Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Perdonare non è buonismo ma segno della carità e delle giustizia divina

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

PERDONARE NON È BUONISMO MA SEGNO DELLA CARITÀ E DELLA GIUSTIZIA DIVINA 

«Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato». Con queste parole Eleonora Duse detta “la musa”, riassume la sua tormentata relazione con Gabriele D’Annunzio, suo unico amore della vita, da un punto di vista laico ed umanistico.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori dell’Isola di Patmos,

uno degli insegnamenti di Gesù più difficili da accogliere è quello sul perdono. Quando subiamo un torto, infatti, più facilmente ci ricordiamo della persona che lo ha commesso, generando una divisione e un distacco totale fra noi e lei. È un sentimento di rivalsa totalmente naturale. Per questo Gesù ci chiede di andare oltre. E c’è chi fa proprio questo insegnamento di Gesù. Ad esempio:

«Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato».

Con queste parole Eleonora Duse detta “la musa”, riassume la sua tormentata relazione con Gabriele D’Annunzio, suo unico amore della vita, da un punto di vista laico ed umanistico.

Il perdono è uno dei nuclei principali del Cristianesimo, come abbiamo visto nelle domeniche estive; il Signore spesso decide di offrire parabole per trasmettere concetti importante. La parabola del servo malvagio esplicita in forma di narrazione un bellissimo tema del messaggio gesuano. Ne troviamo la sintesi all’inizio del brano evangelico di oggi.

«Gesù rispose a Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”».

Il numero sette evocato da Gesù e portato alla sua massimizzazione (settanta volte sette) non è un numero casuale per la mentalità ebraica in cui Gesù viveva. Esso rappresenta infatti la pienezza, il settimo giorno in cui Dio si riposò, le sette aspersioni rituali con il sangue (Lv 4,6-17; 8,11; Nm 19,4; 2Re 5,10); l’immolazione di sette animali (Nm 28,11; Ez 45,23; Gb 42,8; 2Cor 29,21), i sette angeli (Tb 12,15); i sette occhi sulla pietra (Zc 3,9). Ma Gesù cita specialmente il sette e il settanta in riferimento al profeta Daniele (Dn 9,2-24), in cui sono citate settanta settimane. Semplificando possiamo dire che secondo il profeta queste settanta settimane termineranno nel giorno della salvezza, perché a suo modo, settanta volte sette, è un numero infinito. Ecco dunque che Gesù, in sintesi, afferma la presenza della pienezza della salvezza del Signore, tramite il perdono che Lui, il Dio-uomo, porge agli uomini.

La parabola del servo malvagio narra una situazione di ingiustizia: lo stesso servo a cui era stato perdonato un debito enorme ― praticamente impossibile da coprire in una vita per gli standard del tempo ― non offre lo stesso perdono per un debito minore, dinanzi al quale il padrone diventa severo di fronte a una mancanza di amore e giustizia verso il suo prossimo. Il centro della dinamica di perdono si racchiude in questo: imparare ad offrire un atto d’amore ad un altro peccatore. Esattamente come noi siamo perdonati e chiediamo a Dio il perdono, nel confessionale e quando recitiamo il Padre Nostro.

Perdonare è l’atto estremo di amore e il più difficile: perché scioglie il peccatore dalla rabbia e dalla tristezza che possiamo portargli in seguito a un peccato subìto, sciogliendo noi stessi dal ricordo di quei torti. Ed è per questo che è difficile perdonare: esso è un cammino spirituale ed esistenziale che richiede al contempo tempo, pazienza, preghiera e soprattutto la grazia del Signore. La Grazia, infatti, ci aiuta a imitare Gesù che perdona i suoi aguzzini mentre è sulla croce.

Chiediamo l’aiuto del Signore per imparare a essere peccatori che chiedono e che concedono perdono, chiediamo i sette doni dello Spirito, perché nell’accoglienza del prossimo possiamo scorgere il senso stesso dell’amore di carità ed amare sino alla fine.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 16 settembre 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Cosa significa realmente farsi piccoli per entrare nel Regno dei Cieli?

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

COSA SIGNIFICA REALMENTE FARSI PICCOLI PER ENTRARE NEL REGNO DEI CIELI? 

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw

 

Un religioso che aveva un senso molto pratico delle cose e degli uomini mi ripeteva spesso che le società sono belle, in numero dispari, minore di tre. Il vecchio detto mirava a sottolineare che non appena le comunità si espandono di numero e in distribuzione territoriale subito nascono anche i problemi e, quindi, la necessità di ricavare regole per dirimerli o almeno arginarli. La pagina evangelica di questa domenica, che riporta alcuni detti di Gesù in tal senso, sembra infatti essere scaturita dalle difficoltà che si presentarono nelle comunità giudeo-cristiane sul finire del I secolo d.C. Ecco il brano evangelico:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”» (Mt 18, 15-20).

Ci troviamo all’interno del capitolo diciotto del primo Vangelo che riporta il cosiddetto “discorso alla comunità” introdotto dal gesto di Gesù di collocare un bimbo al centro dei discepoli e chiedere loro di farsi piccoli come lui per diventare «il più grande nel regno dei cieli»1. Di seguito l’invito a non scandalizzare il piccolo bambino e a non disprezzarlo, pena una fine miserevole giù per la ‘Geenna’ dove si giacerà come un oggetto abbandonato in discarica, mentre lui, il piccolo, avrà sempre in alto un angelo che rimirerà il volto di Dio Padre.

La preoccupazione di Gesù nasce dalla consapevolezza che le comunità cristiane, così come fu per il primo nucleo dei suoi discepoli, saranno attraversate da dinamiche relazionali e di potere che potranno ingenerare scandali i quali screditeranno l’esperienza cristiana non solo agli occhi del mondo, ma riusciranno a  indebolire anche i rapporti  all’interno delle stesse; in particolare nei riguardi di coloro che Gesù chiama piccoli e deboli, che necessariamente accuseranno più di altri certi comportamenti. Per Gesù nessuno dovrebbe sperdersi, soprattutto chi è in posizione di minorità. Infatti prima del brano odierno narrò la breve parabola della pecora perduta:

«Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda»2.

Ecco, allora, di seguito una specie di road map del comportamento da seguire in caso si presenti la situazione del peccatore che arreca scandalo e divisione. Nelle parole di Gesù si coglie l’eco di esperienze concretamente vissute nelle comunità ferite da certi peccati, le quali interrogarono i capi delle stesse al fine di formulare indicazioni improntate alla gradualità, alla discrezione e al rispetto verso tutti. Ma anche a fermezza, come sottolineato dal ripetersi per ben cinque volte di proposizioni condizionali, nel breve spazio di tre versi: «Se tuo fratello; Se ti ascolterà; Se non ascolterà; Se non ascolterà costoro; Se non ascolterà neanche l’assemblea». Testimonianze di una riflessione ecclesiale sui casi concreti verificatisi e della nascita di una pratica disciplinare con regole e limiti volti a impedire la disgregazione della comunità e che certi episodi si ripetano. Questa esperienza ha fatto maturare una prassi da seguire nel caso si presentino queste situazioni:

«Va e ammoniscilo fra te e lui solo; Prendi con te una o due persone; Dillo alla comunità; Sia per te come il pagano e il pubblicano».

Si tratta con ogni evidenza di quei peccati che minano la comunione nella comunità cristiana, dunque di colpe pubbliche e non solamente interpersonali. Perché in questo caso, se si trattasse di un problema sorto fra due persone credenti, l’unica via da percorrere sarebbe quella del perdono senza misura:

«Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: ”Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”». (Mt 18, 21-22).

Ma nel caso di una colpa pubblica che arreca danno alla comunione, nonostante la parabola di Gesù sulla pecora perduta e l’insegnamento sul perdono, la strada da seguire, fatto tutto il possibile e con la comunità posta con le spalle al muro, potrà giungere anche alla scelta dolorosa della separazione. Ne abbiamo un ricordo nelle parole di San Paolo che di vita comunitaria se ne intendeva:

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. Ma voi, fratelli, non stancatevi di fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello»3.

E altrove:

«Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti»4.

Come avviene dunque questa correzione fraterna se in una comunità un membro pecca («Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te ― Ἐὰν δὲ ἁμαρτήσῃ ⸂εἰς σὲ⸃ ὁ ἀδελφός σου»)? Nel testo greco troviamo il verbo ‘amartano – ἁμαρτάνω’ che ha il significato di errare, fallire e per estensione anche peccare e rendersi colpevole. Il v.15 contiene l’espressione ‘contro di te’ (εἰς σὲ), presente in molti testimoni del testo, ma assente in altri. A mio avviso, se teniamo per vero quanto detto sopra sulla differenza fra un peccato pubblico che mina la comunione ecclesiale e quello interpersonale, potrebbe trattarsi di un’aggiunta per armonizzare la presente frase con quella che Pietro rivolgerà a Gesù poco dopo e sopra riportata: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?»; un effetto abbastanza frequente fra i copisti. Se un fratello peccherà, quale sarà allora l’iter da seguire per una correzione veramente cristiana? Il cammino sarà svolto in tre passaggi. Innanzitutto la correzione personale, «fra te e lui solo», poiché se il fratello ascolterà e si ravvedrà il problema sarà risolto senza l’imbarazzo di coinvolgere altri. Se questo ascolto non si attiverà sarà necessario il coinvolgimento di due o tre testimoni, come già prevedeva il Deuteronomio: «Un solo testimone non avrà valore contro alcuno»5. In questo modo verrà garantito sia il diritto della persona accusata che la solidità della testimonianza portata su ‘ogni parola’ (lett. pân rhêma; il testo CEI ha: ogni cosa). Si rimane ancora a livello del dialogo e della possibilità di spiegarsi, quando la presa di parola nella Chiesa dà la possibilità di presentare le proprie opinioni e aprirsi ad un ascolto reciproco. Ma se anche in questo caso l’ascolto decade allora “dillo alla Chiesa”. L’ultima istanza sarà la comunità ecclesiale, l’assemblea locale. La correzione dovrà a questo punto svolgersi nel contesto allargato dell’intera comunità. Però, sia nel rapporto a tu per tu, che davanti ad alcuni testimoni o di fronte all’assemblea, l’elemento discriminante della correzione rimarrà la relazione e la capacità di ascolto. In altre parole quella libertà interiore, con l’umiltà e l’apertura che riconoscono la bontà del rimprovero mosso e che porta a rinunciare a difendersi contrattaccando o negando e rimuovendo il rimprovero.

Purtroppo il fantasma dell’ego aleggia sempre sulle nostre personalità o sulle nostre relazioni impedendo il vero ascolto dell’anima, sia la personale che quella comunitaria. Coi suoi tranelli, che sono i pensieri egoici, eserciterà un blocco che impedirà la cura e l’ascolto di queste anime e cioè quel ‘ritornare bambini’ di cui parlava Gesù, come sopra ricordato.

È a questo punto che le strade della comunità e del peccatore potranno separarsi. Quando anche l’ultima istanza della sequenza di correzione incontrerà il non ascolto Gesù dirà: «sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt 18,17). È interessante notare che con questa formula di esclusione venga accordato alla comunità un potere, quello di sciogliere e legare, che in precedenza era stato affidato al singolo Pietro (Mt 16,19): sciogliere e legare significano perdonare e escludere, permettere e proibire. La comunità, l’assemblea ecclesiale, è dotata del potere di ammissione o di esclusione, dove la scomunica sarà l’ultima scelta (cf. 1Cor 5,4-5)6, mentre il vero grande potere sarà quello del perdono. La correzione fraterna infatti mentre è rivolta al peccatore perché ne riconosca il bene è al contempo dono dello Spirito7 per la stessa comunità che mai dovrà arrivare a odiare il fratello, ma continuare ad amarlo mentre svolge il servizio della verità:

«Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore, ma correggerai apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato contro di lui» (Lv 19,17).

La letteratura neotestamentaria, che riporta per forza di cose queste situazioni, è piena di indicazioni volte a considerare il peccatore sempre come un fratello:

«Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello» (2Tes 3, 15); «Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5, 19-20).

Nonostante la possibilità della separazione, ultima ratio, nelle parole di Gesù persiste uno spazio dove è possibile ancora ritrovarsi e cioè la preghiera rivolta al Padre. Riprendendo infatti il detto rabbinico «Quando due o tre sono insieme e tra loro risuonano le parole della Torah, allora la Shekinah, la Presenza di Dio, è in mezzo a loro» (Pirqé Abot 3,3), Gesù lo trasformò ponendo la sua persona come centro dell’incontro: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Nonostante la separazione sarà dunque sempre possibile pregare insieme per qualsiasi conflitto. Paolo stigmatizzerà l’uso dei corinti di rivolgersi ai tribunali pagani per risolvere contese e liti sorte fra i cristiani: «È già per voi una sconfitta avere liti tra voi!»8. Perché chi crede in Gesù risorto e possiede il suo Spirito troverà sempre in Lui un luogo di incontro (cfr. il verbo sunaghein – synághein del v. 20: riuniti nel mio nome) e nella preghiera al Padre l’accordo; quel ‘La’ che darà di nuovo inizio alla sinfonia della fraternità fra i credenti (cfr. il verbo accordarsi, sunfoneo – symphonéo al v. 19).

