa qualcosa di concreto per lui.

Chiediamo al Signore di entrare fortemente sempre più nel suo cuore trinitario per fare entrare tutto il mondo nell’abbraccio di Dio, e offrire senso e gioia anche agli abbandonati e agli isolati dalla cultura del mondo.

Santa Maria Novella in Firenze, 18 giugno 2023

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Gabriele Giordano M. Scardocci
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Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Corpus Domini. Il Santissimo Sacramento della presenza e comunione

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

CORPUS DOMINI. IL SANTISSIMO SACRAMENTO DELLA PRESENZA E COMUNIONE

«In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari Amici e Lettori de L’Isola di Patmos,

nella grande festa del Corpus Domini Gesù ci offre definitivamente sé stesso nel Santissimo Sacramento dell’Eucarestia. La liturgia della Parola ci narra che in quei giorni, mentre gli abitanti di Cafarnao ascoltano le sue parole, sono tramortiti da un annuncio grande: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6, 51). Parole che provocano inizialmente in loro una certa confusione, sino al punto da sollevare proteste. Sembrano quasi pretendere un Dio che sia un po’ più comprensibile, rispetto a quelle parole nelle quali Gesù espone quello che è il grande mistero dell’Eucarestia. Con parole che all’inizio non possono che stordire, delineando un mistero grande e tremendo. Gesù, il figlio di Dio incarnato, sceglie di diventare quel pezzo di pane e quel sorso di vino. Nelle specie eucaristiche, a ogni Santa Messa celebrata è presente Cristo in corpo, sangue, anima e divinità. Quelle specie eucaristiche diventano per noi il pane e vino per il sentiero di eternità. Diventano la nuova manna nascosta, l’alimento che ci permette di ottenere la linfa vitale della grazia per camminare in santità e giustizia tutti i giorni della nostra vita.

Come più o meno sappiamo dal Catechismo, la presenza reale di Gesù è possibile perché durante la Santa Messa, al momento della consacrazione, tramite le parole del sacerdote recitate sulle specie eucaristiche avviene il miracolo della transustanziazione. Le sostanze del pane e il vino, pur mantenendo lo stesso aspetto, si convertono nella sostanza del Corpo e del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.  

Dinanzi all’annuncio di questo mistero i cafarnaiti rimangono scandalizzati, perché non lo comprendono, in parte perché privi degli strumenti di comprensione, in parte perché hanno il cuore un po’ duro rinchiuso nei formalismi farisaici e nelle formule a memoria che non hanno però un concreto sviluppo nella carità. Ecco quindi che Gesù offre loro due spiegazioni:

«In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 53).

Gesù spiega che assimilare il suo corpo vuol dire che il Padre ha mandato lui come nuova ed eterna manna dal cielo che completa la manna che fu data agli ebrei nel deserto. Dunque Gesù è colui che in quella manna, in quel pane, si rende presente perché Dio Padre tramite un miracolo lo rende presente, questo è in sintesi il discorso che pone agli ascoltatori; e lo rende presente perché tramite il suo pane Gesù arriva nella piena e forte intimità con chi lo accoglie. Il corpo di colui che accoglie la nuova ed eterna manna diviene il tempio, la nuova dimora per il Signore.

Questo mostra da un lato la presenza reale, come dicevamo agli inizi, in cui il credente viene purificato e trasformato da Dio per essere ad imitazione di Cristo. In un certo senso, come dicono i Padri greci, l’assunzione del Corpo di Cristo fa sì che lui si assimili a noi: perché l’Eucarestia è il Sacramento che offre la grazia a tutti noi della presenza e della imitazione di Gesù nel nostro concreto quotidiano.

Così, imitando Gesù, tutti noi possiamo fare comunione con il prossimo e inerpicarci in un Sentiero di santità. Essere santi vuol dire operare la carità e l’amore di Dio, dunque far entrare il nostro prossimo in un cammino di eternità. Gesù stesso ce lo dice: l’amore di Cristo Eucaristico ci conduce alla vita eterna e alla resurrezione della carne.

Così come allora, mentre leggo queste parole eterne mi domando: il grande mistero dell’amore realmente presente nell’Eucarestia, scandalizza forse ancora oggi? Forse la nostra santificazione passa anche da questo. Essere testimoni eucaristici, perché prima di tutto siamo eucaristizzati noi per primi, ossia siamo effusi dalla grazia della presenza reale, e i suoi effetti di gioia e di soddisfazione possono essere autentici testimoni della bellezza della sua presenza. Mostrare la gioia di essere in comunione con Lui, ci porta così a fare comunione con tutta la Chiesa e testimoni con tutta l’Umanità.

