ALDO MORO AL MARE IN GIACCA E CRAVATTA, VESCOVI E PRETI IN MUTANDE, NOI “PRETI RIGIDI” CHIAMATI “FARISEI” E “FORMALISTI” SE OSIAMO FARE RICHIAMI ALLA DIGNITÀ SACERDOTALE
«Quando andavamo in spiaggia, papà indossava sempre la giacca e quando gli chiedevo una spiegazione lui mi rispondeva che essendo un rappresentante del popolo italiano doveva essere sempre dignitoso e presentabile».
In questi giorni di calura estiva mi è capitata tra le mani la foto di un nostro statista italiano del Novecento, Aldo Moro, ritratto assieme alla figlia mentre passeggiava sulla spiaggia in giacca e cravatta. La figlia Agnese ricorda:
«Quando andavamo in spiaggia, papà indossava sempre la giacca e quando gli chiedevo una spiegazione lui mi rispondeva che essendo un rappresentante del popolo italiano doveva essere sempre dignitoso e presentabile» (cfr. QUI, QUI).
Foto 1963: Aldo Moro (1916-1978) con la figlia Agnese (1952) a passeggio sulla spiaggia in piena estate
A quei confratelli che non trovando di meglio si rivolgono a me come direttore spirituale o come confessore, sovente ripeto:
«Ciascuno di noi, forse senza neppure rendersene conto, ha come propri modelli quei sacerdoti conosciuti nei delicati anni della fanciullezza».
Ci sono fatti e situazioni in cui si ha la chiara percezione che non tanto siamo invecchiati, ma che siamo considerati vecchi da coloro che hanno trasformato la Chiesa visibile in un teatrino del burlesque.
Quando ero fanciullo andavo per due settimane a una colonia estiva organizzata dalla parrocchia e gestita dalle suore. Non avrei avuto bisogno di andare alla colonia per recarmi al mare, dove i miei familiari avevano delle residenze estive. Più volte mi recai anche con mia nonna materna sulle coste francesi in soggiorno estivo presso sua sorella. I miei genitori mi mandavano a quelle colonie marine, poi in seguito a quelle montane sopra l’Aquila, affinché trascorressi dei periodi di tempo con i miei coetanei.
Nel mese di agosto, all’inizio della colonia marina, tra le 10 e le 11 del mattino giungeva in visita inaugurale il vescovo della diocesi accompagnato dal parroco e dal suo segretario. Bambino di dieci anni che ero ― parliamo quindi di cinquant’anni fa ― tutt’oggi ricordo il vescovo con la sua talare filettata di rosso violaceo e gli altri due presbiteri con quella nera. All’epoca in Italia, l’uso delle talari bianche, era consentito solamente da Napoli in giù. Dopo il saluto rivolto a noi bambini ― come usava all’epoca e come per molti di noi seguita a usare tutt’oggi ―, a uno a uno andammo a baciare la mano destra al vescovo. Quando fu il turno mio, dopo avere baciata la mano al vescovo guardai lui e gli altri due preti e gli domandai se non avessero caldo. Il vescovo sorrise assieme agli altri due e mi rispose:
«Sì abbiamo caldo, molto! Se però un giorno ti capiterà di vedere un pastore in mezzo al gregge delle sue pecore, noterai che è sempre vestito da pastore, in estate e in inverno. Le pecore il proprio pastore lo riconoscono anche per com’è vestito. Pure il lupo che cerca di aggredire le pecore, se riconosce il pastore sta lontano e non si avvicina».
Da allora è trascorso mezzo secolo esatto, eppure ricordo sempre, non solo le parole, ma persino il tono di voce di quel vescovo, morto ormai da trentacinque anni all’età di novant’anni. Oggi invece, taluni vescovi e preti new generation, dinanzi a racconti di questo genere sorridono, ti lanciano uno sguardo misto a tenerezza e pena, poi, come si dice ai poveri nostalgici, rispondono: «Ma cosa vai a pensare e rinvangare, erano altri tempi!». Siamo sicuri che la dignità e il decoro sacerdotale siano roba di altri tempi?
Nei giorni addietro a Roma si moriva di caldo, tra Borgo Santo Spirito, Borgo Pio e Via della Conciliazione era perlopiù un andirivieni di preti con le camicie a mezze maniche scollacciate, per non parlare delle suorine con le t-shirtbianche che lasciano intravedere i lacci del reggiseno in trasparenza, ed alle quali verrebbe da domandare perché portino il velo in testa, in quelle tenute sarebbe meglio andare senza. Volendo, con il caldo, potrebbero fare a meno anche del reggiseno, se le tette non gli arrivassero all’ombelico. Poi ci sono gli immancabili vescovi con la camicia scollacciata a mezze maniche e la croce pettorale dentro il taschino, affinché il pezzo di catenella lasciata in vista dia l’immagine del “potere” tramite quella che una volta si chiamava “croce pettorale”, oggi si chiama invece “croce panzorale”, perché non sta più sul petto ma pendente sulla panza, oppure “croce tascorale”, perché riposta dentro il taschino della camicia.
Percorrendo Borgo Pio, in direzione di una traversa che si trova poco prima della fine, ben tre gruppi di persone hanno fermato me, il “prete rigido” con la talare addosso, malgrado il caldo; e mi hanno chiesto la benedizione alcuni latinoamericani, altri due gruppetti di persone se potevo benedirgli degli oggetti religiosi appena acquistati. Come di prassi ho benedetto le persone e gli oggetti. Tra questi un giovane mi ha chiesto se non avessi caldo. Gli ho risposto che da sempre soffro molto il caldo e che stavo andando proprio alla lavanderia a ritirare le mie due talari bianche di lino leggero che avevo portato a lavare e che avrei indossato se quel caldo fosse continuato o peggio aumentato. Detto questo ho chiarito:
«Il decoro e la dignità sacerdotale si può manifestare sia vestiti sia mezzi nudi con due stracci sporchi addosso. I nostri vescovi e sacerdoti martiri, morti nei campi di concentramento nazisti o nei gulagcomunisti, non erano forse rivestiti anch’essi di grande dignità? Ma siccome noi non siamo né dentro i campi di concentramento né dentro i gulag, è bene stare vestiti dal collo alle caviglie, anche quando fa caldo».
Ho usato altre parole, rispetto a quelle che usò quel vescovo con me mezzo secolo fa, ma la sostanza era quella e l’effetto prodotto penso sia stato lo stesso. Da buon prete “rigido” nessuno mi ha mai visto girare in pantaloncini corti, figurarsi entrare dentro le chiese per celebrare la Santa Messa in quelle condizioni. Nessuno mi ha mai visto al mare in costume da bagno in mezzo alla gente, le pochissime volte che durante l’estate ci vado, all’incirca tre o quattro volte, mi reco in posti isolati e spopolati dove non conosco nessuno e dove nessuno conosce me. Questioni di … rigidità.
O come dicono alcuni cari detrattori ai quali sto particolarmente simpatico e che vagano tranquillamente in braghe di tela dopo avere fatto sei o sette anni di fantastica formazione nel santissimo seminario:
«Non prestategli attenzione, lui non fa testo, non ha fatto nemmeno il seminario, è un rigido!».
Alla prova dei fatti è il caso di dire: «Grazie a Dio!», semmai ricordando a questi lacunosi in storia della Chiesa, oltre che in dottrina cattolica, che il seminario non lo fecero neppure Giovanni Paolo II, Paolo VI e prima di loro neanche Pio XII, quest’ultimo spacciato per allievo dell’Almo Collegio Capranica, dove però stette solo due o tre mesi, giusto per poter dire che era passato per il corridoio di un seminario romano prima di essere ordinato presbitero e catapultato il giorno dopo alla Pontificia Accademia Ecclesiastica. Il privilegio di non avere fatto il seminario non mi concederà certo di diventare Sommo Pontefice, spero però possa concedermi di santificarmi.
Sicuramente, il santissimo seminario, lo ha fatto il Vescovo di Vallo della Lucania, fotografato sorridente in mutande e messo sulla pagina socialdella sua Diocesi con tanto di goliardica maglietta indosso dell’8X1000 (cfr. QUI), a riguardo del quale qualcuno si domanda pure: come mai da anni, questo gettito a noi destinato dai contribuenti italiani, non è più neppure in calo, ma in caduta libera? Può essere che dipenda da mancanza di rigidità e dalle formazioni eccelse date nei nostri santissimi seminari ai nostri vescovi e preti new generation?
Siccome secondo il meglio del peggio del clericalese ― proprio quello che si impara nei santissimi seminari ―, la tecnica consolidata è quella di rovesciare i fatti e dare poi addosso a chi ha rivolto critiche del tutto legittime, conoscendo certe psicologie pretesche faccio presente che la pronta replica circa il fatto che la foto sarebbe stata rubata da qualcuno e poi pubblicata, non regge; soprattutto perché è stata pubblicata in un primo tempo sulla pagina socialdella Diocesi con tanto di messaggio ufficiale e poco dopo rimossa. La domanda è infatti a monte e va ben oltre la foto in sé: un vescovo di sessant’anni in condizioni fisiche tutt’altro che toniche e sportive, con abbondanza di pancia e grasso superfluo addosso, è opportuno che faccia il giovincello scendendo nel campo di calcio? A questa domanda pertinente ne segue poi una seconda: i giovani e meno giovani di oggi, sempre più poveri di Cristo e analfabeti in materia di dottrina e di fede, il Vescovo, lo preferiscono in cattedra a insegnare e trasmettere quelle verità di fede ormai perdute, oppure a fare le partite di calcio in una sorta di patetica riedizione delle vecchie e divertenti partite tra scapoli e ammogliati?
Dall’Isola di Patmos, 28 giugno 2024
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2019/01/padre-Aiel-piccola.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Padre Arielhttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngPadre Ariel2024-06-27 16:04:422024-06-27 16:04:42Aldo Moro al mare in giacca e cravatta, vescovi e preti in mutande, noi “preti rigidi” chiamati “farisei” e “formalisti” se osiamo fare richiamo alla dignità sacerdotale
VERGOGNE DEL SACERDOZIO CRESCONO E SI MOLTIPLICANO
Le spiegazioni a questa vignetta che con due pennellate irride Gesù Cristo e gli Apostoli, non dovrebbe fornirle il presbitero veronese Giovanni Berti, ma chi ha l’obbligo di vigilare sulla corretta ortodossia dei preti.
Dinanzi a questa irridente vignetta,vorremo che quanti sono preposti a vigilare sulla retta dottrina dei preti — e pare che questi preposti si chiamino vescovi, termine derivante dal greco ἐπίσκοπος, che significa vigilante / colui che sorveglia — ci illuminassero su come dobbiamo interpretare certi passi del Beato Apostolo Paolo. Nell’eventualità, è opportuno cancellarli dalle Sacre Scritture? O potrebbe essere sufficiente evitare di dire «Parola di Dio» al termine della proclamazione di certi passi, spiegando ai Christi Fideles che l’Apostolo era in grave errore? Scrive infatti Paolo:
«Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l’uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento» (Rm 1, 24-27).
E ancora:
«O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (I Cor 6, 9-10).
Sarà inoltre opportuno, sempre alla luce della illuminante vignetta di Giovanni Berti in arte Gioba, cancellare anche questo passo dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
«L’omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni (cfr. Gn 19,1-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,9-10; 1 Tm 1,10), la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati” (Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.Persona humana, 8: AAS 68 (1976) 85). Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati […] Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (nn. 2357-2358)
Siamo sicuri che Gesù Cristo, a quelli che praticavano «l’altra sponda» abbia detto «… ma va bene così, eh, eh …» e che un presbitero possa diffondere questo messaggio irridente nella totale indifferente di chi dovrebbe vigilare sull’ortodossia dottrinale e morale dei preti?
dall’Isola di Patmos, 24 giugno 2024
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2024-06-24 15:22:562024-06-24 15:49:55Vergogne del sacerdozio crescono e si moltiplicano
«FISCHIA IL VENTO INFURIA LA BUFERA … » E INTANTO GESÙ DORMIVA
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Per chi crede, non c’è da temere nulla, perché tutto concorre al bene, se si ama Dio; anche le tempeste della vita. Soltanto, la paura spesso ha il sopravvento e quando questo accade ci scopriamo tutti persone sfiduciate.
Conoscevo un bravo sacerdote che quando qualcuno, in occasione di una morte, gli chiedeva una frase da scolpire su una lapide o apporre su un biglietto del ricordo suggeriva sempre questa del Vangelo odierno: «Venuta la sera, Gesù disse: Passiamo all’altra riva». Molti rammentano la meditazione del Papa su questa pagina evangelica in occasione della pandemia, il 27 Marzo 2020, in una Roma e Piazza San Pietro deserte. O le parole del predecessore, Papa Benedetto XVI, ad Auschwitz:
«Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?».
Ci sono infatti momenti nella vita delle persone, o della storia, in cui Dio sembra assente e non curante degli uomini. È quanto accade nel Vangelo di oggi, quando i discepoli, spaventati dalla tempesta, dissero a Gesù: «Maestro, non t’importa che moriamo?» (Mc 4,38). Ecco il brano del Vangelo di questa domenica:
«In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”» (Mc 4,35-41).
L’episodio evangelico si colloca al termine di una giornata che Gesù ha dedicato alla predicazione, stando seduto su una barca appena discosta dalla riva (cfr. Mc 4,1-34). Ma giunta sera decide di passare all’altra riva del mare di Galilea, uscendo dalla terra di Israele, per andare verso una regione abitata dai pagani, i gerasèni. Egli probabilmente desidera annunciare la misericordia di Dio anche alle genti, vuole combattere Satana e togliergli terreno anche in quella terra straniera e non santa. Questa è la ragione che muove Gesù. Molti commentatori hanno visto le somiglianze fra questo episodio e la vicenda di Giona: chiamato da Dio ad andare a Ninive, città simbolo delle genti pagane, fugge e fa un cammino in direzione opposta (Gion 1,1-3). Gesù, invece, inviato da Dio, va tra i pagani. Egli appare dunque come un Giona al contrario: non riluttante, ma missionario verso i pagani e obbediente a Dio. In ogni caso, Giona e Gesù sono due missionari della misericordia divina, ed entrambi la predicano a caro prezzo: scendendo nel vortice delle acque e affrontando la tempesta (Gion 2,1-11), poiché solo attraversandola si vince il male. E Gesù dirà che alla sua generazione sarà dato solo il segno di Giona (cfr. Mt 12,39-41; 16,4; Lc 11,29-32), poiché i pagani ascoltandolo si sono convertiti. Ma in Lui c’è anche «più di Giona» (Mt 12,41), anticipando così che dopo la discesa nelle acque oscure e profonde della morte sarebbe risorto per vivere per sempre.
I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago, «prendendo con sé Gesù». Questa è un’espressione strana, perché di solito è Gesù che prende con sé i discepoli (cfr. Mc 9,2; 10,32; 14,33). Ma per quello che abbiamo detto prima è possibile che sullo sfondo ci sia anche la situazione di una comunità cristiana alla quale Marco si rivolge, forse proprio la chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero, che teme la tempesta e resta frenata dalla paura, tanto da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco li invita a non temere l’uscita missionaria, li sprona a conoscere le prove che li attendono come necessarie; prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (Mc 10, 29-30).
Così si capisce anche il sonno di Gesù. Siamo consapevoli del fatto che la sua giornata di predicazione è stata lunga e probabilmente stancante tanto che sentiva il bisogno di riposare e si assopisce. Questa intenzione è frustrata dal brusco risveglio da parte dei discepoli, poco aggraziati nella versione marciana, perché nel frattempo si era levata una tempesta che smuovendo le onde che si rovesciavano nell’imbarcazione rischiava di farli affogare. In più è sera, l’ora delle tenebre che incutono paura. E poi c’è il mare che nella Bibbia rappresenta il grande nemico, il regno dei grandi abissi (cfr. Sal 107,23-27); solo Dio lo aveva vinto quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cfr. Es 14,15-31).
«Maestro, non t’importa nulla che siamo perduti?». Già questo modo di esprimersi è eloquente: lo chiamano maestro (didáskalos), con parole brusche contestano la sua inerzia e il suo dormire. Parole che nella versione di Matteo diventeranno una preghiera: «Signore (Kýrios) salvaci, siamo perduti!» (Mt 8,25); e in quella di Luca una chiamata: «Maestro, maestro (epistátes), siamo perduti!» (Lc 8,24).
Anche di Dio, può sembrare strano, nella Bibbia si dice che dorma: «Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre» (Sal 44,24), sono le parole del salmista, quando si trova nella sofferenza e nella prova. Anche Isaia grida al Signore «Svegliati, svegliati, rivestiti di forza, o braccio del Signore. Svegliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni passate» (Is 51,9). Com’è possibile che Dio dorma?
C’è un detto antico dei filosofi giunto fino a noi attraverso la formulazione di Erasmo da Rotterdam: Naufragium feci, bene navigavi, ho fatto naufragio, ma ho navigato bene. Esso ci ricorda che la crisi, sotto forma di tempesta, raggiunge chiunque, qualsiasi navigatore che attraversa la vita; e può cogliere in modo inaspettato e sorprendere, a volte non c’è modo di evitarla.
Tornando per un attimo alle somiglianze ma anche alle disparità fra l’episodio evangelico e la vicenda di Giona, notiamo che al profeta titubante non importa nulla degli abitanti di Ninive. Gesù, al contrario col miracolo risponde alle accorate parole dei discepoli: «Non t’importa che moriamo?». Egli grida al mare e li salva. C’è un bellissimo commento, molto profondo, a questo episodio evangelico da parte di Sant’Atanasio: «Svegliarono la Parola, che era sulla barca con loro, e immediatamente il mare si placò» (Lettera 19.6). Con la Parola è stato creato il mondo: «Dio disse: «le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto» (Gen 1,9), e ora Gesù con la sua parola ricompone quell’equilibrio tra il mare e la terra. Egli ripete il miracolo narrato nel salmo: «Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque» (Sal 74,13). «Svegliarono la Parola», quella che avevano udita per tutto il giorno e che adesso, nell’ora buia, sembra assopita e tacere. Ma la parola di Gesù è una potenza in atto, lo abbiamo udito nel Vangelo di domenica scorsa: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce». A Dio importa di noi.
La scena si chiude con l’invito di Gesù alla fede: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Per chi crede, non c’è da temere nulla, perché tutto concorre al bene, se si ama Dio; anche le tempeste della vita (Rm 8,28). Soltanto, la paura spesso ha il sopravvento e quando questo accade ci scopriamo tutti persone sfiduciate. Ma sul pericolo scampato prevale lo stupore e i discepoli si domandano chi è Gesù. Le parole che finora egli ha detto nel vangelo di Marco, i miracoli che ha compiuto guarendo e liberando gli indemoniati, non sono nulla di fronte a un così grande miracolo che coinvolge la natura, la creazione stessa. Bisognerà attendere, però, la fine del Vangelo per sapere chi è Gesù. Ma sappiamo anche ormai che Egli è il Cristo risorto e glorioso che parla a noi attraverso il Vangelo. Perché allora temere? Scriveva Sant’Agostino:
«Se in noi c’è fede, in noi c’è Cristo […] La presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono. Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia. E’ quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l’insulto è il vento, l’ira è il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme… Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque, scuotere la fede…» (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 49/19).
Si tratta allora di svegliare quella fede che consente di fare nostre le parole del salmista: «Il Signore è la mia luce e la mia salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò paura?» (Sal 27,1); di non soccombere alla paura: «Nell’ora della paura io in te confido» (Sal 56,4).
«Nel pericolo ho gridato al Signore: mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo. Il Signore è per me, non ho timore: che cosa potrà farmi un uomo? Il Signore è per me, è il mio aiuto, e io guarderò dall’alto i miei nemici» (Sal 118, 5-7); di non temere alcun male: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4).
Dall’Eremo, 23 giugno 2024
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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)
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LA LOGICA DI ALESSANDRO MINUTELLA: «GLI ALTRI FANNO PEGGIO». FORSE SÌ, PERÒ SONO SCALTRI E STANNO ZITTI
Se un avversario subisce una disfatta gioirne non è cristiano, affondare un colpo non è umano. Neppure elargire giudizi morali è opportuno, non spetta a noi farlo, mentre le sentenze date in via definitiva sono di pertinenza dei tribunali, non degli umori dei social media o di chicchessia. Minutella merita umano rispetto proprio perché ha subìto una solenne disfatta, ma altrettanto umano rispetto meriterebbero anche quelle persone semplici e ingenue che si sono messe al suo seguito e che da giorni sta rassicurando con racconti surreali, presentando loro un’altra realtà.
La struttura di Piccola Nazaret fondata da Alessandro Minutella, presbitero panormitano incorso in scomunica per eresia e scisma, poi dimesso dallo stato clericale, dopo due sentenze del Tribunale amministrativo Regionale della Sicilia per irregolarità edilizie, una del 2023 (vedere QUI) e una del 2024 (vedere QUI), è stata acquisita dal patrimonio del Comune di Carini come disposto dal decreto esecutivo (vedere QUI).
«Si stanno accanendo contro di noi per due archi che sono stati chiusi, roba di appena 20 metri quadrati» (Alessandro Minutella da “Santi e Caffè” del 21.06.2024, ore 9:15, Canale YouTube di Radio Domina Nostra). Nella foto: gli «appena 20 metri quadrati» ripresi con il satellite nel maggio 2024.
Se un avversario subisce una disfatta gioirne non è cristiano, affondare un colpo non è umano. Neppure elargire giudizi morali è opportuno, non spetta a noi farlo, mentre le sentenze date in via definitiva sono di pertinenza dei tribunali, non degli umori dei social media o di chicchessia. Minutella merita umano rispetto proprio perché ha subìto una solenne disfatta, ma altrettanto umano rispetto lo meriterebbero anche quelle persone semplici e ingenue che si sono messe al suo seguito e che da giorni sta rassicurando con racconti surreali, presentando loro un’altra realtà. Motivo per il quale, basandoci rigorosamente sui fatti oggettivi e atti, non su interpretazioni soggettive, riteniamo doveroso offrire una fedele sintesi dell’accaduto, nella totale aderenza a quanto narrato dalle sentenze motivate emesse dal Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia.
Su un terreno nel Comune di Carini (Palermo) è concessa licenza nel 2007 per realizzare un piccolo stabile rurale a uso agricolo. Appena iniziati i lavori il Minutella ordinò agli operai di modificare il progetto e quello che avrebbe dovuto essere un piccolo fabbricato a uso agricolo diventa una cappella di circa 180 metri quadrati. Quando in seguito a segnalazione i Vigili urbani vanno a verificare se stava costruendo in conformità alla licenza edilizia concessa, scoprono tutta una serie di irregolarità e un primo processo di cementificazione effettuata. A quel punto è emessa un’ordinanza che gli ingiunge di procedere all’immediato ripristino dello stato originario in conformità al progetto approvato e alla concessione edilizia concessa. In questo servizio fotografico del 2013 è documentato il processo di cementificazione dell’area rurale.
La prima sentenza del TAR del 2017 (vedere QUI), a seguire quella del 2018 (vedere QUI), fotografa e dettaglia in tutti i particolari questa situazione. Anziché proporre appello Minutella cambia però le carte in tavola e d’improvviso il terreno risulta essere non più suo ma di altra proprietà. Si torna così di nuovo al TAR, che sentenzia che non è certo il cambio di intestatari a sanare il tutto. Frattanto, alle vecchie difformità già contestate, si sono aggiunti il pozzo d’acqua “miracolosa”, la piscina della “aspirante Lourdes sicula”, un’ulteriore colata di cemento per realizzare all’esterno la cosiddetta cappella del Volto Santo di Manoppello, muri e cementificazioni sparse in ogni dove visibili e documentate dalle immagini riprese via satellite prima e dopo la realizzazione delle cementificazioni. Tutte queste opere sono state dichiarate abusive, sebbene l’interessato tenti di negare nei propri video l’evidenza dei fatti, presentandosi in veste di vittima perseguitata.
Minutella afferma da settimane nei suoi pubblici video che questo «accanimento persecutorio» scatenato nei suoi riguardi e verso «un’opera voluta dalla Madonna» si baserebbe su «piccolissime difformità», indicando ora una finestra, ora un paio di archi chiusi. Più volte ha precisato che le costruzioni realizzate in quest’area sono di legno e come tali smontabili (vedere suoi video QUI, QUI, QUI, etc..), omettendo però di precisare che sono state erette su di un terreno agricolo sopra basi cementificate con un massetto di 20 cm. successivamente piastrellato, con relativi impianti elettrici e idrici tutt’altro che regolari e conformi alle normative di sicurezza. A suo dire queste sarebbero piccole cose insignificanti realizzate in zone nelle quali ― ironizza ― l’abusivismo trionfa ovunque, vale a dire: gli altri fanno cose peggiori (vedere suoi video QUI, QUI, QUI, etc..).
La difformità urbanistica non dipende da «due archi chiusi» ma dal fatto che nel piano regolatore questo terreno a uso agricolo non era destinato a edificio di culto. Peraltro, per poter costruire una chiesa ― che si tratti di una cappella o di un edificio adibito in ogni caso al culto ―, a trattare con le autorità amministrative non può essere un prete dimesso dallo stato clericale dichiarato con sentenza della suprema autorità ecclesiastica non più membro del clero e della Chiesa Cattolica, ma solo l’ordinario diocesano del luogo peculiare, secondo le leggi che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa a norma del Concordato del 1929 revisionato nel 1984. Pertanto, un qualsiasi soggetto che dalla sera alla mattina ritenesse opportuno dichiarare che l’attuale è una «falsa Chiesa Cattolica governata da un falso Papa» e che loro, denominati «piccolo resto», sono invece la vera Chiesa Cattolica, non ha titolo giuridico per chiedere e trattare con i competenti organi amministrativi l’erezione di luoghi di culto, non costituendo lui e i suoi associati né un ente religioso di diritto pubblico né una associazione di culto riconosciuta dallo Stato. Questo il motivo per il quale S.E. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale, nella cui giurisdizione canonica rientrava la cittadina di Carini, con un pubblico decreto del 17 settembre 2015 definì «illecite» le attività del Minutella e «sospette di manipolare le coscienze dei semplici», oltre che «illegittima la costruzione della cosiddetta “cappella” in un terreno di proprietà privata, perché priva della necessaria licenza ecclesiastica» (vedere testo del decreto QUI).
Affermare e lamentare: «Danno spazio a tutti, agli Ebrei, ai Protestanti, ai Mormoni, ai Buddisti … ma non a noi!» è una posa vittimistica irrazionale. Queste associazioni religiose che di tanto in tanto cita sono tutti culti riconosciuti, a partire dall’UCEI(Unione delle Comunità Ebraiche d’Italia), altrettanto le varie aggregazioni cristiane non-cattoliche come la FCEI (Federazione Chiese Evangeliche Italiane) o la Sacra Diocesi Ortodossa d’Italia, per seguire con le aggregazioni non cristiane come l’UBI (Unione Buddisti Italiani) e altre varie che con lo Stato hanno stipulato precisi accordi ottenendo relativi riconoscimenti e tutela come culti ed enti religiosi di diritto pubblico.
I fatti dimostrano che più volte Minutella ha tentato di ottenere concessioni impossibili da concedere ai sensi di Legge ― come per esempio l’erezione di luoghi di culto ― ponendosi in modo aggressivo e irridente verso i pubblici amministratori e le autorità ecclesiastiche del luogo. Così accadde quando nel 2022, trovandosi di passaggio a Trebaseleghe (Padova), territorio canonico della Diocesi di Treviso, colto da ispirazione decise di fondare nel Triveneto il Piccolo Tabor, acquistando su due piedi per 200.000 euro lo stabile di una ex palestra che necessitava di essere interamente ristrutturata. E dopo avere effettuato l’acquisto si rese conto che questo stabile invenduto da otto anni sul mercato era interamente ricoperto da un tetto in eternit, lo smaltimento del quale è costato ― per sua pubblica e ripetuta ammissione ― 60.000 euro (vedere video QUI).
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Trebaseleghe già pubblicava sul suo canale YouTube video giornalieri dove insolentiva tutti i Vescovi del Triveneto (vedere video QUI), a partire dal Patriarca di Venezia, per seguire con gli Amministratori del locale Comune, che non potevano concedere il cambio di destinazione d’uso di uno stabile da palestra a luogo di culto, per i motivi legali già spiegati poc’anzi (vedere video QUI). Per non parlare dell’opportunità e della prudenza, oltre alla conoscenza della storia e della società di zone che tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta hanno sempre costituito la grande roccaforte della vecchia Lega Nord, intrisa di tutte le sue prevenzioni — accettabili o non accettabili che fossero — verso il Meridione d’Italia; e dove forse non aspettavano trepidanti l’arrivo di un siciliano esuberante che irridesse i vescovi della regione e i pubblici amministratori locali.
Vedendo il bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno bisogna prendere in considerazione quando Minutella lamenta che sui terreni confinanti ci sono case che non hanno realizzato abusi, ma che sono proprio costruzioni interamente abusive (vedere video QUI). Poi di seguito ironizza: «Altrove abusi e irregolarità non ci sono … no, è tutto regolare, specie qua in Sicilia!». Più volte ha anche narrato che quando i Vigili urbani si recarono a fare vari sopralluoghi, se ne stavano con le spalle voltate verso le costruzioni limitrofe gravate da altrettanti, se non peggiori abusi edilizi (vedere video QUI).
Chiunque abbia conosciuto e visitato la Sicilia ha potuto vedere, soprattutto in certe zone costiere, delle irregolarità edilizie e degli abusi che in altre parti del nostro Paese, non sono solo impossibile da realizzare, ma sono proprio impossibili da pensare. La differenza che corre tra certi soggetti e il Minutella è che loro, sapendo di avere commesso irregolarità e abusi, stanno zitti, non vanno ad attaccare tutto e tutti in giro per il globo terracqueo. Così funzionano le cose ― in modo sicuramente sbagliato ― all’interno di un Paese come il nostro, che sa essere all’occorrenza corrotto e corruttore da Trieste sino a Porto Palo di Capo Passero, località nota anche come “ultimo sasso siciliano d’Italia”, molto più vicino a Malta che non a Roma.
dall’Isola di Patmos, 21 giugno 2024
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https://i0.wp.com/isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/faviconbianco150.jpg?fit=150%2C150&ssl=1150150Redazionehttps://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2022/01/logo724c.pngRedazione2024-06-21 22:00:432024-06-25 20:32:51La logica di Alessandro Minutella: «Gli altri fanno peggio». Forse sì, però sono scaltri e stanno zitti
«MA NOI SIAMO REGOLARMENTE DIVORZIATI!». IL PROCESSO CANONICO DI NULLITÀ MATRIMONIALE: LA FASE PREVIA ALL’INTRODUZIONE DEL LIBELLO E LA CONSULENZA TECNICA
La Chiesa, madre e maestra, nonché dispensatrice di grazia e misericordia, non ha mai chiuso la porta in faccia, ieri come oggi. Semmai sono certi cattolici, mi si passi l’espressione: tanto ottusi quanto ostinati, che si chiudono le porte in faccia da sé stessi mentre in tutti i modi gli vengono aperte dinanzi.
Come già spiegato in precedenza ― ma vale la pena ripeterlo ― noi canonisti e pastori in cura d’anime ci ritroviamo a vivere anche situazioni così deludenti da apparire spesso disarmanti, oltre che difficili da correggere, specie per quanto riguarda i processi canonici di nullità matrimoniale. Cerchiamo di rendere l’idea: anche se il concetto è facile da comprendere, risulta difficile far capire a molte persone che i matrimoni “non si annullano”, possono solo essere “dichiarati nulli” quando ricorrono elementi e circostanze per dichiararli tali. Spiegazione dinanzi alla quale capita di sentirsi replicare: «…annullare … nulli … ma è la stessa cosa, sono solo giochi di parole dei preti!».
Affermare che matrimonio annullato e matrimonio dichiarato nullo sono la stessa cosa celata dietro giochi di parole, equivale ad affermare che andare in montagna a duemila metri di altezza sotto i ghiacciai o andare al mare sulla spiaggia a temperatura che sfiora i 40 gradi è uguale, perché sempre di una vacanza si tratta. Dinanzi a un’affermazione del genere chiunque coglierebbe immediatamente l’elemento assurdo e illogico, perché le spiagge marine sotto il sole cocente e le alture di montagna sotto i ghiacciai sono due cose sostanzialmente diverse. Nessuno ha la facoltà di “annullare” un matrimonio sacramentale, ciò che la Chiesa può fare, se ricorrono le previste circostanze, è dichiarare che il matrimonio, per quanto formalmente celebrato nel rispetto di tutte le forme esteriori richieste, era carente di uno o più elementi sostanziali che lo rendono invalido, quindi di fatto nullo. A quel punto, il competente Tribunale ecclesiastico, con sentenza motivata di nullità dichiara che quel matrimonio, pur se formalmente celebrato, sostanzialmente e di fatto non è proprio mai esistito.
«Ma noi siamo regolarmente divorziati!», ci siamo sentiti dire più volte da cattolici alquanto confusi ai quali non è facile far comprendere che un Tribunale può sciogliere i vincoli civili derivanti dal contratto matrimoniale secondo i dettami del Codice di Diritto Civile, ma con quell’atto di divorzio non si “scioglie” però il matrimonio sacramentale. Il Concordato tra l’allora Regno d’Italia e la Santa Sede (1929) e quello revisionato tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede (1984) consente che il matrimonio religioso produca i relativi effetti civili. Con un’unica cerimonia sono espletati i due distinti atti: quello religioso e quello civile, con la relativa trasmissione degli atti al Comune che provvede poi a trascrivere il matrimonio sui propri registri ai cosiddetti effetti civili.
Con la Legge del 1° dicembre 1970, n. 898 entra in vigore il divorzio in Italia. Quattro anni dopo, il 12 e 13 maggio 1974 si svolse un referendum abrogativo, promosso dalla Democrazia Cristiana, in particolare dall’area facente capo ad Amintore Fanfani, con il quale si tentò di cancellare quella Legge, ma inutilmente, perché la maggioranza degli elettori votò contro la sua abrogazione.
In uno dei nostri vari colloqui redazionali privati, Padre Ariel S. Levi di Gualdo mi pose un quesito stimolante e provocatorio che reputo opportuno rendere pubblico:
«Come mai, dopo l’entrata in vigore di quella Legge nel 1970 e dopo la sua conferma data dagli italiani con un referendum popolare nel 1974, Paolo VI non chiese coerentemente la riforma del Concordato nella parte inerente il matrimonio? Non avevamo forse appena celebrato un grande Concilio pastorale, paragonato più volte dallo stesso Paolo VI ― forse con enfasi anche un po’ eccessiva ― al Primo Concilio di Nicea? Possibile che nessuno si sia accorto ― peraltro in anni nei quali si parlava solo di pastorale e dove tutto pareva essere unicamente e solo pastorale ― che proprio sul piano pastorale e pedagogico era ormai molto problematico far convivere assieme due atti, quello religioso e quello civile, consapevoli che la legislazione civile era in contrasto con quella religiosa in virtù della legge civile sul divorzio? Perché non abbiamo chiesto noi stessi, proprio a scanso di pastorali confusioni, di ritornare a due atti completamente separati: il matrimonio religioso in chiesa di pertinenza solo della Chiesa, il matrimonio civile in Comune di pertinenza solo dello Stato? O forse, più semplicemente, non potevamo o non volevamo rinunciare a tenere a tutti i costi il piedino nel politico e nell’amministrativo?».
Un quesito apparentemente provocatorio giocato sulla iperbole, ma se inteso e letto bene, più che di provocatorio ha in sé molto di storico, giuridico e pastorale, quanto basterebbe per reclamare risposte. O non erano forse proprio i maestri della scolastica classica che pur di stimolare la speculazione e il ragionamento ricorrevano non solo a discorsi provocatori, ma persino a figure retoriche volutamente assurde? Oggi che invece si è pronti a sentirsi colpiti e offesi di tutto e per tutto, se non peggio spaventati di tutto e per tutto, questa antica sapienza rischia di finire completamente perduta, ed è la sapienza di Anselmo d’Aosta, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino … Peccato, perché questa sapienza, basata essenzialmente e imprescindibilmente sul senso critico, ha generato nei secoli Santi Padri e dottori della Chiesa, scuole teologiche e solidi criteri formativi alla vita sacerdotale e religiosa.
In questo articolo ci soffermeremo sulla fase del procedimento canonico di nullità matrimoniale che precede l’introduzione del libello, ossia il documento introduttivo necessario all’avvio del processo stesso. Titolare di questa prima fase, ai sensi del can. 1674 § 11, possono essere entrambi i coniugi, uno solo di essi, oppure il promotore di giustizia, ma solo «quando la nullità sia già stata divulgata» («cum nullitas iam divulgata est») e non si possa convalidare il matrimonio o non sia opportuno («si matrimonium convalidari nequeat aut non expediat»). Per inciso ricordiamo che il promotore di giustizia è una figura processuale che nell’ordinamento canonico svolge quelle che sono le equivalenti funzioni di un pubblico ministero.
Poniamo quindi l’attenzione ai casi in cui l’iniziativa della fase previa sia assunta congiuntamente dai due coniugi o da uno due: d’intesa con l’altro coniuge o del tutto autonomamente, nell’impossibilità di contattare l’altro o nella sua indifferenza o ancora contro la sua volontà. La scelta di limitare l’attenzione a questa situazione si motiva non solo per il fatto che è certamente la fattispecie più comune ma perché il punto delicato della fase previa all’introduzione del libello è proprio quello che colui (o coloro) a cui compete, possa essere in grado di discernere quando sia opportuno introdurre una causa di nullità e giungere sino alla definizione di una simile volontà con un grado di precisione tale che possa poi essere tradotto nel libello. Mentre i requisiti per conseguire queste finalità sono facilmente accessibili al promotore di giustizia (per competenza propria, can. 1435, e per la possibilità di disporre del sostegno della struttura del tribunale), sono normalmente carenti (salvo il caso del tutto eccezionale in cui i coniugi o uno di essi siano competenti in ambito canonico) nel coniuge. Il non affrontare questa difficoltà potrebbe comportare una negazione di fatto della possibilità stessa di dare avvio a una causa di nullità, a detrimento del diritto dei fedeli di ricorrere al foro ecclesiastico di cui tratta il can. 221 § 1 che recita:
«Compete ai fedeli rivendicare e difendere legittimamente i diritti di cui godono nella Chiesa presso il foro ecclesiastico competente a norma del diritto».
Le valutazioni e le scelte a cui il coniuge è chiamato, nella fase che precede il libello, sono del resto particolarmente rilevanti e complesse da attuare e possono essere così compendiate:
– ripercorrere la propria vicenda sentimentale e coniugale, con verità (non basta la coerenza del giudizio logico, si pensi ad esempio ai casi implicanti la fattispecie di cui al can. 1095, 2°-3°) e una certa terzietà, per farne emergere gli snodi problematici (che non sono solo quelli che hanno condotto al fallimento della vita coniugale, essendo i motivi di nullità talvolta afferenti a cause per sé estrinseche alla qualità della vita di coppia);
– acquisire una consapevolezza adeguatamente motivata dell’impossibilità di superare i motivi di contrasto insorti nella vita coniugale e, nel caso in cui sia già stata assunta la scelta della separazione (o persino del divorzio), confrontarne la coerenza con i principi stabiliti dall’insegnamento morale della Chiesa e dal diritto canonico (cfr. cann. 1151-1155);
– verificare, nel confronto con un esperto, la propria attitudine ad agire come parte attrice in una causa di nullità (cfr. can. 1476 e can. 1478);
– verificare, sempre nel confronto con un esperto, se uno o più dei nodi problematici individuati possano rientrare in uno dei capi di nullità previsti dall’ordinamento canonico o se non vi siano altri nodi problematici sfuggiti alla prima disamina ma che emergano dalla migliore conoscenza della legge della Chiesa (ad esempio l’assistenza alle nozze da parte di un ministro sprovvisto di valida delega, can. 1111 e can. 144) o ancora se non vi siano elementi che non comportino la nullità ma aprono alla possibilità di chiedere lo scioglimento del vincolo per inconsumazione o per favor fidei;
– nel caso in cui vi siano elementi di possibile nullità, definirli con accuratezza e attribuirne la responsabilità;
– definire una ricostruzione organica ed ordinata della vicenda in cui emergano gli elementi di possibile nullità e verificare la possibilità di provare adeguatamente quanto asserito, possibilmente acquisendo già gli elementi di prova accessibili e indicando quelli la cui acquisizione dovrà essere chiesta al tribunale;
– se non è ancora stato fatto, coinvolgere l’altro coniuge o quantomeno individuare gli elementi per la sua reperibilità;
– individuare il foro ecclesiastico competente cui rivolgersi;
– individuare la forma processuale da scegliere: processo breve, processo ordinario o processo documentale;
– in una qualsiasi delle fasi sinora considerate o, se non è stato fatto prima, a conclusione delle azioni precedenti, individuare un patrono che possa assistere il coniuge come attore (o i due coniugi, se agiscono congiuntamente) nel corso del procedimento canonico (salvo il caso in cui la parte voglia chiedere di essere autorizzata a stare in giudizio da sola, come prevede il can. 1481 §3).
Tutti questi articolati adempimenti devono essere ovviamente soddisfatti al momento della introduzione del libello. L’onerosità degli adempimenti cui un coniuge deve sottoporsi nel momento in cui intende chiedere alla Chiesa una verifica della nullità del proprio matrimonio è pertanto davvero notevole. Ci si può chiedere in questo senso se non ci sia una sproporzione esagerata tra il numero (purtroppo ancora molto elevato) di divorzi (almeno nel mondo occidentale) e il numero comunque molto esile delle cause canoniche di nullità introdotte (numero che resta decisamente ridotto anche se considerassimo pure gli scioglimenti). Ovviamente questo aspetto deve essere considerato con una certa cautela, senza cadere in conclusioni superficiali dedotte dalla semplice sproporzione numerica tra i due dati: si consideri a questo proposito che non tutti i matrimoni (già di per sé numericamente limitati, essendo ad esempio il tasso di nuzialità in Italia quello di 2,2-2,3 matrimoni annui per mille abitanti: la metà di quello europeo, a sua volta comunque modesto rispetto ad altre parti del mondo) sono canonici, non tutti i matrimoni canonici che finiscono nella separazione o nel divorzio sono per ciò stesso nulli e non tutti coloro che hanno contratto un matrimonio nullo hanno interesse a una causa di nullità, perché non hanno l’interesse o la forza per realizzare una nuova unione o perché per vari motivi non sono interessati a un giudizio oggettivo sull’esperienza passata.
Nonostante tali osservazioni, è un dato di fatto che i fedeli si trovano in grande difficoltà quando si trovano a valutare se sia il caso di chiedere un giudizio di nullità sul proprio matrimonio e di questo fanno fede le numerose risposte raccolte dalle conferenze episcopali ― ma anche da altri soggetti ecclesiali che sono stati coinvolti nella consultazione ― in occasione dei due Sinodi dei Vescovi sulla famiglia: quello straordinario del 2014 e quello ordinario del 2015. In particolare i dati raccolti nella consultazione hanno messo in luce, prima ancora della difficoltà ad espletare tutti gli adempimenti necessari, una marcata e diffusa diffidenza dei fedeli verso i Tribunali ecclesiastici, che porta alla scelta di rifiutarne previamente l’apporto. Diversi gli aspetti di questa diffidenza:
– il costo eccessivo attribuito a tali procedimenti: sebbene perlopiù si tratta di oneri ben minori ad altri procedimenti giudiziali e alcuni paesi prevedono da tempo forme significative di sostegno economico, questa continua ad essere la convinzione comune;
– il convincimento che si tratti di processi molto lunghi e faticosi (purtroppo in non pochi casi non si tratta solo di un’impressione, anche se questo non vale per tutti i processi e per tutte le sedi);
– l’impressione che si tratti di strutture molto fredde e lontane dall’esperienza dei fedeli, rafforzata talvolta dal fatto che la stessa sede del tribunale è geograficamente distante (e non tutti i paesi hanno la stessa agibilità negli spostamenti);
– la difficoltà psicologica nel pensare di affidare la rilettura della propria vita a persone terze e pensate come potenzialmente poco rispettose del singolo (in questo l’esperienza di alcuni tribunali civili appare talvolta pregiudizievole);
– il convincimento (a volte eccessivo e fuori luogo) che i tribunali ecclesiastici siano arbitrari nel loro agire e ultimamente compromessi con interessi di natura economica.
I giudizi malevoli appena esposti e le difficoltà operative precedentemente ricordate si assommano alfine nell’allontanare i fedeli dai tribunali ecclesiastici e nel fare apparire a molti come difficilmente percorribile la via della richiesta di verifica di nullità del proprio matrimonio. L’opera di molti avvocati e patroni ― tra i quali in modo speciale i patroni stabili ― è stata ed è indubbiamente di supporto nel superare tali difficoltà, affiancandosi al fedele e sciogliendo i suoi dubbi e le sue precomprensioni ma questo non è sufficiente, sia perché anche queste figure ricadono in alcuni dei pregiudizi sopra rammentati ― gli avvocati ecclesiastici spesso non sono conosciuti o sono temuti per l’onorario che possono richiedere e che molti ritengono pregiudizialmente esagerato, anche se in alcuni paesi, come in Italia, esistono criteri ben precisi di limitazione previa delle spese (cfr. Mitis Iudex Dominus Iesus, VI) ―, sia perché in ogni caso non rispondono all’obiettivo di rendere disponibile il fedele incerto e dubbioso a una lettura in sede giudiziaria della propria vicenda. Ne deriva pertanto il dovere di delineare qualche passo ulteriore in favore di un più libero e sereno approccio dei fedeli al giudizio ecclesiastico, come infatti già ricordava Benedetto XVI:
«[…] è un obbligo grave quello di rendere l’operato istituzionale della Chiesa nei tribunali sempre più vicino ai fedeli».
La consulenza previa si articola su tre possibili livelli:
Informazione generica sullo svolgimento del processo, costi, tempistiche, tribunali competenti, centri o persone deputate a una consulenza pregiudiziale, patroni stabili e avvocati cui rivolgersi per una consulenza specifica;
Ascolto più approfondito della vicenda, con un confronto su aspetti anche morali o spirituali, rinviando a centri o persone deputate la consulenza più specifica;
Indagine previa in cui l’indagine pastorale raccoglie gli elementi utili per l’eventuale introduzione della causa da parte dei coniugi o del loro patrono davanti al tribunale competente. Si indaghi se le parti sono d’accordo nel chiedere la nullità. Raccolti tutti gli elementi, l’indagine si chiude con il libello, da presentare, se del caso, al competente tribunale.
Caratteristiche dell’indagine previa:
1) avere lo stile essenziale di ascolto e di accompagnamento;
2) aiutare il fedele a comprendere la sua concreta situazione;
3) aiutare il fedele a ripercorrere il vissuto proprio e quello dell’altro coniuge, cercando di superare i convincimenti personali che non agevolano una lettura il più possibile obiettiva della vicenda, aiutandolo così anche a percorrere la via caritatis indicata dalla esortazione apostolica post sinodale (cfr. Amoris laetitia n. 306);
4) far comprendere meglio il procedimento canonico e le difficoltà che la persona può incontrare nell’intenderne correttamente lo sviluppo;
5) giungere eventualmente alla preparazione del libello, introducendo la causa di nullità.
6) È possibile/opportuno che un giudice del Tribunale faccia un servizio di consulenza? Quanto si riferisce al giudice può essere riferito, con i dovuti adattamenti, al difensore del vincolo, all’uditore, al patrono stabile. Per quanto riguarda l’avvocato, la possibile problematica potrebbe riguardare la sua identificazione tra figura professionale e colui che sembra essere designato “ufficialmente” per seguire le cause di nullità del matrimonio.
Indagine pastorale propriamente detta.
Come segnala in un certo senso già l’art. 1 RP l’indagine pregiudiziale rientra evidentemente in quella sollecitudine pastorale verso i fedeli in difficoltà che il Vescovo diocesano è chiamato a esercitare in forza del can. 383 § 1 (espressamente richiamato dall’art. 1 RP, che però riferisce la norma al Vescovo in generale). Tale sollecitudine rientra anche tra i compiti che il diritto canonico specificatamente riferisce ai parroci nel richiamato can. 529 §1, laddove si ricordano le modalità di esercizio della cura d’anime[1]. In questa fase emergono maggiori aspetti problematici, che rendono difficile ipotizzare una indagine pastorale affidata a un giudice del tribunale (anche se questo pone la questione di riuscire a formare più persone per un servizio qualificato). A tale scopo, fin dall’entrata in vigore del Motu proprioMitis Judex Dominus Jesus con il quale il Santo Padre Francesco introduceva, per le cause di nullità matrimoniale, la formula del “processo breve”, furono a suo tempo individuati, sulla base delle note attuative, le figure dei parroci come interlocutori principali dell’indagine previa all’introduzione del processo di nullità del matrimonio canonico. A tal proposito si è stabilito che il percorso per la procedura della dichiarazione di nullità del matrimonio alla luce del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Jesus del 15 agosto 2015, riguardante la riforma dei processi di nullità matrimoniali preveda due fasi preliminari:
Dopo che il/la richiedente ha contattato e ha avuto un primo colloquio con il parroco di residenza, quest’ultimo chieda appuntamento al consulente legale del Tribunale diocesano che, accertata la fondatezza della domanda ma soprattutto la volontà di iniziare un processo di nullità, preparerà il libello da presentare al Vicario Giudiziale. Allo stesso consulente, la/le parti potranno consegnare la griglia informativa precedentemente compilata dal Parroco.
Il Vicario Giudiziale dopo aver esaminato la situazione potrà ammettere il libello attraverso la forma del Processus brevior (can. 1683-1687) oppure, attraverso la forma del Processo ordinario[2], indirizzare il procedimento giudiziale presso un tribunale collegiale di prima istanza.
A coloro che sostengono «…ma noi siamo regolarmente divorziati!», come sin qui spiegato la Chiesa, madre e maestra, nonché dispensatrice di grazia e misericordia, non ha mai chiuso la porta in faccia, ieri come oggi. Semmai sono certi cattolici, mi si passi l’espressione: tanto ottusi quanto ostinati, che si chiudono le porte in faccia da sé stessi mentre in tutti i modi gli vengono aperte dinanzi. Oggi poi, con i social media, ai quali numerosi attingono come a fonte di indiscussa verità, il nostro ministero si è ulteriormente complicato, molto! E come più volte è stato spiegato sulle colonne di questa nostra Isola di Patmos, quando il cattolico-tipo al quale tu cerchi in ogni modo di spiegare, per tutta risposta ti replica, o meglio ti smentisce proprio affermando: «… non è così perché su internet ho letto che …», a quel punto rischia di risuonare nelle nostre orecchie il tremendo monito che Dante e Virgilio lessero sulla porta dell’Inferno:
«Lasciate ogni speranza o voi che entrate».
Velletri di Roma, 18 giugno 2024
NOTE
[1] Cfr. Costantino-M. Fabris: Indagine pregiudiziale o indagine pastorale nel motu proprio Mitis Judex Dominus Jesus. Novità normative e profili problematici, in: Jus ecclesiae, XXVIII, 2016, pp. 479-504.
[2] Per approfondire la questione: Zambon, A, L’indagine previa e il processo di nullità del matrimonio, Torino, 24 febbraio 2024, Inaugurazione dell’anno giudiziario.
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QUELLA PAROLA DI DIO CHE SOTTRAE L’UOMO ALL’ANSIA MONDANA DELLE STERILI CHIACCHIERE E DELLA SPASMODICA RICERCA DEL SUCCESSO
Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza, come già aveva affermato per mezzo del profeta: «La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»
Nel Santo Vangelo di questa XI domenica del tempo ordinario (anno B) Gesù pronuncia un lungo discorso in parabole che rivolge sia ai discepoli che alle folle richiamate dalla sua predicazione sul Regno veniente:
«In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Diceva: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,26-34).
All’apparenza enigmatico, il linguaggio metaforico delle parabole adoperato da Gesù è il suo modo privilegiato di rivolgersi a tutti, di seminare quel seme della Parola (Mc 4, 14) che può diventare «mistero» per alcuni, coloro che lo seguono più da vicino, che usufruiscono delle sue spiegazioni. Ma altri, che pure «potevano intendere», sono destinati a rimanerne fuori (cfr. «exo», in Mc 3,31-32; 4,11), perfino i parenti più stretti di Gesù: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole».
Gesù parla in parabole perché gli ascoltatori modifichino il loro modo di pensare e diventino capaci di accogliere il nuovo che Egli sta annunciando, in termini di cambiamento del modo di vivere, di sentire, giudicare e operare. Lo fa cogliendo esempi alla portata di tutti o insospettabili paragoni, manifestando una non comune capacità di osservazione del reale e una conoscenza dell’uditorio che solo a tratti si meraviglia della incredulità o incapacità di cogliere l’aspetto nascosto del suo predicare. Nella pericope evangelica di questa domenica, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli come semina della Parola di Dio (Mc 4,1-20), e i due brevi detti, uno sulla lampada «che viene» per essere vista e l’altro sulla misura dell’ascolto (Mc 4,21-25), Gesù narra due ultime parabole che vogliono attestare l’efficacia della Parola seminata. La prima, presente solo in Marco, afferma che:
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa».
Gesù parla nuovamente del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che rimane dal raccolto precedente: è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se viene piantato, allora nella terra marcisce, si disfa e scompare; in realtà, però, genera vita, che diventa un germoglio, poi una pianta, e alla fine apparirà nei suoi frutti abbondanti, addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione dell’originario singolo seme. Per questo motivo la vicenda del seme, nelle parole di Gesù, è adatta ad esprimere il mistero del Regno.
La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è infatti paragonata da Gesù al processo agricolo che ogni contadino conosce bene e che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, rimirando la virtualità celata in quel piccolo seme seccato, che appare addirittura morto. Così è il regno di Dio: piccola realtà, con in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Seminato il seme il contadino non ne ha un controllo speciale, sia che dorma o vegli per andare a controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.
Ecco allora l’insegnamento: occorre meravigliarsi del Regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo e di conseguenza occorre avere fiducia in esso e nella sua forza. E il seme è la Parola che, seminata dall’annunciatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge, né può verificare il processo: di questo deve essere certo. Nessuna ansia, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è Parola di Dio essa darà frutto in modo insospettato.
Di seguito Gesù propone un’altra parabola, ancora su un seme, ma questa volta di senape:
«È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno».
Il Regno è una realtà piccolissima, così come piccolissima era la presenza di Dio tra gli uomini in quell’uomo che era Gesù, da quel minuscolo villaggio di Nazareth Egli percorre le strade di una porzione terra, con un limitato gruppo di discepoli. Eppure questo piccolo seme donato alla nostra umanità diventa un albero grandissimo. Tutto questo in un modo misterioso che chiede semplicemente di accogliere il seme, di custodirlo in un cuore che attende. Non a caso Gesù parla in questa sua parabola solo della semina, mentre tace su tutto il lavoro che viene dopo per far crescere il seme. Tralascia tutto questo non perché non sia importante, ma vuole offrirci la lezione precisa sul fatto che il Regno cresce comunque e non sono gli uomini a dare forza alla sua Parola, né possono fermare la vita che porta in sé. Di nuovo richiama i discepoli a lasciare ogni ansietà per abbandonarsi a questo dono:
«…Viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Così l’idea efficace di Gesù che paragona il Regno al seme, la quale aveva già le sue radici bibliche in quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cfr. Dn 4,6-9.17-19), permane nell’immaginario dei futuri missionari della primissima generazione cristiana. Paolo ricorda che la Parola di Dio può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne semplici, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cfr. 1Cor 1,26). Eppure essa è: «Potenza di Dio» (Rm 1,16). Ma di un’efficacia non mondana, non misurabile in termini quantitativi, perché la Parola del Signore è: «Parola della croce» (1Cor 1,18).
L’Apostolo Pietro sottolinea nel suo scritto che quella stessa Parola diventa un seme di vita immortale e fonte di amore:
«Amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23).
La rivelazione dell’efficacia della Parola di Dio è decisiva per cristiani, perché li sottrae alle ansie mondane del risultato e del successo. Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza, come già aveva affermato per mezzo del profeta:
«La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11).
Dall’Eremo, 15 giugno 2024
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