Amoris Laetitia. Siate casti, però pagate le tasse, perché il pagamento delle tasse è un vero dogma di fede

AMORIS LÆTITIA. SIATE CASTI, PERÒ PAGATE LE TASSE, PERCHÉ IL PAGAMENTO DELLE TASSE E UN VERO DOGMA DI FEDE

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È facile e comodo entrare nelle camere da letto altrui col dito puntato a sentenziare come nuovo dogma di fede «purché vivano come fratello e sorella». Ma voi, ipocriti di sempre, che «filtrate il moscerino» nelle camere da letto altrui e poi «vi ingoiate il cammello» [cf. Mt 23,24] siete pronti ad accettare, fare vostro e diffondere come indiscutibile dogma di fede: «Date a Cesare quel che è di Cesare», quindi pagare le tasse senza fiatare, ma soprattutto senza azzardarvi a dire che sono alte e che non sono giuste?

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Caro Padre Ariel.

Nella Chiesa è avvenuto un esproprio proletario! Se infatti ho capito bene dalle parole del lettore che firma il proprio commento al suo articolo come “nonsonobigotto”, un nome che è un programma, in pratica accadrebbe questo: la Gerarchia tradisce, allora dal popolo, contro ogni idea gerarchica, lo “Spirito Santo” susciterebbe sacche di resistenza composte di umilissimi canonisti e teologi improvvisati che saprebbero soverchiare i traditori scelti da Cristo e che con una rivoluzione bolscevica riporterebbero la fede nella Chiesa, anzi la rifonderebbero ex novo come la intendono loro, cioè Dio… Eccezionale! Siamo solo alla distruzione ideologica e teologica dell’intero Magistero della Chiesa, ma gli umilissimi teologi che tutti i giorni attaccano il Papa ne sanno una più del diavolo e allora… quindi, avanti popolo: alla riscossa!

Giorgio M.G. Locatelli

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papa firma

Il Sommo Pontefice Francesco firma la esortazione post-sinodale Amoris laetitia

Con il suo quesito il nostro Lettore centra un problema che affonda le sue radici a fine anni Ottanta inizi anni Novanta e che si sviluppa all’interno della Chiesa grazie al meglio del peggio del post-concilio. E quando io dico meglio del peggio del post-concilio, non intendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, tutt’altro: mi riferisco infatti al peggiore dei tradimenti che s’è consumato su questo grande concilio della Chiesa da parte di tutti coloro che, muovendosi sul pericoloso pretesto della interpretazione dei suoi testi e del suo spirito, hanno finito col dare vita a quel concilio egomenico dei teologi che mai è stato celebrato e che mai è stato scritto dai Padri della Chiesa.

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Questi soggetti che chiamerò teologastri traditori del concilio, hanno creato una grande confusione su quelle che nella Chiesa sono le funzioni dei laici partecipi al sacerdozio comune dei battezzati attraverso il Sacramento del Battesimo, ed i chierici, scelti per mistero di grazia e istituiti attraverso il Sacramento dell’Ordine e unici partecipi al sacerdozio ministeriale di Cristo, oltre che legittimi depositari del munus docendi, un munus che nessun laico, neppure un laico insignito di un dottorato teologico, può esercitare con la auctoritas e la gratia con il quale può e deve esercitarlo il sacerdote rivestito del munus santificandi. Questa immane confusione ha creato situazioni oggi ormai ingestibili, grazie al grido da “collettivo sindacale” o da “collettivo di sinistra” riassunto nel devastante slogan: «Più dialogo, più collegialità, più democrazia nella Chiesa». Grido al quale si aggiunge di conseguenza lo slogan: «Più spazio ai laici nella Chiesa».

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Sulla base di questa premessa, a dare vita a una situazione che oggi appare ormai incontrollata e incontrollabile – come si può appurare di blog in blog, dove anche l’ultimo dei laici che ha spulciato il Catechismo si sente un teologo e un canonista sopraffino, tanto da ritenersi in diritto di contestare dal Romano Pontefice sino all’ultimo presbìtero dell’orbe catholica – hanno concorso due diversi fattori che unendosi assieme hanno creato gli effetti esplosivi che può creare l’unione del potassio con lo zolfo: la caduta del Muro di Berlino e la incontrollata presa di campo di certi movimenti laicali sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II, in particolare Neocatecumenali e Carismatici.

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Procediamo per ordine, a partire da quel nutrito esercito di persone che dagli anni Settanta, per seguire durante tutto il corso degli anni Ottanta, sono appartenuti alla grande “chiesa messianica comunista”. Mi riferisco ai figli della “immaginazione al potere”, del “vietato vietare”, convinti che nel “paradiso proletario” della “santa madre Unione Sovietica” risplendesse il “sol dell’avvenire”. Mi riferisco a coloro che, ideologici e molto più ciechi del cieco di Gerico [cf. Mc 10, 51-52], quando i carri armati russi invasero nell’agosto del 1968 Praga, senza proferire favella e lungi dal condannare quell’azione, si limitarono a spostare silenziosi la loro insopprimibile necessità di “messianica ideologia” nella Cina del macellatore Mao Zedong. Caduto anche il mito cinese, eccoli trasmigrare in massa verso la esotica Cuba del dittatore Fidel Castro, trasformando in un “dolce Cristo” quell’essere abietto e sanguinario di Ernesto Guevara, soprannominato non a caso dai boliviani el cerdo [il maiale], per indicare quanto fosse sporco fuori e sporco dentro.

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Nel novembre del 1989 il Comunismo collassa implodendo su se stesso, evento storico sancito dalle immagini della caduta del Muro di Berlino. A quel punto, questo esercito di orfani ideologici senza più patria e messia, sbalzati dall’Europa alla Cina sino alla caraibica Cuba, si ritrovano dinanzi a quella che il loro beneamato Sigmund Freud chiamerebbe la “elaborazione del lutto”. Il problema è che questi soggetti non hanno affatto elaborato il lutto, ma ancora una volta hanno proceduto – sempre usando un termine freudiano – con un processo di traslazione. Ecco quindi che per paradosso, la Chiesa Cattolica, sino a ieri loro acerrima nemica, coi suoi Paolo VI sbeffeggiati sul giornale satirico della sinistra radicale Il Male e col suo Giovanni Paolo II accusato sino a poco prima dagli stessi di anacronismo e di cieco anticomunismo ideologico di matrice catto-reazionaria, è divenuta – e ripeto: per paradosso e non per fede – il loro punto di rifugio, la loro ultima spiaggia.

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Questa orda barbarica di ex ideologi, non sono entrati o rientrati nella Chiesa attraverso un cammino di fede e di purificazione per giungere così alla trasformazione, tutt’altro! Vi sono entrati a gamba tesa portandovi se stessi tal quali erano, sino a creare al suo interno un processo di trasformazione molto negativo. Il tutto sotto gli occhi del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che purtroppo, alla prova dei fatti, questo problema pare non l’abbia proprio percepito. Dubito infatti che questo Santo Pontefice, durante certe sue adunanze oceaniche, abbia mai compreso che ad acclamarlo come un leader erano gli stessi che sino a poco prima, nel solito modo ma soprattutto con lo stesso spirito, avevano acclamato il Soviet di Mosca, poi Mao Zedong, poi Castro ed Ernesto Guevara. E se ad acclamarlo non erano per età i diretti protagonisti interessati, erano i loro figli nati e cresciuti in questo spirito e divenuti prima da giovani e poi in età adulta peggiori dei loro stessi genitori.

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Questi soggetti, che hanno bisogno di “strutture forti” che esercitino su di loro una pressione psicologica sia singola sia collettiva, dove potevano confluire? Ma è presto detto: come i maiali narrati dal Vangelo che si gettano dalla rupe [cf. Lc 8, 26-37], sono confluiti nei Neocatecumenali e nei Carismatici, all’interno dei quali esiste un leader, una guida forte che esercita pressioni dietro il pretesto del collettivismo chiamato adesso comunitarismo; o della democrazia chiamata adesso partecipazione dei laici, o collegialità.

La sempre meno vigilante e cieca Autorità Ecclesiastica, non ha mai voluto vagliare quanti alti fossero in numero gli sconsolati orfanelli cresciuti tra le fila del Partito Comunista, o peggio assai di Lotta Continua e di Democrazia Proletaria, che oggi, ultra sessantenni, sono celebrati e indiscussi mega-catechisti del Cammino Neocatecumenale, i quali lungi dall’essere stati davvero convertiti e trasformati, hanno solo cambiata bandiera mantenendo lo stesso spirito di fondo, a partire dallo spirito repressivo e coercitivo nei confronti di coloro che oggi non chiamano più come ieri “sporchi fascisti”, li chiamano “chiusi allo Spirito Santo”, o più semplicemente “sotto influsso diabolico”. Cambia lo stile ma identica resta la sostanza: la demonizzazione e possibilmente la distruzione di chiunque non la pensi come loro. A tal proposito rimando al dotto articolo del mio sapiente collaboratore Jorge A. Facio Lince sul comunismo gramsciano [cf. QUI].

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Duole davvero che un esperto conoscitore della ideologia comunista come il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, non si sia mai accorto della pericolosa situazione che si andava creando in seno alla Chiesa. Ma d’altronde, i Neocatecumenali, avevano adottati stili di comportamento che al futuro Santo Pontefice erano particolarmente cari: anzitutto la famiglia e i figli, quindi l’ossequio alla morale sessuale. E ciò non lo ha indotto a interrogarsi su che cosa di molto negativo, a livello ecclesiale, vi fosse in questa sètta nella quale, da una parte si sfornavano i figli e si promuoveva la morale sessuale tanto cara a Giovanni Paolo II, ma dall’altra si creava una chiesa dentro la Chiesa, una comunità dentro la comunità ecclesiale, insomma: una vera e propria sètta para-cattolica.

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È vero, i Neocatecumenali facevano della sacra liturgia e dell’Eucaristia ciò che volevano e come volevano; facevano immane confusione tra sacerdozio comune dei battezzati e sacerdozio ministeriale di Cristo, proclamando ai quattro venti che tutti eravamo sacerdoti; avevano un catechismo parallelo e andavano in missione per il mondo ad annunciare il “sacro verbo” del Signor Kiko Arguello … però, facevano figli e condannavano la contraccezione ed il lassismo promuovendo la morale sessuale. E mentre questo avveniva, nessuno dei soloni della Santa Sede si domandava: ma il centro, il cuore e il motore della vita della Chiesa, è quella Eucaristia scempiata dagli arbitri dei neocatecumenali sino a rasentare la blasfemia e la profanazione, oppure la proibizione morale all’uso di pillole anticoncezionali e di preservativi? Insomma: il Verbo si è fatto carne, o il Verbo si è fatto contro i contraccettivi?

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Se il Movimento Neocatecumenale, anziché promuovere la morale sessuale e familiare per così dire “più rigida”, avesse promosso invece un certo lassismo, Giovanni Paolo II non avrebbe esitato un istante a dichiararli “fuori legge” ed a spazzarli via con un colpo di ramazza. Ma siccome, seppur a prezzo dei loro scempi eucaristici, dei loro immani abusi liturgici e di una male intesa e promossa concezione del sacerdozio, i Neocatecumenali difendevano la famiglia e la morale sessuale, se la sono passata liscia sempre e comunque, ed in specie sotto il lungo pontificato di Giovanni Paolo II.

A chiunque volesse lanciarmi l’accusa: «Come osi criticare un Santo?». Rispondo che io non ho mai criticato il sommo magistero di questo Santo Pontefice, l’ho sempre promosso e tutt’oggi continuo a promuoverlo. E chiunque voglia approfondire il discorso teologico e dottrinario circa il fatto che i Santi, pur essendo tali e come tali modello di eroiche virtù, non sono perfetti, può andare a leggere, nell’archivio dell’Isola di Patmos, un mio vecchio articolo intitolato: «I Santi antipatici, Pontefici inclusi» [cf. QUI].

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I risultati di tutto questo sono stati la progressiva laicizzazione dei chierici e la pericolosa clericalizzazione dei laici, con conseguenze devastanti sul piano pastorale. Proverò adesso a spiegarmi con degli esempi: nelle nostre chiese il presbitèrio era circoscritto dalla balaustra, funzione della quale era quella di delimitare e indicare lo spazio del cosiddetto sancta sanctorum. A questa balaustra i fedeli si inginocchiavano per ricevere la Santissima Eucaristia. E ciò avveniva in quei tempi non poi così lontani nei quali a nessuno sarebbe mai passato per la mente di ricevere l’Eucaristia seduto sulla sedia al proprio posto secondo le arbitrarie e irriverenti disposizioni dettate dai Signori Laici Kiko Arguello e Carmen Hernandez. E ciò detto è necessaria adesso una premessa: nessun documento del Concilio Vaticano II, a partire dalla Sacrosanctum concilium ha mai stabilito che le balaustre, ed in specie quelle di chiese storiche monumentali, altrettanto gli altari coram Deo [rivolti a oriente] fossero abbattute, come invece hanno fatto i preti, o come hanno fatto gli stessi vescovi, perpetrando spesso scempi immani al patrimonio storico e artistico, sulla base dell’errato principio che la balaustra era un «vecchio segno di divisione» tra i fedeli e il sacerdote. Certe affermazioni e spiegazioni, seppure provenienti talvolta da vescovi e preti, sono false e fuorvianti, posto che la balaustra era un segno di sacro rispetto, ed aveva una precisa funzione teologica e pastorale tutta quanta legata a quel sacro timor di Dio di cui oggi non si parla più; e non se ne parla più da quando i teologastri hanno preso a confondere il sacro timore con la paura del Padre. E finalmente abbiamo superato, sia a livello liturgico, sia a livello teologico il … complesso di Edipo.

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Il presbiterio è così divenuto la passerella dei laici “partecipi” e “attivi”, con una preponderante e spesso prepotente presenza di donne che si arrogano diritti e prerogative che non competono a loro in particolare come ai laici uomini.

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Inizialmente molti sacerdoti hanno accolto con favore certe pericolose intromissioni che andavano a toccare la sfera della liturgia e di quella pastorale strettamente connessa alla figura sacerdotale. E gettate “finalmente” alle ortiche le loro dignitose e austere vesti talari, confusi ormai in jeans e maglione come laici tra i laici, i preti potevano finalmente aprire le porte a tutti quei peggiori sconfinamenti di campo del laicato che rendevano inizialmente i presbiteri più liberi di dedicarsi all’attivismo politico, alle confabulazioni sociologiche, alla figura del prete uomo come tutti in mezzo a tutti senza differenze e barriere … insomma: lasciare i preti molto più liberi di farsi gli affari propri.

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Una volta, chi andava a portare l’Eucaristia agli ammalati? Ovvio, il parroco. Neppure il diacono, sebbene ne avesse facoltà, sempre e di rigore il parroco. Oggi, invece, chi ci va? Ma ovvio: la “pia donna” ministro straordinario della Comunione, alla quale molti parroci sono costretti a chiedere per favore la chiave del tabernacolo. E chi era il primo a insegnare il catechismo ai bambini, o se non poteva tenere da solo tutti i corsi di catechismo, a controllare e istruire i catechisti? Ma ovvio: il parroco. E chi erano, coloro che venivano incaricati come catechisti? Gli incaricati erano uomini e donne, quasi sempre anziani, riconosciuti modelli di cristiana virtù, spesso e volentieri maestri, maestre e insegnanti cattolici in pensione che con tutta la loro esperienza didattica svolgevano questo prezioso servizio nelle nostre parrocchie. Oggi, chi capita invece di trovare come catechiste … e ripeto: avanti a tutto e soprattutto come “catechiste”? Ma ovvio, spesso capita di trovare delle femmine fatali ventenni, non di rado con minigonna, pantaloni a vita bassa e bacino scoperto, con le zeppe da 15 centimetri ai piedi e via dicendo. Ma soprattutto, oggi, insegnano i parroci catechismo? Certo che no, una media di 9 su 10 non lo fanno, perché sono impegnati in … – udite, udite! – attività pastorali! Insomma: sono diffusi a macchia d’olio e numerosi oltre misura e decenza parroci che non hanno tempo di portare la Comunione agli ammalati, non hanno tempo di confessare, meno che mai di fare direzioni spirituali, non hanno tempo per insegnare catechismo … e tutto questo perché – e di nuovo ripeto: udite, udite! – … perché impegnati in attività pastorali. Personalmente, se fossi un vescovo – e va da sé che questo mio è un esempio puramente accademico –, quindi venissi a scoprire che miei presbìteri incaricati come parroci non portano l’Eucaristia agli ammalati, non confessano, non fanno direzioni spirituali, non insegnano catechismo, il tutto perché impegnati in … attività pastorali, li chiamerei ed esigerei essere informato seduta stante quali sono queste importantissime attività pastorali del tutto superiori a quelle che non svolgono o che peggio delegano talvolta a dei laici e a delle laiche; e se non mi dessero spiegazioni più che plausibili, credo che li suonerei come si suonano le zampogne a Natale.

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Più i preti si sono ritirati dal loro terreno per dedicarsi ad attività tutt’altro che pastorali, dall’attivismo sociale e politico alla tutela dell’ambiente, più i laici, ma soprattutto le agguerrite laiche, hanno invaso campi che sono di per sé terreno pastorale del sacerdote. E se ieri, dinanzi a un teologo qualificato, neppure i preti, talvolta persino gli stessi vescovi non osavano proferire gemito, avanti l’autentica saggezza di un teologo anziano veramente sapiente, oggi capita invece che persino il campione degli ignoranti del nostro laicato alzi il pugno in aria e batta i piedi a terra per muovere contestazioni umorali senza né capo né coda al grido di … «io non sono d’accordo, perché io penso che …», ergo et eziandio «è giusto e corretto quel che penso, quel che sento io».

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Tutto questo è logica conseguenza del fatto che, mentre il prete in jeans e maglione partecipa alla riunione del consiglio comunale dove si parla del problema dei profughi o dell’inquinamento ambientale, le pie donne vanno a portare l’Eucaristia agli ammalati, insegnano catechismo senza controllo alcuno, dispongono della chiesa parrocchiale come a loro più aggrada, stabiliscono di loro motu proprio regole liturgiche e via dicendo. E se dinanzi a questa presa di campo il parroco non si adegua, ecco che i laici, ed in particolare le laiche, gli rendono la vita impossibile e del tutto invivibile. Se poi, dinanzi a simili parroci, entrano in parrocchia i Neocatecumenali, a quel punto il sacerdote assume ruolo di mero “consacratore di ostie”, ed una volta terminata la celebrazione eucaristica il suo posto è di stare seduto in rispettoso silenzio accanto al mega-catechista kikiano sceso il giorno prima dalle impalcature sulle quali ha fatto per tutta la vita il muratore, ed il quale lancia uno appresso all’altro strafalcioni e spesso vere e proprie eresie in materia di dottrina e di fede, specie nell’ambito della pneumatologia. Guai però a dirgli qualche cosa. Primo, perché ti risponderà che tu sei ostile allo Spirito, secondo, perché ti dirà che quel che conta è avere lo Spirito, terzo, perché è lo Spirito che dà la vera conoscenza, non lo studio, non la cultura teologica.

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Questa arroganza sempre più intollerabile – e che io, come presbitero, non ho mai tollerato e non intendo tollerare nell’esercizio del mio sacro ministero – è un elemento che accomuna sia i cosiddetti tradizionalisti sia i cosiddetti progressisti. I primi, promuovono raccolte di firme referendarie contro un provvedimento preso personalmente dal Sommo Pontefice, il quale come ho spiegato nel mio precedente articolo non è soggetto ad umano sindacato alcuno [cf. QUI]; i secondi, oltrepassate le balaustre e relegato con un calcio al culo il prete tra tutti, come uno tra tutti, hanno proclamato – in nome di un concilio mai celebrato e di un movimentismo malato ma comunque tollerato da Giovanni Paolo II – che tutti siamo sacerdoti.