Possiamo attingere da questa gioia ogni volta che ci accostiamo all’abbraccio della adorazione eucaristica. Poggiamo il nostro cuore, le nostre ferite esistenziali sul cuore eucaristico di Gesù e saremo effusi da un grande amore.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 11 giugno 2023

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Gesù e il cieco nato, dalla tenebra alla luce verso un cammino di conversione

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

GESÙ E IL CIECO NATO, DALLA TENEBRA ALLA LUCE VERSO UN CAMMINO DI CONVERSIONE

Il cieco nato gli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

alcuni dipinti rinascimentali sono nati dalla colorazione che facevano scurire del nero fino a produrre le diverse tonalità di bianco e giallo. È il passaggio della tenebra alla luce. Questo avviene anche nella nostra vita e il Vangelo di oggi ci porta a riflettere sul peccato e la nostra conversione.

 

per aprire la lectio cliccare sull’immagine

 

Il primo momento narrativo si concentra sul peccato. Seguendo la tradizione ebraica della retribuzione classica, i discepoli, vedendo il cieco nato, domandano qual è la causa della cecità. Per la teoria classica della retribuzione, l’handicap proviene da un peccato precedente, commesso dalla stessa persona o dai genitori. Ma Gesù rompe e contraddice questa teoria:

«Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.  Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”».

Un cieco nato è così perché si manifestino le opere di Dio. È dunque, in un certo senso, segno e manifestazione che Dio è in mezzo agli uomini e agisce. Dunque, una persona, in sé stessa non è peccato, ma compie dei peccati. Ora il peccato, secondo la definizione classica, è «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna».

Il tempo di Quaresima è tempo propizio anche per la riscoperta del concetto e dell’idea stessa di peccato, che è qualcosa che difficilmente attribuiamo a noi stessi. Più facilmente diciamo che abbiamo commesso uno sbaglio, una sciocchezza, un errore umano. Proviamo a riflettere su questo in un tempo forte di revisione della nostra vita, tale dovrebbe essere questo periodo quaresimale. Siamo tutti figli di Dio peccatori e ringraziamo il Signore che ci ama così come siamo. Con il Sacramento della confessione purifichiamo i nostri peccati e torniamo tutti con la grazia con cui ci mettiamo all’opera con Dio. Ecco perché Gesù ci dice che questo cieco è nato così, senza aver commesso un vero peccato che lo ha portato alla cecità; è così perché si manifestino in lui le opere di Dio. Gesù invita a compiere poi le opere di chi lo manda, cioè l’Eterno Padre. Innanzitutto, diremo che il cieco nato è colui che fisicamente passa dalle tenebre alla luce. Simbolicamente, il cieco, è colui che passa dalla cecità spirituale alla fede. Questo avviene proprio tramite Gesù. Gesù invita e trasmette a chi ascolta – plausibilmente discepoli ed apostoli – l’invito a compiere le opere della luce con Lui e con il Padre. Manda tutti noi ad essere candele che ardono fuoco di verità dalla sua fiamma e dalla sua luce. Quello che accade dopo la guarigione miracolosa è un complesso numero di azioni, di interrogatori e domande. Domande che i farisei si pongono e che pongono al cieco, ai suoi genitori, perché nulla li convince, non accettando che qualcuno riconosca Gesù come fonte di verità e di luce.  Nel buio freddo delle convinzioni rigide, di idoli e di ombre ideali della verità di Cristo. Per questo cacciano via l’oramai ex cieco che ha riacquistata miracolosamente la vista. Non vogliono vedere chi può metterli in discussione, perché in verità, i veri ciechi, sono loro.

Il cieco nato gli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».

Gesù va incontro di nuovo al cieco guarito. I farisei, nonostante che lo avevano cacciato via, seguono il dialogo fra i due. Il cieco guarito emette la sua professione di fede: «Si Signore credo in te». E così si prostra, secondo il gesto tradizionale ebraico: la prostrazione per mostrare la presenza di Dio, come faceva il Sommo Sacerdote nel Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme. Gesù allora gli dice:

«Sono venuto per giudicare, perché coloro che vedono non vedano e chi vede diventi cieco».

A questo modo rimprovera anche i farisei, aggirando il loro tranello. Ma la frase forte di Gesù, sul giudizio è importante anche per noi. Gesù viene infatti a giudicare non nel senso di condannare le persone e i peccatori, ma perché la sua luce non sia solo un rivelamento della fede in Dio. Anche perché sotto il suo giudizio amorevole e sapiente, ciascuno di noi giunga a schiudere uno sguardo di verità anche su sé stesso, tornando a riconoscere tutti i doni lucenti che Dio gli ha donato.

Chiediamo al Signore la grazia di porre un atto di umiltà e riconoscerci peccatori, per riscoprire al contempo anche che noi siamo capolavori-doni, con talenti e peculiarità che possiamo offrire a Lui, al prossimo e alla Chiesa in un atto d’amore.

 

Santa Maria Novella in Firenze, 19 marzo 2023

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L’uomo della società liquida al pozzo d’acqua viva con la samaritana

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’UOMO DELLA SOCIETÀ LIQUIDA AL POZZO D’ACQUA VIVA CON LA SAMARITANA

«L’acqua è condiscendente, mobile, trasparente, insapore. Si ha facilmente l’impressione che, a paragone col resto della realtà, essa sia in qualche modo ultraterrena».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Cari Lettori de L’Isola di Patmos,

chi pratica sport come il calcio, il basket o la corsa, specialmente d’estate, sa quanto sia rinfrescante un bicchiere d’acqua alla fine dell’attività sportiva. Ha quasi un senso profondo che supera l’aspetto somatico. Come scrive lo scienziato Philip Ball:

«L’acqua è condiscendente, mobile, trasparente, insapore. Si ha facilmente l’impressione che, a paragone col resto della realtà, essa sia in qualche modo ultraterrena».

 

 

Il lungo brano del vangelo di oggi è un invito. È un tornare alle fonti, all’acqua delle nostre origini: dunque a riscoprire la nostra vocazione battesimale, perché da quel momento abbiamo iniziato a camminare nel percorso di santità e accogliere la nostra vocazione. Tornare dunque a fare memoria del battesimo è tornare alle fonti della nostra fede e dissetarci dell’acqua della grazia e dello Spirito Santo.

Nell’inizio del dialogo fra Gesù e la samaritana, è il Signore che fa una domanda ben precisa: “Dammi da bere.” Gesù ha sete perché è in una zona desertica e brulla. Fa molto caldo ed è vicino ad un pozzo. Quindi cerca di entrare in amicizia con la samaritana, chiedendole un aiuto pratico. In effetti offrire dell’acqua, per la cultura del tempo, era davvero un gesto di vicinanza e anche che permetteva di generare una certa compagnia.

Questo gesto supera la samaritana: Gesù è vicino anche a noi. Il Signore chiede a tutti noi di offrirgli dell’acqua, anche oggi, specialmente ogni volta che ci mettiamo in preghiera ed entriamo in Comunione con Lui nell’Eucarestia. Ha sete della nostra presenza, della nostra amicizia e della nostra fede. Dice a noi dammi da bere, per indicare che vuole relazionarsi ed avere una intimità con noi.

Tornando alla lettera del testo, vediamo che inizia lo scambio di battute fra i due. Qualche frase dopo è Lui ad offrire l’acqua alla donna:

«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

La samaritana non deve aver compreso bene questa frase. Sono parole forti e molti intense. Gesù in fondo le sta dicendo di non attingere solo ad un’acqua tratta dal pozzo che disseta il corpo e la gola secca, ma di abbeverarsi da una fonte che disseta anche l’anima e lo spirito. Questa è l’acqua della fede e della grazia.

Anche noi siamo stati dissetati da questa acqua. In effetti, se ci pensiamo, la nostra vita di fede è cominciata con un po’ d’acqua, una veste bianca e una candela di luce. Il giorno del nostro battesimo l’elemento materiale usato perché si amministri il Sacramento dell’inizio della vita di fede è proprio l’acqua. Quest’acqua accompagna le parole del sacerdote «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». L’acqua battesimale è segno anche di un grande evento: ricevuto la grazia divina ricevuta che è entrata in noi unendosi alla nostra vita e alla nostra persona. E insieme a Dio, da quel momento a seguire, possiamo fare grandi opere di carità e amore.

Gesù ci offre nel battesimo la fede e la grazia perché possiamo scoprire che tutti noi siamo un grande dono per Dio stesso e per il mondo. Perché il nostro personale e unico amore diventi azione concreta di tenerezza e compassione verso chi soffre.  

Chiediamo al Signore di sentire ancora quella novità battesimale nella nostra vita, di riscoprirci bambini nell’anima e nello spirito, per dissetare il nostro tempo con la presenza di Dio e irrigare con pozzi di speranza il deserto di un mondo contemporaneo afflitto da una cultura sempre più liquida.

Così sia.

Santa Maria Novella in Firenze, 12 marzo 2023

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