In tutti i commenti ai brani evangelici della domenica che fin qui ho prodotto per i Lettori de L’Isola di Patmos ho tenuto come leitmotif di fondo il tema della fede in Gesù. Perché mi sembrava necessario, soprattutto nell’epoca attuale della Chiesa, non dimenticare quanto sia preminente ― non maggiore ma in armonia con le opere della carità ― la fede in Cristo risorto che rappresenta il vero ‘specifico’ cristiano. Quella fede in Gesù che apre orizzonti di senso, ci rende pieni di visioni, diventa capacità ermeneutica del tempo che ci è dato di vivere. A volte rischia di scomparire dall’orizzonte della Chiesa quando essa si pensa più grande rispetto a Gesù che si fa piccolo, come quel bambino collocato in mezzo ai discepoli di cui ha parlato all’inizio l’odierna pagina del Vangelo. E alla fine della stessa Egli si metterà di nuovo al centro fra i discepoli che vorranno ritrovare con la preghiera l’armonia dopo le contese. Se non si perderà o occulterà questo centro si avrà modo di vivere l’autentica fraternità. Fratello (adelfos – ἀδελφός nel v. 15) è infatti il termine col quale il Vangelo chiama ogni membro della comunità che è la Chiesa: «Voi siete tutti fratelli… perché uno solo è il Padre vostro» (Mt. 23, 8-9). La fraternità è probabilmente l’altro ‘specifico’ cristiano che mi sembra dobbiamo oggi recuperare: nel sentire profondo di ognuno, nel vivere quotidiano, dentro i mondi incontrati ed abitati, nelle relazioni e nelle interazioni, perfino in quelle virtuali dove le polarizzazioni sono diventate acute e nelle assemblee liturgiche che sono punto di arrivo e di ripresa della vita cristiana. La fraternità fu il primo manifesto che balzò agli occhi di coloro che incontrarono i discepoli di Gesù e fu riconosciuto come un loro tratto distintivo più e più volte rammentato nelle testimonianze scritte:

«Dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri» (1Pt 1, 22); «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35); «Siamo fratelli, invochiamo uno stesso Dio, crediamo in uno stesso Cristo, sentiamo lo stesso Vangelo, cantiamo gli stessi salmi, rispondiamo lo stesso Amen, ascoltiamo lo stesso Alleluia e celebriamo la stessa Pasqua» (Sant’Agostino)9.

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 9 settembre 2023

 

NOTE

[1] Mt 18, 4

[2] Mt, 18, 12-14

[3] 2Tes, 3, 11-15

[4] 1Tes 5, 14

[5] Deut 19, 15: «Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni»

[6] «Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore»

[7] «Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu».(Gal 6, 1)

[8] 1Cor 6, 7

[9] Augustinus., En. in Ps. 54,16 (CCL 39, 668): «Fratres sumus, unum Deum invocamus, in unum Christum credimus, unum Evangelium audimus, unum Psalmum cantamus, unum Amen respondemus, unum Alleluia resonamus, unum Pascha celebramus»

 

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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Il rinnegare se stessi e prendere la croce è una esaltazione del dolore? No,

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL RINNEGARE SE STESSI E PRENDERE LA CROCE È UNA ESALTAZIONE DEL DOLORE? NO, È VIA VERSO LA VIA, LA VERITÀ E LA VITA

«Attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio» (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa)

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È iniziato il campionato di calcio che, come gli appassionati sanno, è preceduto nel periodo estivo dalla preparazione che le squadre fanno in forma ritirata per provare schemi e tattiche senza svelarsi troppo agli avversari poiché, come spesso accade, ad ogni grande manifestazione si antepone un tempo di attesa e di silenzio. In un certo qual modo è anche ciò che capitò a Gesù quando iniziò una nuova tappa della sua vita e missione. Chiese ai suoi di non rivelare chi egli fosse, anche se Pietro lo aveva appena confessato. Riporto allora il brano del Vangelo di questa ventiduesima domenica del tempo per annum, con l’aggiunta iniziale del verso 20 del capitolo 16 di Matteo che non è presente nel brano liturgico:

Masaccio, Gesù che paga il tributo, 1425 circa, Chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze

«(Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.) Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”»  (Mt 16, 20 – 27).

Gesù aveva appena chiesto, a chi evidentemente a quel punto doveva sapere molto su di lui, chi egli fosse per loro (Mt 16, 15). Di fronte alla bella confessione di Pietro sentì di poter allora spiegare (letteralmente: mostrare) ai suoi qualcosa di nuovo riguardo la sua persona e il suo destino. Che si tratti di un nuovo inizio, forse anche un cambio di prospettiva e di maturata consapevolezza intervenuta in Gesù, lo testimonia il parallelismo con Mt 4, 17 che narra l’apertura del suo ministero dopo l’arresto di Giovanni: «Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire». Nel versetto iniziale del testo odierno l’evangelista adopera il verbo ‘mostrare’ (ἐπιδείκνυμι epideíknymi) che rimanda e fa da contraltare alla richiesta dei farisei di far vedere un segno della sua autorità. Il segno mostrato loro da Gesù sarà la vicenda del profeta Giona che oggi ai discepoli è decodificato:

«Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12, 39-40).

Ritorna l’identificazione di Gesù con la figura del ‘Figlio dell’uomo’. Inizialmente parlavamo di nascondimento e Gesù amò celare, finché poté, la sua identità più profonda dietro questa figura celeste descritta nella letteratura biblica (Libro di Daniele, capitolo 71 e in quella apocrifa giudaica (Enoc etiopico)2 perché questo personaggio che vive nascosto, che è vicino a Dio come un’ipostasi e che ha il compito di giudicare, rappresentava per lui l’immagine più confacente al Messia, almeno come ci riporta principalmente il Vangelo più antico, quello di Marco. Nonostante le diverse stratificazioni convenute nei ricordi evangelici, pare proprio che Gesù rifuggisse letteralmente (cfr. Gv 6,15) dall’idea del Messia  discendente  davidico e cioè legato al potere o alla sua restaurazione. Poteva accettare che l’espressione ‘Figlio di David’ gli fosse rivolta da un cieco (Mc 10,47), un povero dunque che non poteva che saper le cose se non riferite da altri o da una donna pagana come la cananea; ma Gesù, identificando preferibilmente se stesso col Figlio dell’Uomo, comunicava ai discepoli che egli era quel ‘messia segreto’ e che da questo momento desiderava condurli verso la comprensione piena dei pensieri e dei voleri di Dio circa questo suo inviato. Un’impresa ardua, allora e oggi, come testimoniato dall’episodio di Pietro. Le parole iniziali del brano odierno – lo abbiamo già segnalato – legate a ciò che precede (‘da allora’ – Ἀπὸ τότε), e corrispondenti ad un nuovo inizio (‘cominciò’ – ἤρξατο) rappresentano non solo un cambio di scena nel testo ma anche per i discepoli una sorta di doccia fredda perché nel momento in cui Gesù annuncerà il suo destino di sofferenza Pietro lo respingerà come un’assurdità. Il Figlio dell’uomo che Pietro infatti conosce è figura potente e gloriosa la quale non può che essere vincitrice. Il brano, nonostante lo sconcerto dell’apostolo, mostra invece quanto Gesù fosse consapevole di essere qualcosa di più del Figlio dell’Uomo di derivazione danielica o come fu rappresentato nella letteratura apocrifa, la qual cosa avrà necessità di una ulteriore rivelazione, sconcertante per la sua grandezza, che, per questa stessa ragione, sarebbe difficile da credere e accettare se fosse venuta da lui. Sarà quindi la voce stessa di Dio sul Tabor, alla Trasfigurazione, a fare tale rivelazione:

«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5).

I tre discepoli che udranno questa rivelazione sapranno che ormai Gesù, del quale avevano qualche cognizione, è Figlio di Dio. È quel ‘nascosto’ nel mistero di Dio, destinato a rivelarsi.

Per poter comprendere la densità del testo proclamato in questa domenica partirei dall’affermazione sorprendente che Gesù rivolse al suo discepolo migliore, Pietro:

«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

A mio avviso ci aiuta ad allontanare un paio di tentazioni perniciose. La prima è quella di accontentarci di alleggerire la nostra coscienza, ribaltando su altri quelle che sono debolezze insite nella umana natura, dunque anche nostre, dimenticando di guardare più in profondità. Magari anche solo gettare uno sguardo al dramma in scena se proprio non ci riesce quello mosso da una fede capace di penetrare il mistero più grande che la scrittura ogni volta ci propone. Così faremo con Giuda nel tempo della passione ed ora con Pietro che strattona Gesù (‘Lo trasse con sé’ – καὶ προσλαβόμενος αὐτὸν)3. È vero che Pietro fece quel gesto e disse quelle parole («Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»), ma la risposta che diede Gesù, la risposta di uno che ha piena consapevolezza di chi fosse e profonda conoscenza di dove venisse e di chi lo aveva mandato, non sembra neanche rivolta a Pietro, piuttosto a colui che fin dall’inizio lo aveva ostacolato tentandolo (cfr. Mt 4). Il Signore avvertì, nelle parole dell’apostolo, l’ultimo tentativo dell’avversario di bloccare la sua missione. Se Egli non smise mai di pazientare e usare comprensione verso i suoi discepoli, anche quando li rimproverava, sapeva bene d’altro canto contro chi aveva a che fare e davvero poneva inciampo alla sua missione. Anche se a prima vista Gesù non lesina parole dure a Pietro: il beneficiario della rivelazione del Padre ora è apostrofato come ‘satana’, il destinatario della beatitudine è ora motivo di scandalo, la roccia è ora pietra d’inciampo. In Pietro queste dimensioni contraddittorie convivono, come convivono in ogni credente possibilità di fede e di non-fede, di comprensione e di ignoranza, di fedeltà e di abbandono, di umiltà e di supponenza. In particolare di fede e di sufficienza, di adesione al Signore e di presunzione di sé.

L’altra tentazione, forse anche peggiore, è quella di togliere valore all’incarnazione del Figlio di Dio, come se sulle parole di Gesù circa il suo destino pendesse una divina necessità o a un fato ineluttabile, come se la volontà divina fosse una sovrascrittura della sua esperienza umana con l’intento di far soffrire e morire Gesù perché espiasse i peccati come una vittima o un sacrificio. Una conseguenza pur vera che andrebbe però letta bene, mentre invece spopola di frequente fra i credenti che prediligono una religiosità devozionale e sentimentale, con poca voglia di confrontarsi col mondo.

Nelle parole di Gesù cogliamo, invece, tutta la freschezza di un’esperienza umana autentica e la scoperta di una vocazione che corrisponde a quel ‘pensare secondo Dio’ che Pietro ancora non aveva. Nell’annuncio nuovo che Gesù da e che risuonerà altre due volte (Mt 17, 22-23; 20, 17-19) mentre camminerà verso Gerusalemme, la città che «uccide i profeti» (Mt 23, 37), Egli comunica ai suoi la passione per il mondo che è la stessa di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»4. Gesù sa bene di aver sollecitato ostilità con le sue parole e con le azioni e per questo forse si era anche attardato nella parte nord del paese, ma era giunto il momento di non rimandare l’incontro con quei poteri che possono togliere la vita con violenza: una circostanza che chi pregava con i salmi e leggeva i profeti conosceva bene. Questa è la vocazione di Gesù che riconosce come una necessità – «doveva (ὅτι δεῖ) andare a Gerusalemme e soffrire molto» (Mt 16,21) – e che accoglie con la libertà di chi pensa secondo Dio.

Dobbiamo essere grati al gesto di Pietro che ha permesso di ricordare un detto sulla sequela del discepolo che risente della tensione escatologica che animava la predicazione di Gesù, per cui nulla è rimandabile poiché il tempo si è fatto breve e questo è il momento della decisione.

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?»5

Pietro è stato appena rimandato indietro da Gesù, nella posizione del discepolo che segue il maestro. E se prima era stata annunciata la passione del Messia, ora viene comunicata da Gesù quella del discepolo. Queste espressioni dal tenore semitico (perdere la vita – trovare la vita; guadagnare – trovare) prese da un contesto legale, per cui in un tribunale si può addirittura scegliere di non difendere se stessi (rinnegare se stessi – prendere il patibulum) come pure farà Gesù, sono il modo in cui i Vangeli ci offrono le rappresentazioni della vicenda umana di Gesù che convergono nel riconoscere nella fede escatologica il loro tratto distintivo. Una fede concretamente vissuta come conflitto ultimo e perciò mortale con il Satana, a cui è stata rimessa la potenza e la gloria di tutti i regni dell’ecumene, secondo il passo illuminante della seconda tentazione nella versione di Luca6. Una fede che si traduce in gesti e parole dai quali traspare con tutta la chiarezza desiderabile il rapporto vissuto da Gesù nei riguardi del mondo, vale a dire in concreto con la società di appartenenza: famiglia, classi sociali, poteri costituiti, rapporti di forza tra individui, ceti e generi, espressioni cultuali e culturali. Tutto questo universo di relazioni è come visto dal di fuori, e non certo perché egli fosse mosso da uno specifico intento di denuncia del giudaismo in vista della costruzione di una superiore forma di vita religiosa, ma perché in concreto il mondo gli si offriva nella fattispecie del giudaismo del suo tempo. Ciò che si oppone alla sua esigenza sono gli uomini e le istituzioni ebraiche nella misura in cui consapevolmente o meno si riconoscevano nel mondo.

Non sorprende pertanto che questo stesso atteggiamento sia richiesto da Gesù ai seguaci, con tutte le rotture che esso comporta e perciò anche i rischi; ciò che viene implicitamente chiesto è un atto di coraggio morale e, all’occorrenza, anche fisico: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» (Mt 10, 39). Coraggio di una qualità speciale che si coniuga anche con la compassione:

«Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia» (Mt 12, 20).

perché coraggio e compassione sono in Gesù aspetti inseparabili della stessa figura. In questo senso l’invito rivolto al seguace a ‘rinnegare sé stesso’ non aveva nulla di arbitrario né di contrario al rispetto verso se stessi. Va compreso come un modo, duro quanto si vuole, per rendere consapevole il discepolo della gravità della rottura che Gesù compiva: non si trattava di seguire un riformatore religioso né un maestro di sapienza, ma di riconoscere nella condizione mondana che ‘guadagnare la vita’ autentica corrispondeva all’accettare le conseguenze radicali della sua predicazione.

Nelle parole di Gesù è alla fine prefigurata anche la risurrezione, dopo la sofferenza e la morte. Il destino del Messia sconfitto7, che sarà chiaro e riconosciuto nella fede solamente dopo che questi avrà ripreso la vita, diventerà allora parte del cuore dell’annuncio cristiano, come testimoniano queste parole dell’apostolo Paolo:

«Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 22-24).

E finalmente il mistero di Gesù crocifisso e risorto sarà riconosciuto dai discepoli come il vero segno di Dio, perché il ‘pensare secondo Dio’ comportava la Pasqua di Gesù. Egli sarà visto allora come la parola concentrata (verbum abbreviatum), poiché Dio ha pronunciato una sola parola, quando ha parlato nel suo Figlio («Semel locutus est Deus, quando locutus in Filio est»”8) e quella parola era l’amore che lui ha rivelato:

«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv13,1).

Dall’Eremo, 3 Settembre 2023

 

NOTE

[1] «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dan 7, 13-14)

[2] Chialà S., Libro delle Parabole di Enoc, Paideia, 1997

[3] Mt 16, 22

[4] Gv 3, 16

[5] Mt 16, 24, 26

[6] «Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (Lc 4, 5-7).

[7] Dianich S., Il Messia sconfitto, l’enigma della morte di Gesù, Cittadella, 1997

[8] Sant’Ambrogio, cfr. Henri De Lubac, Esegesi medievale, vol. III, Milano, Jaca Book, 1996, pp. 261-262

 

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Pietro e le sue fragilità: dal «Se sei tu» al «tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

PIETRO E LE SUE FRAGILITÀ: DAL «SE SEI TU» AL «TU SEI IL CRISTO, IL FIGLIO DEL DIO VIVENTE» 

“Chi crede non s’imbatterà mai in un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle”. “Chi opera un miracolo dice: Non posso distaccarmi dalla terra”. (Franz Kafka)

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Abbiamo visto tante volte nei legal thriller americani, che si svolgono per la maggior parte delle scene in un tribunale, gli avvocati incalzare i testimoni saliti sul loro scranno, con domande dirette che richiedevano come risposta solamente un sì o un no. Sono le domande che la scienza della comunicazione identifica come chiuse. Di altro genere sono quelle aperte, che rendono possibile, invece, una risposta ragionata e articolata, anche se breve. Sono quelle domande che gli psicologi, ad esempio, prediligono perché favoriscono la relazione e un clima positivo fra gli interlocutori.

Il Perugino – Consegna delle chiavi a San Pietro, particolare – 1481-1482 – affresco – Cappella Sistina, Vaticano

Nella pagina evangelica di questa ventunesima domenica del tempo ordinario Gesù rivolse ai suoi discepoli due domande del secondo tipo, cioè aperte. Il testo evangelico è il seguente:

«In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo». (Mt 16, 13-20)

Questa scena che comunemente viene definita della confessione di Pietro si svolge all’estremo nord di Israele, dove Gesù si trovava dopo esser passato da Genesaret (Mt 14, 34), quindi dalle parti di Tiro e Sidone (Mt 15, 21), poi lungo il Mare di Galilea (Mt 15, 29) e nella regione di Magadan (Mt 15, 39). Siamo alle pendici del Monte Hermon dove nasce il Giordano, dalle parti di Cesarea di Filippo, città che nel nome rimanda alla potenza di Roma perché fu edificata dal tetrarca Filippo, figlio di Erode, in onore dell’imperatore. Sia spiritualmente che geograficamente siamo dunque molto distanti dalla città santa di Gerusalemme, praticamente all’estremo opposto, ed è qui che avviene la confessione messianica di Pietro. Dopo di che il cammino di Gesù si allontanerà da questi territori, dove fino ad ora si era attardato, per dirigersi proprio verso Gerusalemme: «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme» (Mt 16, 21).

Presso la città che in antico portava il nome del dio Pan (Panea)[1] e ora quello di Cesare Gesù interroga i suoi discepoli, dapprima in forma indiretta e poi direttamente con parole che non lasciano spazio alla divagazione perché richiedono una risposta che coinvolge gli interpellati. Un non lasciare scampo espresso anche dall’avversativa: «Ma voi, chi dite che io sia?».

Ai nostri giorni vanno molto di moda i sondaggi, corredi indispensabili dei politici e delle loro coalizioni, come pure gli exit poll che presto permettono di capire chi abbia vinto una competizione elettorale oppure le indagini di mercato lanciate prima che un certo prodotto venga messo in circolazione, per sapere se sarà gradito agli acquirenti. Di certo non era di questo tipo e tenore la ricerca che Gesù invocava con la prima domanda, eppure anche lui volle sondare quale opinione le persone potessero avere di lui. Se nella prima domanda la questione è volta a sapere cosa si dicesse intorno al «Figlio dell’uomo», probabilmente il titolo messianico più importante in quel momento ( cfr. Mt 9, 6; Mt 10, 23; Mt. 24, 27-30 etc..), nella seconda Gesù, passando in modo diretto all’io, pose i discepoli davanti ad una risposta personale, difficile, forse anche dolorosa. Voi che avete vissuto con me, che avete camminato fin qui insieme a me, che avete ascoltato ciò che ho detto, che avete visto ciò che ho fatto, che avete assistito agli scontri e agli incontri di cui siete stati testimoni. Voi, chi dite chi io sia? Non è tanto la richiesta in sé, che è più che legittima, quanto il fatto che Gesù, in questo modo di porsi, diventi Egli stesso domanda sia per i discepoli a cui si rivolge che per gli immediati lettori del Vangelo. Qualcuno[2] ha raccolto tutte le domande che Gesù pose nei Vangeli, pare siano duecentodiciassette (217)[3]. Ma questa qui, che troviamo nel brano di questa domenica, è la domanda che raggiunge tutti: credenti e non credenti. I secondi perché, se onesti e pensosi, non possono non subire il fascino e l’inquietudine della figura di Gesù. I primi, i credenti, perché sanno che questa è la domanda che risuona ogni giorno e li scuote nell’intimo, poiché non si tratta di accettare un’opinione o di aderire ad un’idea per quanto nobile, ma riguarda Gesù stesso, la sua persona e il suo mistero. Gesù è la domanda. Non é eludibile e neppure facile. Se infatti alla prima domanda la risposta fu corale: «Ed essi dissero “οἱ δὲ εἶπαν“»; alla seconda rispose il solo Pietro. Perché è una richiesta dirimente che vaglia il vero discepolo togliendolo dal rischio di restare muto.

Tornando alla prima domanda, Gesù chiese le opinioni circolanti che riguardavano il «Figlio dell’uomo», un’espressione oscura per noi ma chiara per i suoi ascoltatori, infatti con essa Gesù preferiva identificare sé stesso: un personaggio messianico che «è una persona, non una collettività; ha natura divina, esiste prima del tempo e vive tuttora; conosce tutti i segreti della Legge e perciò ha il compito di celebrare il Grande Giudizio alla fine dei tempi»[4]. Tutte le risposte dei discepoli su cosa si pensasse del «Figlio dell’uomo» avranno in comune un tratto profetico. Innanzitutto lo eguagliano a Giovanni il Battista che Gesù stesso aveva definito come «più di un profeta» (Mt 11,9) e precursore del Messia (Mt 11,10). Secondo Matteo la folla stessa considerava Giovanni un profeta (Mt 14,5) e identificandolo ora con Gesù doveva pensarlo per forza risorto. Questa era anche l’opinione di Erode che pure lo aveva messo a morte: «Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi» (Mt 14,2).

Per quanto riguarda la correlazione del «Figlio dell’uomo» con Elia, invece, bisogna ricordare che la tradizione biblica considerava questi come un precursore del Messia (cfr. Mal 3,23; Sir 48,10), mentre Gesù lo aveva identificato con Giovanni Battista (Mt 17, 10-13). Invece accostare Gesù, Figlio dell’uomo, a Geremia è proprio di Matteo, probabilmente perché come Gesù l’antico profeta pronunciò parole contro il tempio (cfr. Ger 7) e come lui ebbe a soffrire da parte della casta dei sacerdoti e nella città di Gerusalemme. Una prefigurazione, dunque, di quello che sarebbe successo allo stesso Gesù. Infine, dicono i discepoli, altri pensano a lui come a un profeta, uno fra molti. È a questo punto che Gesù, forse insoddisfatto o desideroso di portare il dialogo a un livello superiore, più personale e coinvolgente, rivolse loro una domanda diretta: «Ma voi, chi dite che io sia?». Stavolta rispose il solo Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Nella risposta dell’apostolo abbiamo la ripresa della dichiarazione fatta a Gesù sulla barca: «Davvero tu sei Figlio di Dio» (Mt 14,33) premessa dalla confessione messianica «Tu sei il Cristo», con l’aggiunta di un aggettivo riferito a Dio che rimanda alla consapevolezza espressa nell’Antico Testamento che il Dio di Israele fosse appunto «vivente»: E avverrà che invece di dire loro: «Voi non siete popolo mio», si dirà loro: «Siete figli del Dio vivente» (cfr. Os 2,1)[5].

Siamo di fronte ad un titolo cristiano di grande importanza che compone insieme sia la messianicità di Gesù che la sua divinità, poiché egli procede da Dio e per mezzo di Lui viene rivelata e comunicata la vita stessa del Padre. Come dirà Giovanni, Gesù è la via della verità e della vita (Cfr Gv 16, 6). Sono affermazioni che la teologia si compiacerà di esplorare, ma che la Bibbia semplicemente afferma come verità solida e tranquilla. Questo grazie all’evoluzione dell’apostolo Pietro passato dal titubante «se sei tu» proferito mentre stava per affondare[6] alla odierna chiara confessione di fede in Gesù. Un passaggio avvenuto non per merito, ma per grazia come afferma la successiva beatitudine che Gesù rivolse a Pietro la quale rimanda ad un altro detto evangelico che abbiamo già incontrato: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»[7]. Sappiamo da altre circostanze che Pietro fu un uomo di umanissime fragilità e debolezze, ciò non impedì al Signore di vederlo come un “piccolo” e beneficiarlo di una particolare rivelazione e di un importante compito. Lo attestano le parole di Gesù che scelgono il patronimico «Simone, figlio di Jona» e il semitismo «carne e sangue»: è perciò dentro la storia personale e generazionale di Pietro che scende la grazia divina. E si noti che, se in Marco e in Luca, Pietro espresse la fede dell’intero gruppo dei discepoli (cfr. Mc 8,29; Lc 9,20), qui in Matteo invece parlò a nome proprio e per questo la risposta di Gesù è rivolta a lui solo: «Beato sei tu, Simone, figlio di Jonà, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».

Questa affermazione sta alla base della successiva rivelazione di Gesù sulla Chiesa perché anch’essa nascerà dalla grazia e dal dono di Dio. Simone che quasi sasso stava per raggiungere il fondale del lago se non fosse stato afferrato, diventerà nelle parole di Gesù la «pietra» sulla quale poggerà la Chiesa, che però sarà costruita dal Signore e sarà sua (οἰκοδομήσω μου τὴν ἐκκλησίανOikodomeso mu ten ekkelsìan). Eppure nonostante l’importante collocazione dell’apostolo come pietra alla base, l’ultima menzione di Pietro, nel Vangelo di Matteo, lo mostrerà in lacrime dopo il triplice rinnegamento (Mt 26, 75) e neanche sarà menzionato nei racconti della risurrezione. Questo aspetto di Pietro che la tradizione sinottica non si esime dal ricordare non impedirà a Gesù di conferirgli importanti poteri. Come afferma Paolo nella odierna seconda lettura il Signore conosce ciò che sta nel profondo e non prende consiglio da alcuno: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!»[8]. Il potere delle chiavi del Regno rimanda alle parole del profeta Isaia ricordate nella prima lettura di questa domenica: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire»[9]. Sono un segno di autorità concesso dal Signore ― le chiavi, infatti, sono sue ― del quale non ci si può approfittare come i ‘dottori della Legge’ che avevano distorto il loro uso metaforico impedendo ai più l’accesso alla conoscenza della parola di Dio o interpretandola a proprio favore (cfr. Lc 11, 52)[10]. Il compito di Pietro e degli apostoli con lui dovrà essere ormai quello che Gesù consegnerà loro alla fine del Vangelo: «Andate e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19).

In questo passo, come abbiamo letto, appare la parola Chiesa, che ritornerà solo un’altra volta in tutti i Vangeli, ancora in Matteo (cf. Mt 18,17). Il termine Chiesa ― ekklesía ― identificava l’assemblea dei chiamati-da (ek-kletoí): questo infatti fu il nome dato dagli elleno-cristiani alle loro comunità, anche per differenziarsi dalla sinagoga (assemblea) degli ebrei non cristiani. Come l’antica ekklesia dei greci aveva i propri organi, le proprie leggi e le delibere così anche Pietro per guidare l’ekklesìa cristiana sarà dotato del potere delle chiavi al quale si accompagnerà quello di sciogliere e legare, ovvero di proibire o permettere in campo disciplinare e dottrinale. E diventerà in particolare, nello spazio ecclesiale, l’autorità di rimettere i peccati, vero potere che narra la potenza della resurrezione.

La forza del Cristo risorto viene accordata ora anche alla Chiesa, costruzione operata da lui stesso. La risurrezione è il momento dirimente che permette ai discepoli di ricordare e riprendere le parole di Gesù e finalmente comprenderle. Da quel momento in poi la Chiesa poggiata e fondata sulla sua resurrezione, prolungherà la vita e la salvezza di Gesù che, risorto dai morti, donerà speranza a tutti gli uomini. L’apertura al dono di Dio consentirà alla Chiesa di contrastare l’azione delle forze del male, facendo spazio alla potenza di Cristo mediante la fede.  La Chiesa vive della promessa di Cristo.

Per concludere è necessario ricordare che questa meditazione sulla Chiesa e sul ruolo di Pietro che il vangelo ha innescato, probabilmente sarà risultata un po’ pesante vuoi perché il periodo estivo che stiamo attraversando richiederebbe con ogni probabilità argomenti più leggeri, vuoi perché essendo temi non facili sembrano riguardare solo la configurazione della Chiesa e i suoi poteri. Infatti non si può tralasciare di dire che sulla confessione di Pietro e sulle conseguenti parole di Gesù circa il suo ruolo e quello dei suoi successori, le varie comunità cristiane si sono divise. Una cosa pensano i cattolici diversamente dagli ortodossi e un’altra ancora le varie chiese riformate.

Come scrivevo all’inizio le domande aperte, tipo queste poste da Gesù, permettono un clima positivo fra i dialoganti e la relazione. Perché Gesù invece di rivelare semplicemente chi fosse e sarebbe stata la via più semplice, ha preferito farsi domanda? Probabilmente perché desiderava allora e tuttora questa relazione. È sarà in base alla risposta che sapremo dare che si determinerà la fede come esperienza vitale, perché ognuno di noi crederà solo al Cristo che sente proprio, quello il cui volto ha riconosciuto vero per sé. Pur nella sua assolutezza divina, Gesù vuole restare relativo alle vite delle singole persone e in nome di quella relazione continua a chiederci di essere noi a dire chi sia, a prescindere dalle parole altrui.

Nella prospettiva di Matteo che ha ricordato l’episodio di Cesarea e ne ha scritto, l’intenzione fu quella di far comprendere quale grande dono fosse la fede in Gesù ormai risorto e vivente, Figlio di Dio. E come da questo dono che illumina e da speranza all’esistenza ne scaturiscano a cascata molti altri. Il primo è che i discepoli di Gesù non sono monadi, ma una comunità, una ekklesia appunto, luogo spirituale ma anche vitale e concreto dove è possibile far crescere e maturare gli altri doni che ormai provengono dallo Spirito, a beneficio di tutti. Pietro svolge in questa comunità un ruolo importante che non si è scelto e per questo lo ringraziamo in ogni suo rappresentante.  Mi viene in mente che gli ultimi suoi successori che abbiamo conosciuto, Giovanni Paolo che è santo, Benedetto e Francesco, al di là delle evidenti personali differenze, a un certo punto della loro vita si sono trovati nella condizione di dover palesare a tutti la loro infermità nel corpo: quasi una parabola o una icona di quella fragilità e debolezza che fu del primo, di Pietro.

E concludo ricordando che nella tradizione del quarto Vangelo Pietro sarà quello che non capisce[11], sarà colui che arriverà per secondo al sepolcro[12]. Sarà colui che avrà bisogno che un altro gli dica: «È il Signore»[13], perché non se ne era accorto. Ma è anche quello che prima degli altri coprirà la sua nudità e si metterà a nuotare finché non giungerà a riva da Gesù. Forse ha bisogno di scusarsi, di recuperare. Gesù per tre volte gli domanderà se lo amava e lui comprendendo si addolorò. «Più di costoro?» (Gv 21,15) gli chiese Gesù e lui capì. Comprese che il suo peculiare servizio sarebbe stato quello dell’amore e di confermare i fratelli nella relazione con Gesù, cioè nella fede. Allora riprenderà il cammino con gli altri dietro, perché sarà a lui che Gesù dirà: «Tu seguimi»[14].

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 27 agosto 2023

 

NOTE

[1] Polibio, Storie, Libro 16, paragrafo 18, Rizzoli, 2002.

[2] Monti L., Le domande di Gesù, San Paolo, 2019.

[3] Op cit. pg. 251-262: Ai discepoli (111), agli uomini religiosi (51), alla folla (20), a persone malate (9), ad altri (25), a Dio (1).

[4] Sacchi P., Gesù Figlio dell’uomo, Morcelliana, 2023; l’autore rilegge la figura del figlio dell’uomo in Marco alla luce del libro apocrifo Libro delle parabole, secondo libro della raccolta di Enoc etiopico (IH).

[5] «Chi, infatti, tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo» (Deut 5, 26).

[6] Mt 14, 30.

[7] Mt 11, 25.

[8] Rom 11, 33.

[9] Is 22, 22.

[10] «Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».

[11] Gv 20, 9 «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti».

[12] Gv 20, 6 «Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là».

[13] Gv 21, 7.

[14] Gv 21, 22.

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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«Il gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non aggiunge» (L. Huizinga, Homo ludens)

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Quando ero piccino, secoli fa, si faceva un gioco che si chiamava ruba bandiera. Due contendenti, una volta chiamati da chi deteneva appesa fra le dita una bandiera, di solito un fazzoletto o un panno, correvano verso di lui e dovevano portare via la bandiera senza farsi toccare dall’altro. Ora, fra le regole, c’era quella che potevi con le mani superare la linea di mezzo per esser svelto a toccare l’altro, lo potevi incrociare con lo sguardo e provocarlo con le finte, ma mai e poi mai potevi oltrepassare coi piedi la linea mediana che serviva da confine fra le due squadre, pena la perdita del punto e la disapprovazione generale.

Chissà perché mi è tornato in mente questo vecchio gioco da campo estivo dovendo commentare la pagina evangelica della odierna domenica. Forse perché si parla di chi, contravvenendo regole e opportunità oltrepassò i confini. E allora giochiamo; ecco la pagina evangelica.

«In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”. Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”. Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. “È vero, Signore” – disse la donna –, “eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Allora Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita» [Mt 15, 21-28].

Tutta la pericope è uno splendido gioco delle parti. Matteo scrive che Gesù partì da un luogo, in greco abbiamo «uscì di là». Da dove e da cosa si è allontanato? Dalla cittadina di Genezaret dove aveva avuto un vivace scontro con i farisei e la loro contorta e interessata interpretazione della Legge mosaica. Ma aveva avuto anche a che fare con l’incomprensione dei suoi stessi discepoli. Dei primi dirà: «Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» Ai secondi sconsolato affermerà: «Neanche voi siete ancora capaci di comprendere?» [Mt. 15,14].

Uscito da questa situazione geografica e dialogica si spostò verso una zona di confine, dalle parti delle cittadine di Tiro e Sidone.  Il Vangelo non dice che attraversò il confine per calcare terra fenicia, perciò pagana, ma che si diresse verso di essa. È invece una donna che passò il confine ― in greco abbiamo lo stesso aoristo usato per Gesù che “uscì” da Genesaret ― per avvicinarsi a Lui con una richiesta. Questa cosa è importante perché nel brano evangelico Matteo mette in bocca a Gesù la frase: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele», mentre altrove aveva detto ai suoi discepoli inviandoli in missione «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele» [Mt 10,5-6].  Matteo si premura di specificare che Gesù non si trova in territorio pagano, ma ancora in terra d’Israele e incontra questa donna che, lei sì, ha varcato i confini del suo territorio di provenienza. Tutto questo contribuisce a preparare un racconto in cui Gesù appare guidato da un senso di appartenenza giudaica molto rigorosa, perfino intransigente.

Chi è questa donna che grida dietro a Gesù? Matteo la definisce cananea. Descrivere qui la complessa vicenda storica, sociale e religiosa dei territori e delle popolazioni che fanno riferimento a Canaan eccede lo scopo di questo commento. Basti dire che la menzione di cananea serve all’evangelista per esprimere la distanza fra questa donna e Gesù, facendo in un secondo rivivere l’antica inimicizia tra i Israele e le popolazioni cananee. Con una semplice annotazione Matteo ci fa sentire il peso di una storia e di una tradizione che incapsula i due personaggi dentro stretti confini. Teniamo anche presente il racconto che Marco fa dello stesso episodio, dove si compiace nell’offrire ulteriori dettagli: «Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia» [Mc 7, 26]. Queste due specificazioni di Marco moltiplicano gli elementi di diversità della donna e rendono particolarmente intrigante l’incontro tra il galileo Gesù e questa donna. Oltre alla differenza di genere e al fatto di essere straniera, va forse messa in conto una differenza di condizione socio-economica. Secondo Theissen[1] la donna appartiene al ceto elevato e benestante di greci urbanizzati viventi nella zona di confine di Tiro e della Galilea con cui erano in conflitto i contadini poveri giudei il cui lavoro agricolo serviva anche a sostentare gli abitanti della città[2]. La redazione marciana suggerisce che si debba mettere in conto forse anche una distanza morale: il termine sirofenicio aveva, nella satira latina, la valenza di persona poco raccomandabile[3]. E infine, o prima di tutto, Marco pone in risalto la differenza linguistica: «era di lingua greca». Ellenís (greca) indica l’appartenenza linguistico-culturale, mentre syrophoiníkissa designa la stirpe e la religiosità pagana. Costoro si parlano: in quale lingua? Chi parla la lingua dell’altro? Gesù parla il greco? O la donna parla l’aramaico? In ogni caso, ci deve essere stato il reciproco adeguarsi alla lingua dell’altro, la fatica dell’uscire dalla lingua madre per esprimersi nella lingua accessibile all’altro. Tutti questi particolari, alcuni veri, altri probabili, servono a descrivere tutto ciò che separava la donna da Gesù, la sua alterità, diremmo oggi, rispetto al Nazareno, perfino nella possibilità di capirsi tramite una lingua. Eppure questa donna userà un codice che Gesù conosceva bene e che ha incontrato più volte, quello del bisogno, verso cui il Signore provava una profonda compassione. Ma qui il tutto viene declinato in modo molto originale ed interessante anche per noi che ascoltiamo oggi questo Vangelo.

La donna porta all’attenzione di Gesù la situazione della figlia malata, lo fa gridando. Più avanti nel Vangelo sarà un padre che parlerà in modo accorato a Gesù del figlio molto sofferente[4]. Ambedue chiedono al Signore «Pietà» (Ἐλέησόν με). Un’espressione che troviamo nei Salmi e in Matteo sulla bocca di due ciechi  [cfr. Mt 9, 27] e di altri due ciechi [Mt 20, 30-31] Ambedue le scene, della madre cananea e del suddetto padre, trasmettono particolare emotività e pathos poiché si tratta di figli ammalati; in questo modo anche i lettori si collocano spontaneamente dalla parte di chi rivolge una pressante richiesta di aiuto e ne comprendono l’insistenza che rasenta il fastidio.

Nella redazione matteana che si differenzia da quella marciana, viene descritto un lungo iter che ci fa rendere palpabile la scena, quasi se ne fossimo dentro. Dapprima Gesù si chiude in un silenzio duro ed ostinato [cfr. Mt 15,23], poi da una secca risposta ai discepoli dal tenore teologico: «Non sono stato mandato che alle pecore disperse della casa di Israele» [cfr. Mt 15,24], infine rivolge una dura risposta alla donna personalmente [cfr. Mt 15,26], che pure si era rivolta a lui con titoli messianici: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide».

Così la donna riceve per tre volte un «no» da parte di Gesù, nonostante la sollecitazione dei discepoli che volevano togliersi il fastidio: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». In tal modo il gioco delle parti si accende, salendo di livello, quello ecclesiale e teologico. Davvero, come diceva Gregorio Magno, il Vangelo «dum narrat textum prodit mysterium» – «mentre propone il testo rivela il mistero» e ancora «ab historia in mysterium surgit» –  «dalla storia si innalza al mistero»[5].

La risposta di Gesù ai discepoli descrive i confini entro i quali si colloca la sua missione, lasciando intendere che la decisione viene dall’alto, da Dio. L’opera salvifica e messianica che nella tradizione biblica era definita come «il raduno dei dispersi»[6] [cfr. Is 27, 12-13] riguarda, nell’intenzione e nelle parole di Gesù soltanto Israele: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Una risposta teologica che appare come un freno e un ostacolo insormontabile, poiché c’è di mezzo il mandato messianico che Gesù accoglie da Dio e che fa suo fino alle conseguenze più estreme. Ma la donna che in precedenza aveva già passato un limite, quello geografico, mossa dal bisogno e dal dolore per la figlia che aveva partorito col suo corpo di madre, sbarra ora la via a Gesù ponendo il suo stesso corpo come un confine: «Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!». La soluzione che ci apre al mistero, come dicevo poco fa, è nelle parole stesse di Gesù che di primo acchito appaiono dure e insensibili: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani domestici» [Mt 15,26]. All’epoca di Gesù la separazione tra «figli» e «cani» era la distinzione che separava i membri del popolo d’Israele dai gentili. Qualcosa dunque si comincia a delineare e a capire. La distanza fra Israele e i pagani era enorme sotto molti punti di vista e appariva incolmabile. Ed è stato anche il primo grande problema della Chiesa primitiva risolto a Gerusalemme [cfr. At 15] se non dopo conflitti, punti di vista differenti e scontri fra cui quello più eclatante scoppiò fra Paolo e Pietro: «Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» [cfr. Gal 2, 11]. E Matteo ha fra i suoi lettori discepoli che ormai provengono sia dal giudaismo che dal paganesimo.

Gesù con le sue parole lascia intendere che c’è un piano salvifico che non è dato stravolgere, ma una situazione nuova si pone e non si può scavalcare, perché il corpo della donna straniera, cananea, di lingua greca è lì davanti ed è ineludibile, come il fatto che i pagani in epoca pasquale si facevano battezzare e credevano in Gesù risorto. Ora è proprio Gesù che definisce i pagani, in quanto israelita, come dei «kynaria – kynária», ovvero dei cani domestici, non quindi dei cani randagi che vanno ovunque, anche a cibarsi di cose impure vietate. Sono quelli che stanno nella medesima casa che abitano i figli che sono gli eredi. Marco nel suo Vangelo fa dire a Gesù: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» [Mc 7, 27]. C’è un prima che va rispettato, c’è un volere divino espresso dal «non è bene», ma i cagnolini sono lì ormai, nella stessa casa dei figli.

La risposta della donna è grandiosa e bellissima, perché entrando nell’ottica di Gesù mostra di aver capito la sua intenzione e il volere di Dio che lo ha inviato ed esplicita con le sue parole quanto esso sia più grande di quel che si pensi, poiché nella stessa casa, che ormai è la Chiesa pasquale, di Matteo, di Paolo e anche la nostra, c’è posto per tutti. Disse la donna: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Nelle sue parole lo stesso progetto messianico può esser visto non più solo temporalmente ― c’è un prima e un dopo ― ma anche spazialmente poiché c’è un’unica casa ove si trova una mensa dove la salvezza è giunta ed è offerta a tutti, anche per coloro che pareva non ne avessero diritto.

«”Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita».

Il commento redazionale dell’evangelista è oltremodo consolatorio poiché scioglie ogni nodo narrativo ed emotivo rivelando che la figlia è risanata. Qualche commentatore a volte dice: ecco, la donna ha forzato la mano di Gesù. Per usare la metafora iniziale del gioco: “ha rubato”; è lei che ha compiuto il miracolo. Non lo credo perché, con questa escamotage, tradiremmo il Vangelo e il suo condurci verso il mistero più profondo nel quale anche noi siamo coinvolti, quello cioè della fede in Gesù: «Donna, grande è la tua fede!». È questa fiducia che permette di vedere cose nuove o di guardarle diversamente e Gesù le vede con noi. Un mistero che dota la Chiesa di capacità ermeneutica del tempo che vive, soprattutto il nostro che sembra assumere una distanza da essa, mentre probabilmente, come la cananea, chiede una parola nuova, chiede aiuto e accoglienza.

In questo senso appare illuminante l’opera di un’altra donna, la Madre di Gesù, che alle nozze di Cana, a dispetto di quel che a volte si sente ancora predicare, non forzò la mano di Gesù perché compisse il segno del vino buono fino alla fine. Bensì lo rese possibile, perché Gesù trovò una nuova comunità, appena nascente, simboleggiata dalla Madre e dai discepoli compresenti alle nozze, che lei precedeva ed accompagnava nel cammino di fede. Ella, come la donna cananea, presentò una situazione e un bisogno: «Non hanno più vino» [Gv 2, 3]. Così Gesù manifestò a Cana la sua gloria perché trovò una comunità che, seppure in fede iniziale, fu disponibile e accogliente verso la novità espressa dal dono del vino: «E i suoi discepoli iniziarono a credere in lui»[7]. La donna cananea, pagana, così distante e diversa da Gesù, portata dal bisogno, travalicò il tempo salvifico anticipandolo, prefigurando una comunità aperta e capace di accogliere anche chi viene da lontano. Davvero grande è la sua fede.

Buona domenica a tutti.

dall’Eremo, 20 agosto 2023

 

NOTE

[1] Gerd Theissen, L’ombra del Nazareno, Claudiana, 2014.

[2] Marco riferendosi al letto dove giaceva la figlia malata della donna parla di kliné (κλίνη), un vero letto e non un semplice povero giaciglio (Mc 7, 30).

[3] La regione sirofenicia fu instituita da Settimio Severo nel 194 d.C. Nella ottava satira Giovenale parla dei sirofenici come titolari di taverne. In particolare ne descrive uno effeminato, avaro, ebreo (cfr Giovenale, Satire, Feltrinelli, 2013).

[4] Mt 17, 14- 15: «Si avvicinò a Gesù un uomo che gli si gettò in ginocchio e disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio! È epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e sovente nell’acqua”».

[5] Gregorio Magno, Omelia su Ezechiele I, 6, 3.

[6] «Avverrà che, in quel giorno, il Signore batterà le spighe, dal Fiume al torrente d’Egitto, e voi sarete raccolti uno a uno, Israeliti. Avverrà che in quel giorno suonerà il grande corno, verranno gli sperduti nella terra d’Assiria e i dispersi nella terra d’Egitto. Essi si prostreranno al Signore sul monte santo, a Gerusalemme».

[7] Gv 2, 11 episteusan ἐπίστευσαν – è un aoristo ingressivo: iniziarono a credere.

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Forse è opportuno ricordare che a metà di questo mese non si festeggia “San Ferragosto” ma la solennità dell’assunzione al cielo della Vergine Maria

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

FORSE È OPPORTUNO RICORDARE CHE A METÀ DI QUESTO MESE NON SI FESTEGGIA “SAN FERRAGOSTO” MA LA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE AL CIELO DELLA VERGINE MARIA 

Nei primi secoli, infatti, man mano che la divinità di Gesù smetteva di essere messa in discussione dagli eretici, la Chiesa si occupò del problema opposto: affermare la verità della sua Incarnazione. È in questo contesto che la figura di Maria divenne cruciale e importante, perché la sua disponibilità la legava indissolubilmente al figlio, al Figlio di Dio che si fece carne, nella carne di Lei.

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Dopo Benedetto XVI così compìto nei modi e misurato nelle parole più di uno è rimasto sorpreso da alcune frasi, soprattutto quelle proferite di getto dal Sommo Pontefice Francesco, suo successore. Che pure, bisogna dirlo, sono maggiormente ricordate dalle persone semplici che probabilmente non ne rammentano neanche una dei predecessori. Fra queste ce n’è una che ha ripetuto più volte e sulla quale immagino ci sia il consenso di tutti, ovvero che stiamo vivendo una «terza guerra mondiale a pezzi»[1]. Uno di questi «pezzi», il conflitto in Ucraina, ci riguarda più da vicino poiché provoca ogni giorno da tempo distruzione e morti e per il fatto che dal punto di vista del rapporto fra le Chiese ha causato allontanamenti, divisioni e discordie per i quali occorreranno anni e anni di cammino di ricucitura.

Per tal motivo è così significativo che la Festa della Assunzione[2] come la chiama la Chiesa cattolica o della Dormizione come viene definita nelle Chiese d’Oriente venga celebrata liturgicamente da tutte queste comunità lo stesso giorno del 15 di Agosto. Per l’intero mese così canta di gioia la Chiesa d’Oriente nella liturgia:

«Nella tua maternità sei rimasta vergine, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio. Sei stata trasferita alla vita, tu che sei la Madre della Vita e riscatti le nostre anime dalla morte con la tua intercessione»[3].

La convinzione che il corpo di Maria, la Vergine madre, non abbia subito la corruzione del sepolcro risale alle prime comunità giudeo-cristiane. Il nucleo più antico (II-III secolo) dell’apocrifo detto Dormitio Mariae contiene infatti già la narrazione, fantasiosa quanto al racconto ma univoca quanto al contenuto, del trasporto di Maria al cielo. E a Gerusalemme, è noto, esisteva una tradizione ininterrotta riguardo al luogo della sepoltura (o della temporanea deposizione) del corpo della Vergine in quella tomba del Getsemani sulla quale, verso la fine del IV secolo, l’imperatore Teodosio I fece costruire una chiesa. Proprio dalla celebrazione che il 15 Agosto si teneva in questo antico centro di culto mariano fu ripresa la data della festa della Dormizione di Maria estesa nel IV secolo a tutto l’oriente cristiano[4]

Sia i testi occidentali, da Gregorio di Tours (538 ca.- 594) a Pio XII che adottò la precisione terminologica richiesta da un pronunciamento dogmatico, che le antiche opere dei Padri della Chiesa, su tutti quelli di Giovanni Damasceno (676 ca.- 749) con i suoi ripetuti “era conveniente”[5], esplicitano il contenuto di fede di questa festa mariana e si rifanno al tema della vita. Una vita incorruttibile di cui la Theotòkos è immagine privilegiata e da qui il simbolismo della luce che pervade sia le rappresentazioni artistiche in occidente (da Tiziano a Tintoretto e Guido Reni), che le immagini iconografiche bizantine; sia la trama dei testi liturgici, che le preghiere di invocazione in oriente, come questa molto antica che recita:

«Maria, ti preghiamo, Maria luce e madre della luce, Maria vita e madre degli apostoli, Maria lampada d’oro che porti la vera lampada, Maria nostra regina, supplica tuo Figlio»[6] .

Naturalmente oltre la tradizione che risale al tempo delle Chiese unite è la sacra Scrittura, e i racconti evangelici in particolare, la fonte a cui attingere il motivo di tanta attenzione data a Maria, la Madre del Signore. Se oggi noi celebriamo il transito di Maria presso Dio è perché Lei stessa ha declamato il passaggio di Dio nella sua esistenza, come espresso nel brano evangelico di oggi [cfr. Lc 1, 39-56]. In risposta al saluto di Elisabetta Maria pronuncia le parole del Magnificat, che distolgono l’attenzione da lei e la fanno volgere totalmente al Signore. Non lei ha fatto nulla, ma il Signore ha fatto tutto: questo è il significato basilare del Magnificat. Questo inno, infatti, celebra il Dio che in Maria ha fatto tutto perché la vicenda di Maria ha Dio come soggetto. E il fare di Dio in Maria viene da Lei definito come uno sguardo: «Il Signore ha guardato la piccolezza della sua serva» [Lc 1,48]. Questo sguardo divino si posò su di lei fin dal momento preparatorio, trasformandola attraverso la grazia[7], perché divenisse la Madre del Verbo incarnato e l’accompagnerà per tutta la vita, fin sotto la croce dove riceverà la nuova maternità sulla Chiesa nascente e oltre.

Un oltre che Maria già intravede nel brano del Magnificat quando elenca le opere di Dio che si dipanano di generazione in generazione a favore degli umili e degli affamati, mentre i potenti, i ricchi e i superbi già sazi verranno adeguati a differenza dei piccoli che saranno innalzati mentre i potenti, i ricchi e i superbi già sazi verranno deprezzati. Un dramma che, come insegnerà Gesù annunciando il Regno di Dio non avviene nei cieli, ma qui: è storia, è vita nel mondo, vissuta nella carne che nasce e che un giorno morirà. Maria dentro questa storia diviene una protagonista fin dal momento della chiamata, sarà l’amica e modello di chi vorrà percorrere un cammino autentico di fede.

Forse è per questo che solo la Vergine Maria e nessun altro personaggio, in occidente, ha avuto così tante rappresentazioni artistiche che la raffigurano vicina all’esperienza quotidiana degli uomini e delle donne. Quando è stata dipinta con gli abiti propri di un particolare periodo storico, su sfondi che riproducevano la vita di quel tempo, sotto architetture di una specifica epoca, in contesti i più disparati. Dalla Vergine delle rocce di Leonardo, alla Madonna sontuosa di Piero della Francesca, dalla Maria popolana, addirittura una prostituta annegata nel Tevere a cui si ispirò Michelangelo Merisi detto Caravaggio, per seguire con la Vergine con le braccia spalancate dei tanti misteri napoletani, sotto un tempio romano diroccato. Maria ha potuto rivestire i panni della donna di ogni periodo perché Lei più di tutti fu protagonista del mistero grande dell’incarnazione nel quale

«trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro [cfr. Rm 5, 14], e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione…  Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomoHa lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»[8] [Gaudium et spes].

Nei primi secoli, infatti, man mano che la divinità di Gesù smetteva di essere messa in discussione dagli eretici, la Chiesa si occupò del problema opposto: affermare la verità della sua Incarnazione. È in questo contesto che la figura di Maria divenne cruciale e importante, perché la sua disponibilità la legava indissolubilmente al figlio, al Figlio di Dio che si fece carne, nella carne di Lei. «E il verbo si fece carne» dice il Vangelo secondo Giovanni [Gv 1, 14] e gli fa eco Paolo nella lettera ai Galati: «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» [Gal 4, 4-5].

È per questo che nelle chiese quasi subito si iniziò a dire che la carne di Maria dopo aver dato vita al Figlio di Dio non poteva subire l’affronto della corruzione. E se non poteva, la sua collocazione naturale era presso il Figlio dove da lì poteva diventare “di speranza fontana vivace”[9].

«No, tu non sei soltanto come Elia ‘salita verso il cielo’, tu non sei stata come Paolo, trasportata fino al ‘terzo cielo’, ma sei giunta fino al trono regale del tuo Figlio, nella visione diretta, nella gioia, e stai accanto a Lui con grande e indicibile sicurezza… Benedizione per il mondo, santificazione per tutto l’universo; sollievo nella pena, consolazione nel pianto, guarigione nella malattia, porto nella tempesta. Per i peccatori perdono, per gli afflitti incoraggiamento benevolo, per tutti coloro che ti invocano soccorso sempre pronto»[10] (San Giovanni Damasceno).

Questo è il cammino di Maria che anticipa quello di ogni figlio adottato nel Figlio come ha detto Paolo nelle parole su riportate.

Ci sono due icone della tradizione bizantina che ci raccontano molto della festa odierna. La prima è quella dell’incontro fra Maria e sua cugina Elisabetta, che poi è l’episodio che prelude al Magnificat riportato nel Vangelo di questa solennità. In alcune di queste icone le due donne, la sterile e la vergine, si abbracciano strette e i volti vanno a toccarsi quasi che l’occhio dell’una confini con quello dell’altra. Si tratta di un vero incontro fraterno di cui tanto abbiamo bisogno in questo tempo di conflitti e divisioni. Quell’abbraccio e quella fusione di sguardi delle due donne rivela lo scambio del dono che ciascuna ha ricevuto, è una nuova pentecoste nella quale ciascuna riconosce l’altra nella sua peculiarità, nella sua chiamata senza rivalità o gelosie.

L’altra icona è quella propria della Dormitio Mariae che irradia grande speranza e pace. Ho sempre pensato che sarebbe bello, per esempio, collocarla in chiesa durante la celebrazione delle esequie cristiane. Perché in questi tempi di morte ospedalizzata e privatizzata, guardare una scena dove si vede che al momento del trapasso non siamo soli è di grande consolazione. La Vergine è stata dipinta distesa col suo manto che ricorda quello della natività. Pietro si trova a capo del letto e Paolo ai piedi, mentre Giovanni posa la testa sul cuscino come l’aveva posata sul petto di Gesù. Tutti gli apostoli sono chini su di lei così pure qualche vescovo della Chiesa primitiva e il popolo cristiano: non manca nessuno. Nell’antichità i morti scendevano nelle regioni inferiori o venivano traghettati verso di esse. Entravano comunque in una condizione oscura, umbratile. Se guardiamo l’icona possiamo vedere che l’insieme è una barca, uno scafo che non va verso regioni oscure, ma verso la luce.

Tutti gli sguardi dei presenti convergono in basso verso il corpo di Maria disteso orizzontalmente a significare la natura umana. Ora ci aspetteremmo, come dice il dogma, che Maria salisse al cielo. Invece qui è il cielo che scende e sulla linea orizzontale della Vergine appare in linea verticale e centrale la figura del Cristo che occupa la scena, sul cui volto si leggono la forza e la determinazione del Risorto, di colui che ha vinto la morte e tiene in mano una bambina. Mentre la figura orizzontale rappresenta la natura umana adagiata su un manto, la bambina sarebbe l’anima di Maria. Un incontro, dunque, fra visibile e invisibile. Lo spazio orizzontale del sonno/morte viene intercettato da una verticale di luce a formare una croce.

Il punto dove le assi della croce si incontrano è la vita e la luce portate dalla figura del Cristo. Anche la raggiera che lo circonda indica il movimento di risalita del Figlio venuto a prendere sua Madre. Con un’atipica torsione del corpo a destra, verso la testa di sua madre, il Risorto prende fra le braccia l’anima di lei e la sorregge poiché è lui che effettua il passaggio da questa vita all’altra.

Ma la cosa bella è che Gesù tiene in braccio l’anima di sua madre con la stessa tenerezza con la quale lei teneva in braccio lui da bambino. I gesti che la Madre faceva al Figlio, il Figlio ora li ricorda e li strappa alla morte. Abbiamo visto la Madre tenere tra le braccia il Figlio, adesso la situazione è rovesciata ed è il Figlio che porta in braccio Maria. Solo l’amore rende eterne le cose. Cristo risorto porta i segni dei chiodi a indicare che è veramente lui, assunto dall’amore del Padre non poteva rimanere in balia del sepolcro. Così il corpo di Maria che a motivo della maternità è stato tutto in funzione dell’amore non può essere lasciato in balia della putrefazione. Questa festa dell’assunzione è una festa dell’amore e solo gli amanti la possono capire perché loro sanno che ogni gesto di amore sarà ricordato per sempre.

Buona Festa dell’Assunzione a tutti.

dall’Eremo, 15 agosto 2023

 

NOTE

[1] Guerra mondiale a pezzi, vedere in L’Osservatore Romano.

[2] Il Dogma in occidente fu promulgato da Pio XII con la costituzione  Munificentissimus Deus il 1 Novembre 1950.

[3] Tropario t.1 dei grandi Vespri della festa della Dormizione.

[4] Bagatti B., Alle origini della Chiesa, LEV, Roma, 1981, p.75.

[5] San Giovanni Damasceno, In Dormitionem, I, PG 96:«Era conveniente che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Era conveniente che colei che aveva portato nel seno il Creatore fatto bambino abitasse nella dimora divina. Era conveniente che la Sposa di Dio entrasse nella casa celeste. Era conveniente che colei che aveva visto il proprio figlio sulla Croce, ricevendo nel corpo il dolore che le era stato risparmiato nel parto, lo contemplasse seduto alla destra del Padre. Era conveniente che la Madre di Dio possedesse ciò che le era dovuto a motivo di suo figlio e che fosse onorata da tutte le creature quale Madre e schiava di Dio».

[6] Bagatti B., La chiesa primitiva apocrifa, Roma, 1981, pg 75

[7] de La Potterie I., Κεχαριτωμένη en Lc 1,28 Étude exégétique et théologique, Biblica, Vol. 68, No. 4 (1987), p. 377.382

[8] Gaudium et spes n. 22; S. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, nr 8.

[9] Dante, Paradiso, Canto XXXIII, 12

[10] op. cit PL 96, 717 AB.

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Con la sua assunzione al cielo la Vergine Maria è configurata al mistero del Cristo risorto

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica dei Padri de L’Isola di Patmos

CON LA SUA ASSUNZIONE AL CIELO LA VERGINE MARIA È CONFIGURATA AL MISTERO DEL CRISTO RISORTO

L’Assunta è «una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: che tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli, avendo con loro in comune il sangue e la carne»

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Autore
Simone Pifizzi

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Il 15 agosto, nel cuore dell’estate, mentre la maggior parte delle persone affollano i luoghi di villeggiatura per le vacanze, la Chiesa celebra una delle più belle e significative solennità mariane. Così il Santo Pontefice Paolo VI ne parlava:

«La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo; è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: che tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli, avendo con loro in comune il sangue e la carne (cfr. Eb 2,14; Gal 4,4)». [San Paolo VI, Esortazione Apostolica Marialis Cultus, 2 febbraio 1974, n. 6].

Il Cardinale Silvano Piovanelli, Arcivescovo metropolita di Firenze, dipinto olio su tela di V. Stankho (2011)

Il Venerabile Pontefice Pio XII, nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1950) scrive:

«I santi padri e i grandi dottori nelle omelie e nei discorsi, rivolti al popolo in occasione della festa odierna, parlavano della Assunzione della Madre di Dio come di una dottrina già viva nella coscienza dei fedeli e da essi già professata; ne spiegavano ampiamente il significato; ne precisavano e ne approfondivano il contenuto, ne mostravano le grandi ragioni teologiche. Essi mettevano particolarmente in evidenza che oggetto della festa non era unicamente il fatto che le spoglie mortali della Beata Vergine Maria fossero state preservate dalla corruzione, ma anche il suo trionfo sulla morte e la sua celeste glorificazione, perché la madre ricopiasse il modello, imitasse cioè il suo Figlio unico, Cristo Gesù […] Tutte queste considerazioni e motivazioni dei santi padri, come pure quelle dei teologi sul medesimo tema, hanno come ultimo fondamento la Sacra Scrittura. Effettivamente la Bibbia ci presenta la santa Madre di Dio strettamente unita al suo Figlio divino e sempre a lui solidale e compartecipe della sua condizione».

Questa antica testimonianza liturgica fu esplicitata e solennemente proclamata dogma di fede da Pio XII il 1° novembre 1950. A seguire il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, si riconfermava questa dottrina dicendo:

«L’Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria con il suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte» (n. 59).

Il filosofo danese Søren Kierkegaard, più di un secolo e mezzo fa, scattava un impietoso fotogramma di ciò che sembra essere diventata la nostra società: una grande nave da crociera i cui passeggeri hanno dimenticato la meta del loro viaggio e neanche si curano delle comunicazioni sulla rotta date dal capitano, ma sono molto più occupati alle informazioni sul menù del giorno fornite con pedante insistenza dallo chef di bordo.

Alla luce di tante inchieste socio-culturali, la nostra società appare proprio così: schiacciata sul presente, dimentica dell’eternità e con orizzonti sempre più ristretti. Abbiamo cancellato dal nostro vocabolario aggettivi come “duraturo”, “permanente”, “definitivo”. Aveva visto lungo il filosofo quando diceva: «la cosa di cui ha più bisogno il tempo presente è l’eterno». La festa dell’Assunta diventa allora – in questo senso – una boccata di aria fresca che ci viene offerta dall’Eterno per disintossicarci dagli stupefacenti dell’effimero, del provvisorio, del “mordi e fuggi” e ci fa respirare l’aria pura per cui è fatto il nostro cuore: l’aria del cielo.

Nel prefazio proprio di questa festa mariana si prega così:

«Oggi la Vergine Maria, madre di Cristo e Madre nostra è assunta nella gloria del cielo».

Che cosa ha significato questo evento per Maria? La prima lettura – tratta dal libro dell’Apocalisse – ci presenta una «donna vestita di sole» che dà alla luce un bambino. Contro di lei si avventa un «enorme drago rosso» che con ferocia e voracità è pronto a divorare il bambino appena nato; ma questo viene rapito in cielo, mentre la donna trova riparo nel deserto e così si compie «la salvezza del nostro Dio e la potenza del suo Cristo». Nel simbolismo apocalittico, la donna rappresenta la Chiesa, il popolo di Dio che genera il Cristo, asceso definitivamente alla gloria del cielo con la Resurrezione. Contro Cristo, il drago ― il «serpente antico» ― sfoga la sua violenza più feroce e sadica, ma non riesce nel suo intento maligno; allora deve ripiegare sulla terra per inseguire la Chiesa e i suoi figli, ma neanche questo tentativo gli riuscirà. Anche se in questo testo non si parla direttamente di Maria, la liturgia ci propone questo brano per descriverci la Madre di Dio, nella quale la Chiesa riconosce la sua immagine più alta, il gioiello più splendido e prezioso.

Il Vangelo della solennità dell’Assunta ci presenta Maria ― incinta per opera dello Spirito Santo del Figlio di Dio ― che si reca in visita alla cugina Elisabetta, anch’essa miracolosamente feconda. In questa pagina evangelica ci viene donato ― oltre il Magnificat ― il vero motivo della grandezza di Maria e della sua beatitudine, ovvero la sua fede. Elisabetta la saluta con l’elogio più bello e più significativo che sia stato rivolto a Maria e che si potrebbe ― più fedelmente ― tradurre così: «Beata colei che ha creduto: ciò che le è stato detto, si compirà».

La fede è il cuore della vita di Maria. Non è la candida illusione di un buonismo ingenuo che pensa alla vita come una nave che scivola tranquilla verso il porto della felicità. Maria sa che sulla storia pesa la brutalità dei prepotenti, la boria sfacciata dei ricchi, la sfrenata arroganza dei superbi. Per i credenti, la salvezza non avviene senza l’esperienza della lotta e della persecuzione. Ma Dio ― Maria lo crede e lo canta ― non lascia soli i suoi figli, ma li soccorre con premura misericordiosa, rovesciando i criteri della storia scritta dagli uomini («ha rovesciato i potenti dai troni … ha disperso i superbi … ha rimandato i ricchi a mani vuote»).

Il Magnificat lascia intravedere il senso compiuto della vicenda di Maria: se la misericordia di Dio è il vero motore della storia, se è l’amore di Dio che avvolge per sempre tutta l’umanità, allora «non poteva conoscere la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita» (Prefazio). Non poteva finire sotto un cumulo di terra una donna come Maria che, concependo l’umanità del Figlio di Dio, aveva il cielo incorporato nel suo grembo. Ma tutto questo non riguarda solo Maria. Le «grandi cose» fatte il lei ci toccano nel profondo e in maniera irreversibile; parlano alla nostra vita e ricordano alla nostra memoria corta e svagata la meta che ci attende: la casa del Padre.

Guardando a Maria e confrontando alla sua luce la nostra vita comprendiamo che noi su questa terra non siamo dei vagabondi, con tanti affanni, con qualche momento di piacere raro e inusuale, alle prese con gusto amaro del dolore; e non siamo neanche i giocosi naviganti di una nave da crociera che un destino avverso tenta di guastare a tutti i modi e che alla fine si interrompe con un irreparabile e fatale naufragio. Come quella di Maria, la nostra vita è un pellegrinaggio, certamente incerto e faticoso e talvolta anche sofferto e penoso… una «valle di lacrime». Sì, ma costantemente accompagnato dal Signore Gesù che con noi cammina «tutti i giorni fino alla fine del mondo». È un pellegrinaggio che ha una meta sicura, l’incontro con quel Padre che tergerà le lacrime dei suoi figli affinché non ci sia più né pianto, né lutto, né lamento, né dolore.

Dio Padre fa risplendere «per il suo popolo», pellegrino sulla terra, un segno di consolazione di sicura speranza” (Prefazio); un segno che ha il volto di Maria, la pienamente beata perché ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore.

«Nel ventre suo si raccese l’amore» recita l’inizio del XXXIII canto del Paradiso di Dante che si apre con la Lode di San Bernardo alla Vergine Maria, posta alla testa di coloro che sono stati rigenerati dal medesimo amore e alla fine riceveranno la vita in Cristo, dopo che egli avrà annientato l’ultimo nemico, la morte (cfr. II lettura).

Non siamo quindi destinati a penare tutta la vita per ritrovarci alla fine magari con un cospicuo conto in banca, una macchina di lusso, una bella casa ma con la prospettiva di andare a marcire nei pochi centimetri cubi di un gelido loculo al cimitero, Siamo destinati a condividere la gloria di Maria, perché anche noi ― per grazia ― siamo simili a lei: figli con il cielo incorporato nel nostro DNA spirituale. Perciò ci rivolgiamo a lei perché, mentre si dipana il nostro pellegrinaggio terreno, rivolga a noi i suoi occhi misericordiosi, ci rischiari la strada, ci ricordi la meta e ci mostri, dopo questo esilio, Gesù il frutto benedetto del suo grembo.

Per un moto del cuore e per un bisogno di doverosa, struggente e grata memoria, vorrei concludere questa meditazione con le parole del Vescovo che mi ha ordinato presbitero, il Cardinale Silvano Piovanelli, autentico innamorato della Madonna. Il Cardinale concludeva tutte le sue splendide omelie con un accenno mariano che per noi, allora giovani seminaristi in servizio alla Cattedrale, era il segno che l’omelia stava per finire e dovevamo prepararci per l’offertorio! Così il Cardinale si rivolgeva ai fedeli in Cattedrale il 15 agosto del 1995:

«Le parole del tuo canto, o Maria, risuonarono dinanzi ad Elisabetta sulla montagna di Giuda. Oggi risuonano in questa Cattedrale a te consacrata, nelle innumerevoli chiese dedicate al tuo nome e dovunque si raccoglie la comunità cristiana. Risuonano soprattutto in quel santuario intimo che è il cuore di tante donne e di tanti uomini e nella coscienza profonda dei popoli poveri e sconfitti che custodiscono a tutti i costi la speranza. Tu, Maria, hai intonato un canto che cresce nel corso della storia, perché è il canto dell’umanità redenta. Noi vogliamo cantarlo con te. (…) Il canto al Vangelo proclama: “Maria è assunta in cielo; esultano le schiere degli angeli”. Se gli angeli esultano, noi abbiamo motivo di esultare di più; essi la onorano come Regina, noi la veneriamo come Madre; essi la guardano come Colei che li ha raggiunti nella gloria, noi come Colei che ci chiama a raggiungerla nella gioia, desiderosa com’è di portare a termine il compito che Dio le ha affidato dall’alto della croce. Rallegriamoci tutti nel Signore. Amen».

Firenze, 15 agosto 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La Chiesa come barca sulla tempesta è una attualità e realtà già raffigurata da Cristo stesso che ci fornì la soluzione della fede

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA CHIESA COME BARCA SULLA TEMPESTA È UNA ATTUALITÀ E REALTÀ GIÀ RAFFIGURATA DA CRISTO STESSO CHE CI FORNÌ LA SOLUZIONE DELLA FEDE

Gesù aveva già tentato di prendere una barca per andare in un posto e lì isolarsi, dopo aver saputo della fine violenta del Battista, ma il tentativo venne frustrato dall’accorrere della gente per la quale provò compassione

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Esistono fin dai tempi antichi molte rappresentazioni artistiche della barca come immagine della Chiesa, di cui si narra nella pagina evangelica di questa domenica. Ma non esistono, almeno a me non constano, raffigurazioni di Gesù che si ritira da solo a pregare. Salvo il caso del Getsemani, preludio della sua passione. Forse perché è più difficile rendere visibile artisticamente un’esperienza interiore, spirituale e privata. Eppure nel Vangelo i due momenti stanno insieme, chi ha composto questa pagina ha voluto che l’uno non si reggesse senza l’altro. Eccola:

«Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”» [Mt 14, 22-33].

Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Cristo nella tempesta sul mare di Galilea

Gesù aveva già tentato di prendere una barca per andare in un posto e lì isolarsi, dopo aver saputo della fine violenta del Battista [Mt 14,12], ma il tentativo venne frustrato dall’accorrere della gente per la quale provò compassione. Non solo, davanti alla fame delle persone e all’impotenza dei discepoli[1] compì il gesto della moltiplicazione dei pani. Un atto che fu frainteso, stante anche la tradizione giovannea che dice:

«Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo […] “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”» [Gv 6, 15-26].

Questo preambolo probabilmente spiega il rigo iniziale: «E subito costrinse i discepoli a salire su una barca». Non conosciamo le intenzioni nascoste di Gesù e possiamo fare solo ipotesi. Forse l’azione frettolosa unita alla costrizione dei discepoli a salire sulla barca aveva lo scopo di sottrarre lui e il gruppo che lo seguiva dallo snaturamento del significato teologico del gesto che aveva compiuto sui pani e, come attesta Giovanni, al fraintendimento del tipo di messianismo che Gesù intendeva e nel quale i discepoli potevano crogiolarsi. O forse perché effettivamente sentì l’urgenza di stare solo, su un luogo elevato a pregare. Per l’evangelista Matteo il monte è un luogo significativo. Grazie a lui il discorso delle beatitudini prende il nome di Discorso della Montagna. Su un monte Gesù si trasfigurò e su un’altura ormai risorto consegnò ai discepoli il mandato missionario [cfr. Mt 28, 16-20]. In questo caso è il luogo della solitudine e della preghiera. Gesù, nel capitolo sei di Matteo, aveva messo in guardia dalla preghiera ipocrita di chi vuol farsi vedere, preferendo quella nascosta, nel segreto della stanza [cfr. Mt 6, 5-6] e che soprattutto fosse rivolta a Dio chiamandolo nella forma intima e personale di “Padre”. Poco più avanti insegnò la preghiera comunitaria del Padre nostro che tutti conosciamo. Ciò che possiamo dire è che Gesù cercava questo rapporto personale, da solo a solo, con Dio, non uno qualsiasi, ma con il Padre suo. Nella preghiera sappiamo che Gesù, anche grazie ad altre tradizioni evangeliche, percepisse vivissima la sua coscienza filiale.

Ma c’è di più. Matteo dice che Gesù rimase staccato dai discepoli, invisibile dai suoi mentre intanto scendeva la sera e il buio. La barca coi discepoli a bordo aveva già guadagnato miglia da terra e il vento contrario la sballottava, rendendo la situazione precaria e pericolosa. È evidentemente una descrizione della situazione della Chiesa nel periodo post pasquale. L’episodio che ora si svolge ― Il cammino di Gesù sulle acque [Mt 14,24-33] ― riveste infatti una dimensione simbolica: il testo è metafora del cammino della Chiesa nella storia, nel tempo tra la Pasqua e la parusia. Gesù è in alto, sul monte, a pregare [cfr. Mt 14,23]: ovvero, è il Risorto che sta alla destra di Dio nei cieli e intercede per i suoi che sono nel mondo. Proprio questo importante rivestimento teologico e simbolico ha fatto dire anche a studiosi moderati[2] che l’episodio avesse poco o nullo valore storico. La qual cosa non toglie significato a un’esperienza che travalica il tempo e giunge fino a noi. Ovvero quella di una Chiesa che si muove su un elemento non stabile, con l’oscurità che impedisce di vedere i contorni, il vento che designa le contrarietà insite in ogni epoca, le onde che provocano turbamenti e nausea. Infine Pietro che se in altre circostanze ha espresso una fede forte e matura, qui manifesta una fiducia titubante e debole. E soprattutto in tutti l’incapacità di vedere il Signore che provoca sconvolgimento interiore e paura.

Matteo descrive la scena collocandola sul più ampio fondale del racconto dell’Esodo e della traversata del Mar Rosso, per significare che quello che i discepoli stanno facendo è un approdo verso la salvezza. Come già  nell’esodo dall’Egitto, anche ora i protagonisti sono in grave difficoltà e preda della paura. La presenza di Gesù che cammina sulle acque è evidente richiamo al Dio che ha salvato il suo popolo e che ha dominato le acque del mare:

«Sul mare la tua via [o Dio], i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme non furono riconosciute» [Sal 77,20]; «Così dice il Signore che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti» [Is 43,16].

In particolare, il nostro testo contiene rimandi al capitolo quattordicesimo dell’Esodo in cui si narra il passaggio del mare. Se Gesù avanza verso i discepoli alla «quarta veglia della notte» ― ετάρτῃ δὲ φυλακῇ τῆς νυκτὸς [Mt 14,25], il momento della salvezza per i figli d’Israele, quando Dio mette in rotta gli inseguitori egiziani, scocca «alla veglia del mattino» [Es 14,24]. Per i figli d’Israele, il passaggio non è solo geografico, ma è anche passaggio liberatorio dalla paura [Es 14,10-13] al timore del Signore [Es 14,31]; è passaggio dal «vedere» l’avvicinarsi degli inseguitori [Es 14,10] al vedere la mano potente con cui il Signore li aveva salvati [Es 14,31]. La presenza del vento forte accomuna ancora i due racconti [Es 14,21; Mt 14,24]. Gesù si presenta ai discepoli dicendo «Sono io» [Mt 14,27], con un’espressione che corrisponde al Nome di Dio rivelato nell’Esodo: «Io sono». Insomma, siamo di fronte al cammino della Chiesa, cammino pasquale, cammino di salvezza, ma di una salvezza che non è così facilmente discernibile perché frammista a situazioni di contraddizione e sofferenza.

A questo punto sarebbe forte la tentazione di applicare questa narrazione alle vicende attuali della Chiesa. Ma chi conosce un po’ la storia sa benissimo che non è mai esistito un periodo tranquillo e pacifico per essa e che oggi non è più difficile che in altri momenti. Né che Pietro è più o meno fedele oggi che in altre epoche storiche, anzi. Il Concilio ha maturato una visione della Chiesa che la definisce così:

«(Essa) è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»[3].

Quindi una realtà umana che conserva tutte le sue fragilità a cui è stata accordata la grazia della chiamata e della missione. E allora, se la Chiesa incontrerà sempre difficoltà, se onde e venti ne sballotteranno per tre veglie notturne la barca, qual è il dramma vero nel quale essa potrà incappare e dal quale sarà difficile uscirne se non attraverso una chiave particolare? È il dramma di ritenere Gesù, il Signore, un fantasma! «E sconvolti dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».

Per questo scrivevo all’inizio che le due scene che compongono l’odierna pagina evangelica vanno a designare un unico quadro e sono inscindibili. Come giustamente notò Origene[4] Gesù quasi obbliga i discepoli a traversare il mare della storia, con tutte le difficoltà e le vicissitudini che questo comporta, quasi separandosi da loro, ritornando al Padre. Possiamo immaginare le difficoltà che essi ebbero dopo la morte di Gesù, al sentire che era Risorto, nel riconoscerlo vivo e vincitore della morte. Matteo lo segnala nell’ultimo capitolo prima del congedo: «Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono» [Mt 28, 17]. Però è a questi discepoli di poca fede che assicurerà una presenza costante, di natura diversa che la precedente, ma ugualmente efficace: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» [Mt 28, 20].

Egli, dunque, non si è separato da noi, come temevano quei discepoli sulla barca tremolante e lo stesso Pietro che disse: «se sei tu»; ma il necessario ritorno al Padre, simboleggiato dal suo salire sul monte da solo a pregarlo, è avvenuto perché Dio potesse essere “tutto in tutti” e l’amore di Lui e la sua salvezza, potessero essere riconosciuti nella Chiesa che diventa da ora in poi sacramento di unione col Signore e di unità degli esseri umani come diceva il Concilio.

Così giungiamo all’ultimo atto, a quella chiave o, visto il contesto, quella vela che permette di percorrere la traghettata senza paura, cioè la fede. Ce lo insegna l’episodio di Pietro che voleva camminare sulle acque come Gesù, ma sprovvisto di fede piena. Una tentazione pericolosa che può cogliere ogni stagione della vita della Chiesa, forse anche l’attuale. Quella di svuotare Cristo, di renderlo un fantasma o un ectoplasma ― Phanstasma estin, Φάντασμά ἐστιν ― mentre la Chiesa è intenta in altre cose, affaccendata in chissà quale opera preziosa o in qualche sistemazione delle sue strutture. Il Vangelo, come giustamente nota Origene, non dice che Pietro non avesse fede, ma che ne aveva poca[5]. Anche Elia, narra il primo libro dei Re nella prima lettura di questa domenica, condivide con Pietro una situazione di pericolo di vita. Dio gli passa accanto, ma non sarà presente nelle realtà rumorose ed eclatanti, come nel massacro dei profeti di Baal, bensì in una “sottile voce silenziosa” (Qol demamah daqqah דַקָּֽה דְּמָמָ֥ה ק֖וֹל)[6].

Il rimprovero di Gesù a Pietro, il suo stendere la mano e afferrarlo sono tutte azioni sacramentali che diverranno esemplari per la Chiesa. Gesù, infatti, non rimprovera Pietro affinché resti semi affogato nell’inadeguatezza, ma perché, attraverso questo momento veritativo, divenga consapevole della situazione in cui si trova e la mano di Gesù che lo afferra è un gesto di salvezza, guarigione e cambiamento, parabola di ciò che la Chiesa fa coi sacramenti che moltiplicano nel tempo l’amore e la grazia del Signore. 

La presenza di Gesù, colta attraverso la fede, sottile voce silenziosa, è fondamentale perché la barca che è la Chiesa ritrovi la sua tranquillità e i discepoli finalmente riconoscono la pienezza della forma divina del Signore, non più visto come un fantasma: «Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».

Chiudo con una frase di un famoso libro di Dietrich Bonhoeffer:

«Il sì e l’amen sono il terreno sicuro sul quale poggiamo. Perdiamo continuamente di vista in questo tempo sconvolto la ragione per la quale merita vivere. Ci è consentito vivere continuamente vicino a Dio e in sua presenza e allora non c’è più niente di impossibile per noi non essendoci niente di impossibile per Dio. Nessuna potenza terrena può toccarci senza il volere di Dio e la miseria e il pericolo ci portano più vicino a Dio»[7].

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 13 agosto 2023

 

NOTE

[1] «Ma Gesù disse loro: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”. Gli risposero: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qui”» (Mt 14, 16-18).

[2] John Paul Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Volume 2, Mentore, messaggio e miracoli, 2002

[3] Lumen Gentium 1.

[4] «Può dunque darsi, ritornando al testo, che i discepoli sentendosi a disagio lontani da Gesù, non possano separarsi da lui neppure per caso, perché vogliono rimanere con lui; ma lui, giudicando che debbano avere la prova dei flutti e del vento contrario, che non ci sarebbe stato se fossero stati con Gesù, impone loro l’obbligo di staccarsi da lui e di salire sulla barca” (Origene, Commento al Vangelo di Matteo, Citta Nuova, 1998, pg. 215.

[5] Op. cit. Pg 218.

[6] 1Re 19, 12. La Bibbia Cei traduce: «il sussurro di una brezza leggera». Il testo masoretico ha: «Una voce sottile silenziosa».

[7] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, San Paolo, 2015.

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Contro il vento del mondo, in fuga dalla incredulità che ci fa annegare

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

CONTRO IL VENTO DEL MONDO, IN FUGA DALLA INCREDULITÀ CHE CI FA ANNEGARE

La fede infatti «è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela». Dunque è una risposta che diamo a Dio e che certi giorni può essere più certa ed altri più insicura.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari Lettori dell’Isola di Patmos,

ogni persona divenuta nostra amica si conosce sempre guardandola in viso, vedendo il suo sguardo. Poi sentendo le sue parole, nasce in noi una iniziale simpatia che può essere confermata tramite i gesti che esprime per noi, divenendo così amico. Nel bene e nel male, chi siamo e chi è il prossimo viene sempre testimoniato dai nostri gesti e parole. Questo accade anche nel Vangelo di oggi, in cui Gesù si fa riconoscere nella filiazione divina proprio a partire dalle sue azioni.

Nelle ultime settimane abbiamo ascoltato diversi discorsi in parabole del Signore. In questa XIX Domenica del tempo ordinario troviamo un episodio accaduto in mezzo al mare. Ecco il passaggio: dal discorso all’azione di Gesù. Perché Dio accompagna sempre ogni Sua Parola verso di noi con un gesto e un segno concreto.

In questo passo del Vangelo Gesù chiede agli Apostoli di salire sulla loro barca, che poco dopo si trova in mezzo a una tempesta e costretta a navigare contro vento. Questa situazione vissuta dagli Apostoli possiamo un po’ accostarla a noi oggi. Tradizionalmente, la barca, i Padri della Chiesa l’hanno sempre interpretata come il simbolo della Chiesa, il vascello di Cristo che ci fa navigare nelle acque del mondo. Anche oggi la Chiesa è nella tempesta col vento che le soffia contro, immersa in una società contemporanea contraria a qualsiasi invito o qualsiasi valore della nostra fede. La Chiesa, composta da tutti che la formiamo, clero, religiosi e laici, si muove in acque tempestose contro il vento delle mode materialiste.

Anche noi come credenti ci troviamo in questa condizione nelle situazioni più concrete: in famiglia, sul lavoro, con gli amici. Ancoriamoci alla forza e alla grazia di Gesù che davvero può aiutarci a essere testimoni credibili e credenti. Il Signore stesso porge un segno ai suoi Apostoli, per incoraggiarli ad andare avanti e perseverare anche navigando in tempesta e controvento. Vuole dare un segno per testimoniare che egli è il Figlio di Dio. Per questo si mette a camminare sulle acque, mostrando che le acque che avversano la barca gli sono sottomesse. Vuole mostrare agli Apostoli che affidandosi veramente a Lui con fede profonda, riusciranno a calmare quella tempesta. Questa la reazione degli apostoli:

«Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”»[Mt 14,22-33].

Pietro decide di camminare sulle acque, ma affonda, rischia di annegare. Così Gesù, rapidamente, lo raggiunge e gli mostra la sua incredulità che lo ha spinto a non affidarsi a Lui. Lo prende per mano e non lo fa annegare. Poi risale sulla barca con Pietro e, finalmente, la tempesta cessa. Solo in questo momento gli Apostoli lo riconoscono come Figlio di Dio.

Quelle di Gesù sono parole rivolte a tutti noi, spesso increduli e aridi, incapaci di affidarci a Lui. Anche noi credenti possiamo vivere questi momenti di aridità, li hanno vissuti anche molti santi e mistici, basti pensare alla “notte oscura della spirito” vissuta per quarant’anni da San Giovanni della Croce.

Troppo spesso vogliamo fare da soli a prescindere dalla grazia, o senza la grazia, come dice il Santo Padre, rischiando così di cadere nel pelagianesimo, quella eresia del V secolo che pretendeva che l’uomo si salvasse e facesse cose buone con sue sole forze. Al contrario, con parole che sento dolci e comprensive, Gesù dice a noi, come a Pietro, di avere una fede semplice e di affidarci a Lui. Impieghiamo la nostra responsabilità, la nostra virtù, doniamo a Gesù una fede vera e Lui saprà trasformare ogni momento della nostra vita in un capolavoro, dove bloccheremo tutte le tempeste spirituali ed esistenziali.

Gesù oggi ci esorta a prendere coscienza della nostra incredulità, per fare il passo di uscirne fuori, per fuggire da questa poca fede e dire anche noi «Davvero tu sei il Figlio di Dio e sei Signore della mia vita».

Chiediamo al Signore la grazia della fede viva e operante nell’amore, per poter guardare con occhi contemplativi e pieni di sapienza tutto il mondo, affinché il mondo ci possa restituire il progetto e lo sguardo D’Amore che Dio ha per tutti noi.

Così sia.

Santa Maria Novella in Firenze, 13 agosto 2023

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Le parabole non bastano mai, perché non passano e parlano all’eterno

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LE PARABOLE NON BASTANO MAI, PERCHÈ NON PASSANO E PARLANO ALL’ETERNO

«C’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare»

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Come un pittore che terminata l’opera appone la sua firma a lato del quadro, così Matteo, con una frase, sigla la pagina del Vangelo dove ha raffigurato, in forma narrativa, le parabole di Gesù, un intero discorso dedicato al Regno di Dio:

«Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» [Mt 13, 52].

Matteo il pubblicano [Mt 9,9] è divenuto ormai lo scriba sapiente che ha veduto compiersi in Gesù l’opera di reinterpretazione dell’antico deposito della fede, portando alla luce realtà nuove e inaspettate. Perciò invita i suoi lettori e i discepoli a diventare quei proprietari che non tengono solo per sé la ricchezza della novità insospettata del Regno, ma sanno anche offrirla generosamente.

L’abbondanza sulla bocca di Gesù delle parabole che descrivono il Regno di Dio non deve sorprendere, come pure la moltiplicazione di metafore, simboli e immagini. Perché esse vanno a comporre una realtà che continuamente eccede e supera ogni umana misura, pur rispettandola. Il Regno essendo appunto di Dio non è possibile circoscriverlo o rinchiuderlo in un’unica formula. Le diverse parabole sulla bocca di Gesù esprimono la complessità e la polisemia di questa nuova realtà teologica e chi le ha raccolte, come sarà per i Vangeli che sono quattro e non uno solo[1], ha sentito che ponendole una accanto all’altra, tutte insieme, avessero qualcosa di importante da dire riguardo al Regno di Dio che Gesù inaugura, spiega e rende presente.

Ma ecco finalmente la pagina evangelica di questa XVII domenica del tempo per annum:

«In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”».

L’ultima parabola è di tenore escatologico e la sua collocazione alla fine diviene importante poiché apre una finestra su come Gesù si poneva rispetto al mondo. La rete da pesca altrove, per esempio nell’ultimo capitolo del quarto Vangelo[2], simboleggiava ormai la missione della Chiesa e la necessità che tradizioni diverse — in quel caso la sinottica e quella giovannea — rimanessero unite perché quella era l’intenzione del Signore che aveva invitato i discepoli a pescare[3]. In questa circostanza la rete che viene tirata in barca è metafora del giudizio finale poiché si parla esplicitamente di “fine del mondo” o della storia.

Permettetemi di fare a questo punto una piccola digressione che spero non ecceda i limiti di questo commento al Vangelo domenicale. E ormai assodato che la predicazione di Gesù fosse improntata a una visione escatologica. Almeno da quando Albert Schweitzer agli inizi del ‘900 in un celebre libro pose fine all’esegesi liberale e alla prima tappa della ricerca sul Gesù storico affermando che lo stesso non poteva che essere pensato se non escatologicamente[4].

Nella sua predicazione Gesù si spinse oltre il pensiero dell’apocalittica giudaica che prevedeva un immaginifico evento futuro. Per lui esso è una realtà che è già oggetto di esperienza, un evento attuale in cui è ricapitolata la totalità della storia. il Regno di Dio in quanto tale, cioè il pieno dispiegamento della sua sovranità redentrice, non si è ancora realizzato, ma il tempo della fine è giunto e dunque, propriamente parlando, non c’è più sviluppo storico, bensì ricapitolazione di tutta la storia chiamata a giudizio. In Gesù e nella sua predicazione avviene come un processo di condensazione per cui il tempo si fa brevissimo. “Il tempo è compiuto ed è vicino il Regno di Dio: convertitevi, e credete nell’evangelo” [Mc 1, 14-15]. Ciò che qui viene annunciata è l’ora (il kairós) del compimento definitivo, l’avvento promesso del Regno, la grande svolta del mondo inaugurata da Gesù di cui sta per compiersi l’ultimo atto con la sua parusia. E il discepolo vive nel tempo condensato che va dalla risurrezione alla parusia. Per questo ora, a differenza dell’escatologia giudaica, occorre “fede nell’evangelo”, cioè in Gesù Cristo, nel Messia, che è presente come colui che è venuto e che viene[5].

Il giudizio su questo mondo certo avverrà alla fine, dice l’evangelo, ma il mondo stesso, nella predicazione di Gesù è entrato nella fase escatologica. Non si capirebbero altrimenti le esigenze radicali di Gesù rivolte ai discepoli e la sua lotta col maligno. Che non è lotta contro il mondo, ma contro colui che illude il mondo di poter essere autosufficiente, senza Dio e quindi di poter trovare senso solo in sé stesso e nelle sue realizzazioni. Contro questa potente illusione Gesù annuncia il Regno di Dio e contestualmente guarisce e risana e perfino fa risorgere dei morti.

Trovo illuminante questa affermazione sul cristiano che probabilmente uno come Frederick Nietzsche poteva controfirmare:

«Per questo, per questa sua coscienza nichilistica, la presenza del cristiano è insopportabile, e doppiamente insopportabile; perché nega significato alla radicale volontà di esserci e, dunque, nega la volontà di potenza, ma allo stesso tempo patisce in se stesso la passione del mondo. Egli non si sottrae all’aspirazione del mondo alla felicità, perché il Regno non è altro da questo mondo; e perciò egli vuole e si adopera per la felicità nell’ordine profano che continuamente trapassa, ma sa che nella felicità non è possibile permanere, poiché essa stessa aspira a trapassare. È il punto in cui il cuore si spezza: nella felicità estrema come nell’estremo dolore. Di questo  i Vangeli danno la rappresentazione sublime»[6].

Tutto questo preambolo che spero non sia stato prolisso mi serve per dire che le parabole di Gesù non sono affatto raccontini della buona notte, ma vanno prese tremendamente sul serio. E, tornando sui nostri binari, ci permette di capire le prime due parabole del Vangelo odierno. In entrambe due uomini trovano qualcosa di nuovo — poiché nelle parole e nei fatti di Gesù il Regno è il “novum” — e vendono tutto quello che hanno per farlo proprio[7]. Mentre il mercante è già uno scopritore di belle perle (καλοὺς μαργαρίταςkaloùs margarítas) e in questo senso è qualcuno che sta cercando qualcosa di straordinario e probabilmente di unico che manca alla sua collezione. Il primo, un uomo non ben identificato, invece, trova fortuitamente un tesoro. Forse per questo di lui viene sottolineata anche la gioia, perché il ritrovamento non se lo aspettava.  In tutti e due ciò che è centrale è il trovare ciò che finalmente basta alla loro vita e che preclude ad ogni ulteriore cercare. E’ a questo punto che mettono in vendita tutto quel che possiedono per acquistare ciò che hanno finalmente trovato. Essi devono aver compreso il valore unico e definitivo del Regno, ciò per cui val la pena rischiare tutto. Non c’è altro tempo da aspettare che questo o ulteriori tentennamenti, poiché questo è il tempo del compimento.

I due personaggi del Vangelo mettono così in atto un comportamento sapiente. Probabilmente è per questo che i curatori della Liturgia hanno accostato la pagina di Matteo alla vicenda del giovane Salomone che nella prima lettura di questa domenica cerca di ottenere da Dio «Un cuore docile» [1Re 3,9], ma riceve in contraccambio da Lui una perla ancor più preziosa, quella  di «un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te» e anche molto di più in ricchezze e gloria [1Re 2, 12-13].

A proposito della perla, Sant’Agostino, acutamente nota che il mercante cercava più perle, al plurale, e alla fine trova la singola perla per eccellenza che è Cristo, il Verbo in cui tutto si riassume:

«Quell’uomo, che cercava perle preziose, ne trova una veramente di gran pregio e, venduto tutto ciò che possedeva, la compra. Questo tale, dunque, nel ricercare uomini buoni con i quali vivere con profitto, ne incontra soprattutto uno che è senza alcun peccato: il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Forse anche egli era alla ricerca di precetti, osservando i quali potesse comportarsi bene con gli uomini, e incontrò l’amore del prossimo, nel quale da solo, al dire dell’Apostolo, sono contenuti tutti gli altri. Infatti non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza e ogni altro comandamento sono le singole perle che si riassumono in questa massima: Ama il prossimo tuo come te stesso. O, forse, si tratta di un uomo che è alla ricerca di concetti intellegibili e trova colui nel quale tutti sono contenuti, cioè il Verbo, che era in principio, era presso Dio ed era Dio: il Verbo luminoso per lo splendore della verità, stabile perché immutabile nella sua eternità e sotto ogni aspetto simile a se stesso per la bellezza della divinità: quel Verbo che quanti riescono a oltrepassare la copertura della carne identificano con Dio»[8].

Mi permetto di chiudere questo commento al Vangelo dell’odierna domenica riportando un apologo di M. Buber sul sognare di cercare e alla fine trovare. Poiché le parabole non bastano mai. 

«Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripetè per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin li dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel!”. E rise nuovamente. Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel”. “Ricordati bene di questa storia — aggiungeva allora Rabbi Bunam — e cogli il messaggio che ti rivolge: c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare”»[9].

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 30 luglio 2023

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NOTE

[1] Il Vangelo quadriforme [cfr. Dei Verbum 18; Ireneo, Adv. Haer., III, 11, 8: PG 7, 885)

[2] Gv 21, 3.6.11

[3] «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto… Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: “Signore, che cosa sarà di lui?”. Gesù gli rispose: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”» (Gv 21, 20.22)

[4] Albert Schweitzer Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, pp. 744 sgg.

[5] «Vieni Signore Gesù» (Ap 22, 20)

[6] Gaeta G., Il tempo della fine, Quodlibet, p. 96

[7] «Va’, vendi quanto possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21)

[8] Sancti Aurelii Augustini, Quaestionum septendecim in Evangelium secundum Matthaeum liber unus, PL 35

[9] Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Einaudi, 2023

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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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