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Quell’esercito di canonisti e di teologi improvvisati ai quali fa riferimento il nostro acuto lettore Giorgio M.G. Locatelli, sono il prodotto di una situazione ecclesiale ed ecclesiastica ormai totalmente degenerata. Sono il prodotto dei figli della “immaginazione al potere” e del “vietato vietare” che dopo la caduta del Muro di Berlino non sono mai riusciti ad elaborare il lutto e che hanno trasferito nella Chiesa, tramite processo di traslazione, il peggio delle loro ideologie, il peggio del loro messianismo post-comunista. Tutto questo con un problema di non poco conto: non si sono convertiti al cattolicesimo, ma hanno tentato e tutt’oggi tentano di convertire il cattolicesimo all’ideologia messianica comunista di cui sono rimasti orfani e dalla quale non si sono mai distaccati; ideologia trasferita a livello educativo sui loro figli, che risultano oggi peggio ancora dei loro genitori. E questo spirito deleterio e pericoloso, ha trovato il proprio focolaio in certi movimenti, in modo del tutto particolare nel Cammino Neocatecumenale.

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La discussione sui divorziati risposati verte tutta su un problema di fondo: il sesso. Se infatti non vi fosse stato di mezzo il sesso, tutte le polemiche pre-sinodali e post-sinodali non vi sarebbero state, mai!

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Il problema è che questo esercito di poveri squilibrati e squilibrate, non riescono a cogliere e capire un elemento essenziale sia del vivere cristiano sia del mistero della salvezza: noi saremo giudicati da Dio sulla carità, indicata non a caso dal Beato Apostolo Paolo come la più importante delle virtù teologali in un passo dell’epistolario paolino che è il cuore della teologia cattolica, da sempre conosciuto come Inno alla Carità, dov’egli ci raccomanda:

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Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! [I Cor 13, 1-13]

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A quelli che il Santo Padre indica a giusta ragione come moderni farisei, pelagiani, amanti del legalismo, o di quella che io chiamo la morale disumana che in quanto tale non può essere mai morale cattolica, sfugge un problema di fondo: esistono molti peccati gravi, anzi gravissimi, molto più gravi dei peccati variamente legati al sesso o al cosiddetto vizio capitale delle lussuria, che vanno tutti e di rigore dalla cintura in su. Ma per loro, invece, esistono solo i peccati che vanno dalla cintura in giù. Siamo insomma di fronte a persone che con la sessualità umana hanno un cattivo rapporto, verso il sesso hanno invece una vera e propria ossessione.

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Come persona celibe e vincolata per libera scelta di vita alla castità, sono stato ripetutamente assalito da terribile orticaria tutte le volte che dei Signori Laici, con una leggerezza nauseabonda ed una sicumera intollerabile, hanno pronunciato come un dogma di fede la frase: «I divorziati risposati? Purché vivano come fratello e sorella, perché allora, in tal caso, possono …». E ogni volta che di questi tempi sento pronunciare la frase «come fratello e sorella», mi si scoglie l’adrenalina nel sangue, tanto sono memore come pastore in cura di anime, come confessore e come direttore spirituale, quanti drammi vivono certe famiglie. Ma soprattutto conosco, frequento e ho rapporti giornalieri con divorziati risposati che hanno sempre garantito ai loro figli la migliore educazione cattolica, all’interno di famiglie autenticamente cristiane, nelle quali uno dei due coniugi è semmai divorziato e risposato civilmente in seconde nozze. Uno spirito cristiano che purtroppo non si trova invece in molte famiglie cosiddette regolari nelle quali, quando il figlio torna a casa dal catechismo, i genitori si divertono a dirgli tra lazzi e sprezzi l’esatto contrario di quel ch’è stato spiegato loro in parrocchia, istruendoli sin da bimbi a capire che «i preti e tutti coloro che stanno attorno ai preti, raccontano da sempre un sacco di bischerate». Questa frase virgolettata mi fu riferita tre anni fa, durante la confessione, da un adolescente che tre giorni dopo avrebbe ricevuto il Sacramento della Cresima nel Duomo di San Gimignano, presso il quale mi trovavo proprio per confessare i prossimi cresimandi.

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A maggior ragione io sacerdote e pastore in cura d’anime, per mistero di grazia dispensatore dei Sacramenti, mai mi sono permesso e mai mi permetterò di puntare il dito verso certe “coppie irregolari” pronunciando la farisaica sentenza: «Purché viviate da fratello e sorella», tanto sono consapevole, come confessore e direttore spirituale, che i peggiori peccati contro la carità, vanno quasi tutti e di rigore dalla cintura in su e sono commessi da molte persone che vivono situazioni matrimoniali e familiari di fatto e di diritto del tutto conformi e regolari alle leggi canoniche.

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La mancanza di delicatezza di questi neo-farisei che sentenziano dall’empireo della loro colossale ignoranza teologica e canonica in nome di una dura legge che è la legge umana loro e non la legge divina di Cristo, è per me fonte di dolore e imbarazzo, specie quand’è unita alla presunzione di reputarsi e di sentirsi per questo dei veri e autentici cattolici, dei difensori dell’unica e vera fede.

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Ma portiamo adesso la cosa sul piano strettamente teologico. Gli indomiti sostenitori del “dogma” «purché vivano come fratello e sorella», si rifanno ad una dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi [cf. QUI] che non essendo affatto un atto solenne del magistero infallibile ho per questo discussa e legittimamente confutata nel mio precedente articolo [cf. QUI]. Affermazione nella quale è usata come supporto un’espressione paolina che costituisce una enunciazione di principio generale, rivolta come tale al peccato, genericamente, non invece a un preciso singolo peccato:

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Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna [1 Cor 11, 27-29]

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Dove, il Beato Apostolo fa espresso riferimento ad adulteri e concubini? Egli si riferisce al peccato, forse potrebbe persino rivolgersi a quei numerosi peccati che vanno dalla cintura in su, posto che per l’Apostolo, la regina delle virtù, è la carità; e la carità è variamente legata anche alla sessualità umana, indubbiamente, ma non certo e non solo alla sessualità umana.

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Posto che questi difensori della vera e sola verità, per elevare a dottrina immutabile della Chiesa, o meglio di vero e proprio dogma di fede una legge ecclesiastica positiva, usano come supporto una affermazione di principio generale del Beato Apostolo Paolo, ritengo che tutti costoro, vale a dire teologi improvvisati e canonisti dell’ultima ora che di blog in blog stanno dibattendo con spietata durezza di cuore su vicende che toccano un tema molto delicato come la famiglia, offrano adesso una risposta tutta quanta teologica e giuridica alla quaestio che ora porrò a tutti quanti loro.

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Adottando il loro stesso principio, farò adesso riferimento non ad una affermazione generica come quella del Beato Apostolo Paolo, ma ad una affermazione chiara e precisa rivolta ad un fatto altrettanto chiaro e preciso, pronunciata non da un Apostolo, ma dal Verbo di Dio Incarnato, da Nostro Signore Gesù Cristo, il quale così si esprime:

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Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono [Mt 22, 15-22].

È presto detto: se l’Apostolo Paolo non afferma che concubini e adulteri non devono accedere all’Eucaristia, a meno che non vivano come fratello e sorella, in questo chiaro e preciso brano del Vangelo il Verbo di Dio risponde affermando che a Cesare vanno pagate le tasse, il che implica un chiaro monito: non è lecito non pagare le tasse.

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Chiunque abbia studiato la Sacra Scrittura con tutto ciò ch’essa comporta in conoscenze antropologiche e storiche, sa che cosa volesse dire pagare le tasse nell’antica Giudea. Tra le province romane la Giudea era la più tartassata, i tributi erano altissimi; e coloro che non pagavano i tributi, a volte dovevano soggiacere a delle pene che non andavano per il sottile. Nell’ipotesi migliore gli evasori erano fustigati a sangue, altre pagavano direttamente con la vita, ed al fine “pedagogico” di spaventare gli altri evasori erano condannati di tanto in tanto alla pena della crocifissione.

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Nell’antica Giudea, non arrivavano gli agenti della Guardia di Finanza per stilar verbali e fare multe che spesso, ai giorni nostri, più sono alte e più non vengono pagate. Tutti conosciamo evasori condannati ma da subito a piede libero che ci sfrecciano accanto con le loro autovetture da centomila euro. Ma in Giudea non era così: le tasse non solo erano alte, erano proprio inique; non a caso i giudei chiamavano i romani “affamatori del Popolo”. 

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Ora voi capite, amanti della morale dura e pura, inamovibili elargitori di sentenze persino verso gli atti dottrinari del Romano Pontefice, nonché assertori del dogma di fede «purché vivano come fratello e sorella», che dinanzi al monito «date a Cesare quel che è di Cesare», noi siamo di fronte ad una vera e propria espressione dogmatica della fede perenne e immutabile, legge divina allo stato puro, non certo di fronte ad una norma di principio riguardante il peccato espressa in linea generale da un Apostolo, perché qui siamo di fronte ad un dogma chiaro e preciso che non ammette discussioni, ed il dogma è il seguente: «Pagare le tasse allo Stato».

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Già sento a distanza le vostre voci, cari teologi improvvisati e canonisti inamovibili sulla pelle degli altri, ed assieme alle vostre voci odo tutte le vostre ragioni e giustificazioni, che a una a una posso anticiparvi: «Non si possono pagare le tasse a uno Stato la cui tassazione in certi settori arriva al 50%, perché quelle non sono tasse, quello è un furto … è una rapina, come ebbe a dire il Servo di Dio Silvio Berlusconi, per gli amici bunga-bunga, quand’era presidente del consiglio dei ministri». Per seguire poi con la giustificazione basata sul principio che “l’altro e peggiore”, sempre e di rigore, quindi avanti con la litania circa il fatto che «…con le tasse noi siamo obbligati a pagare stipendi e pensioni d’oro ai politici … i loro privilegi … le loro auto blu … mentre i poveri pensionati con le pensioni minime muoiono di fame … mentre le famiglie oneste hanno difficoltà a pagare le bollette della luce e del gas …». Ovviamente nessuno di voi, guarderà al positivo delle tasse, per esempio il servizio sanitario nazionale gratuito per tutti, le scuole gratuite per tutti, numerose garanzie di assistenza e via dicendo … no. Dovendovi giustificare elencherete solo le cose negative e se proprio dovrete ammettere che il diritto alla salute e allo studio è gratuito e garantito a tutti, a quel punto seguiterete a giustificarvi dicendo: «Si, però la sanità nazionale fa schifo e le scuole pure» … Eh, quanto vi conosco bene, farisei di ieri e di oggi!

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Signori miei: il dogma è dogma e Cristo Dio è chiaro, preciso e deciso nel dire che a Cesare, le tasse, si pagano e basta. Cristo sapeva benissimo come i maggiorenti del potere romano in Giudea gozzovigliassero e si dessero alla bella vita, mentre i poveri giudei erano spesso affamati; il Verbo di Dio lo sapeva, ma pur sapendolo proclamò questo dogma di fede: «Pagare le tasse allo Stato». E questo dogma è legge divina perenne e immutabile.

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A questa banda di ipocriti, che dietro il paravento di un non meglio precisato cattolicesimo svuotato di carità e infarcito dei peggiori legalismi, stanno rendendo così pessimo servizio alla Chiesa e alla fede, replico quindi con le stesse parole di Cristo Dio:

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Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» [cf. Mt 15, 5-9].

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È facile e comodo entrare nelle camere da letto altrui col dito puntato a sentenziare come nuovo dogma di fede «purché vivano come fratello e sorella». Ma voi, ipocriti di sempre, che «filtrate il moscerino» nelle camere da letto altrui e poi «vi ingoiate il cammello» [cf. Mt 23,24], siete pronti ad accettare, fare vostro e diffondere come indiscutibile dogma di fede: «Date a Cesare quel che è di Cesare», quindi pagare le tasse senza fiatare, ma soprattutto senza azzardarvi a dire che sono alte e che non sono giuste?

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Perché vedete, per me, moralmente parlando, uno “zelante” cattolico regolarmente sposato con sua moglie, che non usa mezzi contraccettivi e che si attiene alle prescrizione della morale sessuale, il quale fa poi lavorare in nero nella propria azienda venti lavoratori sottopagati, gran parte dei quali giovani che non possono sposarsi e mettere su famiglia, perché non sanno se il mese successivo avranno ancora il lavoro … per me, moralmente parlando, questo grandissimo peccatore commette un peccato molto peggiore di una coppia di coniugi irregolari che non vivono come fratello e sorella, che vivono una situazione indubbiamente irregolare, ma che all’interno della loro “peccaminosa” camera da letto non giocano affatto per i propri scopi di lucro e di egoismo sulla vita altrui sfruttando nel peggiore dei modi il bisogno di lavoro di venti persone, con tutti i relativi disagi estesi anche alle famiglie di questi venti lavoratori.

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E chi ha questioni da sollevare su di me, sia come presbìtero sia come teologo, prenda e mandi pure questo mio testo alla Congregazione per la dottrina della fede, affinché sia da essa esaminata la sua ortodossia teologica e la sua piena conformità alla morale cattolica. E se in questo mio parlare vi fossero errori dottrinari presentati e diffusi da un presbìtero chiamato a custodire e diffondere la fede nel Popolo di Dio ed a tutelare e salvaguardare il patrimonio morale della Chiesa, state certi che quel Dicastero non mancherà di chiedere al mio vescovo che provveda a chiudermi la bocca e ad irrogarmi, se il caso lo richiede, tutte le meritate sanzioni canoniche, anche perché ho dissertato su quello che per molti rappresenta l’origine e il centro dell’intero mistero del male: il sesso e la sessualità umana. Non per nulla, il Beato Apostolo Paolo, in un passo dell’epistolario paolino che è il cuore della teologia cattolica, da sempre conosciuto come Inno alla Continenza Sessuale, ci raccomanda:

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Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la continenza sessuale; ma di tutte più grande è la continenza sessuale! Nella quale tutti vivranno come fratelli e sorelle, pure se ciò dovesse comportare l’estinzione della specie umana. Ma la “morale” dei moralisti disumani sarà salva, e la loro idea di sesso angelico non avrà mai fine.

 

 

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Amoris Laetitia, la “teologia dell’assegno in bianco”: il potere delle chiavi non è sindacabile, salvo cadere in eresia

AMORIS LÆTITIA, LA “TEOLOGIA DELL’ASSEGNO IN BIANCO”: IL POTERE DELLE CHIAVI NON È SINDACABILE, SALVO CADERE IN ERESIA

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Con il «tu es Petrus» Cristo ha firmato al proprio legittimo vicario istituito sulla terra un assegno in bianco. Si è limitato solo a firmarlo con il proprio nome e cognome, che sull’assegno risulta: Verbum Domini. E su questo assegno, dopo avervi impressa la firma, ci ha scritta sopra solamente la data di emissione, non vi ha scritta invece alcuna data di scadenza; ma soprattutto non vi ha scritto alcun importo, l’importo lo ha lasciato tutto quanto a Pietro ed ai suoi successori, perché presso la banca di emissione vi è una copertura illimitata.

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» [II Gal 20, 21]

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papa firma

Il Sommo Pontefice Francesco firma la esortazione post-sinodale Amoris laetitia

Nella mia ultima lectio, alla quale rimando tutti coloro che abbiano tempo e voglia di ascoltare anche le spiegazioni degli altri [cf. QUI, QUI], oltre al proprio “io dico”, “io penso”, “io ho letto, quindi “io so …”, si spiega una deriva inquietante della fede contemporanea: l’emotività. Ciò che per molti infatti conta è ciò che “io penso”, ciò che “io sento”. Questo atteggiamento oggettivamente malato verso la fede e con la fede stessa, porta a scivolare in varie vecchie eresie, dal pelagianesimo al panteismo. E per poco che possa valere la mia esperienza pastorale di presbitero e la mia esperienza di teologo, basandomi su entrambe affermo che mai, come nel nostro presente, s’era assistito a un rigurgito di tutte le peggiori eresie; che non sono solo quelle racchiuse nel Modernismo definito dal Santo Pontefice Pio X come la sintesi di tutte le eresie [cf. QUI], ma anche quelle racchiuse nel pensare e nell’esprimersi di coloro che oggi, in nome di una non meglio precisata difesa della traditio catholica, invitano pubblicamente a sprezzare colui che di questa traditio è supremo custode: il Romano Pontefice.

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Chiunque voglia analizzare con lucida obiettività certe dinamiche sociali, che dal pensiero liquido ci stanno ormai portando verso il pensiero vaporoso, potrà notare in che modo i duellanti in lizza, siano essi cosiddetti tradizionalisti o cosiddetti progressisti, cosiddetti moralisti o cosiddetti lassisti, antepongano alla base della dissertazione l’ego sum. E più cercano di imporre le ragioni ideologiche del proprio “io” in nome di “Dio”, più si sentono custodi della sola, unica e pura interpretazione dell’autentico corretto. Insomma, talvolta ho l’impressione di vivere in una comunità ecclesiale schizofrenica in cui molti cristiani non sembrano essere mai stati neppure sfiorati dal monito paolino:

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«Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» [II Gal 20, 21].

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Nel De veritate il Doctor Angelicus afferma: «Tu non possiedi la Verità, ma è la Verità che possiede te». Ma soprattutto, molti di questi devoti guerrieri della ideologia iocentrica che partecipano alla celebrazione del Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo della passione, morte e risurrezione di Cristo, potrebbero dimenticare la dossologia finale della Preghiera Eucaristica:

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Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli».

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Riportiamo anche il testo latino in ossequio a coloro per i quali, in assenza del sacro latinorum, ogni fonte liturgica è sospetta se non peggio “infetta”:

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Per ipsumet cum ipsoet in ipso, est  tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria, in omnia saecula saeculorum.

Qualcuno dei numerosi teologi, ecclesiologi e canonisti improvvisati, che spuntano di blog in blog come fiori di campo dopo la pioggia, confondendo spesso il nostro buon Popolo di Dio sempre più disorientato, quando emanano e diffondono certi pareri e sentenze – che se non fossero tragiche sarebbero comiche –, si sono mai interrogati sul vero significato di questa dossologia? Perché alla base di questa dossologia c’è – e non certo ultimo – anche il mistero di Pietro, colui che per volontà divina unisce e regge tutte le membra vive del Corpo di Cristo che è la Chiesa [cf. I Col, 18]. E senza Pietro, con il quale davanti al Popolo di Dio, con il Popolo di Dio e per il Popolo di Dio ci siamo dichiarati «in comunione» pronunciando il suo nome pontificio appena poche righe avanti nel Canone, non esiste comunione, pertanto, chi non è in piena comunione con Pietro, non può acclamare, recepire e partecipare al «Per ipsumet cum ipsoet in ipso …». E chiunque abbia l’ardire di smentirmi su certe palesi verità della fede cattolica, che lo faccia con argomentazioni rigorosamente teologiche, perché non ne posso veramente più di quell’emotivo quanto devastante “io penso” … “io sento” … che sta seminando sconcerto e zizzania tra i nostri Christi fideles fin troppo smarriti e confusi.

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Riguardo Pietro, il capitolo III della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, così recita al n. 22:

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Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa [63] sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa [cfr. Mt 16,18-19], e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge [fr. Gv 21,15 ss]; ma l’ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro [cfr. Mt 16,19], è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo [cfr. Mt 18,18; 28,16-20] [64]. Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli [65]. La stessa potestà collegiale insieme col Papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.

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Questa costituzione dogmatica, lascia forse spazio a possibili dubbi, circa il “potere delle chiavi” conferito da Cristo Dio a Pietro, sul quale Egli ha eretta la sua Chiesa? E oggi, Pietro, è il Sommo Pontefice Francesco, che come essere umano non è meno defettibile e inadeguato di quanto mostrò di esserlo il Principe degli Apostoli, forse scelto dal Verbo di Dio in persona anche per provare la nostra fede nei secoli; o per mostrarci in che modo la sua Divina Potenza può operare anche attraverso le inadeguatezze dell’uomo, incluse quelle dei Suo Vicario.

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Quello della chiavi è un potere in sé e di per sé indiscutibile per il semplice fatto che nessuno, per grado e facoltà, può porlo in discussione. Pertanto a nessuno è dato regolamentare o cercare di regolamentare questo potere strutturato su uno dei dogmi fondanti della nostra fede:

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«[…] e io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» [cf. Mt 16, 17-19].

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Siccome viviamo in un clima di schizofrenia nel quale anche l’ultimo dei blogghettari non esita a salire sulla propria istituita cattedra teologica internetica  per bollare come eretici dei teologi veri e seri, pur di non ammettere che è lui a non aver capito i fondamenti della dottrina cattolica, è quindi di rigore rivolgere una precisa domanda a questi nuovi innamorati del legalismo che sentenziano “o è nero o è bianco”. E la domanda è la seguente: in quale preciso brano della Sacra Scrittura Cristo Dio detta a Pietro schemi e regole canoniche riguardo il legare e lo sciogliere? Dove, Cristo Dio, indica e stabilisce che cosa di preciso Pietro può legare e sciogliere, o cosa invece non può né legare né sciogliere? Cristo Dio riveste Pietro di una funzioni vicaria legata tutta quanta al mistero divino e quindi conferisce a lui un potere assoluto legato al concetto dogmatico di assolutezza fondante della fede. Pertanto dico, di conseguenza domando: dinanzi a tutto questo, esistono davvero cattolici veri o presunti, pubblicisti e opinionisti auto-elettisi veri interpreti della dottrina e del dogma, che intendono sul serio sindacare su come Pietro possa e debba esercitare un mandato unito ad un simile potere assoluto e fondante a lui conferito da Cristo Dio?

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Proviamo a chiarire il tutto: con il «tu es Petrus» Cristo ha firmato al proprio legittimo vicario istituito sulla terra un assegno in bianco, che si è limitato a firmare col proprio nome e cognome, che sull’assegno risulta: Verbum Domini. E su questo assegno, dopo avervi impressa la firma Verbum Domini, ci ha scritta sopra solamente la data di emissione, non vi ha scritta invece alcuna data di scadenza; ma soprattutto non vi ha scritto alcun importo, l’importo lo ha lasciato tutto quanto a Pietro ed ai suoi successori, perché presso la banca di emissione vi è una copertura illimitata.

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Ebbene ditemi, amanti del legalismo, del Vangelo da usare come corpo contundente anziché come medicina per la cura e la redenzione dell’uomo, nonché indomiti assertori del “o nero o bianco”: la data di scadenza e l’importo, volete forse mettercelo voi, sopra al divino assegno? Volete veramente fare voi ciò che Cristo Dio non ha fatto? Perché, casomai nessuno ve lo avesse ancora spiegato, in tal caso mi premuro di spiegarvelo io: presumere di potersi sostituire in questo modo a Dio, è cosa empia e blasfema.

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A quel punto, gli amanti del legalismo, del Vangelo da usare come corpo contundente anziché come medicina per la cura e la redenzione dell’uomo, nonché indomiti assertori del “o nero o bianco”, tirano fuori l’ipotesi del “papa eretico” e la possibilità che questi possa cadere in apostasia, quindi essere destituito. Citano e diffondono messaggi catastrofici, pubblicano libri che raspano nel confuso e nel torbido, fanno continui richiami a rivelazioni private, molte delle quali riconosciute dalla Chiesa, ma di rigore usate fuori contesto per tirare acqua al mulino delle loro tesi deliranti e per sostenere in modo più o meno sottile, ma a volte anche con aperta sfrontatezza, che Jorge Mario Bergoglio è l’emissario dell’Anticristo, l’accolito di Satana che sta procedendo a distruggere la dottrina. A questi delirî rispondo con tutta la serena ovvietà dottrinaria del caso: quella del Papa eretico e apostata è una ipotesi meramente canonica; ipotesi che nella storia della Chiesa non si è mai verificata, tanto meno con conseguente destituzione del Romano Pontefice.

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Per quanto poi riguarda le rivelazioni private, a partire da quelle riconosciute dalla Chiesa, le quali vanno sempre contestualizzate e mai de-contestualizzate per scopi soggettivi talora persino malvagi e perversi, ai loro autori e diffusori sia chiara una cosa supportata da un dato inconfutabile: le rivelazioni private non sono dogma di fede, mentre invece, «Tu es Petrus», si, è un dogma di fede fondante della Chiesa.

Molti di coloro che attaccano l’indubbiamente defettibile, lacunoso, spesso anche improvvido e imprudente uomo Jorge Mario Bergoglio, si mostrano drammaticamente carenti della capacità di fare una distinzione fondamentale sul piano dottrinale: fino a quando si tratta di rivolgere critiche al cosiddetto “dottore privato”, od a scelte di ordinario ministero pastorale, od a scelte amministrative del Santo Padre, fatto salvo il devoto rispetto e l’ossequio sempre e dovuto alla sua sacra persona, il tutto è lecito, anzi a volte persino auspicabile. Io stesso l’ho fatto più e più volte, incluso quando l’Augusto Pontefice ha cambiato il rito della lavanda dei piedi, replicandogli per tutta risposta con una «lavata di testa» [cf. QUI]. Altrettanto ho fatto vedendo moltiplicarsi per le diocesi come nuovi vescovi eletti dei compiacenti duplicati del Regnante Pontefice, tutti quanti col “povero” sulla bocca e la “periferia esistenziale” nel cu…ore [cf. QUI, QUI, QUI, QUI, ecc..]. Non è però lecito muovere contestazioni sulle espressioni dottrinarie del Romano Pontefice, anche se – e ciò lo dico per assurdo – fossero sbagliate, perché nessuno, inclusi eventuali santi sulla terra, ha per superiore potestas facoltà di correggere un suo errore. E ciò detto prego di non citarmi a sproposito i duri rimproveri rivolti ai Sommi Pontefici da San Bernardo di Chiaravalle o da Santa Caterina da Siena, perché l’uno e l’altra non hanno mai mosso contestazioni alle loro scelte dottrinarie. Infatti, ed in specie Caterina da Siena, con le sue invettive rivolte verso la corte pontificia di Avignone, lanciò devoti richiami ai pontefici su questioni puramente politiche e pastorali, ma non certo dottrinarie.   

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Il Romano Pontefice ha un potere che a lui non perviene da una assemblea di Cardinali, tanto meno da una assemblea popolare; il suo potere gli perviene direttamente da Cristo Dio, quindi si tratta di un potere che non è soggetto, come indica il canone, a sindacato alcuno [cf. CIC, can. 1404]. Questo il motivo per il quale in passato ho mosso dure contestazioni a certi circoli cattolici che reagirono ad un provvedimento preso dal Sommo Pontefice e riguardante i Frati Francescani dell’Immacolata, mettendo in atto la penosa sceneggiata di una raccolta di firme, stile referendum popolare, dichiarandosi da una parte i paladini della pura e vera traditio catholica, ma ignorando dall’altra il dato sia dottrinale sia giuridico che verso i provvedimenti del Romano Pontefice non è contemplato alcun appello [cf. CIC, can. 333§3], perché nessuno può sindacare l’operato del supremo custode della fede, del clavigero.

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A chi mi ha domandato in modo secco: «Tu daresti l’Eucaristia ai divorziati risposati?». Ho risposto: «No. E non solo non gliela do, ma presto anche attenzione al fatto che non si presentino a riceverla. Se però il Romano Pontefice stabilisse diversamente – cosa che, come abbiamo visto, grazie a Dio non ha fatto – io non posso e non devo negarla, perché non stabilisco io la disciplina dei Sacramenti; perché non sono io munito da Cristo Dio del potere di legare e di sciogliere».

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Questo il motivo per il quale nel mio precedente articolo [cf. QUI] ho mosso critiche allo stile e al linguaggio della Amoris laetitia che a mio parere è infelice e infarcito di sociologismi, alla sua logorroica lunghezza … alla sua vaghezza a tratti pericolosa perché come tale foriera di chissà quali male interpretazioni da parte di certi specialisti della alterazione dei testi … ma senza entrare neppure indirettamente – come chiunque può constatare in quel mio scritto – nel discorso strettamente dottrinario, perché le dottrine si applicano e basta, non si discutono, tanto meno sulla base del soggettivo e umorale “io penso“, “io ritengo” perché “io sento“…

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Trovo quindi drammatico il fatto che proprio quanti accusano il Sommo Pontefice Francesco di avere de-sacralizzato il papato, siano poi gli stessi che, sprezzanti il dogma di fede e il magistero perenne della Chiesa, pretendano di sindacare in merito a sue prerogative insindacabili citando a sproposito il dogma e citando ancora più a sproposito il magistero perenne della Chiesa, tentando pedestremente di ritorcere pateticamente il tutto contro colui che ne è legittimo depositario senza pena di discussione e senza possibilità di sindacato da parte di alcuno, a partire da certi agguerriti e improvvidi Signori Laici.

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Il mio confratello sacerdote e teologo Giovanni Cavalcoli non ha certo bisogno delle mie difese d’ufficio, ma essendo in parte suo confratello, in parte suo discepolo, non posso nascondere la mia comprensibile irritazione, nel leggere in giro per la rete telematica accuse di eresia e di tradimento rivolte a questo insigne teologo domenicano da svariate persone, in modo particolare da un agguerrito gineceo di passionarie, una delle quali lo ha persino accusato di essere rahneriano, proprio lui che alla critica dei pericolosi e perniciosi teologismi di Karl Rahner ha dedicato tre decenni di approfonditi studi dopo avere raccolto anche l’eredità e il lavoro svolto già in precedenza dal Servo di Dio Tomas Tyn. Se il diretto interessato ride su tutto questo col suo tipico gusto da romagnolo, io non riesco invece ad ironizzarvi più di tanto, perché la cosa tocca un mio venerato confratello ed un mio amato maestro.

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Inutile dire che le accuse rivolte in questi giorni al teologo domenicano si basano tutte e di rigore sulla mancanza di cultura teologica tipica delle persone che presumono prima di sapere, poi di discettare negli ambiti da sempre più delicati della dogmatica, che sono appunto quelli della dogmatica sacramentaria, infine di dare dell’eretico ad un insigne accademico pontificio, che mi chiama poi divertito per dirmi: «Sai, mi hanno dato dell’eretico!». E si mette a ridere mentre io commento: «All’Inferno ti metteranno sicuramente nel fondo, vicino a Lucifero, perché ormai, col Principe delle Tenebre, pare che per certuni tu sia ormai divenuto culo&camicia».

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Siccome allo studio della dogmatica sacramentaria ho dedicato anni della mia vita; siccome la mia formazione teologica non è quella del pollo internetico o della gallinella impazzita che razzolando di blog in blog raccoglie pillole di stoltezza per poi mutarle in unica e solida verità, credo di poter dire con la dovuta scienza teologica che le discipline dei Sacramenti hanno subito non solo numerose riforme, ma delle riforme davvero radicali. Molti sarebbero gli esempi, mi limiterò dunque ad alcuni, a partire dalla confessione, l’attuale Sacramento della penitenza e della riconciliazione, che per diversi secoli fu consentito amministrare una sola volta nella vita e mai più. Infatti, come in genere quasi tutti i Sacramenti, la confessione non era ripetibile. Per non parlare poi della complessità del Sacramento dell’ordine sacro, che è uno, ma diviso oggi in tre gradi. La cosa si complica ulteriormente se consideriamo che questo Sacramento istituito in una unica soluzione da Cristo Dio, ed oggi diviso al proprio interno in tre gradi, racchiude due ordini che sono di diversa istituzione: il sacerdozio, che è di istituzione divina, ed il diaconato, che invece è di istituzione apostolica [cf. At 6, 1-5]. Faccio anche notare che mentre la istituzione del sacerdozio fatta da Dio Incarnato è narrata nel Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, la istituzione dei primi sette diaconi è invece narrata negli Atti degli Apostoli ed è avvenuta dopo la morte, risurrezione e ascensione al cielo del Verbo di Dio.

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E ancora: nel corso dei secoli furono istituiti quelli che prima della riforma del Concilio Vaticano II erano gli ordini divisi tra di loro in maggiori e minori. E per secoli si discusse, senza trovare risposta, se tra i sette ordini il suddiaconato andasse considerato un ordine minore o un ordine maggiore. Quesito al quale non fu mai data risposta. A suo modo rispose il Beato Paolo VI, che assieme ad altri ordini lo abolì e chiuse in tal modo il discorso sostituendo gli ordini minori con i ministeri del lettorato e dell’accolitato.

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E per rimanere sul discorso dell’Ordine Sacro: sappiamo che l’unico amministratore di questo Sacramento è il Vescovo, il solo che può consacrare sacerdoti e ordinare diaconi. Eppure, nel corso dei secoli, vi furono varie eccezioni, per esempio il privilegio concesso agli abati cistercensi non rivestiti della dignità episcopale di ordinare diaconi, o la facoltà data ad alcuni sacerdoti di consacrare dei sacerdoti in situazioni e condizioni eccezionalmente particolari. In questo caso la domanda non è di poco conto: come può, colui che non è rivestito della pienezza del sacerdozio, consacrare un sacerdote? C’è un’ipotesi non poi così peregrina di certi maestri della scolastica i quali sostennero che ogni sacerdote, in quanto tale, ha la pienezza del sacerdozio, ma questa pienezza viene in esso ridotta affinché nella sua totalità sacramentale e soprattutto giurisdizionale possa essere esercitata solo dal vescovo.

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Questi pochi e brevi accenni fatti alla dogmatica sacramentaria e alla disciplina dei Sacramenti, dovrebbero bastare ai paladini del “o nero o bianco”, per capire che persino i migliori teologi tremano da sempre quando devono muoversi sul complesso e complicato terreno della disciplina dei Sacramenti. E allora perché mai certe persone, passionarie in testa a tutti, non vogliono proprio esercitare quella umana e cristiana umiltà che le porti, non dico a tacere, ma perlomeno a cercare di imparare tutto ciò che in modo evidente mostrano di non sapere?

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Le accuse rivolte al teologo domenicano circa le sue presunte defezioni dalla ortodossia cattolica sono supportate dai suoi critici su quell’assurdo che deriva dalla loro incapacità di non capire. Padre Giovanni Cavalcoli, commentando la esortazione post-sinodale Amoris laetitia ha scritto la seguente frase rigorosamente non compresa che ha fatto urlare alcuni all’eretico palese e manifesto:

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La norma che proibisce ai divorziati risposati di accedere alla Santa Comunione, è una norma che dipende dal potere delle chiavi, ossia è una legge ecclesiastica, che non discende dalla legge divina in modo univoco, necessario e senza alternative, come fosse una deduzione sillogistica, quasi che, come credono alcuni, un’eventuale modifica, abolizione o mitigazione dell’attuale disciplina introdotte un domani dal Papa, recassero pregiudizio od offesa alla legge divina e alla dignità cristiana del matrimonio. Al contrario, tutto ciò rientra nelle facoltà del Sommo Pontefice come supremo Pastore della Chiesa. Se non ha ritenuto di dover far ciò, lasciando immutata la legge di San Giovanni Paolo II, vuol dire che ha avuto delle buone ragioni per farlo, e noi, da buoni cattolici, accogliamo docilmente e fiduciosamente le decisioni del Vicario di Cristo [cf. QUI].

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E per mostrare l’eresia del teologo domenicano ormai filo-modernista e novello rahneriano, i teologi fai-da-te, ma in specie le teologhesse passionarie, procededono con copia-incolla internetici anteponendo la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati, la quale recita:

La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27-29) (3) [cf. QUI].

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Questo testo, pubblicato nell’’Osservatore Romano del 7 luglio 2000, applica anche ai divorziati risposati il can. 915 del Codice di Diritto Canonico, il quale esclude dalla Comunione eucaristica coloro che «perseverano ostinatamente in peccato grave manifesto» [in manifesto gravi peccato obstinate perseverantes].

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A questo punto è di rigore una domanda rivolta ai maestri del rigore legale e del “o è nero è e bianco”: il Beato Apostolo Paolo, dove si riferisce ai concubini o agli adulteri? Perché se le cose devono essere “o nere o bianche”, allora bisogna basarsi su un richiamo ben preciso e chiaro che in questo caso, però, il Beato Apostolo non fa.

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Partiamo dal dato di fatto che a molti sfugge: il Beato Apostolo Paolo solleva una questione di principio e con essa detta una norma di condotta che ha come oggetto il peccato in sé e di per sé, non uno specifico peccato, né tanto meno indirizza questa espressione a concubini e adulteri. E chiunque legga con cura il testo paolino e dica poi diversamente, o è un cieco o più semplicemente un ideologo, ma non un teologo, al limite può essere un canonista maldestro che si lancia in marcia sul terreno minato di quella disciplina dei Sacramenti strettamente connessa alla dogmatica sacramentaria.

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Nessuno ha mai negato – non lo ha fatto il teologo domenicano e non l’ho fatto io – che la applicazione richiamata in questa Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati è fuori di dubbio sensata. Non sono infatti pochi i casi nei quali si palesa questa perversa perseveranza. In tal caso la coppia, oltre a dare scandalo per trovarsi in uno stato o condizione di vita, detto “irregolare”, in aperta contraddizione coi dettami cristiani dell’etica coniugale, nell’ipotesi non appare assolutamente dar segni di avere intenzione di pentirsi e di cessare di peccare, per cui la supposizione è che viva in uno stato continuo di colpa mortale, priva della grazia.

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Resta però sempre il fatto che se il peccato ha una manifestazione esterna, dedurre da questa manifestazione uno stato interiore o soggettivo di colpa permanente, è sempre cosa ardua, anche se non sempre impossibile. In particolare è arduo il giudizio sulla ostinazione perseverante, perché non si può sapere dal di fuori. Lo sanno solo gli interessati e lo sa Dio, il quale solo può leggere l’intimo del cuore e la profonda coscienza dell’uomo. Il caso previsto quindi da questa Dichiarazione è oggettivamente inverificabile, per cui ha fatto bene il Sommo Pontefice a citare le attenuanti, senza per questo respingere in modo assoluto la possibilità di dare un giudizio circa l’ostinazione perseverante, che non viene annullata e che in alcun modo viene meno sia come principio sia come possibilità.

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Il teologo domenicano ed io riconosciamo e concordiamo entrambi sul fatto che è sufficiente la manifestazione esterna del peccato, per giustificare la prassi dell’esclusione dalla Comunione, senza la pretesa di giudicare in foro interno, che non è facoltà del diritto canonico, con buona pace dei canonisti o di coloro che confondono la teologia dogmatica con il diritto e viceversa.

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Quello che però lascia perplessi nella Dichiarazione è la citazione del monito del Beato Apostolo Paolo circa il sacrilegio che commetterebbe chi si accostasse alla Comunione in stato di peccato mortale [1 Cor 11, 27-29], quasi a voler insinuare che tutti i divorziati risposati siano da catalogare come ostinatamente perseveranti in uno stato di peccato mortale, sulla base del freddo e cristianamente inaccettabile principio: due divorziati risposati sono dei concubini e come tali in stato permanente di peccato mortale, ed il tutto perché “o è nero o è bianco”, punto e basta!

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Punto e basta? Ma quando mai la morale cattolica, ieri come oggi, ha insegnato ai confessori a comportarsi così? Tutt’altro, la buona morale ha sempre insegnato e tutt’oggi insegna che esistono peccati che “tecnicamente” sono in sé e di per sé peccati mortali, ma sebbene tali, assecondo le persone, le situazioni, le circostanze … possono ridursi sino a veri e propri peccati veniali. Come confessore mi sono ritrovato ad assolvere dei penitenti e delle penitenti da peccati mortali gravissimi; in tre diverse occasioni ho dovuto inviare i penitenti alla Penitenzieria Apostolica, trovandomi dinanzi a dei peccati riservati alla Santa Sede. Alcune volte, con la facoltà prevista e concessa, ho assolto anche da peccati riservati al vescovo, per esempio dal peccato di aborto, trovandomi talora dinanzi a donne la cui colpa era molto attenuata. Per citare a mo’ di esempio un caso: una ragazza giovane, molto semplice, proveniente da modestissima estrazione sociale, priva di cultura e anche di maturità, con candore davvero disarmante mi spiegò che lei, praticando l’aborto, aveva operato per il bene del nascituro, n’era prova il fatto che erano stati i medici a consigliarle di abortire, per il suo bene. E se un dottore, per il tuo bene, ti dice che devi abortire, si fa quello che dice lui, perché «lui è il dottore, io invece sono solo una povera ignorante». E in questa penitente erano assenti consapevolezza e deliberato consenso riguardo ciò che aveva fatto, tutt’altro, ella era certa di avere agito seguendo il consiglio opportuno dato da dei saggi dinanzi ai quali non si discute, si ubbidisce. Del tutto diverso il caso di quelle donne che invece hanno abortito per futili motivi, sebbene perfettamente consapevoli di che cosa è l’aborto e di che cosa sia la vita; donne che di prassi ho sempre incontrato due o tre volte per lunghi colloqui e adeguate catechesi, prima di dar loro l’assoluzione, rigorosamente negata – e preciso: solo in due casi nel corso del mio intero ministero sacerdotale – a due donne che invece di mostrare autentico pentimento, si ostinavano a voler giustificare in sede di confessione sacramentale la legittimità di fondo del crimine compiuto verso il mistero ed il dono della vita umana.

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Questi logici e teologici principi di giudizio, che non fanno parte delle Chiesa bergogliana di oggi, ma della Chiesa del Cristo di sempre, sono indicati e spiegati dal Sommo Pontefice ai numeri 301 e 302 della Amoris laetitia, dove si indicano i fattori che attenuano o diminuiscono la colpa, la quale, da mortale, può abbassarsi al livello di veniale.

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L’Amoris laetitia non esclude la possibilità di dare un giudizio circa l’ostinazione perseverante, preferisce però parlare di un caso diverso, nel quale i due «possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre» [n.299]. «Per questo, non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare”, vivono in uno stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» [n.301].

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Al n.1 della Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, si afferma poi: «La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa». E qui – posto che i teologi dogmatici dovrebbero fare i teologi dogmatici ed i canonisti dovrebbero fare invece i canonisti e non i tuttologi –, si nota una assimilazione del tutto indebita del già citato canone alla legge divina, quasi godesse della medesima autorità. Che il canone derivi dalla legge divina, non si può mettere in discussione. Attenzione però: se deriva, vuol dire che è al di sotto; cosa quest’ultima che non è un sofisma, né un arrampicarsi sugli specchi, è pura logica teologica. D’altra parte, il diritto canonico, per sua essenza, oltre a recepire leggi divine, non fa che raccogliere le leggi positive della Chiesa, come espressione del potere delle chiavi o potere giurisdizionale.

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Al di sopra delle leggi canoniche, che sono le leggi positive della Chiesa – a parte la legge naturale, che qui adesso non c’entra – non c’è altro che il diritto divino o legge divina. Quindi, dire che una legge canonica «trascende la legge positiva» è attribuirle un’autorità divina, il che evidentemente non si può dire, perché in tal caso non ci resta che fare la battuta … Beh, se è scritto sul Codice di Diritto Canonico dai canonisti, allora neppure Domineddio può farci niente!

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La norma dell’esclusione dei divorziati risposati dalla comunione eucaristica non suppone quindi lo stato di colpa individuale, ma ha una finalità pedagogica e simbolica. Pedagogica, per evitare lo scandalo dei fedeli; simbolica, perché c’è una contraddizione fra la Eucaristia, che significa unità, rispetto a quello che di fatto è invece lo stato di divorziati, che significa invece divisione, quindi rottura della comunione.

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Il Regnante Pontefice ha scelto di mantenere la norma stabilita dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II al n. 84 della Familiaris consortio, cosa questa che rallegra, teologicamente parlando, sia il Padre Giovanni Cavalcoli sia me, però, dopo averla riconfermata, procede con una giusta e necessaria distinzione tra la legge divina e le leggi della Chiesa, per esempio per quanto riguarda l’Eucaristia. Questa è stata istituita da Gesù Cristo ed è legge divina immutabile, con buona pace dei canonisti. La disciplina e l’amministrazione del Sacramento dell’Eucaristia spetta alla legislazione ecclesiastica, sotto la presidenza del Sommo Pontefice, il quale ha facoltà di legiferare e di mutare leggi [cf. nota 351].

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Agendo a questo modo il Sommo Pontefice ha sanato un testo giuridico a mio parere non particolarmente felice come la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi emanata nel 2000. Un testo al quale ciechi e sordi, blogghettari e passionarie d’assalto che strepitano “o è nero o è bianco”, sono giunti a conferire rango di dogma di fede, pur mettendo però al tempo stesso in discussione – ed abbiamo pure visto con quale aggressivo sprezzo – un dogma vero e proprio: l’autorità di Pietro, depositario del potere delle chiavi.

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E valendosi del proprio potere giurisdizionale sovrano, il Sommo Pontefice allenta il legame troppo stretto che questa Dichiarazione pone tra la norma canonica dell’esclusione e la legge divina, assimilando troppo quella a questa. Il Sommo Pontefice mostra la possibilità di attenuanti e insegna che i divorziati risposati possono essere in grazia. Infine mostra il rischio che la Dichiarazione corre di attribuire ai divorziati risposati uno stato di peccato mortale permanente, deducendolo troppo affrettatamente dal permanere del loro stato di vita irregolare.

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Così si è espresso colui che ha ricevuto il potere delle chiavi, depositario di una auctoritas che a lui perviene dal Verbo di Dio che gli ha firmato a suo tempo un assegno con la sola data di emissione, senza imprimere in esso né l’importo né la data di scadenza. E questo testé enunciato è un mistero della fede racchiuso in un dogma fondante della Chiesa: «tu es Petrus». E ciò con buona pace di chi si ostina a negare i dogmi fondamentali e fondanti della Chiesa, per dare però rango di dogma indiscutibile a delle disposizioni canoniche formulate male e scritte peggio da canonisti entrati a gamba tesa in questioni che implicano profonde e complesse tematiche dottrinarie, o come dice il Beato Apostolo Paolo: «infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano» [II Gal 20, 21]. E per i Padri dell’Isola di Patmos, Cristo non è certo morto invano, con buona pace di chi strepita “o è nero o è bianco”.

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Post scriptum

Viste le mie note bramosie di carriera, volevo dire a quelli della Congregazione per la dottrina della fede: se presso il vostro Dicastero non siete troppo impegnati ad assumere monsignorini gai, i quali poi vi fuggono nei Paesi Baschi col loro fidanzato urlando col peperoncino al culo «gay è bello!», qualora il posto fosse sempre vacante potreste chiamare me come segretario aggiunto alla Commissione Teologica Internazionale, a meno che non intendiate discriminarmi in quanto reo di essere cattolico, ortodosso e soprattutto eterosessuale.

Ovviamente è una presa in giro voluta e dovuta, questa mia. Voi prendetela come meglio vi pare, ma intanto prendetevela e tenetevela, perché ve la meritate, in saecula saeculorum, amen!

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NOTE

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[59] Cf. EUSEBIO, Hist. Eccl., V, 24, 10: GCS II, 1, p. 495; ed. BARDY, Sources Chrét., II, p. 69. DIONIGI, in EUSEBIO, ib. VII, 5, 2: GCS II, 2, p. 638s; BARDY, II, p. 168s.

[60] Sugli antichi Concili cf. EUSEBIO, Hist. Eccl. V, 23-24; GCS II, 1, p. 488ss; BARDY, II, p. 66ss e passim. CONC. DI NICEA, can. 5: COD p. 7

[61] Cf. TERTULLIANO, De Ieiunio, 13: PL 2, 972B; CSEL 20, p. 292, lin. 13-16.

[62] Cf. S. CIPRIANO, Epist. 56, 3: HARTEL IIIB, p. 650; BAYARD, p. 154.

[63] Cf. la relazione ufficiale ZINELLI al CONC. VAT I: MANSI 52, 1109C.

[64] Cf. CONC. VAT I, Schema della Cost. dogm. II De Ecclesia Christi, c. 4:[176][176]NSI 53, 310. Cf. la relazione KLEUTGEN sullo Schema riformato: MANSI 53,321B-322B e la dichiarazione ZINELLI: MANSI 52, 1110A. Vedi anche S. LEONE M., Serm. 4,3: PL 54, 151A.

[65] Cf. CIC, can. 222 e 227 [nel nuovo Codice can. 338].

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

Amoris laetitia, il documento del Santo Padre Francesco sul Sinodo della famiglia

AMORIS LÆTITIA, IL DOCUMENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO SUL SINODO DELLA FAMIGLIA

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Questa esortazione ribadisce le verità fondamentali di ragione e di fede, che riguardano il matrimonio e la famiglia, ne delinea le caratteristiche, le finalità e le proprietà così come le ha volute il Creatore, il Quale, mediante la missione e l’opera di Cristo, ha concesso alla Chiesa e alla società civile di legiferare con più precisione in materia, a seconda dei tempi e dei luoghi, tenendo conto della fragilità e peccaminosità umana conseguente al peccato originale, al fine di assicurare il più possibile alla famiglia il massimo dell’esercizio delle virtù, soprattutto della carità, che sboccia nella laetitia amoris.

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Autore Giovanni Cavalcoli OP

Autore
Giovanni Cavalcoli OP

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Cari Lettori.

vorremmo introdurvi nell’antico meccanismo speculativo delle dissertazioni teologiche, che non sono fatte di «io penso», «io dico», perché la teologia non è ideologica ricerca delle ragioni del proprio io, ma umile ricerca e annuncio degli arcani misteri di Dio. Questo il motivo per il quale è stato richiesto a Padre Giovanni Cavalcoli un articolo in cui evidenziare tutti gli aspetti positivi dell’Esortazione post-sinodale; e il nostro Padre anziano dell’Isola di Patmos ha provveduto in tal senso. Il tutto per offrire un quadro variegato attraverso più scritti redatti da sacerdoti e teologi diversi, introducendo i lettori in quelle che sono le dissertazioni teologiche riassumibili a loro modo con questo esempio: una volta, in ambito speculativo, a me fu chiesto di redigere uno studio nel quale porre in risalto tutti gli “aspetti positivi” del pensiero di Lutero; e ciò mi fu chiesto sapendo quanto fossi avverso al suo pensiero. A un altro mio confratello, che considerava invece con molta morbidezza questo eresiarca, fu chiesto uno studio nel quale porre in luce tutti gli aspetti negativi dello stesso Lutero. Questi preziosi esercizi, che avevano come scopo di salvare i teologi dalla ideologia e dall’egocentrismo, oggi sono caduti in disuso, coi risultati spesso prodotti al presente da non pochi teologi chiusi nella difesa del proprio iocentrismo sostituito da tempo al Diocentrismo.

Ariel S. Levi di Gualdo

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Amoris Laetitia 6

firma della esortazione post-sinodale Amoris laetitia

L’Esortazione post-sinodale Amoris Laetitia di Papa Francesco è una summa dottrinale e pastorale della famiglia cristiana, una sintesi ricca, completa e ben ordinata dell’attuale pensiero della Chiesa sull’argomento. Essa ribadisce le verità fondamentali di ragione e di fede, che riguardano il matrimonio e la famiglia, ne delinea le caratteristiche, le finalità e le proprietà così come le ha volute il Creatore, il Quale, mediante la missione e l’opera di Cristo, ha concesso alla Chiesa e alla società civile di legiferare con più precisione in materia, a seconda dei tempi e dei luoghi, tenendo conto della fragilità e peccaminosità umana conseguente al peccato originale, al fine di assicurare il più possibile alla famiglia il massimo dell’esercizio delle virtù, soprattutto della carità, che sboccia nella laetitia amoris.

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Il Papa mette altresì a confronto la vera e sana concezione della famiglia con certe idee, abitudini e pratiche aberranti e malsane, che contrastano col piano del Creatore, la giusta concezione dell’uomo e della donna, la retta ragion pratica, il progetto di Cristo, le leggi della Chiesa, il bene della società civile, il progresso umano e la stessa vera felicità della coppia, impedendo la laetitia amoris. Tuttavia, prima di entrare a trattare dei temi morali, pastorali, psicologici, educativi, culturali, ecclesiali, civili, giuridici e spirituali, che toccano la famiglia, il Papa ha la felice idea di prendere l’abbrivio da molto lontano, ossia dai fondamenti assoluti, inviolabili ed immutabili, metafisici, teologici ed antropologici di tutta la trattazione, senza dei quali le mancherebbero le ragioni di fondo, la consistenza teoretica e l’orientamento essenziale.

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amoris laetitia la allegria dell amor

Amoris laetitia

Il Sommo Pontefice infatti sa benissimo che, per scoprire e mettere in luce le cause profonde dei mali, che oggi affliggono la famiglia, per porvi rimedio e per correggere le idee sbagliate e i cattivi comportamenti ed abitudini, che la corrompono e la distruggono, è urgentemente necessario recuperare la concezione realistica della conoscenza [1], per così poter andare con sicurezza ed oggettività alle radici della visione stessa della realtà, della concezione dell’uomo, di Dio e del creato, così come ci viene insegnato dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione ecclesiale e dalla sana filosofia.

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amoris laetitia 3

Amoris laetitia

All’inizio del documento, il Santo Padre ci avverte solennemente con le seguenti parole, quasi a darci la chiave di accesso e il criterio per apprenderne il giusto senso e allontanare qualunque strumentalizzazione: «Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata» (n.56).

In poche, dense righe, da meditare a lungo e far fruttare, abbiamo una sintesi di metafisica, di teologia, di antropologia, di gnoseologia e di morale. Il Papa infatti ricorda quello che è stato il peccato originale e che è il peccato dell’ateismo e del panteismo contemporanei: pretendere di sostituirci al Creatore. O l’uomo che si fa Dio e si identifica con Lui o l’uomo che nega Dio e si mette al suo posto. Disgrazia gravissima nell’uno come nell’altro caso.

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In tal caso, l’uomo non ammette un essere, un reale come presupposto del suo pensiero, una realtà presupposta, che lo preceda, realtà, che quindi non ha creato lui, ma l’ha creata Dio. Non ammette questo, per non ammettere un Dio creatore, trascendente, Che ha creato anche l’uomo. No. L’uomo pretende che l’essere si identifichi col suo pensiero e sia quindi sia effetto del suo pensiero, rubando a Dio la sua prerogativa, per la quale in Lui e solo in Lui, Essere e Pensiero sussistenti, il reale è causato e voluto dall’ideale, nel caso, dal Logos divino.

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Amoris laetitia

Dunque, ci spiega il Papa, l’uomo che si ritiene “onnipotente”, non si considera creatura, ma come creatore di se stesso. Non riceve da nessun Dio alcun dono, perché fa tutto da sé, basta a se stesso, decide tutto lui, anche i termini della natura umana, che non è un dato fisso, oggettivo, universale e immutabile, stabilito da Dio, ma che invece egli può plasmare e mutare soggettivamente come vuole. E quindi sta a lui stabilire la legge morale. Non ha alcun Dio da ringraziare, o al quale chiedere aiuto o perdono o misericordia, giacché egli, essendo legge a se stesso, non deve render conto a nessuno, ma è in grado di risolvere da sé tutti i suoi problemi.

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Le conseguenze in morale di questi errori, in particolare nel campo dell’antropologia sessuale, sono chiare. La distinzione uomo-donna non è intoccabile, né è stabilita da Dio, ma è un semplice dato di fatto contingente, che non esclude, ma anzi ammette la possibilità di forme diverse di sessualità, creata dall’uomo. Ecco la teoria del gender.

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Amoris laetitia

Il Papa invece ricorda che la legge morale naturale è stabilita da Dio ed è quindi inviolabile. Nella fattispecie del matrimonio, esso è di per sé un valore naturale, elevato da Cristo alla dignità di sacramento. La Chiesa e lo Stato, ciascuno nel suo ordine, hanno facoltà, diritto e dovere di legiferare, disciplinare e regolare in materia, ma sempre in applicazione delle leggi divine. Queste sono immutabili, mentre le leggi umane, sia della Chiesa che dello Stato, possono mutare.

Il Papa giunge a precisare la natura della guida morale e pastorale delle azioni umane, che non può accontentarsi dell’astrattezza della legge o della norma, ma suppone una lettura attenta delle circostanze, della varietà dei casi e delle situazioni, così da poter determinare od ordinare, con prudenza, giustizia e carità, l’atto particolare o concreto da compiere.

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Tra i molti temi trattati, desidero fermarmi su due questioni, che ormai da molti anni stanno polarizzando l’attenzione della Chiesa, dei vescovi, dei moralisti, delle famiglie e dello stesso mondo laico: la prima, se sia opportuno o meno che la Chiesa conceda la Comunione eucaristica ai divorziati risposati. E la seconda, il giudizio morale da dare alle unioni stabili di persone omosessuali. Il Santo Padre, ai nn. 243 e 298, parla delle condizioni umane e morali delle coppie del primo caso, ma non entra nella questione. Il che vuol dire evidentemente che egli conferma le disposizioni di San Giovanni Paolo II contenute al n. 84 dell’enciclica Familiaris consortio.

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Amoris laetitia

Il Papa ha preferito insistere, in quei numeri ed altri, sia nel presentare modalità, forme e circostanze diverse di quelle coppie, sia nel dare indicazioni ai pastori, vescovi e sacerdoti, e alle stesse famiglie regolari, sul modo di aiutare ed accompagnare con saggio discernimento queste coppie, in un cammino di conversione, penitenza e crescita morale, dedicandosi alle opere buone ed all’educazione dei figli, nel servizio alla Chiesa e alla società, sforzandosi di vivere in grazia di Dio, precisando che, benché non scomunicate, non sono in piena comunione con  la Chiesa.

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Il Papa precisa che queste coppie, benché collocate in uno stato di vita irregolare, possono tuttavia e devono mantenersi in grazia e ricevere da Dio il perdono dei peccati, benché ciò non avvenga mediante il sacramento della penitenza, che a loro non è concesso, ma semplicemente grazie alla presenza efficace e diretta della misericordia di Dio.

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Amoris laetitia

Egli quindi risponde alla difficoltà sollevata da coloro che sostengono che, trovandosi essi in uno stato di vita che spinge al peccato, non possono essere in grazia. Uno stato di vita, spiega il Papa, può essere pericoloso, ma questo non vuol dire che chi vive in esso non possa essere in grazia e, d’altra parte, proprio la spinta al peccato fa sì che la colpa diminuisca, giacché nessuno è tenuto a compiere un atto che supera le proprie forze.

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La norma che proibisce ai divorziati risposati di accedere alla Santa Comunione, è una norma che dipende dal potere delle chiavi, ossia è una legge ecclesiastica, che non discende dalla legge divina in modo univoco, necessario e senza alternative, come fosse una deduzione sillogistica, quasicchè, come credono alcuni, un’eventuale modifica, abolizione o mitigazione dell’attuale disciplina introdotte un domani dal Papa, recassero pregiudizio od offesa alla legge divina e alla dignità cristiana del matrimonio. Al contrario, tutto ciò rientra nelle facoltà del Sommo Pontefice come supremo Pastore della Chiesa. