Il sito della rivista L’Isola di Patmos riapre oggi rinnovato e con una bella notizia: Jorge Facio Lince, Presidente delle nostre Edizioni, è cittadino italiano

— Attualità —

IL SITO DELLA RIVISTA L’ISOLA DI PATMOS RIAPRE OGGI  RINNOVATO E CON UNA BELLA NOTIZIA: JORGE FACIO LINCE, PRESIDENTE DELLE NOSTRE EDIZIONI, È CITTADINO ITALIANO

Senza la vicinanza e la preziosa collaborazione di questo giovane uomo dotato di grandi qualità umane, morali, spirituali e speculative, i Padri de L’Isola di Patmos non sarebbero mai riusciti a realizzare ciò che assieme hanno realizzato nel corso di questi anni.

 

Autore
I Padri de L’Isola di Patmos

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Cari Lettori,

25 gennaio 2022, Jorge Facio Lince, presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos, firma negli uffici della Prefettura la notifica del Decreto del Presidente della Repubblica di conferimento della cittadinanza italiana

I Padri ringraziano la webmaster Manuela Luzzardi che dopo diverse settimane di lavoro ha rinnovato il sito di questa rivista aperta il 20 ottobre 2014. Dal 1° gennaio 2017 al 30 dicembre 2021 L’Isola di Patmos ha superato i 100 milioni di visite. La nostra media è pari a 20 milioni di visite all’anno per un flusso di circa 60.000 visite al giorno. Nel novembre 2018 sono nate le omonime Edizioni L’Isola di Patmos, fondate da Ariel S. Levi di Gualdo e dirette da Jorge Facio Lince. Dietro ai risultati editoriali della nostra opera c’è anche il suo ingegno creativo, il suo impegno e il suo grande lavoro.

 

Il Dott. Jorge Facio Lince, nato a Medellin Antioquia (30.10.1983) da famiglia paterna di origine italiana e famiglia materna di origine spagnola, è un consacrato laico allievo del Padre Ariel S. Levi di Gualdo, che conobbe a Roma nel 2008 e col quale vive e collabora assieme dal maggio 2011. Dopo l’equipollente liceo classico svolto nella scuola cattolica dell’Arcidiocesi di Medellin conseguì in Spagna il master in letteratura classica all’Università di Salamanca, la laurea in filosofia a Roma con specializzazione nella metafisica di San Tommaso d’Aquino e la laurea in teologia alla Pontificia Università Lateranense. Raffinato e colto filosofo, teologo di profonda e solida dottrina, è anche studioso ed esperto in materie storico-artistiche per le quali offre da anni il suo contributo alle attività della storica dell’arte Licia Oddo, allieva e collaboratrice del critico d’arte Paolo Levi, con la quale ha curato diversi cataloghi d’arte per le Edizioni Mondadori.  

 

Senza la preziosa collaborazione di questo giovane uomo dotato di grandi qualità umane, morali, spirituali e speculative, i Padri de L’Isola di Patmos non sarebbero mai riusciti a realizzare ciò che assieme hanno realizzato nel corso di questi anni.

 

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Vi rendiamo partecipi che il 25 gennaio Jorge è stato convocato in Prefettura dove gli hanno notificato il decreto del Presidente della Repubblica di conferimento della cittadinanza italiana. Il 15 febbraio presterà il giuramento di rito, accompagnato da tutti noi.

 

A Jorge esprimiamo gratitudine profonda per il grande lavoro svolto nel corso di questi anni, felici e onorati di avere acquisito un concittadino come lui, del quale conosciamo bene e a fondo le pregevoli qualità.

dall’Isola di Patmos, 31 gennaio 2021

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ma portare, diffondere e difendere la verità non solo ha dei
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oppure potete usare il nostro conto corrente bancario:

Filiale n. 59 di Roma intestato a Edizioni L’Isola di Patmos

IBAN IT74R0503403259000000301118

CODICE SWIFT:  BAPPIT21D21

in questo caso, inviateci una email di avviso, perché la banca
non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un
ringraziamento [ isoladipatmos@gmail.com ].

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L’Isola di Patmos chiuderà alcuni giorni per offrire a breve una sorpresa, sperando anche nell’aiuto dei nostri Lettori

 

L’ISOLA DI PATMOS CHIUDERÀ ALCUNI GIORNI PER OFFRIRE A BREVE UNA SORPRESA, SPERANDO ANCHE NEL PREZIOSO AIUTO DEI NOSTRI LETTORI

Negli ultimi cinque anni (2017-2021), abbiamo superato i 100 milioni di visite, equivalenti a 20 milioni di visite all’anno, 1.700.000 visite al mese, 60.000 visite al giorno. Mai ci saremmo aspettati simili risultati quando il 20 ottobre 2014 entrammo in rete con questa nostra rivista.

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Autore
I Padri de L’Isola di Patmos

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Cari Lettori,

La webmaster Manuela Luzzardi, detta “la madre” de L’Isola di Patmos, creatrice e curatrice del sito della nostra rivista e progettatrice del nuovo sito presto on-line

L’Isola di Patmos è entrata nel suo IX° anno di attività, da quando il 20 ottobre 2014 il sito di questa nostra rivista entrò in rete. Un’idea nata da Ariel S. Levi di Gualdo e realizzata assieme ad Antonio Livi (1938-2020) e Giovanni Cavalcoli, tutt’oggi membro del comitato scientifico delle nostre edizioni.

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Il tutto è stato possibile grazie al cosiddetto obolo della povera vedova [cfr. Lc 12, 41-44], perché la nostra Associazione costituita a fini culturali-religiosi si finanzia solo con le offerte dei Lettori e procede grazie all’impegno del presidente delle edizioni Jorge Facio Lince, della nostra webmaster Manuela Luzzardi che cura anche tutta la grafica delle copertine e dei libri, del nostro prezioso correttore editoriale di bozze Ettore Ripamonti, per seguire con la cura della promozione libraria curata da Licia Oddo, oltre a noi Padri che svolgiamo la nostra attività pubblicistica di redattori e scrittori.

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Mai avremmo immaginato il successo che abbiamo riscosso. Non tardammo ad accorgercene quando tra la fine del 2015 e gli inizi del 2016 cominciammo ad avere problemi con il server che prese a bloccarsi a causa dell’alto numero di visite. Così, sempre grazie all’aiuto dei Lettori, riuscimmo ad affittare un server dedicato su una delle piattaforme americane tra le più sicure, ma anche costose (A2 Hosting Inc. Miami – Florida).

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alcuni titoli delle Edizioni l’Isola di Patmos pubblicati tra il 2019 e il 2021

Il 30 novembre 2018 presero vita le omonime Edizioni L’Isola di Patmos, che offrono a un pubblico di cosiddetta “nicchia” opere di alta qualità per contenuti, stampa e veste grafica.

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Negli ultimi cinque anni (2017-2021), abbiamo superato i 100 milioni di visite, equivalenti a 20 milioni di visite all’anno, 1.700.000 visite al mese, 60.000 visite al giorno.

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Dopo otto anni di attività era giunto il momento di rinnovare completamente il sito che ospita questa rivista, cosa che ha richiesto un grande impegno, soprattutto per le grandi memorie di archivio e i vari servizi e programmi di cui usufruiamo per il nostro lavoro.

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Solitamente chiediamo un contributo ai Lettori una volta all’anno, quando dobbiamo pagare il server dedicato e rinnovare i vari abbonamenti. Questa volta vi chiediamo un aiuto per sostenere le spese del nuovo sito della rivista. Sappiamo bene che tutti chiedono, anche l’ultimo dei blog amatoriali dedito al gossip o al complottismo fantascientifico domanda contributi. Però, chi intende donare o sostenere un’opera, anziché limitarsi a dire “… ma tutti chiedono”, saprà sicuramente valutare e distinguere chi “gioca” da chi invece lavora duramente come noi per diffondere la cultura della fede cattolica e la corretta informazione.

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Venerdì 28 gennaio questo sito risulterà oscurato e non raggiungibile per il tempo necessario a mettere in rete quello nuovo, all’incirca due o tre giorni. Nel mentre siamo certi e fiduciosi di ricevere nel corso di questi giorni le vostre libere offerte per sostenere questa spesa fatta per offrire ai nostri Lettori dei servizi di qualità sempre maggiore. Incluse le persone colpite da disabilità che non possono leggere, a disposizione delle quali abbiamo messo — oltre alla nostra versione stampabile — anche l’audio-lettura degli articoli. E tutto questo ha dei costi in danaro, come ben capite, oltre al nostro instancabile lavoro che è tutto quanto gratis et amor Dei.

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In fondo a questa pagina potete trovare il collegamento al comodo e sicuro sistema PayPal e il numero di conto corrente de L’Isola di Patmos presso la filiale n 59 di Roma della Banca Popolare di Milano (BPM).

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Contiamo veramente sulla vostra generosità. Quindi a presto vederci sul nuovo sito della rivista L’Isola di Patmos completamente rinnovato grazie al nostro lavoro e al vostro aiuto. 

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dall’Isola di Patmos, 21 gennaio 2021

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La curiosa distopìa del Vescovo Giacomo Cirulli che ci ricorda molto “un sacco bello” di Verdone che sul quotidiano Avvenire incolpa i preti no-vax, i fedeli tradizionalisti e i nemici politici del Pontefice

—Pastorale sanitaria —

LA CURIOSA DISTOPÌA DEL VESCOVO GIACOMO CIRULLI CHE CI RICORDA MOLTO UN “SACCO BELLO” DI VERDONE CHE SUL QUOTIDIANO AVVENIRE INCOLPA I PRETI NO-VAX, I FEDELI TRADIZIONALISTI E I NEMICI POLITICI DEL PONTEFICE

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I vescovi che attualmente stanno tuonando e minacciando alcuni membri del loro clero di procedere alla loro sospensione dall’esercizio del ministero sacerdotale, in caso di mancata vaccinazione, quando hanno visto qualche loro parroco abbracciato a Marco Cappato dopo avere firmato al banchetto che raccoglieva le firme per il referendum a favore dell’eutanasia, in che modo hanno minacciato queste autentiche vergogne del sacerdozio cattolico di procedere a loro carico con le pene canoniche? Quanti, tra quei preti che hanno apposto la loro firma a una simile proposta di referendum, sono stati sospesi con medicinale provvedimento canonico disciplinare dall’esercizio del sacro ministero?  

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa
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Ieri, 16 gennaio, sul quotidiano dei vescovi Avvenire è apparso un articolo a firma di Gianni Cardinale che raccoglie lo sfogo del vescovo della diocesi di Teano-Calvi, Alife-Caiazzo S.E. Mons. Giacomo Cirulli. Il presule, dolente come il re di Samaria Àcab al quale Nàbot di Izreèl rifiutò la vigna [cfr. 1 Re 21, 1-16], apre le cataratte del suo cuore al giornalista del quotidiano dei vescovi. Veniamo così a parte del suo immenso dolore che in questi giorni i fedeli e i preti no-vax gli hanno procurato reagendo al provvedimento ― dice lui di mero buon senso ― che è consistito nell’interdire alcuni sacerdoti, diaconi e ministri laici dalla distribuzione dell’Eucaristia ai fedeli della sua diocesi in quanto colpevoli di non essersi vaccinati [vedi qui, qui].

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Il vescovo, gemente e piangente, motiva la sua presa di posizione come la logica conseguenza del grave peggioramento della situazione pandemica italiana ma soprattutto come l’uniformarsi alla linea di pensiero della Conferenza Episcopale Italiana e alle parole del Pontefice regnante che considera la vaccinazione come un atto d’amore. Insomma, sembra quasi di assistere al rifacimento del film di Carlo Verdone Un sacco bello in cui il personaggio di Ruggero non può che esprimere il suo trionfale: «Love, love, love!».

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Ma siamo davvero sicuri che le resistenze lamentate dal vescovo siano da ascriversi alla sola opposizione dei preti e dei fedeli insensibili a un atto d’amore così bello e gratuito? Non credo. Al di là di tutto quello che si può dire e pensare sulla vicenda dei vaccini e della gestione pandemica italiana sia da parte dello Stato così come della parte della Chiesa, quello che ancora sembra sfuggire al vescovo Cirulli ― come ho avuto modo di chiarire in un mio precedente articolo ― consiste essenzialmente nell’improvvido modus operandi di seguire paternamente l’intera questione così come ci si aspetterebbe da un vescovo. Infatti, da un successore degli Apostoli ci si aspetterebbe uno stile differente, sicuramente più lungimirante, oserei dire quasi da statista dello spirito che è capace sì di guardare al presente ma essenzialmente al futuro e alle conseguenze future che si determinano già nell’oggi. Perché tutto questo prima o poi finirà e Mons. Cirulli, un domani, si troverà ancora ad essere vescovo di quella porzione di Chiesa i cui figli sono stati maltrattati con provvedimenti restrittivi. Che atteggiamento si dovrà attendere da questi figli sacerdoti, diaconi, ministri e laici? Con quale coraggio potrà ancora guardarli senza provare rossore o con quale imbarazzo potrà sopportarne il loro sguardo velato da una fiducia ferita? Sguardo di anime destinate al Paradiso e non già di soli corpi da curare, responsabilità questa di cui si dovrà rendere conto a Cristo buon pastore, il quale curò i corpi senza dimenticare le anime.    

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Soprattutto è di rigore una domanda, sempre premettendo, come già fatto nel mio precedente articolo, che la assoluta maggioranza del clero italiano si è sottoposto a vaccinazione, compreso il sottoscritto. Questa la domanda, destinata però come di prassi a rimanere senza risposta: i vescovi che attualmente stanno tuonando e minacciando alcuni membri del loro clero di procedere alla loro sospensione dall’esercizio del ministero sacerdotale, in caso di mancata vaccinazione, quando hanno visto qualche loro parroco abbracciato a Marco Cappato dopo avere firmato al banchetto che raccoglieva le firme per il referendum a favore dell’eutanasia, in che modo hanno minacciato queste autentiche vergogne del sacerdozio cattolico di procedere a loro carico con le pene canoniche? Quanti, tra quei preti che hanno apposto la loro firma a una simile proposta di referendum, sono stati sospesi con medicinale provvedimento canonico disciplinare dall’esercizio del sacro ministero? Ci dicano e rispondano certi vescovi battaglieri: è più grave che un sacerdote impaurito ― forse persino ignorante ― tema a vaccinarsi, o è più grave che un sacerdote, dopo avere appena celebrato la Santa Messa della domenica, esca sul piazzale della chiesa, metta la sua firma a favore del referendum sull’eutanasia, si fotografi con Marco Cappato e pubblichi poi la foto sul suo pubblico profilo social? Ci dicano, certi vescovi zelanti: delle due cose, qual è la più grave? Ma soprattutto: quanti tra i preti che hanno fatto questo ― e ve ne sono stati diversi in giro per l’Italia [cfr. qui, qui, qui] ―, sono stati rimossi dalle parrocchie? Perché a noi risulta l’esatto contrario: i loro rispettivi vescovi hanno fatto finta di niente, non hanno preso alcun provvedimento e questi preti seguitano a fare i parroci. Volendo posso aggiungere di più ancora: uno di questi parroci che ha firmato a favore del referendum sull’eutanasia, poche settimane dopo affiggeva sulla porta della chiesa parrocchiale l’avviso che per partecipare alle sacre funzioni era obbligatorio il GreenPass. Chissà, se per cotanto zelo il suo vescovo lo ha portato persino come esempio a quei pochissimi preti che sono spaventati dal vaccino, ma ai quali mai passerebbe però per la mente di andare a firmare a favore del referendum sull’eutanasia?

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Non è mia intenzione criticare il buon senso e la ragionevolezza del vaccino come metodo attualmente in uso per arginare l’infezione da Covid-19, anzi torno a ripetere, a scanso di equivoci, che noi Padri de L’Isola di Patmos ci siamo tutti sottoposti alla vaccinazione. Non solo: a chi ci ha chiesto lumi abbiamo sempre risposto premettendo che non siamo specialisti nello specifico e delicato settore ma che però, pur non essendolo, il buonsenso ci porta a suggerire l’uso dell’unico sistema che al momento abbiamo a disposizione, che è la vaccinazione, da leggere anche, volendo, come un senso di responsabilità e di rispetto verso noi stessi e verso gli altri. E siccome, su certi temi caldi, i chiarimenti non sono mai troppi, allora chiarisco ulteriormente. Quando questa mattina ho preannunciato a Padre Ariel che avevo appena inviato in redazione questo nuovo articolo, la sua risposta è stata: «In questo momento sto andando al centro di vaccinazione perché dopo avere fatto la III dose il 10 gennaio non mi è arrivato l’SMS con il codice necessario per stampare il GreenPass. Appena rientro provvediamo a montare il tuo articolo». Insomma, non mi ha detto che stava andando a una manifestazione di no-vax, come non lo direbbe Padre Gabriele e come non lo direi io. Detto questo è però bene precisare che i cattolici “buoni” e “cattivi” non li valutiamo sulla base della vaccinazione ― che è opportuna e indubbiamente necessaria ―, ma su altre basi morali e pastorali. Per esempio siamo tenuti a considerare “cattivi”, anzi proprio pessimi cattolici, coloro che si dichiarano pubblicamente favorevoli all’aborto, alla pillola anticoncezionale, alla pillola abortiva, al matrimonio tra coppie dello stesso sesso, o che chiamano “misericordia” la dolce morte attraverso l’eutanasia perché a loro dire è “crudele” far soffrire un morente. E tutto questo, certi pessimi cattolici, lo affermano pubblicamente in nome di una idea distorta e aberrante di “amore cristiano”. Quelli sono per noi i cattivi cattolici, anzi pessimi cattolici. Non coloro che, indubbiamente sbagliando per debolezza, fragilità o ignoranza, ma anche per la valanga di notizie contraddittorie, di proclami e di smentite, di cambi di direttive e di idee [cfr. qui], il tutto sempre e di rigore senza che alcuno abbia mai ammesso “abbiamo sbagliato qualche valutazione”, oggi sono terrorizzati dall’idea di farsi vaccinare.

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Chiarito questo proseguo: quello che nel legittimo esercizio della libertà dei figli di Dio ritengo di poter criticare è lo stile politico di trattare queste resistenze al vaccino che non devono e non possono trovare accoglienza nella Chiesa Cattolica. Se si continua di questo passo a non voler sentire ragioni, incancreniti nella ben nota testardaggine clericale, si avrà come unico risultato quello di incrinare la fiducia filiale dei fedeli verso i loro vescovi facendo sparire quel ben misero rimasuglio di autorevolezza paterna che l’episcopato italiano ancora conserva ma che sembra disposto a svendere con ogni premura quanto prima.

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Con sorpresa apprendiamo dall’articolo che il vescovo Cirulli si duole per essere stato assalito dai leoni da tastiera  e che ha ricevuto critiche, minacce e insulti da molti fronti tanto da spingere la Digos a intervenire in suo soccorso ― senza che lui ne abbia fatta alcuna richiesta ― attenzionando i sovversivi. Allora mi chiedo, prendendo le distanze dai facinorosi e dai disagiati che danno libero sfogo alla violenza essendo privi delle giuste argomentazioni logiche: possibile che nessuno dentro la curia vescovile abbia suggerito al presule di agire diversamente, per esempio in modo meno avventato? Nessuno che si sia sentito in dovere di far desistere il vescovo da una sicura brutta figura e da una gogna mediatica il cui unico responsabile non può che essere lui solo?

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Dico questo perché nel proseguo dell’intervista ad Avvenire vengono riferite come motivazioni della gogna mediatica le più fantasiose argomentazioni degne della migliore dietrologia dispotica orwelliana. Il vescovo si lancia nel descrive l’identikit del cattolico no-vax sulla scorta di quanto fatto dal quotidiano La Repubblica nei giorni scorsi [vedi qui], viene detto: «ho l’impressione che ci sia uno scisma in atto», «ho potuto capire che si tratta di persone tra loro collegate che appartengono a un mondo tradizionalista in contrapposizione col magistero di Papa Francesco». Insomma, il profilo del cattono-vax si delinea come una lobby scismatica ben compaginata, ultra-tradizionalista, anti-bergogliana, tutta trine, pizzi e merletti e ― aggiungerei io ― sicuramente di matrice conservatrice e magari con simpatie di destra. Tutto questo è però tragicamente e tristemente falso, perché le persone spaventate dal vaccino non hanno una connotazione politica precisa, come non appartengono solo al mondo del “cupo tradizionalismo” cattolico. La paura è un fenomeno completamente trasversale. Pertanto, i cosiddetti no-vax o anti-vax, li troviamo in politica nell’estrema destra come nell’estrema sinistra, tra le fila del progressismo cattolico più spinto come in quelle del tradizionalismo cattolico più radicale. E chi non vede questo, può dare solo una visione del tutto falsata della realtà, affermando che la paura, o se vogliamo l’ignoranza nel senso etimologico del termine, appartiene solo a una ben precisa categoria.

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Cari lettori, capite perché la credibilità della Chiesa oggi risulta essere ai minimi storici? Se sono queste le argomentazioni forti, è facile capire come mai le persone non ci prendano più sul serio ma ci deridano. Se tutto viene riassunto in questioni oppositive ideologiche allora stiamo facendo politica, propaganda, fidelizzazione e tesseramento partitico. Così come ha fatto il premier Mario Draghi nel corso dell’ultima conferenza stampa che illustrava l’ultimo decreto anti Covid, anche Mons. Cirulli ha affermato che in buona sostanza la responsabilità è dei non vaccinati ― siano essi consacrati o laici ― agevolando a questo modo divisioni, creando il sospetto, dando spago ai delatori, stimolando tensioni che faticheranno a rimarginarsi nel tempo.

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E se forse due anni fa, in obbedienza alle parole del Papa e della Conferenza Episcopale Italiana, il presule sarebbe stato felice di abbracciare un cinese e di mangiare un inclusivo involtino primavera, oggi si guarderebbe bene dall’abbracciare un prete no-vax come segno di distensione e di ripresa della comunione ecclesiale. Che dire di più, questi sono i tempi in cui tutti desiderano apparire come filosofi socratici, tutti si sentono forti di quell’assunto del figlio di Sofronisco che dice che le norme si rispettano anche quando sono ingiuste e che quindi bisogna fare quello che ci comandano di fare, anche se non ci piacciono «o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra» cantava Nino Ferrer.

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Costoro dimenticano però che Socrate scelse di bere la cicuta non in base a leggi ingiuste ma a un sistema giuridico manipolato, incapace di rispettare lo spirito della legge e del legislatore che deve prevedere eccezioni e deroghe eque per salvare l’integrità dell’uomo e il suo spirito da pericolose derive totalitarie.

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Forse il prossimo sfogo di Mons. Cirulli sarà affidato direttamente al quotidiano La Repubblica e sarà lì che apprenderemo dal portavoce vaticano Eugenio Scalfari che in qualche suo fantasioso dialogo privato col Pontefice, la vaccinazione sarà uno degli elementi essenziale per la validità del sacerdozio ministeriale e dell’amministrazione dei Sacramenti e tutto questo al fine di avere più «Love, love, love!». Certo, a questo punto della narrazione non guasterebbe il senso pratico del vecchio comunista dedito alla casa e alla famiglia interpretato dal mitico Mario Brega nel film Un sacco bello. Mario, vedovo ma ancora capace di sacrificarsi per il suo unico figlio Ruggero, non si capacita dell’eccessivo «Love, love, love!» nell’esperienza di vita del figlio tanto da venire preso per fascista da Fiorenza, al ché alzandosi in piedi esclama: «A me fascio? Io fascio? A zoccolè, io mica so’ comunista così, sa! So’ comunista cosìììì !!!».

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Ecco, cari lettori, a tali livelli di buon senso pratico non siamo ancora abituati e forse non ci arriveremo mai, almeno tra i pastori della Chiesa Cattolica.

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Laconi, 18 gennaio 2021

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

La «Chiesa cattolica apostolica». Quante parole usiamo e recitiamo senza conoscerne il significato? Alle radici del concetto di «Apostolica»

—  Theologica —

LA «CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA». QUANTE PAROLE USIAMO E RECITIAMO SENZA CONOSCERNE IL SIGNIFICATO? ALLE RADICI DEL CONCETTO DI «APOSTOLICA»

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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È indubbiamente una frase mnemonica, quella impressa nella parte del Credo in cui recitiamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Quanti conoscono però il vero e profondo significato di «apostolica»? Questa parte viene esplicitamente recitata nel Credo per ultima, ma non per questo ha un ultimo posto nella riflessione teologica, quindi nella pratica della vita di fede. Dunque ultima, ma non per questo ultima quanto a importanza, la nota dell’apostolicità ecclesiale getta un ponte fra l’aspetto personale e comunitario della fede. Tale connotazione, infatti, descrive la fondazione della comunità dei credenti, in un triplice senso:

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  1. La Chiesa è costruita sul fondamento degli apostoli [Ef 2,20], i testimoni scelti e mandati in missione direttamente da Cristo,
  2. Essa custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito Santo che la inabita dall’interno, l’insegnamento di Cristo, il buon deposito della fede e le sane parole udite dagli Apostoli;
  3. «Fino al ritorno di Cristo, la Chiesa continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, coadiuvato dai sacerdoti e unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa» [ CCC n. 857].

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In estrema sintesi questi tre punti offrono una visione di insieme sulla apostolicità della Chiesa Cattolica. Adesso li vedremo analiticamente, a partire dalla Sacra Scrittura dove troviamo dei chiari riferimenti alla presenza e alla scelta di Gesù dei Dodici Apostoli:

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«Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità» [Mt 10, 1-4]. I nomi dei Dodici Apostoli sono questi: il primo, Simone detto Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo d’Alfeo e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, quello stesso che poi lo tradì.

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Prosegue l’Evangelista:

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«Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni [Mc 3, 13].

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E ancora:

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«In quei giorni egli andò sul monte a pregare, e passò la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» [Lc 6, 12].

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I Dodici Discepoli vengono chiamati apostoli, dal greco ἀπόστολοι (apòstoloi), in ebraico שלוחים (shelichim, plurale di שליח, shaliach, che in entrambe queste lingue significa alla lettera: inviati, perché tramite il loro ministero Gesù continua la sua missione. Nell’accogliere i dodici, si accoglie tutta la persona di Cristo, come leggiamo in «Chi accoglie voi, accoglie me» [Mt 10, 40]. Cristo sceglie proprio Dodici Apostoli. Il numero di dodici simboleggia l’universalità e richiama alle Dodici Tribù d’Israele. La novità maggiore nella sequela di Cristo, consiste non tanto nel numero, quanto nel fatto che è il maestro a scegliere i discepoli: mentre in genere nell’antichità erano i discepoli a scegliere il maestro da cui attingere insegnamenti per la vita spirituale. Dopo averli scelti, Gesù li manda a predicare prima in tutta la terra di Israele e poi successivamente ai pagani (definiti le genti o i gentili). In tal modo essi iniziano a tramandare e trasmettere l’insegnamento autentico di Cristo. A questo modo Gesù forma quindi un collegio, cioè un gruppo stabile di inviati con la missione permanente di trasmettere il suo messaggio e che ha per capo l’Apostolo Pietro. Nello svolgersi di questa missione, lo Spirito Santo dona agli apostoli tutti i mezzi e la forza necessaria che gli occorre, tramite una grazia molto speciale: essi perciò hanno gli stessi poteri di Cristo: gli inviati sono dunque in grado di annunciare e propagare i divini misteri, di perdonare e rimettere i peccati e di guarire e scacciare i demoni. Inoltre lo Spirito Santo gli dona l’intelligenza per approfondire, meditare e meglio annunciare il mistero di Cristo.

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All’interno del gruppo degli apostoli, abbiamo visto che la presenza della figura di Simon Pietro. Egli è investito di un ruolo speciale: è incaricato da Cristo come principio di unità e comunione della fede; egli è perciò capo visibile della Chiesa; gli apostoli devono essere in comunione con lui e sotto di lui per quanto riguarda la dottrina di Cristo: ciò come vedremo si applicherà anche al successore di Pietro, il papa, e ai vescovi che gli sono in obbedienza: cum Petro e sub Petro (con Pietro e sotto Pietro)

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Approfondiamo allora la figura di Pietro: egli è incaricato da Cristo ad una missione speciale. Essa è descritta in un passo molto importante del Vangelo:

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«Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”». [Mt 16, 16-18].

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Simone, a cui Gesù ha cambiato nome in Pietro, è il primo e unico a riconoscere che Cristo è il figlio di Dio, del Dio vivente. Egli ha dunque “anticipato” gli altri apostoli in questo atto di fede: perciò viene posto da Gesù capo del collegio apostolico. Tre poteri molto speciali sono donati a Pietro, che gli altri apostoli non posseggono: innanzitutto lui non verrà mai meno, perché Pietro è la pietra visibile e stabile della comunità dei credenti; in secondo luogo, egli ha il potere delle chiavi del Regno e, terzo, il potere di sciogliere e legare. Con questo intendiamo:

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«Il potere delle chiavi designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesú, il Buon Pastore [Gv 10, 11], ha confermato tale incarico dopo la risurrezione: «Pasci le mie pecorelle» [Gv 21, 15-17]. Il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesú ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli [cfr. Mt 18,18] e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno» [cfr. CCC n. 553].

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Tradizionalmente sappiamo che Pietro è stato martirizzato a Roma nel 64 dopo Cristo sul Colle Vaticano. In precedenza, era stato imprigionato presso il carcere Mamertino, molto vicino al Campidoglio. Pietro dunque, essendo capo degli apostoli, nel suo martirio presso Roma testimonia anche il primato della sede romana rispetto alle altre comunità di credenti. Un primato che non è di dominio e despotismo, ma di servizio e di coordinamento di tutte le altre diocesi e chiese sparse per il mondo. Anticipiamo sin da ora un concetto importante: il primato petrino non vuole sminuire la collegialità, la sinodalità e l’opera comune e comunitaria: anzi Pietro e i suoi successori sono chiamati a garantire e a conferire la dignità e autorità di tutti gli apostoli e i loro successori, i vescovi. Come infatti vedremo fra poco i vescovi sono i successori degli Apostoli. Chiariamo allora che i successori di Pietro sono coloro posti a capo della Diocesi di Roma, o appunto i vescovi di Roma. Storicamente, il vescovo di Roma, è chiamato con una serie di nomi: Pontefice Massimo, Augusto Pontefice, Sua Santità, Santo Padre, Beatissimo Padre, o con quello più noto di Papa, che secondo una teoria storica sarebbe l’abbreviazione di pastor pastorum, pastore di tutti i pastori, o pater pauperum, padre dei poveri.

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Tornando all’analisi delle figure degli apostoli, sappiamo che tutti gli apostoli, ad eccezione di Giovanni, morto in età molto avanzata, verranno martirizzati durante le loro missioni in Oriente e nel territorio dell’Impero Romano. Anche dal martirio degli apostoli, troviamo conferma che lo scopo della fondazione e della presenza apostolica è quello di portare tutta la comunità ad un fine escatologico e di santità; tutta l’opera apostolica ha la finalità di condurre tutti al regno di Dio.

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Considerando che gli apostoli e i loro primi successori (padri apostolici) morivano martiri, era necessario che il messaggio di Gesù venisse comunque trasmesso: per questo scelsero dei successori per perpetuare la missione di Cristo. Quindi conferirono l’Ordine Sacro dell’Episcopato, consacrandoli quali episcopi (vescovi), con mandato a proseguire la missione apostolica come successori degli Apostoli. In questo senso diremo anche che la Chiesa riceve la professione della fede dagli apostoli medianti i successori di coloro che furono primi aderenti al movimento gesuano.

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Adesso cerchiamo di capire perché i vescovi, ricevendo l’Ordine Sacro, divengono i successori ufficiali degli Apostoli. Se leggiamo in Atti degli Apostoli [cfr. 6, 26] troviamo che gli stessi apostoli si diedero innanzitutto dei successori con il compito di proseguire e consolidare l’opera di evangelizzazione iniziata dagli Apostoli. Quest’opera è chiamata la Traditio da due antichi scrittori della cristianità, Tertulliano e Ireneo di Lione. La Traditio dal latino viene dal verbo tradere e implica l’azione del tramandare e trasmettere la fede predicata dagli Apostoli; perciò i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori e guide della comunità ecclesiale. Questo passaggio di consegne avviene in un atto ben preciso. Dunque, la trasmissione apostolica, si conferisce tramite la ricezione del Sacramento dell’Ordine, attraverso la consacrazione episcopale.

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Chiariamo questo passaggio dell’ordinazione dei vescovi. Cristo istituì i Sacramenti, che non sono nati dalla creatività umana, sono tutti racchiusi nella Rivelazione e nei Vangeli. Questo al fine di chiarire per inciso che certe correnti del Cristianesimo non cattolico, insegnando che i Sette Sacramenti, o parte di essi, sono solo una creazione umana avvenuta in epoca successiva all’Imperatore Costantino, a partire dal IV secolo a seguire, sono in palese errore, perché tutti i Sacramenti sono di istituzione divina. Tra i Sette Sacramenti c’è il Sacramento dell’Ordine Sacro, che è unico, ma diviso al proprio interno in tre gradi: episcopato (o pienezza del sacerdozio apostolico), presbiterato e diaconato. Coloro che ricevono questo Sacramento, nel loro singolo e personale ministero sono chiamati alla missione di condurre tutta la Chiesa al bene comune e alla Santità. È dunque un compito, ad un tempo singolare e allo stesso tempo comunitario. L’azione del conferire l’Ordine Sacro è detta ordinazione: in essa è Gesù che, agendo in persona Christi tramite un vescovo, ordina un sacerdote e lo consacra vescovo: dunque conferisce al presbitero la pienezza del sacerdozio apostolico per portare avanti tale missione. L’episcopato è quindi la pienezza del sacramento dell’Ordine perché contiene la sorgente stessa da cui derivano i tre gradi del Sacramento dell’Ordine stesso. Il vescovo infatti è anche colui che ordina i diaconi e i sacerdoti, e appunto come detto precedentemente, ordina un sacerdote a diventare vescovo.

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Sinteticamente diremo che la linea di successione prevede che un apostolo, ricevuti i pieni poteri da Cristo per trasmettere il suo insegnamento e per amministrare tutti i Sacramenti, ha ordinato un padre apostolico, conferendogli medesimi poteri e missione; a sua volta il padre apostolico ha ordinato un vescovo, per gli stessi scopi. Questo vescovo, a sua volta, ha ordinato un altro vescovo e nel corso della storia, nell’ordinare in successioni tutti i vescovi, si è giunti fino ad oggi. Il tutto viene definito: successione apostolica.

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La trasmissione del mandato di trasmettere e amministrare i Sacramenti a molteplici vescovi sparsi per il mondo, come molteplici in origine erano gli apostoli, mostra che la Chiesa ha natura apostolica, dunque collegiale e comunitaria. La collegialità e apostolicità dei Vescovi implica da un lato l’unità fra il Papa e i Vescovi perché il Collegio Episcopale è legato al suo capo visibile. Il Sommo Pontefice non è tiranno ma garante del ministero stesso dei Vescovi. Infatti egli è garante dell’Unità del corpo ecclesiale ed è il fondamento visibile materiale concreto dell’Unità ecclesiale (Collegialità = elemento di unione nella distinzione).

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Dall’altro lato, la collegialità dei Vescovi implica che tale Collegio ha un alto grado di autorità sulla Chiesa intera. Le singole diocesi collaborano fra di loro, ogni vescovo può prendere delle decisioni sui fedeli che gli sono affidati senza chiedere sempre e comunque l’autorizzazione alla Sede di Roma. Inoltre, i vescovi, collaborano attivamente fra loro e con il Romano Pontefice in alcuni momenti speciali: nei sinodi o, ad esempio, in un concilio ecumenico. Un sinodo o concilio convocati dai vescovi è accettato e confermato dal Romano Pontefice, ma guidato collegialmente: perciò anche queste riunioni ecclesiali non sono mai portate avanti dal Romano Pontefice da solo, al quale però solo spetta, alla fine, decidere.

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Ora abbiamo capito in che modo il Vescovo di Roma e i Vescovi del mondo, in quanto successori degli Apostoli hanno ricevuto il mandato di Cristo. Diremo che in tale mandato essi si sono impegnati specificamente in tre compiti specifici rispetto al popolo di Dio: questi compiti prendono nome di munera (da latino dovere, compito e anche dono) e sono il munus docendi, il munus sanctificandi e il munus regendi / gubernandi.

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Munus docendi è il dovere di insegnare, trasmettere l’insegnamento di Cristo; è detto anche il magistero ordinario del vescovo. Questo magistero / insegnamento è concretizzato dal vescovo quando insegna con autorità, che deriva da Cristo, e si attua quando il vescovo insegna concretamente nelle materie di dottrina e di morale e tali insegnamenti sono in comunione con il Sommo Pontefice e la Chiesa Universale. Questo è magistero di origine divina; quindi il munus docendi è primo compito del vescovo e concretamente con esso si intende di predicare di insegnare queste verità ai fedeli. I fedeli, da parte loro, sono chiamati ad ascoltare in obbedienza attiva con un’adesione filiale sincera al loro vescovo anche ponendo delle domande, dei dubbi e dei chiarimenti per comprendere meglio questi insegnamenti, per approfondire la dottrina e viverla meglio.

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Con munus sanctificandi: si indica il dovere di condurre alla Santità tutto il popolo di Dio. Il vescovo è l’economo, cioè colui che distribuisce in parti uguali la grazia di Cristo e dello Spirito Santo nella Chiesa; ciò avviene nella amministrazione dei Sacramenti e ancora più in particolare nella celebrazione eucaristica, dove è l’Eucaristia che fa la Chiesa, la santifica e la unisce nella cattolicità; dunque la presenza vera, reale, sostanziale di Cristo nelle specie del pane e del vino rende uniti tutti i fedeli (clero e fedeli); allo stesso tempo è la Chiesa che fa l’Eucaristia, dunque la Chiesa che  la amministra e la celebra.

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Con munus regendi/ gubernandi si indica il dovere dei vescovi di reggere e governare le singole Chiese locali o le diocesi; esse hanno una loro giurisdizione propria viene esercitata per sé da ogni vescovo in modo ordinario. Con questo si intende che il potere Divino che ogni vescovo possiede in modo immediato non prevede l’obbligatoria delegazione ad altre persone: a livello concreto, però, i vescovi possono comunque stabilire di nominare dei mediatori e delegati per gestire al meglio il territorio, per esempio sacerdoti che svolgono il ruolo vicari episcopali, foranei, giudiziali e che dunque esercitano varie mansioni nel nome del vescovo.

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In conclusione questi tre munera /doveri vengono attuati mediante l’ausilio dei presbiteri o i sacerdoti, che pur non avendo la pienezza dell’ordine sacro come il vescovo, anche loro partecipano e sono corresponsabili dei tre munera. Il munus docendi ad esempio quando essi predicano, insegnano e governano il popolo di Dio, specialmente nella parrocchia. Qui il parroco è anche colui che accompagna e dunque governa il Popolo di Dio alla santità (esercizio del munus gubernandi); infine il sacerdote celebra il culto quindi amministra i Sacramenti e prega per i bisogni del Popolo e allo stesso tempo anche amministra il Sacramento della confessione (esercizio del munus sanctificandi).

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Volendo anche analizzare sinteticamente il primo grado dell’ordine, possiamo velocemente descrivere l’attività dei diaconi. Anch’essi rientrano nella gerarchia ecclesiale perché sono chiamati al servizio: diàconos è parola greca traducibile con servitore. Rientrano ancora nell’apostolicità della Chiesa, perché sono assistenti alla liturgia, possono avere i compiti catechetici e para liturgici, sebbene il loro compito principale, la loro vocazione non è la chiamata ad amministrare i Sacramenti allo stesso modo dei presbiteri. I diaconi partecipano dell’apostolicità in quanto sono chiamati al servizio, specialmente le opere di carità, la gestione di attività amministrative della Chiesa. In qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.  qualche caso comunque il diacono può dare il Sacramento del battesimo e benedire le nozze.

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Roma, 18 gennaio 2022

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Per chi volesse approfondire il tema consiglio la lettura di questi libri:

Catechismo della Chiesa Cattolica, 553; 857 – 865.

Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,18 – 23.

  1. McDowell, The fate of the apostles. Examining the martyrdom accounts of the closesest followers of Jesus, Routledge, 2016.
  2. Virgili, La resurrezione di Gesù, Crocevia, Amazon publishing, 2020.

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La morte della sessualità e della fede nei sedicenti cattolici da social media che odiano in nome di un “amore cristiano” fatto di Cristi androgini e Madonnine languide, di vajasse aggressive e violente

—  Attualità ecclesiale — 

LA MORTE DELLA SESSUALITÀ E DELLA FEDE NEI SEDICENTI CATTOLICI DA SOCIAL MEDIA CHE ODIANO IN NOME DI UN  “AMORE CRISTIANO” FATTO DI CRISTI ANDROGINI E MADONNNINE LANGUIDE, DI VAJASSE AGGRESSIVE E VIOLENTE 

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… e detto questo informai la pinzochera che il Verbo di Dio, vero Dio e vero uomo, aveva un sesso e una sessualità psico-fisica, proprio perché era Dio incarnato in un vero uomo. Questa la risposta testuale: «Lei è un blasfemo, una vergogna di prete, un figlio del Demonio, si converta … bestemmiatore!». Replicai: «Io sarò anche un bestemmiatore, però non riesco proprio a immaginare Nostro Signore Gesù Cristo che piscia acquasanta dalle orecchie perché privo di un attributo sconveniente come il sesso maschile che serve all’occorrenza, a livello puramente e naturalmente fisiologico, anche per orinare».

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“La ghigliottina del tribunale dei social media“, copertina del libro dei Padri de L’Isola di Patmos sul tema della pandemia, realizzata dalla pittrice romana Anna Boschini (il libro è acquistabile QUI)

Questa nostra rivista è un luogo in cui si affrontano argomenti storici, filosofici e teologici che ci impegniamo a rendere accessibili anche al grande pubblico desideroso di approfondire i misteri della fede attraverso gli articoli di un gruppo di sacerdoti-teologi investiti dalla Santa Chiesa di Cristo del mandato a insegnare, santificare e guidare i Christi fideles. È il munus sacerdotale, o tria munera Ecclesiae: munus docendi, munus sanctificandi, munus gubernandi. Elementi affatto chiari in quella fogna tossica alla quale sono ridotti i social media, dove impazza un esercito di pinzochere che hanno confuso la fede con il terrorismo psicologico, il Verbo di Dio fatto uomo con un asessuato Gesù Cristo photoshoppato, la Vergine Maria con una Cassandra che annuncia catastrofi e fini imminenti del mondo. Ogni loro discorso è condito con salse rancide tirate fuori dal grande contenitore del neo-paganesimo di ritorno, se non peggio dal pelagianesimo più degenerato. Entrare in colloquio con queste persone, i cui profili social abbondano di Madonnine infilzate, è purtroppo tempo perso. Perché qualsiasi prete che osasse indicargli i loro errori in materia di dottrina e di fede, quindi la strada per un autentico cammino di vita cristiana, bene che vada si sentirà rispondere: «Si vergogni, lei non è degno di essere chiamato prete!». E benché l’abbia scritto e più volte spiegato, torno di nuovo a ripeterlo: oggi, noi preti e teologi, per assurdo che possa apparire siamo considerati guide religiose e studiosi di scienze sacre — e come tali anche rispettati — da ultra laicisti e non credenti, che ovviamente hanno tutt’altro sentire e stile di vita, mentre per ogni minimo nonnulla siamo aggrediti in malo modo e pubblicamente offesi da laici cattolici, o sedicenti tali, che ritengono di essere vessilli della vera, pura e autentica Cristianità. Questi i fatti che mi portano a dire quanta ragione avesse all’epoca il Professor Enrico Medi, affermando agli inizi degli anni Settanta di non essere tanto spaventato per l’inquinamento atmosferico, per la bomba atomica o il pericolo di nuove eventuali guerre, ma di esserlo invece per la follia collettiva verso la quale l’umanità stava precipitando. E di questa follia, oggi, i social media sono modello e paradigma.

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In questa giungla senza regole, dove con una identità di fantasia si può aggredire e insultare chicchessia nel peggiore dei modi, alcune anime ammantate di pudore mi hanno accusato di fare frequenti riferimenti indiretti, o a volte diretti, alla sessualità umana, dichiarandosi autentici cattolici scandalizzati da certe battute fatte da un prete. Ebbene vi dirò che da tempo mi sono convinto che questo genere di persone sono coloro che hanno dato spunti alla compianta Anna Marchesini, perché è probabile che si sia ispirata proprio a loro, quando faceva i suoi esilaranti sketch comici nel ruolo di Merope Generosa, medico specialista in sessuologia.

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Questi non meglio precisati cattolici da social media sono caratterizzati da tre elementi tutti in radicale contrasto con la fede: la sessuofobia, il catastrofismo pessimista, l’odio che si nutre di odio e che cerca dei feticci come valvola di sfogo.

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Partiamo dal primo elemento: sessuofobici, perché tendono anzitutto a identificare nella sessualità umana il centro del peccato, o per meglio dire il peccato dei peccati. Se osi correggerli e ricordar loro che il peccato originale non prende vita perché Adamo ed Eva commisero un peccato di lussuria ma di superbia — che tra i sette peccati capitali è il più grave in assoluto, tanto da essere posta al primo posto come regina e auriga trainante di tutti i peccati capitali —, la loro reazione sarà questa: «Eretico modernista schiavo delle perversioni del mondo!». Ma che cosa vuol dire per loro modernista? Soprattutto, che cosa ne sanno di questo movimento di pensiero condannato dal Santo Pontefice Pio X con l’Enciclica Pascendi Dominici Gregis? Niente ne sanno, si tratta solo di una parola con la quale cercano di aggredire e tacitare gli interlocutori ignorando in che modo e perché questa corrente di pensiero nacque e si sviluppò all’interno della Chiesa, non ultimo anche a causa di una chiusura e di un rigore che aveva a tratti dell’ossessivo. Proprio come quelli che non avendo argomenti cercano di tacitare l’interlocutore urlandogli “fascista!” o “comunista!”, salvo però non essere in grado di spiegare come prendono vita e si sviluppano queste due diverse correnti socio-politiche. Oppure come quando una tale che voleva darsi un certo tono pubblicò la fotografia della collezione di uno stilista affermando: «È una collezione di abiti di ispirazione metafisica». Le domandai: «Scusi, mi spiega che cos’è la metafisica?». Pochi secondi dopo giunse in risposta una carrettata di insulti, semplicemente perché ponendole quella domanda “innocente”, implicitamente le avevo dato dell’ignorante che usava delle parole a sproposito senza conoscerne il significato. E ribadisco sessuofobici perché questi non meglio precisati cattolici, ma soprattutto cattoliche, hanno una vita affettiva, sentimentale e sessuale talmente disastrata, sino a mutare il sesso e la sessualità umana nel male assoluto. E proprio negativizzando in tal modo la sessualità dimenticano alcuni elementi fondamentali della fede: il Verbo di Dio si fece uomo, ed era un uomo, Gesù Cristo, con tutti gli attributi sessuali e virili del caso. Così ricordai una volta a una pinzochera facendole presente che Giuseppe e Maria presentarono Gesù al Tempio per farlo circoncidere all’ottavo giorno di vita in ottemperanza alla Legge Mosaica [cfr. Lc 2, 22-39]. Le spiegai che questo antico rito si chiama בְּרִית מִילָה (Brit Milah, alla lettera: Patto dell’Alleanza) ed è eseguito da un pio religioso ebreo che svolge la funzione di circoncisore. Poi precisai che con la circoncisione si asporta il prepuzio dal membro virile maschile lasciando il glande completamente scoperto. In questo consisteva la circoncisione del piccolo infante Gesù, casomai qualcuno pensasse che sia stato presentato al Tempio da una svedese bionda con gli occhi azzurri, tale viene raffigurata Maria, accompagnata da un ottantenne zoppicante fuoriuscito da un reparto di geriatria, tale viene raffigurato Giuseppe. Per questo l’infante Gesù fu presentato al Tempio, per togliergli il prepuzio dal divin pisellino, non certo per mettere in piega i riccioloni biondi con i quali è raffigurato nei santini iconografici, come se anziché in Medio Oriente fosse nato a Stoccolma. E detto questo informai la pinzochera che il Verbo di Dio, vero Dio e vero uomo, aveva un sesso e una sessualità psico-fisica, proprio perché era Dio incarnato in un vero uomo. Questa fu la risposta testuale: «Lei è un blasfemo, una vergogna di prete, un figlio del Demonio, si converta … bestemmiatore!». Replicai: «Io sarò anche un bestemmiatore, però non riesco proprio a immaginare Nostro Signore Gesù Cristo che piscia acquasanta dalle orecchie perché privo di un attributo sconveniente come il sesso maschile che serve all’occorrenza, a livello puramente e naturalmente fisiologico, anche per orinare».

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Il secondo elemento è il catastrofismo pessimista, tipico delle persone incapaci di cogliere l’amore di Dio e le sue azioni di grazia su di noi persino nelle situazioni più tragiche e dolorose. Basti citare tra i tanti San Massimiliano Maria Kolbe a tal punto affamato di Cristo che accettò di morire di fame nel lager di Auschwitz per salvare la vita a un padre di famiglia suo compagno di prigionia. In questi sedicenti cattolici, ma soprattutto cattoliche, catastrofismo e pessimismo assumono tratti e connotati morbosi, sino a divenire incapaci di vedere quel sommo bene riassunto nelle virtù teologali di fede, speranza e carità. E proprio la virtù della speranza, che sta nel mezzo e che lega assieme la fede e la carità — indicata quest’ultima come la più importante dal Beato Apostolo Paolo [cfr. I Cor 13] — non sanno proprio dove abiti. Così, per dare sfogo al loro pessimismo cupo e distruttivo mediante immagini di un futuro catastrofico, di prassi usano la Beata Vergine Maria, facendo scempio di apparizioni e messaggi che di prassi e rigore non sono riconosciuti autentici dalla Chiesa. Quando poi prendono come elementi di pretesto a suffragio delle loro idee peregrine le apparizioni e i messaggi che sono stati invece riconosciuti come autentici, anzitutto li manipolano, poi accusano la Chiesa, per esempio nel caso della Madonna di Fatima, di avere occultato e censurato i testi, che ovviamente, manco a dirsi, sarebbero terrificanti. Presto detto: in nome della “purezza” della loro fede e della loro “verità” tutta quanta nevrotico-soggettiva, non esitano a mutare la Chiesa, che è madre e maestra, in madre menzognera. In più occasioni ho cercato di spiegare alle pinzochere fanatiche della mariologia catastrofica da loro mutata in mariolatria pagana, che i messaggi della Madonna di Fatima, come quelli della Madonna della Salette, di Amsterdam e via dicendo a seguire, non costituiscono elementi del deposito della fede e che nel Credo della Chiesa Cattolica, detto anche Simbolo di Fede Niceno-Costantinopolitano, noi non professiamo di credere ai segreti della Madonna di Fatima e alle rivelazioni date dalla stessa a quello o quell’altro veggente, compresi quelli riconosciuti autentici dalla Chiesa. Detto questo seguitai a spiegare che un cattolico potrebbe anche essere del tutto indifferente a certe apparizioni mariane, perché non è obbligato a essere devoto né alla Madonna di Lourdes né a quella di Fatima né ad altre, dalle quali non può dipendere la sua fede e neppure la salute della sua anima. Ciò che un cattolico non può fare è di negare la autenticità di ciò che la Chiesa ha riconosciuto come autentico, o peggio ancora di dichiarare invece autentico per propria emotività e puntiglio personale, ciò che la Chiesa non ha mai riconosciuto tale, per esempio La Gospa dei bugiardi. Insomma, come spiegazione, quella data, doveva essere chiara. Invece no, stando perlomeno alla risposta inferocita della pinzochera che sui social media mi ha urlato: «Eretico! Lei è peggio di Lutero. Vergogna, un prete che odia la Madonna e che ragiona peggio di un protestante … si converta, perché il giudizio della Madonna su di lei sarà terribile». Replico alla pinzochera invasata evitando di domandare a quale titolo si permettesse di additare un presbitero al pubblico sprezzo come odiatore della Beata Vergine, quindi vado al dunque e chiarisco: «Vede, quando noi professiamo nel Credo “un giorno tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti” ci riferiamo a Cristo Dio divino giudice, non alla Madonna, che non giudicherà proprio nessuno, né i vivi né i morti, perché non è compito suo. E se c’è una creatura straordinaria che da sempre sa stare al proprio posto e nel ruolo che le è stato affidato da Dio nel mistero della economia della salvezza, questa è proprio la Beata Vergine Maria».

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Terzo elemento è l’odio, tipico delle persone che non si sentono amate, o che non sono state amate, rese per loro vari motivi e problemi esistenziali del tutto incapaci ad amare, sino a giungere a un processo di inversione spirituale che di per sé è più grave di tutte le peggiori perversioni sessuali messe assieme: usare l’amore e il concetto di amore cristiano per sfogare il loro odio. I social media sono pieni di sedicenti cattolici e di pinzochere impazzite che in nome di un “amore di Dio” e di un “amore per la fede” del tutto svuotato della sua più profonda essenza, odiano ferocemente. Poi, se un prete osa richiamarli in tal senso, le loro reazioni tendono sempre a essere violente e aggressive, soprattutto distruttive nei confronti del sacerdote, che finirà aggredito da persone che metteranno anzitutto in discussione le sue virtù umane e spirituali, la sua ortodossia dottrinale, la sua preparazione teologica e la sua esperienza pastorale. Il concetto di “amore” di queste persone è equiparabile alle turbe assetate di sangue durante il periodo del terrore della Rivoluzione Francese, che in nome di una non meglio precisata libertà mozzavano le teste sulle ghigliottine, poi, dopo averle issate sopra a dei pali, le portavano trionfalmente in giro per le strade di Parigi come orridi trofei. Il tutto, ripeto, in nome di una non meglio precisata libertà, che equivale al concetto di “amore” di certi sedicenti cattolici che impazzano sui social media. Per questo noi Padri de L’Isola di Patmos, quando abbiamo dato alle stampe il nostro libro La Chiesa e il coronavirus, dove affrontiamo anche il tema dei grandi esperti che pullulano sui social media, abbiamo fatto realizzare dalla nostra amica, il Maestro Anna Boschini, pittrice romana, una copertina nella quale siamo raffigurati noi tre che saliamo le scale verso la ghigliottina, mentre sotto al palco sono radunati i giudici dei social media.

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Torniamo di nuovo alla sessualità, elemento chiave per analizzare e comprendere le perversioni mentali di certi sedicenti cattolici da social media. Le pudibonde anime candide, pronte a urlare allo scandalo dall’alto della loro non meglio precisata cattolicità, di prassi ignorano un elemento fondamentale: la prima cosa in assoluto con la quale un qualsiasi giovane o meno giovane deve fare i conti, se ritiene di essere chiamato al sacerdozio, è proprio la sua sessualità. E quando sulla parola sesso e sessualità nei seminari si sorvola, oppure ci si tinge di rossore come la mitica Merope Generosa impersonata da Anna Marchesini, poi accade che nella migliore delle ipotesi si tirano fuori dei mostri, per non parlare di peggio: soggetti dalla sessualità squilibrata e moralmente disordinati. Il prete non deve affatto reprimere la propria sessualità, la propria libido e la propria dimensione erotica, deve trasformare il tutto in altro, ossia in un diverso modo di amare e di vivere la propria virilità sessuale.

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Come prete io ho un sesso e una sessualità umana, a meno che qualcuno non voglia negare — anche in questo caso con l’aura del comico pudore della mitica Merope Generosa — che il primo e imprescindibile requisito richiesto, in assenza del quale non potrebbero proprio sussistere gli altri, è che il candidato al sacro ordine sacerdotale deve essere un maschio. Volendo possiamo anche aggiungere che la Chiesa non ha mai consentito l’accesso al sacerdozio a uomini affetti da malformazioni tali da impedire lo svolgimento di una regolare attività sessuale, proibendo sempre la consacrazione sacerdotale, a pena di nullità, di soggetti che per incidente o per criminale volontà altrui erano stati evirati. Essere maschi, come risaputo, vuol dire avere, a livello anatomico, un ben preciso organo genitale in mezzo alle gambe che ha una sua non lieve incidenza anche sulla psiche, allo stesso modo in cui l’utero incide sulla psicologia della donna. 

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Posso serenamente e tristemente affermare, per esperienza sacerdotale e pastorale, che i preti problematici sono quelli che a monte non hanno fatto i conti con la loro sessualità, o che per diventare ministri in sacris hanno scelto la strada da sempre e in assoluto più sbagliata: quella di reprimere la propria sessualità, prezioso e imprescindibile dono di Dio che ci porta a un tale slancio di amore sino a farci eunuchi per il Regno dei Cieli:

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«”Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”» [Mt 19, 12].

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Un prete che ha maturata e trasformata la propria sessualità in altro, facendosi per amore eunuco per il Regno dei Cieli, per naturale conseguenza avrà un atteggiamento e un approccio umano e spirituale molto virile e maschio. Se ciò manca, sarebbe bene porsi dei quesiti molto seri. Perché virile non è certo il libertino che salta da un letto a un altro, imprigionato ultra cinquantenne in una desolante dimensione adolescenziale. Virile sul serio, lo è semmai l’anziano prete che, pur non avendo mai conosciuto donna in vita sua, perché entrato in seminario a 14 anni e vissuto in perfetta continenza per tutta la vita, quando ti affronta e ti guarda in faccia sprizza però tutto quel testosterone maschile e spirituale che il libertino impenitente non sa neppure in quale luogo alberghi. Per inciso una nota di carattere personale, ma forse necessaria per far comprendere meglio certi concetti: sino a oggi ho avuto due vescovi, uno morto di recente, l’altro in cattedra nel pieno esercizio delle sue funzioni. Due personalità totalmente diverse, sotto molti aspetti persino opposte. Una cosa, però, nella loro diversità li accomunava: due uomini veramente e profondamente virili nella fede e nella pratica della fede, quindi nella loro psicologia maschile. Ma così erano tutti i formatori al sacerdozio che Dio mi ha dato la grazia di avere, incluso il vescovo anziano che da anni cura la mia formazione permanente al sacerdozio, che sarebbe stato capace a far tremare con un solo sguardo persino un potente Capo di Stato.

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La Chiesa Cattolica è invasa negli ultimi tempi da non meglio precisati fedeli che trasformano la straordinaria comicità di Merope Generosa in una tragedia che poi, all’atto pratico, finisce per ricadere su noi preti, spesso con risvolti penosi e anche dolorosi. E, sempre pastoralmente parlando, posso dire che i social media sono un esteso e complesso campo di studio che sul piano scientifico e pastorale ha veramente dello straordinario. Ovviamente mi limiterò ai cattolici, o meglio a coloro che si sentono tali, in particolare alle donne.

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Le non meglio precisate cattoliche, sui social media arrivano a dei livelli di offesa nei confronti di quei preti che a volte interloquiscono con loro, come mai vi giungerebbe un uomo. Non è un’ipotesi, ma un dato statistico. Pronte a soppesare ogni sillaba, a gridare allo scandalo, peggio: all’eresia. Donne che dall’alto della loro cattedra di dogmatica e di ecclesiologia eretta sui social media tacciano di apostasia dalla fede il Sommo Pontefice in testa, i Vescovi e tutti noi Presbiteri a seguire. Donne che ignorano i fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica, che confondono la Vergine Maria con la Fata Morgana o che pensano che l’agire dello Spirito Santo sia quello di Mago Merlino … ma che sono pronte a subissarti d’insulti, se in modo paterno e pacato osi richiamarle e correggerle.

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A questo punto uno potrebbe domandare: si, esistono tanti disturbi della personalità, poi c’è il grande pianeta della isteria, che non a caso deriva dalla radice greca di ὕστερον (hysteron), che significa utero, disturbo prettamente femminile. Infatti, quando nel linguaggio parlato qualcuno mi ha indicato un uomo come “isterico”, gli ho risposto che in ambito colloquiale questo termine in sé non corretto può anche passare, ma che sul piano scientifico un uomo non può essere affetto da tale disturbo, almeno per come la scienza lo ha definito. L’uomo è infatti privo della materia prima: l’utero. Quindi un uomo può essere affetto da isteria, intesa in modo clinico classico, allo stesso modo in cui una donna può essere soggetta all’infiammazione alla prostata. Nel mondo delle scienze neurologiche e psichiatriche vi sono stati nel corso del tempo studiosi che hanno cercato di localizzare forme di “isteria maschile”, a partire dal neurologo viennese Sigmund Freud, ma senza ottenere particolari successi e crediti nella comunità scientifica internazionale.

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Perché tutta questa mia attenzione alla sessualità? Sono forse un sessuomane, come qualcuno mi ha accusato di essere? Presto detto: da anni ho scoperto, appurato e ripetutamente toccato con mano che dietro a questo esercito di pinzochere che giocano alle cattoliche intransigenti sui social media, nascondendosi dietro l’immagine di una Madonnina infilzata e dietro a un nome di pura fantasia, si celano donne che vivono situazioni talora al limite della frustrazione sul piano umano, sessuale e sentimentale. Per esempio, una tale — seguita a ruota da diverse altre — mi dette dell’eretico e, ovviamente, della vergogna di prete, semplicemente per avere scritto e spiegato che sul piano morale, un aborto praticato da una donna può essere del tutto diverso da quello praticato da un’altra. In certi particolari casi un aborto, pur essendo in sé e di per sé un abominio, può persino ridursi a un peccato veniale. Per inciso: l’analfabeta digitale è colui che non è proprio in grado di comprendere ciò che legge, quindi taglia tre parole, si fossilizza su di esse e poi parte con il lancio di insulti a raffica. E questa pinzochera, da tutta la mia spiegazione comprensibile e non passibile di essere fraintesa, data la delicatezza estrema del tema trattato, tagliò a sproposito due parole accusandomi di avere affermato che oggi l’aborto è solo un peccato veniale. Eppure in quel mio discorso articolato e preciso — o come si suol dire a prova d’imbecille —, avevo spiegato e chiarito bene il tutto facendo anche ricorso al caso di una giovane immatura di 18 anni, molto semplice, priva di cultura e conoscenza elementare, che rimasta incinta fu portata ad abortire nella assoluta certezza che in tal modo avrebbe fatto la cosa più giusta, per il bene suo e della stessa creatura che non era opportuno far nascere. D’altronde, il consiglio le era stato dato dall’anziano medico di famiglia, venerato come sede della sapienza da tutto il suo parentado. Non solo, anche un altro, un dottorone dell’ospedale di città dove era stata portata dal suo paesello, le aveva detto altrettanto. E se due grandi sapienti spiegano a una ragazza immatura, semplice e fragile, che cosa deve fare e in qual modo deve farlo, lei mette in pratica il consiglio, semmai anche ringraziando coloro che gliel’hanno dato preoccupandosi a questo modo del suo bene. E qui va ricordato che per commettere delitti e peccati occorrono coscienza, volontà e deliberato consenso. In un simile caso, come si può parlare di un turpe peccato mortale? Certo, quando cresciuta, maturata e uscita dal suo ambito contadino familiare di provincia, giunse ormai venticinquenne in lacrime da me a spiegarmi che cosa aveva fatto anni prima, anzitutto la consolai, poi in parole semplici le spiegai ciò ho spiegato sin qui, assolvendola e soprattutto pregandola di non consumarsi in inutili sensi di colpa. Il senso di colpa per il peccato rimesso, non è cosa buona, tutt’altro: è una sfida al mistero d’amore della grazia e del perdono di Dio.

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A questo punto entra in scena la pinzochera di turno, sedicente cattolica auto-proclamata dottore in teologia morale sui social media, celata di rigore dietro un nome di fantasia e con una Madonnina infilzata nel suo profilo al posto della sua foto, che scatenò su di me l’Inferno. Le due accuse più lievi — che è tutto dire — furono quelle di «eretico, apostata e prete anticristico». Poi scrisse un lungo sproloquio per smentirmi e affermare che «il senso di colpa, dopo avere commesso certi peccati, non ci deve mai abbandonare, anche se uno è stato assolto». Cosa dire: il grande maestro della morale cattolica Alfonso Maria de’ Liguori, Vescovo e Santo Dottore della Chiesa, dinanzi a cotanta scienza teologica sarebbe sicuramente impallidito e sprofondato nei complessi di inferiorità. Poco dopo fui contattato da un confratello sacerdote che colpito da quella valanga di insulti mi spiegò chi era in realtà questa donna, cacciata via più volte dai parroci di diverse parrocchie, a uno dei quali interruppe persino l’omelia domenicale mettendosi a invenire contro di lui: «Tu non conosci il Vangelo, convertiti: modernista!». Tanto che il parroco, ai sensi dell’articolo 405 del Codice Penale la denunciò per avere turbato l’esercizio di una pubblica funzione religiosa all’interno di un luogo di culto. Ma ecco chi era questa donna: una povera infelice incattivita lasciata dal marito, un commerciante che fatti soldi e giunto vicino ai sessant’anni d’età la mollò in preda alla sua menopausa per andare a vivere con una ragazza slava di trent’anni ― dopo averla cornificata per una vita intera ―, nonché madre di una figlia nota in tutto il circondario, perché a partire dall’età di 13 anni saltava senza sosta da un maschietto all’altro, al punto che non solo le madri delle ragazzine, ma persino quelle dei maschietti non volevano che i loro figli la frequentassero. All’età di appena 16, una domenica mattina, forse mentre la madre era in chissà quale chiesa parrocchiale a far girare le palle a qualche povero prete, giunse presso il pronto soccorso cittadino con l’amica di scorribande per chiedere la “pillola del giorno dopo”, onde evitare problemi dopo le bravate del sabato sera.

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Dietro certi profili di fantasia, sui quali spiccano Cristi androgini photoshoppati e Madonnine languide, ho scoperto veramente di tutto e di più, perché con i buoni uffici di certi cari amici sono giunto alla vera identità di svariate pinzochere, quindi oggi sono in grado di fare non solo analisi ma persino statistiche. Per esempio, quella che mi urlò e mi scrisse tutto in maiuscolo: «Si vergogni, si vergogni, si vergogni!», per avere postato su una pagina social la foto mia assieme alla trans Vlady Guadagno, mia amica, nota al grande pubblico con il nome d’arte di Luxuria, mentre eravamo assieme sorridenti negli studi Mediaset di Cologno Monzese, era madre di un maschietto che non solo era gay dichiarato, ma che conviveva con il suo compagno assieme al quale era andato a sposarsi alle Canarie. Poi, il maritino amoroso lo mollò per un altro ragazzo. A quel punto, il povero consorte tradito e abbandonato, tentò il suicidio. Eppure fu proprio la madre di questo maritino tradito che nascosta dietro a un nome fasullo e a una foto di San Pio da Pietrelcina messa al posto della propria faccia, mi ricoprì di contumelie dandomi del «pessimo prete» e del «prete senza morale». E sapete in che cosa consisteva il mio essere prete senza morale? Consisteva nell’avere spiegato e poi ridotto a piccolo peccatuccio la masturbazione degli adolescenti, attenendomi con scrupolo in quel mio discorso a quanto scritto e spiegato nel Catechismo della Chiesa Cattolica che recita:

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«Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l’azione pastorale, si terrà conto dell’immaturità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d’angoscia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale» [vedere n. 2352].

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Ogni tanto tratto a livello teologico ed ecclesiologico i temi della sessualità umana non certo privo di compiaciuto divertimento, sapendo come certi soggetti saltino subito allo scoperto in modo aggressivo e violento sui social media. Così reagiscono e vengono allo scoperto le persone che non essendosi sentite amate o non avendo loro stesse la capacità di amare, sprofondano nell’odio reattivo, trovando in certi social media una portentosa valvola di sfogo, che rischia però di peggiorare le loro condizioni umane e psicologiche, trascinando nel meccanismo dell’odio tante altre persone che poi contribuiscono a creare un ambiente odioso-rissoso.

 

Per comprendere i livelli di odio e violenza alla quale possono giungere soggetti psicolabili, specie coloro che sono affetti — indistintamente uomini, ma ahimè soprattutto donne — da narcisismo aggressivo delirante, vi narrerò un episodio nel quale mi trovai coinvolto un paio d’anni fa. Ve lo narro solo perché è uno spaccato, anzi un paradigma del mondo dei social nel quale chicchessia può affermare e scrivere senza alcun filtro e controllo ciò che vuole, soprattutto cascate di idiozie più forti di quelle del Niagara.

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Ecco la storia: un giorno mi giunse l’aggiornamento di una pagina social di una sedicente napoletana. E qui apro un lungo inciso: dico “sedicente” perché essere napoletani fa comprensibilmente molto chic. Vorrei vedere il contrario: Napoli è stata una delle più grandi Capitali d’Europa. Molte delle Capitali oggi tanto celebrate, per esempio Vienna, Parigi, Berlino, ma pure la nostra stessa Milano, a confronto della Napoli del XVI-XIX secolo erano poco più che delle cittadine. Per non parlare dei beni storici, artistici e monumentali. Napoli, ed assieme a essa l’altra Capitale del Regno Borbonico, Palermo, erano non solo due grandi Capitali europee, ma soprattutto luoghi d’arte e cultura senza eguali nel nostro antico Continente.

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Wolfgang Amadeus Mozart — per prenderne uno soltanto tra i tanti a puro titolo di esempio — recandosi in Italia non rimase colpito da Milano e dal suo Teatro Ducale, ma andò letteralmente in estasi quando giunse nella grande Napoli nel maggio del 1770, dove rimase ammaliato da quella Città e dal suo grande teatro, soprattutto dall’arte, dalla cultura e dalla scuola musicale delle genti partonepee.

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Questo per chiarire che dire «sono napoletano» conferisce indubbiamente un certo tono alla persona. Come quando io vanto le mie radici familiari romane, anche se per onestà devo precisare che sono nato nella bassa Maremma toscana, a pochi chilometri dal confine col Lazio, da una famiglia paterna di vecchia origine romana e da una famiglia materna toscana. Pertanto, a chi mi chiede lumi sui miei natali, devo rispondere che sono tosco-romano. Poi, se il figlio di due immigrati della bassa Calabria che è nato a Roma, in tono scanzonato mi dice … «Ah, romano tu?», a quel punto spetterà a me ribadire che i natali romani dei miei avi si perdono molto indietro nel tempo, contrariamente ai suoi. E qui mi torna alla mente una giovane di vecchia famiglia romana che più vecchia non si può, per l’esattezza appartenente a un ramo cadetto dei Torlonia, nata negli Stati Uniti da padre romano e madre americana. Quando un allegro pischello, tentando d’abbordarla — era una bellissima ragazza — le domandò di dove fosse originaria, per tutta risposta ribatté: «Sono di famiglia romana». Rise l’abbordatore divertito: «Già, romana con cotesto accento americano?». Impassibile lei domanda: «Posso sapere come ti chiami tu di cognome?». Risponde lui: «Mancuso, perché me lo chiedi?». Sorride sorniona la bella ragazza: «Vedi, io di cognome mi chiamo Torlonia. Avrò anche l’accento americano, dato che negli Stati Uniti d’America sono nata, ma di certo sono romana di famiglia romana molto più di un Mancuso». Cognome, per chiarire a chi legge, molto diffuso nella zona calabrese di Catanzaro, vetusta e nobile Città dell’antica Magna Grecia.

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Prima di questo doveroso inciso stavo narrando che un giorno mi giunse l’aggiornamento di una pagina social di una sedicente napoletana. E dico sedicente perché la “nobildonna” in questione viveva in un sobborgo di Caserta, che come sappiamo non è propriamente il Vomero, Capodimonte o i Quartieri Spagnoli. La povera meschina, mettendo assieme una accozzaglia di leggende nere oggi smentite persino dagli studiosi liberali e dagli storici protestanti, con un maldestro copia e incolla aveva scritto un post celebrativo sulla figura del “grande” ed “eroico” Giordano Bruno da Nola, bruciato al rogo in Campo dei Fiori nel 1600 dalla Chiesa cattiva dell’epoca. Avendo un telefonino nuovo che non sapevo ancora usare bene, leggendo quel post mi parte senza volere e accorgermene la emoticon di una faccia sorridente. Me ne accorsi quando mi giunse un altro avviso con questo delicato messaggio: «Che cazzo hai da ridere?». Dopo qualche perplessità dissi tra di me: «No, non è possibile che sia Donna Fiammetta Caracciolo Carafa, che conobbi a suo tempo con il suo nobile consorte Don Oderisio de’ Sangro di Fondi. Non solo perché, ormai, sono morti tutti e due, ma perché una nobile partenopea di così antico lignaggio e casato principesco non si rivolgerebbe mai a questo modo nei riguardi di un prete su una pubblica pagina social».

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… quando delle gentildonne si rivolsero a me in quanto prete con questo tono, dopodiché protestarono persino presso il mio Vescovo

A quel punto con amabilità pastorale, nonché adempiendo al mio dovere di studioso, risposi che la emoticon con la faccina ridente mi era partita senza che neppure me ne fossi accorto e che pertanto era da considerarsi cosa involontaria. Chiarito il tutto le scrissi un post di una ventina di righe precisandole che non era serio lanciarsi pubblicamente in argomenti così complessi sul piano storico e giuridico, posto tra l’altro che i giudici del Tribunale dell’Inquisizione fecero il possibile e persino l’impossibile per salvare Giordano Bruno. Il suo processo durò 15 lunghi anni, fu annullato due volte per risibili difetti di forma e nel mentre fu fatto di tutto per indurlo a ravvedersi dalle sue gravissime eresie. Perché, che Giordano Bruno fosse un eretico, su questo c’è ben poco da discutere. E conclusi invitando questa gentildonna — sempre con grande amabilità — a non lanciarsi in mestieri sul piano storico, giuridico e teologico che non erano propriamente mestieri suoi. Poco dopo la nobildonna “napoletanissima”, residente però nei sobborghi di Caserta, mi lancia una sequela di insulti da far impallidire una prostituta appoggiata al lampione che impreca in una notte di pioggia per la mancanza di clienti. A quel punto, sempre senza mai uscire dalle righe, dopo essere stato sommerso di insulti volgari a sfondo sessuale, dopo essere stato aggredito dalle sue comari di lavatoio basso-casertano che mi epitetarono «mezzo pretuncolo» con indosso una «tonaca di merda», in tono scherzoso e, ripeto, mai e poi mai offensivo, ribatto dicendo: «Dinanzi a una donna come lei, ringrazio e benedico Dio per il grande dono del celibato e della castità». E poco dopo, in un dialetto da bassifondi casertani giunge una pubblica replica che vi offro tradotta direttamente in italiano. La nobildonna, interloquendo pubblicamente con un’altra sua comare dei bassifondi, scrive testualmente a mio riguardo: «Se non avesse fatto il voto (di castità) si sarebbe fatto solo le seghe, col cazzo che una donna come noi la dava a uno stronzo come Ariel S. Levi di Gualdo». Un brevissimo inciso: guardando le fotografie di questa Signora e delle sue Comari pubblicate sulla loro pagina social, chicchessia avrebbe compreso all’istante in che modo dinanzi a siffatte beltade sarebbe impallidita tutta quanta la Famiglia Addams, incluso lo zio Fester.

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delicatezze da parte di gentildonne rissose scatenate sui social media

Spero che il politically correct non mi accusi di incitare alla violenza sulle donne, se dinanzi a simili volgarità affermo in tono ilare: se donne simili non hanno padri o mariti che dopo avere letto certi pubblici messaggi non mollano loro due pedagogiche sberle, o se non hanno figli che a madri simili non dicono di provare vergogna per loro, è evidente che se mariti e figli non sono peggiori, perlomeno sono tal quali alle madri. A quel punto, sempre in modo ironico e mai offensivo, ribatto: «Si comporti da donna civile, lei e le sue amiche autrici di questi commenti, perché state dimostrando di essere peggio delle vajasse al lavatoio». Vi confesso che la parola vajassa la imparai dal mio confratello sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini Ivano Liguori, che per metà è campano per ramo paterno e per metà sardo per ramo materno. Chiariamo: questo termine del dialetto napoletano significa, in senso etimologico, “serva” o “domestica”. In seguito divenne sinonimo di donna di bassa estrazione sociale caratterizzata da atteggiamenti sguaiati, volgari e rissosi. E fu così che le nobildonne, dopo avermi insultato dalla testa ai piedi, dopo avermi ricoperto di insulti volgari, sentendosi definire infine vajasse, presero a urlare all’attentato di lesa maestà. Poi, stravolgendo totalmente la realtà, mutarono me in offensore presentandosi come povere vittime vilipese.

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Mi fermo a questo punto della narrazione, perché credo possa bastare. Adesso proseguo narrando le assurde conseguenze delle social-schizofrenie, sempre per chiarire a quali livelli possano giungere le squilibrate che impazzano su certe piattaforme ... e così queste donne, in testa la feroce amministratrice di quella pagina, tutt’oggi, a distanza di più di due anni, seguitano a riversare su di me cattiverie e volgarità della peggiore risma, attribuendomi quel che mai ho scritto e affermato. Di tanto in tanto prendono due e tre righe da qualche mio articolo, le tagliano, fanno uno screen-shot e mi attribuiscono ciò che mai ho neppure pensato. Come peraltro dimostra l’articolo stesso dal quale è stato operato quel taglio di due o tre righe, nel quale affermo proprio il contrario di ciò che mi viene imputato.

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Prima di procedere oltre è importante chiarire con un esempio concreto quest’ultimo passaggio delicato e soprattutto fondamentale, illustrando nei dettagli la tecnica con la quale gli odiatori confezionano bombe di fango da far esplodere sui social media per danneggiare l’immagine, la reputazione o la credibilità scientifica, intellettuale, ecclesiastica o teologica della persona che hanno deciso di colpire. Ecco dunque servito l’esempio concreto: in un precedente passaggio di questa mia narrazione, all’interno di un discorso molto serio nel quale parlo dell’incarnazione del Verbo di Dio e di Cristo vero Dio e vero uomo, facendo uso di una iperbole retorica affermo: «[…] non riesco proprio a immaginare Nostro Signore Gesù Cristo che piscia acquasanta dalle orecchie perché privo di un attributo sconveniente come il sesso maschile». Presto detto: tagliare queste due righe da un contesto molto serio tutto quanto legato al fondamentale mistero di fede della incarnazione del Verbo di Dio, sarebbe a tal punto disonesto da valicare ogni limite della umana decenza. Ma proprio questa è la disonestà su cui giocano da sempre le vajasse usate non certo come singole e povere persone bensì unicamente come paradigma, capaci a tagliare da uno scritto una frase di questo genere, farne uno screen-shot e poi diffonderlo sui social media indicandomi al pubblico disprezzo come un prete infame che osa fare persino della satira su Gesù Cristo (!?). «Un prete al quale non si capisce proprio» — tuonano le vajasse-paradigma nei loro commenti — «come possano lasciare la tonaca addosso». Ovviamente, sempre e di prassi, allo screen-shot non è mai allegato il link dove chiunque potrebbe aprire l’articolo, leggerlo per intero, quindi appurare che l’Autore indicato al pubblico disprezzo ha scritto l’esatto contrario, il tutto in un discorso articolato e preciso. A quel punto, sotto il post nel quale è stato riportato quello screen-shot di due righe, cominciano a moltiplicarsi i commenti feroci e offensivi di varie altre comari, che lungi dall’andare a cercare l’articolo in questione e appurare che cosa realmente questo «prete indegno» ha scritto, cominciano a emanare sentenze feroci su quelle due righe, senza conoscere né l’Autore e meno che mai il suo scritto. Ovviamente è tutto vero, non se ne discute, c’è la prova: ecco lo screen-shot! Capite bene che siamo parecchio oltre il problema dell’analfabetismo digitale di coloro che — lungi dal leggere un articolo da cima a fondo —, letto titolo e sottotitolo e spulciato in pochi secondi un testo che tratta semmai argomenti storici, filosofici, teologici e socio-pastorali molto complessi, alla fine decidono di capire quel che vogliono capire. Nel caso appena illustrato siamo invece di fronte alla malafede con connotati di autentica malvagità. Esattamente quella malafede che nasce dalla cattiveria tutta tipica delle persone che mentono sapendo di mentire, proprio come queste vajasse-paradigma animate dal bisogno insopprimibile di scaricare odio su una persona che per motivi o disagi psicologici loro personali decidono di usare come tiro al bersaglio, facendo gruppo e condizionandosi le une con le altre attraverso odio che genera odio, narrandosi menzogne le une con le altre, poi convincendosi le une con le altre che quelle falsità sono verità al di fuori di ogni possibile dubbio. Oggetto d’odio potrei essere io allo stesso modo in cui potrebbe esserlo il Primo Ministro della Repubblica Italiana oggi in carica, o quello che lo fu prima di lui, oppure i virologi tacciati di incompetenza e ignoranza da persone che se interrogate a tal proposito non saprebbero spiegare neppure in modo elementare che cos’è un virus, per seguire con noi preti colpevoli a vario titolo di tradire il messaggio autentico di Gesù Cristo, il tutto affermato con severità e violenza da persone di imprecisato spirito cristiano che nei loro commenti precedenti si sono appena dichiarate favorevoli all’aborto, all’eutanasia, al matrimonio tra coppie dello stesso sesso e via dicendo, il tutto giustificato dal fatto che a loro dire «… ma Gesù è amore!». Non importa quale sia l’oggetto, perché può essere il più disparato, dal giocatore di pallacanestro sino al chirurgo oncologico, l’importante, per queste persone, è focalizzare un soggetto, prenderlo di mira e trasformarlo in un oggetto feticista sul quale scaricare odio nel peggiore dei modi.

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Chiarito il tutto ritengo inutile, perlomeno adesso, di aprire un altro complesso discorso sui grandi padroni dei social media, che su questo giro di odio che genera odio ci fanno soldi, salvo far scattare la censura se uno osa postare l’immagine della Venere di Botticelli, letta dai loro algoritmi assurdi come immagine pornografica. Insomma, certi social media non sono il regno della scienza, dell’arte e della cultura, ma l’universo ideale dove abitano e impazzano le vajasse-paradigma bugiarde, violente e rissose.

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Leggendo invettive di questo genere rivolte a Padre Ariel sui social media , un suo confratello cinese residente da molti anni a Roma commentò così: «Durante la rivoluzione di Mao i preti furono catturati e nella migliore delle ipotesi incarcerati in prigioni orrende, ma nessun comunista maoista si è mai rivolto a loro rovesciandogli addosso una simile e volgare violenza verbale». Che è tutto dire …

Dopo avere insultato un prete in modo violento, le vajasse-paradigma contattano il mio Vescovo, commettendo così un reato dietro l’altro. Una, presentandosi come avvocato in procinto di querelarmi e chiedere per me, all’incirca, la stessa condanna a 25 anni di reclusione irrogata ad Ali Ağca per avere attentato alla vita del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II. Un’altra chiese un colloquio telefonico col mio Vescovo per intimargli — udite, udite! — che se lui mi avesse irrogato le “dovute” e severe pene canoniche loro avrebbero desistito concedendomi … clemenza. E qui si cade in varie fattispecie di reato legate all’abuso di una qualifica professionale — quella di avvocato che prevede l’iscrizione a un albo professionale e una abilitazione all’esercizio della professione — posta in essere, peraltro, con il rappresentante di un ente di diritto pubblico, tale è per la Legge il Vescovo di una diocesi, dalla vajassa-paradigma di turno affatto abilitata all’esercizio della professione forense. Fatto questo inviarono al mio Vescovo solo gli screen-shot nei quali in tono divertito e ironico rispondevo — senza insultare alcuna di loro — a delle aggressioni di una volgarità inqualificabile e di una violenza davvero inaudita. Ovviamente provvidi subito a inviare al Vescovo quanto mi avevano scritto e lanciato addosso queste gentildonne. Inutile a dirsi, rimase malissimo sia per la violenza che per i toni volgari con i quali delle popolane al lavatoio dei bassifondi di paese si erano permesse di rivolgersi a un suo prete nella maniera in cui mai avrebbe osato fare una prostituta professionista. E io, che a Roma ho dedicato parte del mio apostolato alle prostitute che lavoravano sul tratto della Via Aurelia che va dalla Capitale fino a Castel di Guido, conosco bene il garbo che queste donne avevano verso il sacerdote, usando sempre nei suoi riguardi rispetto e affetto.

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il trofeo esibito sui social media dalle vajasse: la ricevuta di ritorno della raccomandata inviata al Sommo Pontefice con richiesta – o meglio con l’ordine da loro impartito – di procedere quanto prima a “spretizzare” Ariel S. Levi di Gualdo

Dato che il Vescovo non dette loro credito, inviarono una lettera al Sommo Pontefice, pubblicando poi nei loro profili la ricevuta di ritorno della raccomandata, come fosse una via di mezzo tra un trofeo e una bolla di scomunica. In quella lettera chiesero all’incirca di “spretizzarmi”. Poi se la presero col mio Vescovo, a loro dire colpevole di non avere eseguito direttive e comandi da loro dati. Perché come risaputo un Vescovo sarebbe tenuto, anzi obbligato a prendere direttive da lavandaie volgari e rissose che passano gran parte del loro tempo sui social media a insolentire nel peggiore dei modi chi decidono di prendere di mira, eseguendo gli ordini che dalle stesse sono stati impartiti dopo avere insolentito nel peggiore di modi un suo prete. Altrimenti, se non fa questo, che razza di Vescovo è?

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Con una battuta ironica proviamo adesso a riassumere il tutto, per fissare con una immagine pertinente a quali livelli di delirio e di dissociazione dal reale possano vivere nei concreti fatti certe persone. Poniamo che io, mentre mi trovavo negli studi di Mediaset a Milano per i vari programmi ai quali ho partecipato, avessi detto a Paolo Del Debbio: «Senti, amico mio, ho bisogno di parlare urgentemente con Silvio Berlusconi». Ovviamente si sarebbe messo a ridere pensando a una mia battuta di spirito, ben sapendo che io sono una mente intelligente e razionale, non un idiota. Detto questo, io insisto. A quel punto lui mi chiede il motivo di quel mio bisogno urgente. Al che rispondo: «Perché a casa mia ogni tanto Rete4 non si vede bene, per ciò esigo che Silvio Berlusconi mi sistemi la recezione della mia antenna televisiva nel modo in cui io gli indicherò di fare». Una cosa del genere detta da me a Paolo Del Debbio, lo avrebbe fatto morire dal ridere, poi, poco dopo, avrebbe fatto il giro di tutta la redazione facendo ridere tutti quanti i redattori, che sapendo anch’essi quanto io sia una mente intelligente e razionale, avrebbero detto che il Padre Ariel ha un senso dell’umorismo esilarante. Nel caso delle vajasse-paradigma aspiranti napoletane veraci, emblema della violenza, della manipolazione, dei barbari taglia e cuci fatti da certe persone sui social media e della necessità psicofisica di odiare, bisogna invece ridere per altro verso. Infatti, queste nobildonne, dopo essersi dichiarate rammaricate per il mio Vescovo che non mi aveva tolto la veste talare di dosso e condannato pubblicamente, si sono amareggiate ulteriormente perché il Santo Padre al quale avevano scritto per ben due volte — come da loro dichiarato e con tanto di ricevuta della raccomandata esibita —, non aveva mai preso alcun provvedimento su di me, dando in tal modo esecuzioni agli ordini impartiti dalle lavandaie violente e rissose non solo al mio Vescovo, ma persino al Romano Pontefice, che come minimo avrebbe dovuto richiedere in comodato d’uso al Comune di Roma Castel Sant’Angelo per rinchiudermi nelle sue carceri interne e gettando poi la chiave della cella nelle acque del Tevere. Quindi non riuscivano a farsene proprio una ragione, al punto tale da seguitare a scrivere: «Come possono non punire severamente un prete del genere, dopo tutto quello che noi abbiamo scritto a Papa Francesco?». Insomma, hanno preteso che Silvio Berlusconi, dietro sottile minaccia a fare come loro volevano e nel modo in cui volevano, provvedesse a sistemargli l’antenna della televisione, perché in caso contrario lo avrebbero denunciato alla Comunità Europea, ma che dico, direttamente alla Società delle Nazioni Unite, chiedendo in caso contrario l’immediato intervento dei caschi blu dell’O.N.U. per assediare la cittadella di Mediaset a Cologno Monzese.

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Un mio ex compagno di studi, oggi Procuratore della Repubblica in un capoluogo di regione, in tono affatto divertito, bensì molto irritato, mi narrò tempo fa che i Pubblici Ministeri, giorno dietro giorno archiviano querele assurde presentate per i motivi più folli e irrazionali da persone che, sempre più numerose, credono veramente che la Legge possa essere applicata — e di rigore anche con assoluta severità — per rendere la massima giustizia alla incontenibile iper-suscettibilità e al narcisismo ipertrofico di certi soggetti che vivono nel pianeta surreale dei social media anziché nel mondo del reale. Mi confidò che uno dei suoi Pubblici Ministeri gli fece leggere un giorno una querela nella quale una tale aveva querelato un uomo perché sotto la foto da lei postata sulla sua pubblica pagina social, con lei ritratta in costume da bagno, aveva postato una emoticon con una faccetta ridente che faceva una linguaccia.

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Con questo esempio l’amico magistrato riassunse il dramma delle vajasse-paradigma testé narrate e affini vari. Tutte queste persone hanno in comune anche un’altra caratteristica, o meglio il vezzo di usare i termini medioevo e medievale come parole insultanti con le quali bollare coloro che hanno mutato in feticci sui quali scaricare odio, all’incirca come uno stregone voodoo pratica la macumba piantando spilloni su una bambolina di pezza. E provate a spiegarlo a questo esercito di analfabeti digitali e di rissosi violenti che il Medioevo è quel monachesimo benedettino che ha dato vita al concetto e alla parola stessa di Europa e che ci ha trasmesso secoli e secoli di sapere, che senza il circuito dei monasteri benedettini sarebbe andato perduto per sempre. O che il medioevo sono Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino, per seguire con Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. E provate poi a spiegare che il Medioevo, diviso in tre distinte epoche nel lasso di quasi dieci secoli, è stato un fiorire di arti e scienze in ogni dove. Quel che loro intendono come medioevo — ma che nel vero Medioevo non è invece esistito mai — è ciò che oggi esiste invece nel mondo dei social media, attraverso i quali l’uomo, dietro falsi pretesti di progresso e di libertà, ha perduto ogni genere di continenza, pudore e misura, sino a regredire ai sassi e alla fionda della preistoria, sino a dare il peggio di sé stesso come mai aveva fatto prima. Aveva per ciò ragione in tal senso Umberto Eco affermando:

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«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

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Magari l’uomo di oggi avesse la mente speculativa, l’estro creativo e il senso critico che aveva l’uomo del basso, medio e tardo Medioevo, magari! E purtroppo, da questa grande e incontrollabile fogna, affiorano in superficie anche molti sedicenti cattolici e donne variamente frustrate e infelici celate dietro Cristi fluidi e Madonnine languide, che costituiscono la negazione peggiore della Christianitas.

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Dentro i social media io entro, scrivo e dibatto con lo spirito del buon pastore che non esita a entrare all’occorrenza anche dentro un bordello dei peggiori bassifondi, nella consapevolezza che non riuscirà mai a togliere dal giro tutte le prostitute che vi lavorano, però, una o due, può anche essere che riesca a indurle a un cambio di vita. Il buon pastore non esita ad andare in un circolo di drogati, o di malavitosi, consapevole che ben pochi saranno quelli che riuscirà a strappare alla tossicodipendenza o ai giri della criminalità organizzata, ma sappiamo quanto per Dio anche una sola anima è molto preziosa.

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Padre, perché ogni tanto sui social media dici parolacce? È vero, ogni tanto uso un linguaggio colorito. Però vi chiedo: qualcuno pensa veramente che lo faccia per caso, o peggio per incontinenza verbale? Ebbene ve lo confesso: nell’ambito dei social media ho indotto alla ragione più persone con una parolaccia che con una Ave Maria. Ogni impresa richiede delle precise tecniche di azione, ogni ambito richiede il proprio linguaggio espressivo: non si parla di metafisica a un analfabeta e al tempo stesso non si dovrebbe trattare un metafisico come se fosse un perfetto analfabeta. A una cena di gala presso un’ambasciata si sgusciano i gamberetti con coltello e forchetta, altrettanto si toglie la buccia alla frutta, mentre in un’osteria di pescatori si sgusciano i gamberetti con le mani e si sbuccia la frutta con il coltello tenendola stretta tra le mani. Non si usano le mani in certi contesti e in altri sarebbe offensivo per tutti i presenti usare invece coltello e forchetta. Tutto questo si chiama semplicemente e null’altro che buonsenso.

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Sono queste oggi, nel mondo affatto felice in cui viviamo, le grandi e difficili sfide pastorali che noi preti dobbiamo affrontare, all’occorrenza con coltello e forchetta, in altri contesti ungendosi le dita con i gusci dei gamberetti. E credetemi se per esperienza di prete, pastore in cura d’anime e teologo vi dico con estrema chiarezza: come impresa non è affatto poca cosa, nel moderno mondo dell’uomo della pietra e della fionda che oggi imperversa sui social media, salvo ironizzare con tutta la sua crassa ignoranza sulla mente aperta, creativa e speculativa che aveva invece l’uomo del medioevo.

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dall’Isola di Patmos, 14 gennaio 2022

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I social media funzionano così: ritenere di avere il diritto di offendere chiunque senza limiti e senza filtri, però, se la persona offesa risponde per le rime, a quel punto, chi ti ha offeso, dichiara immediatamente di essere stato offeso da te (!?). Poi, se l’offensore è una donna, in quel caso, chi è stato offeso e ha osato ribattere, è gravemente colpevole di avere “offeso una donna”. Questa è la “logica” dei social media.

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Alcune perle di saggezza delle vajasse-paradigma che passano le loro giornate sui social media a dare lezioni di storia, filosofia, medicina, politica, fisica quantistica, teologia, arte e chi più ne ha ne metta … e che aggrediscono e insultano senza filtri e limiti chiunque osi contraddire le espressioni della loro “alta sapienza”, in quei social media ormai ridotti a un pianeta «invaso da legioni di imbecilli che hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel», com’ebbe a lamentare Umberto Eco già svariati anni fa.

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Pensieri sul concetto di libertà filiale in tempo di pandemia, riguardo certi vescovi che si sono dimenticati di essere padri dei vaccinati e dei non vaccinati

—Pastorale sanitaria —

PENSIERI SUL CONCETTO DI LIBERTÀ FILIALE IN TEMPO DI PANDEMIA, RIGUARDO CERTI VESCOVI CHE SI SONO DIMENTICATI DI ESSERE PADRI DEI VACCINATI E DEI NON VACCINATI

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Quell’anima bella di Monsignor Cirulli perde di vista il fatto che all’occorrenza è nel suo pieno diritto imporre il divieto ai fedeli cattolici di usare il preservativo o la pillola anticoncezionale o più ancora l’uso della pillola del giorno dopo o peggio ancora della pillola abortiva. Così come può vietare ai suoi preti di andare a donne o a uomini o di chiedere loro l’osservanza scrupolosa della normativa liturgica e canonica, ma non può obbligare il clero e i fedeli alla vaccinazione semplicemente perché questo esula dalle sue funzioni. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Franco Califano (Tripoli 1938 – Roma 2013) «Maledetta noia», per aprire il video cliccare sull’immagine

Nella domenica appena trascorsa, festa del Battesimo del Signore, al momento dell’omelia riflettevo con i miei parrocchiani sul fatto che nel battesimo il cristiano, oltre alle virtù teologali di fede, speranza e carità riceve anzitutto il dono preziosissimo della libertà filiale. Per noi cristiani l’essere liberi è una prerogativa dell’essere figli. Il Beato apostolo Paolo lo sottolinea decisamente bene nella sua lettera ai Galati [cfr. Gal 4, 4-ss].

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Già l’agiografo biblico, nel Libro della Genesi, descrivendo la creazione dell’uomo, dice che ognuno è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio [cfr. Gn 1, 26], intendendo per somiglianza quelle qualità mentali, morali e sociali proprie di Dio, che il Creatore ha impresso nella creatura umana differenziandola da tutte le altre create. Da questa somiglianza divina si sancisce, in modo netto e definitivo, la differenza e la superiorità dell’uomo rispetto a tutte le altre creature, ivi comprese quelle animali.

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Facciamo attenzione e chiariamo subito un concetto fondamentale: il dono della libertà filiale non è un merito personale che l’uomo può vantare ma è una grazia acquisita che otteniamo dal Padre (come dirà la Lettera ai Galati con l’espressione greca dià theōu!) in vista dell’incarnazione del Verbo, di Cristo Figlio unigenito, il quale ha reso possibile l’essere figli nel Figlio in modo pieno e duraturo riscattando l’uomo da quella condizione di peccato e di morte su cui si sosteneva l’antica schiavitù, come ebbe a rimarcare Gesù davanti ai Giudei: «se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» [Gv 8, 36].

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Se capiamo che la libertà cristiana è prerogativa del Figlio e di coloro che hanno saputo accoglierlo [cfr. Gv 1,12], tanto da diventarne gli eredi legittimi [cfr. Rm 8,17], possiamo anche comprendere la piena possibilità di ciascun battezzato di relazionarsi pienamente con Dio Padre e con lo Spirito Santo così come Cristo ha fatto. Infatti, solo se siamo autenticamente figli nel Figlio possiamo esercitare anche quella libertà piena che implica un riconoscimento di relazione col Padre come l’amante e con lo Spirito Santo come l’amore.

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Al momento del nostro battesimo, perciò, ci viene donato dalla grazia di Dio il dono della libertà filiale così come fu donata a Cristo che fu libero davanti al Padre e si mantenne tale nella sua vita terrena proprio perché figlio beneamato dentro quell’unzione di Spirito Santo che è garanzia di ogni perfetta comunione e comunicazione con Dio [cfr. Rm 8, 14-ss] nella libertà.

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Da questi presupposti teologici, non è difficile comprendere come la libertà cristiana suppone, per essere tale, di una costante comunicazione relazionale. Così come Dio è pienamente liberò in sé stesso proprio perché nel suo intimo mistero le augustissime persone della Santissima Trinità non possono che relazionarsi tra di loro in pienezza ― cosa che si riferisce anche al Verbo dopo la sua incarnazione ― così l’uomo è veramente libero solo quando è capace di entrare in comunione con Dio e di relazionarsi con le creature.

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Purtroppo, alla prova provata dei fatti, parlare di libertà cristiana oggi come riscoperta del proprio battesimo e quindi come impegno evangelico ad essere testimoni nel mondo della libertà del Figlio non è affatto facile. L’attuale crisi sanitaria pandemica ha snaturato il concetto di libertà non solo nel suo riferimento teologico ma anche in quel riferimento filosofico e sociale che sta alla base di ogni civiltà. Si è passati in meno di due anni da una crisi sanitaria a una sociale che ha lasciato pesanti ripercussioni sulla sfera politica ed economica del Paese tanto da mettere in crisi quelle certezze un tempo considerate scontate. Questa crisi globale non ha risparmiato neanche la fede che sta conoscendo una incrinatura molto profonda tanto da portare alla deriva la libertà dei fedeli battezzati a favore di un miraggio di libertà che è fatto di “benevoli concessioni” che giorno dopo giorno ipotecano la libertà filiale sull’altare dell’emergenza, oggi di quella sanitaria e domani di chissà quale altra.

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Stoicamente abbiamo saputo portare il sacrificio della lontananza dai Sacramenti, della sospensione delle Sante Messe, dalla rimodulazione delle tradizioni religiose e il tutto nella speranza di poter nuovamente ripartire, cosa che oggi appare sempre più difficile. Sia ad extra che ad intra del mondo cristiano, così come di quello civile, assistiamo a una continua diminuzione del concetto di libertà che viene decurtata in misura tanto proporzionale e graduale rispetto all’aumentare della distanza comunionale tra l’uomo e l’uomo e tra l’uomo e Dio. Assistiamo inermi, da due anni a questa parte, all’impossibilità di creare delle relazioni stabili, dei dialoghi franchi, dei confronti maturi tra le parti. Tutto cade sotto la luce del sospetto, dell’illegalità, della clandestinità: non si intravede più una comunicazione dialogica socratica che partorisca una verità libera e liberante e che riconosca nell’uomo l’opera più bella fatta dal Creatore. La lontananza tra gli individui è palpabile e nelle nostre chiese sperimentiamo la desolazione dei banchi vuoti in cui i battezzati, un tempo figli amati, cercano un padre che non si fa trovare. E paternamente una parte dei nostri vescovi rimane chiuso nelle proprie curie-fortezze a produrre grida manzoniane di allerta e di vigilanza al virus, invidiando forse le istituzioni civili che con un decreto possono interdire agli untori alcune fette di vita sociale alimentando l’illusione dei paradisi Covid free tenuti in piedi da un etereo GreenPass e da una comunicazione terroristica che è figlia di una libertà che ha smarrito il riferimento alla paternità e di una comunione che è incapace di incontrare il prossimo.

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Noi uomini di Chiesa, così come gli uomini dello Stato, stiamo trovando grandi difficoltà a comunicare con le persone che non sono più viste come figli, fratelli e cittadini da proteggere e tutelare, ma come delle categorie da etichettare, buoni nella parte del capro espiatorio a cui è giusto e doveroso dare addosso. Ecco che allora ci sono anche nelle parrocchie e nei conventi i fedeli pro-vax e no-vax; i conservatori e i progressisti; i tradizionalisti e i riformisti. E, insieme a tutta questa dialettica della contrapposizione, si tira avanti sul controllo e sull’eliminazione della parte avversaria confondendo la verità, con l’accettazione della narrazione unica del proprio schieramento; la libertà, con l’uniformarsi a questa verità di parte e il bene comune con quanto affermato dalla maggioranza.

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Tutto questo lungo ragionamento mi serve come necessaria premessa a una questione pastorale che mi crea una sensazione di interiore tristezza unita a una pietosa commiserazione. Da sacerdote e da battezzato assisto quotidianamente e in modo sistematico e metodico, allo smantellamento della libertà cristiana di tanti fedeli che si ritrovano bistrattati dai loro pastori che hanno ormai più propensione alla sanificazione delle anime che alla loro santificazione. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello che riguarda S.E. Mons. Giacomo Cirulli, vescovo delle Diocesi di Teano-Calvi e di Alife-Caiazzo che ha vietato la distribuzione della comunione a quei sacerdoti non vaccinati (vedi qui, qui), ma anche a quei diaconi e laici etichettati come no-vax che prestano servizio nella sua Chiesa diocesana. Il presule, che a quanto pare è laureato in medicina, da buon ufficiale sanitario dispone la sospensione draconiana del servizio liturgico pastorale del suo clero considerato renitente al siero creando così un precedente pastorale e canonico unico che non ha fino a ora precedenti nella storia della Chiesa.

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E sì, perché quell’anima bella di Monsignor Cirulli perde di vista il fatto che all’occorrenza è nel suo pieno diritto imporre il divieto ai fedeli cattolici di usare il preservativo o la pillola anticoncezionale o più ancora l’uso della pillola del giorno dopo o peggio ancora della pillola abortiva. Così come può vietare ai suoi preti di andare a donne o a uomini o di chiedere loro l’osservanza scrupolosa della normativa liturgica e canonica, ma non può obbligare il clero e i fedeli alla vaccinazione semplicemente perché questo esula dalle sue funzioni anche se si tratta di un laureato in medicina, perché lui da vescovo è stato consacrato essenzialmente per essere un padre che parla al cuore dei figli che Cristo gli ha affidato, i quali vanno esortati e recuperati, anche nello sciagurato caso in cui questi si allontanassero dalla casa paterna facendo un cattivo uso della loro libertà.

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Devotamente desideriamo dare un consiglio a Monsignor Cirulli, che è un consiglio di buon senso e consiste nell’appellarsi alla coscienza e alla libertà dei propri figli ― sacerdoti e laici ― e vedere la vaccinazione non come un obbligo dogmatico ma come uno dei tanti strumenti percorribili che la medicina suggerisce in questo tempo di emergenza sanitaria insieme alle altre cure del caso messe a disposizione dell’arte medica. O per meglio intendersi: in questo momento, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, la scienza e la medicina suggeriscono e raccomandano la vaccinazione per evitare non il contagio ― sappiamo e ci è stato spiegato dagli specialisti che i vaccinati possono contagiarsi ―, ma per evitare gli effetti devastanti del Covid-19 con tutto ciò che può comportare alla salute del singolo, o al personale medico già provato da ormai quasi due anni di emergenza che deve assistere i ricoverati, per seguire con l’intero sistema sanitario nazionale che nel corso della prima ondata rischiò il collasso.

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Sospendere così, in modo coercitivo la potestas ministeriale dei propri sacerdoti, fino a prova contraria non colpiti da alcuna pena canonica, impone di fatto un lockdown alla coscienza del presbìtero che ha il dovere di accorrere premurosamente verso ogni fedele che richiede legittimamente la sua assistenza spirituale. Ravvedo anche un utilizzo furbo e malizioso da parte del vescovo delle parole pronunciate dal Romano Pontefice a vaccinarsi. Infatti, la frase del Papa: «vaccinarsi è un atto d’amore» è ovviamente sensata, ma si tratta di una paterna parenesi e non di un pronunciamento ex cathedra, una doverosa esortazione, non un pronunciamento dogmatico che vincola in fatto di fede e di morale. Perché, a questo punto, anche il vaccinarsi per altre patologie può giustamente ritenersi un atto d’amore, così come il mantenimento del proprio fisico in salute o l’osservanza di una vita salubre e moralmente irreprensibile. Domando, c’è bisogno del Papa o di un vescovo per capire questo o esortare a questo? Noi Padri de L’Isola di Patmos, che siamo stati tutti e tre autori di un libro dedicato al delicato tema La Chiesa e il coronavirus, abbiamo dichiarato pubblicamente in più occasioni di essere vaccinati, quando il vaccino è stato disponibile e quando giunse il nostro turno, perché abbiamo liberamente e coscientemente deciso di prestare fiducia alla scienza e alle indicazioni date da esperti e specialisti. Attenzione però alle parole e al significato delle parole: lo abbiamo fatto esercitando la nostra libertà e decidendo di dare fiducia, quindi abbiamo agito per atto di fiducia, che è una azione da non confondere mai con un atto di fede, che è tutt’altra cosa. Oggi viene seriamente da chiedersi: la scienza alla quale per primi noi abbiamo dato fiducia, ma soprattutto la politica che sembra usare a volte la scienza come un corpo contundente, vuole un nostro atto di fiducia oppure un nostro atto di fede? Perché la fede si regge sui dogmi, ma la scienza no, anzi semmai è specializzata a riderci sopra, sino a giungere a certe correnti della psichiatria che collocano la religiosità nell’ambito delle nevrosi.

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Non mi sembra di ricordare che siano state fatte nel passato esortazioni episcopali per far sì che il clero secolare o religioso mangiasse o bevesse con più moderazione ― a fronte dei tanti casi di alcolismo cronico e di obesità grave ancor oggi presenti tra i consacrati ― men che meno il consiglio di praticare una vita più sportiva, cosa questa che avrebbe senza dubbio evitato di indossare, già dagli anni della formazione seminariale, la taglia 52 del pantalone che aumenta con l’aumentare degli incarichi ricevuti. E non mi voglio soffermare sul pietoso e delicato caso dei sacerdoti che sono caduti nelle diverse dipendenze, cosa che non si può dire per clericale pudore ma che di volta in volta viene alla ribalta sulle colonne di cronaca [vedi qui, qui], ma se qualcuno vuole approfondire questi dolorosi temi legati alla decadenza morale del clero, basta legga il libro E Satana di fece trino di Ariel S. Levi di Gualdo.

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Eccellenza reverendissima cosa facciamo? Vietiamo anche ai ciccioni, agli ubriaconi e ai dipendenti di varia fatta la cura delle anime perché incapaci di atti di amore? Vogliamo proporre alla Congregazione per il Clero un catarismo pastorale in cui solo i duri e puri possono esercitare il ministero sacerdotale mentre gli altri vengono rimandati a casa? Mentre Vostra Eccellenza ci pensa, desidero ribadire il pericolo concreto di utilizzare l’alibi dell’amore svincolato da tutto e da tutti come rafforzativo dei propri ideologici slogan. Abbiamo già visto schiere glitterate e arcobalenate di uomini che ci vogliono convincere al suono di Love is Love, tema questo al quale io e Ariel S. Levi di Gualdo abbiamo dedicato il nostro libro: Dal Prozan al Prozac. A questo punto, se basta un atto d’amore a sistemare le cose, come possiamo ancora dargli torto? Se basta un atto d’amore a giustificare ogni cosa, consideriamo anche l’eutanasia come atto di amore nei confronti dei morenti o l’aborto come atto d’amore verso una donna che desidera realizzarsi.

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La verità, Eccellenza Reverendissima, non consiste nel fatto che i suoi sacerdoti sono restii a offrire il braccio alla patria per farsi vaccinare ― considerando che la quasi totalità di noi presbiteri italiani è vaccinata ―, ma che probabilmente sussiste un’evidente difficoltà a relazionarsi con loro. Questo preclude ogni libertà, favorendo sbrigative limitazioni e irrigidimento tra le parti.

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Se Dio facesse così con noi ogni volta che pecchiamo o che deliberatamente disobbediamo alla sua volontà, cosa ne sarebbe di noi? Cosa ne sarebbe di Dio? E invece no, Dio continua a intessere con noi una relazione, una comunione proprio e soprattutto quando la nostra libertà di figli è più traballante e viene meno. Dio manda continuamente la sua Parola incarnata a donarci quella misericordia fatta carne che è la sola che può ricostituire in salute la nostra libertà filiale compromessa. Siamo liberi solo se in comunione, come padre vescovo aspetti con premura e tremore i suoi figli sacerdoti e laici sulla soglia di casa, non per circoscriverli con provvedimenti restrittivi ma per avvolgerli con quell’abbraccio al collo [cfr. Lc 15, 20] che scioglie ogni resistenza e fa capire che il padre è sempre tale soprattutto quando sbaglia, ed è il padre dei vaccinati e dei non vaccinati, che come padre cerca, a volte con difficoltà, l’unità, non si presta certo a creare drammatiche fratture e divisioni. Quindi è il padre delle vergini consacrate e al tempo stesso ― forse persino di più ancora ― delle donne che hanno abortito, bisognose della sua accoglienza e del suo perdono molto più di quanto non ne abbiamo bisogno le vergini consacrate.

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Ma questi nostri sono discorsi cattolici, forse desueti e forse persino fastidiosi, mentre tutto il resto è noia, come cantava Franco Califano: ma noia, noia, noia …

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Laconi, 13 gennaio 2021

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Storia di un amore tradito che non si è mai spento: è morto Luigi Negri, fu vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro e poi Arcivescovo di Ferrara. Un disastro di vescovo ma un autentico credente e un uomo di fede

—  Attualità ecclesiale — 

STORIA DI UN AMORE TRADITO CHE NON SI È MAI SPENTO: È MORTO LUIGI NEGRI, FU VESCOVO DELLA DIOCESI DI SAN MARINO-MONTEFELTRO E POI ARCIVESCOVO DI FERRARA. UN DISASTRO DI VESCOVO MA AUTENTICO CREDENTE E UOMO DI FEDE

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In queste luttuose circostanze l’ipocrisia clericale degli ecclesiastici riesce sempre a dare il meglio di sé, seguita appresso da quella dei clericali laici che la supera di gran lunga. Così, avvolti per qualche giorno dal senso di insano ossequio verso la morte che a dire di taluni cancellerebbe tutto, si procede con la beatificazione del defunto, magnificando anzitutto le virtù che non aveva.

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Roma, 1° maggio 2010, sacrestia di Santa Prisca all’Aventino, Luigi Negri, Vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro, poco prima della consacrazione sacerdotale di Ariel S. Levi di Gualdo

Il 31 dicembre 2021 è morto Luigi Negri, che fu vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro (2005-2012), poi Arcivescovo di Ferrara (2013-2017). Personalità complessa e contraddittoria, con un carattere impulsivo e passionale che creò non pochi problemi a lui, a chi gli è stato vicino e alle due diocesi che ha governato.

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In queste luttuose circostanze l’ipocrisia clericale degli ecclesiastici riesce sempre a dare il meglio di sé, seguita appresso da quella dei clericali laici che la supera di gran lunga. Così, avvolti per qualche giorno dal senso di insano ossequio verso la morte che a dire di taluni cancellerebbe tutto, si procede con la beatificazione del defunto, magnificando anzitutto le virtù che non aveva.

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Ho conosciuto molto bene Luigi Negri, perché le sue passionalità e imprudenze, che spesso hanno generato un pessimo governo pastorale, le ho sperimentate sulla mia pelle e, in un certo senso, le pagherò nel corso di tutta la mia vita sacerdotale, pur non avendone colpa e responsabilità personale alcuna, né io né il mio attuale Vescovo, che in perfetta antitesi a Luigi Negri è un pastore in cura d’anime a tal punto premuroso e amorevole che di sé lascerà un ricordo indelebile per lunghi decenni a seguire.

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Come a volte può accadere con certi padri, anziché un’eredità Luigi Negri mi ha lasciato dei debiti da pagare a dei creditori inavveduti che non sono stati contratti da me, finito nell’ingrata condizione di doverli estinguere e pagarne quindi tutte le conseguenze. Questo è stato per me Luigi Negri, lo sanno bene i miei confratelli della Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro, nessuno dei quali pare essersi mai chiesto come mai, nella mia Diocesi di appartenenza, in 12 anni di sacerdozio non ho mai celebrato la Santa Messa neppure una volta, né mai ho partecipato alla Santa Messa del Crisma, o all’assemblea del clero. Ciò detto chiarisco: nemmeno lo farò, perlomeno sino al giorno in cui non mi saranno presentate quelle scuse che dalla prima all’ultima mi sono dovute. Non per me, ma per il sacro rispetto dovuto al ministero sacerdotale, perché se i primi a non rispettare il sacerdozio sono vescovi e preti, non ci si può certo lamentare che il sacro ministero sacerdotale non sia rispettato dai fedeli. E sono scuse dovute specie da parte di questa Santa Chiesa così piaciona e politicamente corretta che si strugge il cuore anche per l’ultimo degli ex galeotti tunisini che sbarcano clandestini sulle nostre coste per finire a spacciare droga sulle strade delle città italiane, ma che ritiene di poter trattare in modo così barbaro dei presbiteri che alla prova provata dei fatti non hanno mai dato problemi di natura morale, dottrinale e patrimoniale. E, considerati i tempi che corrono, è proprio il caso di dire ― senza alone di presunzione ― che un presbitero come me andrebbe portato come esempio di vita sacerdotale, sino a non facile prova contraria. E chi prova contraria l’avesse, che la sventoli ai quattro venti sulla pubblica piazza.

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È da questo che, per apparente paradosso, derivano i miei guai originati tutti dalle imprudenze e dal mancato accudimento di Luigi Negri. Infatti, non solo la prova contraria di quanto ho appena affermato non esiste, perché c’è di peggio: non ho scheletri negli armadi, quindi non posso essere ricattato sul piano morale ed economico. E oggi, se un prete non può essere ricattato, non può essere neppure intruppato in certe diocesi che sul meccanismo del ricatto stabiliscono i loro strani equilibri, che alla prova dei fatti stiamo pagando con le nostre chiese sempre più vuote e con una crisi di credibilità nella quale il clero non versava neppure nell’XI secolo, all’epoca in cui San Pier Damiani scriveva il suo Liber Gomorrhianus. Siamo noi preti, con le nostre inadeguatezze e pigrizie, con il nostro quieto vivere e con le nostre carenze dottrinali e morali, che le abbiamo svuotate, non la pandemia da Covid-19.

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Per comprendere il gran cuore di padre e pastore di Luigi Negri narrerò una scena della mia consacrazione sacerdotale, avvenuta a Roma nella Chiesa di Santa Prisca all’Aventino il 1° maggio 2010. Sin dal mese precedente pregai il vescovo di potermi intrattenere a colloquio con lui per una mezz’ora prima della sacra ordinazione. La sera del 30 aprile giunse a Roma alle 21,30 presso la casa sacerdotale internazionale dove alloggiavo, mi salutò e chiese di ritirarsi. Al che lo accompagnai presso la camera a lui riservata, il tutto nello spazio di cinque minuti. Prima di chiudermi la porta in faccia mi disse: «Ci vediamo domani mattina dopo colazione». Alle 8 del mattino successivo gli servii la colazione, ma senza poter parlare con lui, perché c’erano tutti gli altri sacerdoti della casa. Poi si ritirò dicendomi: «Ci vediamo alle 9.30». Alle 10 mi chiama il suo accompagnatore che mi annuncia: «Il vescovo mi ha detto di riferirti che vi vedrete direttamente in chiesa». Cinque minuti prima delle 11 giunge in chiesa, accolto sulla porta dal rettore, da me e dagli accoliti dell’Almo Collegio Capranica che prestarono servizio liturgico, mentre 92 sacerdoti concelebranti e quattro diaconi assistenti lo attendevano già parati nella sacrestia. Il tempo di pararsi e partiamo in processione, senza avere scambiato neppure due parole tra di noi.

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Dopo la proclamazione del Santo Vangelo fece un’omelia nella quale mise in luce persino le virtù che io non sapevo nemmeno di avere, solo in quel momento ne presi atto, debbo dire anche con grande felicità, appunto perché le ignoravo del tutto. I concelebranti ― che ripeto erano 92 presbiteri provenienti da varie parti del mondo ― rimasero colpiti e per giorni si dissero tra di loro:

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«Capita di rado che un vescovo dica parole simili su un suo presbitero dimostrando una volontà così determinata a ordinarlo con profondo orgoglio episcopale».

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Terminato il solenne pontificale, mentre in sacrestia ricevevo gli abbracci dei numerosi confratelli, il Vescovo sparisce. In seguito mi fu raccontata una scena rimasta purtroppo agli annali: mio fratello Paolo, con il suo bambino per mano, all’epoca 5 anni, corse verso l’auto del Vescovo per salutarlo, perché Luigi Negri se ne stava andando senza neppure degnare di un saluto mia madre e mio fratello.

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Lo attendeva forse il Santo Padre in udienza privata? No, aveva appuntamento con il senatore di Forza Italia Marcello Pera, un socio-politologo fatto passare per grande filosofo, uno dei vari amici di Luigi Negri, al quale tre mesi dopo, quand’ebbi modo di vederlo per cinque minuti scarsi, lamentando quel suo comportamento dissi:

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«Se un peccatore incallito che non si confessa da trent’anni ha un rigurgito di coscienza, o se un morente ha bisogno di essere confortato con i Sacramenti, ci mandi Marcello Pera, oppure, sa che le dico: ci mandi direttamente Silvio Berlusconi, così la salvezza eterna dell’anima sarà garantita al cento per cento».

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Caratterialmente più permaloso di una scimmia, la conseguenza fu che per un anno non mi rispose neppure al telefono. Potrei seguitare con molti altri racconti, dinanzi ai quali il romanzo Cuore, nota opera strappalacrime scritta da Edmondo De Amicis nel 1886, a confronto di certi episodi molti tristi e penosi da me vissuti risulterebbe più spassoso di uno spettacolo comico-teatrale esilarante portato in scena al Teatro Brancaccio dal grande e compianto Gigi Proietti.

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Cristo Dio mi ha voluto davvero suo sacerdote a tutti i costi, perché subito dopo la mia sacra ordinazione fui messo in condizioni non solo insostenibili, ma in condizioni che valicavano la capacità di sopportazione umana, come ammisero due miei formatori, uno dei quali vescovo di lunga esperienza. Per molto meno si sono visti presbiteri abbandonare il sacerdozio su due piedi dopo un paio d’anni, anche dopo un anno, o persino dopo soli sei mesi. Che io abbia un carattere molto forte è riconosciuto da tutti, ma neppure un carattere forte è sufficiente in certe situazioni. È in questo che ho visto la prorompente azione della grazia di Dio su di me, perché lei e lei sola mi ha sostenuto, io non ho meriti. E se un merito ce l’ho, è uno soltanto: avere liberamente accolta la grazia operante e trasformante di Dio. Solo oggi capisco i motivi che ieri non potevo comprendere, questi: ormai da anni, come confessore e direttore spirituale, svolgo un delicato e intenso lavoro pastorale a sostegno di sacerdoti che versano in gravi difficoltà. Come si può comprendere il dolore della croce senza averla portata sulle spalle ed esserci poi stati inchiodati sopra? Sì, sono occorsi anni, ma alla fine ho capito il mio ruolo nella economia della salvezza, che doveva passare dalla croce mia per poter svolgere il ruolo di colui che aiuta a portare la croce agli altri, anziché dire, con lo stile dei vescovi migrazionisti nuova generazione: «Forse hai bisogno dell’aiuto di un bravo psicologo». No, scellerati che non siete altro! Un prete in difficoltà, sempre e di rigore ha bisogno di un altro prete in grado di sostenerlo, oltre che di un vescovo degno di questo nome, ma oggi sempre più difficile da trovare, tanto sono impegnati a piangere sui barconi dei clandestini o sui poveri ideologici. O qualcuno conosce forse altre vie, al presente, per diventare vescovi e rimanere poi sulla propria cattedra episcopale, se non la piaggeria ruffiana e la avvilente e spersonalizzante omologazione a certe odierne tendenze pastorali tanto devastanti quanto fallimentari sulle quali, seppure consapevoli dell’immane danno, nessuno fiata e alle quali tutti si omologano?

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Con buona pace dei laudatori post mortem e delle tifoserie cielline che per qualche giorno si scateneranno narrando meraviglie a non finire sul grande Luigi Negri allievo della prima ora del grandissimo Luigi Giussani, posso e devo dire, con tutto lo spirito di verità più realistico e purtroppo impietoso, che come vescovo è stato un disastro. Perché questo è il problema di fondo: Luigi Negri non andava proprio fatto vescovo. Non si catapulta un uomo, a 64 anni d’età, da una cattedra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano alla cattedra episcopale di una diocesi rurale tra le più piccole d’Italia, tutta disseminata tra le disabitate pianure e montagne del Montefeltro. Però, quando ciò per errore avvenne, Luigi Negri avrebbe potuto cogliere l’occasione per santificarsi e santificare il suo clero e il Popolo di Dio a lui affidato, perché non di rado la Divina Grazia si serve anche degli errori, per inserirci sulla via verso la santità. Invece, trascorsi neppure due anni, Luigi Negri già scalpitava tra la Congregazione per i Vescovi e i membri del collegio cardinalizio affinché gli fosse data una diocesi alla sua altezza, possibilmente una di quelle che erano anche sedi cardinalizie residenziali. D’altronde era il minimo dovuto, per un vescovo giunto a oltre sessant’anni d’età totalmente digiuno di concrete esperienze pastorali e che da subito si mostrò incapace a governare una piccola diocesi, lasciata in mano ai capricci e al libero arbitrio del vicario generale, mentre lui girava come una trottola da una parte all’altra dell’Italia a tenere conferenze e incontri. Sia chiaro: per un presbitero, avere fatto esperienza pastorale, al punto da essere idoneo all’episcopato, non vuol certo dire avere passato la vita a brigare di politica tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e il Movimento laicale di Comunione e Liberazione. Tutt’altra cosa è la pastorale per un prete, soprattutto per un vescovo. Infatti, quando il governo della Diocesi di San Marino Montefeltro passò da Luigi Negri a quel sant’uomo di Dio di Andrea Turazzi ― che per quarant’anni ha fatto il parroco e il formatore di sacerdoti ― dalle fitte tenebre si è passati alla luce del sole che risplende nel cielo a mezzogiorno.

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Quando un vescovo è un ambizioso in carriera che non si sente a proprio agio in una diocesi, ben presto il clero e i fedeli lo avvertono. La conseguenza sarà la sfiducia e la disaffezione del clero e dei fedeli verso il vescovo.

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Per parlare delle due grandi virtù di Luigi Negri, pessimo vescovo e pessimo pastore in cura d’anime, bisogna dipingere la realtà di un uomo che ha trascorso la sua vita a intrufolarsi in tutti i modi e per tutti i versi nella politica, sua grande e insopprimibile passione, senza che mai abbia capito né mai voluto capire che un vescovo deve essere padre premuroso sia degli appartenenti alla Destra che degli appartenenti alla Sinistra, evitando di creare, come di prassi ha fatto lui, inutili polemiche che hanno sempre rivelato il suo essere uomo di parte, anziché al di sopra delle parti. Compito di un vescovo è annunciare il Santo Vangelo, non fare campagne elettorali, evitando sempre di usare il Santo Vangelo a fini politici, propagandistici e soprattutto elettorali. Dicevo poc’anzi che per parlare delle virtù di questa personalità complessa e contraddittoria bisogna partire dai suoi gravi difetti. Correva l’anno 2011 quando, sfumato ormai il sogno della sede vescovile di Milano — che il buon Luigi Negri riteneva gli spettasse quasi di diritto —, dava ormai per certo il suo spostamento a Venezia al posto di Angelo Scola, promosso alla Sede Ambrosiana. Fu allora che lo presi di petto e gli dissi:

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«Vostra Eccellenza mi ha insegnato molto di più con i suoi difetti che con le sue virtù. Lei mi ha data una lezione che mi accompagnerà per tutta la mia vita sacerdotale, questa: se il Demonio riesce a prenderci nella vanità e nell’ambizione può fare di noi letteralmente ciò che vuole, anzitutto togliendoci la libertà, di conseguenza condizionando i nostri comportamenti. A lei è stata affidata una Chiesa da amare e accudire, che è sua sposa. Pertanto cerchi di essere un marito fedele, proprio lei che parla a destra e a sinistra dei grandi valori della famiglia, che non sono solo dei meri valori politici utili per inscenare polemiche con le Sinistre post-comuniste o liberiste, ma sono valori cristiani basilari. Quindi non aspiri ad avere una moglie più ricca e altolocata, come fanno quei mariti che mollano la moglie e i figli per fuggire con un’altra donna, perché vede, forse lei non se ne rende conto, ma il tradimento e l’adulterio hanno tante facce, ed anche i vescovi possono essere traditori e adulteri».

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Da allora a seguire, in pratica non l’ho più sentito e, quando alcune volte ebbi modo d’incontrarlo, feci appena in tempo a baciargli la mano e a porgergli un saluto. Eppure, tra i diversi presbiteri che ha consacrato nel corso del suo episcopato, non pochi dei quali hanno detto in giro su di lui cose terribili ― salvo magnificare in occasione della sua morte delle straordinarie virtù di cui mai si erano accorti prima ―, io ritengo di essere stato tra tutti il più fedele e veritiero. Più volte gli ho detto in faccia che stava per commettere gravi sbagli, altrettante gli ho rimproverato di avere sbagliato, anche gravemente. E dopo avergli detto questo l’ho sempre ubbidito, gli sono stato fedele e ho pagato i suoi errori, soprattutto l’ho sempre difeso dinanzi a preti e a vescovi chiacchieroni che alle sue spalle lo prendevano in giro per le sue smodate ambizioni di carriera, che con ingenuità quasi infantile non riusciva neppure a celare, perché Luigi Negri, quello che voleva, lo diceva pubblicamente, come la sede vescovile di Milano, che riteneva spettare a lui pressoché di diritto. Una volta, prendendo a male parole il classico monsignorino velenoso del Vicariato di Roma, in modo molto severo e arrabbiato gli intimai:

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«Non ti permettere mai più di ironizzare sul mio vescovo e di mancargli di rispetto dinanzi a me, che sono un suo presbitero, perché corri il serio rischio che io ti spacchi persino qualche osso».

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L’inferno che questo grigio impiegato piazzato nelle stanze di comando mi creò, risultò terribile, basti dire che per due anni mi fu possibile celebrare la Santa Messa solo nelle Catacombe di Priscilla, mentre un esercito di preti dediti all’alcol, qualcuno anche alle droghe, molti a una turbolenta vita notturna fatta di immorali dissolutezze, celebravano tranquillamente nelle principali parrocchie romane. Ma io sono un prete “vecchia scuola”, quindi il vescovo non si tocca, perché a prescindere dai suoi meriti o demeriti, è colui che regge e unisce assieme tutte le membra del Corpo Mistico di Cristo. Infatti, come spesso ho detto e spiegato, specie in questa nostra epoca dove tutto si gioca sulle passioni emotive, sul “mi piace” o “non mi piace”, il vescovo è sacro, fosse anche il peggiore episcopo dell’intera Chiesa universale. A un vescovo indegno o non all’altezza del proprio ruolo, io potrei anche dire di non nutrire alcuna stima nei suoi riguardi, mai però metterei in discussione la sua legittima autorità, né mai mancherei di rispetto alla sua sacra persona. Perché al vescovo ho promesso solennemente filiale rispetto e devota obbedienza. La stima no, quella non gliel’ho promessa. Pertanto, se la vuole, deve guadagnarsela, perché non gli è dovuta. Mentre il rispetto e l’obbedienza sì, quella gli è dovuta, sempre, a prescindere dai suoi meriti o demeriti.

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A Luigi Negri, mio vescovo consacrante, l’ho venerato, rispettato, ubbidito e al momento opportuno difeso a spada tratta. Stimare no, non l’ho stimato, gliel’ho anche detto, ma di ciò lui non si è mai curato. A lui interessava la stima dei vari Marcello Pera, dei Gianni Letta e dei maggiorenti del Centro Destra a seguire più o meno in affari con le cordate politiche di Comunione e Liberazione. Poi, che il più cattolico di costoro avesse almeno due divorzi alle spalle e che all’età di sessant’anni convivesse con una fidanzata di venticinque, non era cosa che interessasse questo indomito difensore dei politici valori supremi della famiglia. Questo il motivo per il quale un prete coerente e fedele per Luigi Negri non aveva alcun valore, per lui che sull’incoerenza e il palese spirito di contraddizione aveva costruito il proprio insopprimibile essere politico in grave danno al suo essere pastorale.

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Sono cristianamente fiero di essere stato consacrato sacerdote da lui, l’ho sempre detto a tutti e oggi lo ribadisco. Fierezza che si regge sulla oggettiva sussistenza di due grandi virtù di cui Luigi Negri era dotato, come dissi al Cardinale Carlo Caffarra in uno dei nostri numerosi colloqui privati:

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«Luigi Negri è un castello di contraddizioni e incoerenze, un uomo rivelatosi non all’altezza del ruolo pastorale di un vescovo, ma è un autentico credente e un uomo di fede. E io andrò sempre fiero di essere stato consacrato sacerdote da un credente e da un uomo di fede. Cosa di questi tempi affatto scontata, essere consacrati sacerdoti da vescovi che siano credenti e uomini di fede».

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Quello che mi rispose il Cardinale Carlo Caffarra me lo porterò nella tomba con me, posso solo dire che le sue furono parole di risposta date dal cuore sensibile di un grande e vero pastore.

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Io ho amato Luigi Negri nella verità, l’ho amato accettandolo con tutto il complesso bagaglio dei suoi difetti, molti dei quali derivanti da evidenti complessi inconsci di inferiorità che hanno condizionato la sua intera esistenza. E sono certo che in cuor suo abbia sempre ammirato in me l’ossequio alla verità e la coerenza, consapevole che se avessi accettato certi compromessi e chiuso gli occhi su tante tristi vicende che ammorbano la Chiesa, oggi il mio stato ecclesiastico sarebbe del tutto diverso, però, come molti miei confratelli in carriera, avrei pagato una veste violacea o rossa a prezzo dell’eterna dannazione della mia anima, non mi sarei santificato e non avrei potuto santificare i Christi fideles. E quando un giorno, appena dopo avermi ordinato diacono, dando per scontata la mia inevitabile carriera ecclesiastica Luigi Negri mi disse:

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«Ti ricorderai di me, quando io sarò un vecchio vescovo emerito dimenticato da tutti e tu sarai in chissà quali alti ruoli all’interno della Chiesa?».

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Facendogli una risata in faccia, come sovente si fa a coloro che delle persone non hanno capito niente, o comunque molto poco, risposi:

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«Io sarò sempre un prete tenuto agli estremi margini, perché se dovrò scegliere tra la scomoda verità, la mia quiete e il mio tornaconto personale, sempre sceglierò la verità, che ha dei prezzi parecchio elevati da pagare, per quant’è vero che Gesù Cristo è morto in croce».

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Quel primo maggio 2010, nella sua omelia per la mia consacrazione sacerdotale, Luigi Negri disse:

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«… in me abbonda la gioia di donare oggi alla Chiesa un presbitero fedele alla verità, alla sana dottrina e pronto veramente a dare la sua vita per la Chiesa e per il Papato fino all’estremo sacrificio».

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Un vescovo che afferma cose del genere, come può non fermarsi neppure a parlare mezz’ora con l’ordinando prima della sacra ordinazione e come può fuggire cinque minuti dopo, da perfetto e rozzo cafone ― tale Luigi Negri di fatto era ― senza neppure salutare i suoi familiari che, per inciso, mi hanno donato gratis alla Chiesa, all’interno della quale ho sempre pagato tutto e a prezzo pieno, senza essere costato un solo centesimo alla mia Diocesi nel corso di tutti gli anni della mia formazione al sacerdozio, svolti a Roma a prezzo caro, a prezzo totale e a prezzo pieno? Come può un vescovo dire queste parole e poi abbandonare un suo presbitero in pasto alle belve e disinteressarsi totalmente di lui? Semplice la risposta: perché in quel momento a parlare non era Luigi Negri ma lo Spirito Santo che è Spirito di Sapienza e di Verità e perché io, sacerdote, sono stato consacrato da Cristo, che ha usato le mani e la bocca di quel vescovo, che è stato solo e null’altro che uno strumento.

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Ti saluto, amato e venerato Vescovo mio, puoi contare su un presbitero che celebrerà sempre delle Sante Messe di suffragio per te, che dal tuo leggero Purgatorio mi sarai sicuramente grato. Contrariamente a coloro che ti hanno tirato addosso di tutto e di più, in palate di fango, mormorando come donnette tra i salotti privati e le chiuse sacrestie, ma che al tuo funerale narreranno su di te meraviglie tali da far impallidire le virtù dei Santi Vescovi e Padri della Chiesa, in testa a tutti proprio quei vescovi che ti hanno irriso per anni di salotto in salotto con battute velenose del tipo: «Se non lo faranno cardinale, il povero Negri morirà depresso».

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Se non vi saranno impedimenti dovuti alle rigide restrizioni per il Covid-19 che limita al minimo gli assembramenti, parteciperò anch’io al funerale. Mi metterò a sedere tra le panche con i fedeli, se ci sarà posto, altrimenti rimarrò a pregare fuori dalla porta della Chiesa. Perché coerente sono vissuto e coerente intendo morire, pagando sino all’ultimo centesimo i debiti che il mio Vescovo ha contratto e che mi ha lasciato poi da pagare.

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Visti i tempi che corrono, forse disporrò che le mie future esequie funebri, il giorno che sarà, si svolgano alle luci dell’alba in forma strettamente privata, per evitare che un uomo coerente, ma ormai ridotto a cadavere inerme, debba subire l’immondo florilegio di stupidità che riescono a dire i preti in certe circostanze, ma peggio ancora i vescovi. Poi mi farò seppellire in un piccolo cimitero, in una frazione sperduta della mia Diocesi di appartenenza, dove nella totale indifferenza dei preti, oggi tutti pronti con la lacrima all’occhio a tirare l’acqua al mulino dell’ideologia dei poveri e dei migranti, non ho mai celebrato la Santa Messa neppure una volta.

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Poco male, ci andrò da morto, semmai facendo scrivere sulla lapide tombale:

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«Qui giace un peccatore che per tutta la vita ha peccato in pensieri, parole e opere, non però in omissioni, perché nulla di ciò che era tanto vero quanto scomodo ha mai omesso di dire finché Dio gli ha concesso fiato. Chi passa dinanzi a questa tomba preghi per l’anima del Padre Ariel».

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dall’Isola di Patmos,  1° gennaio 2022

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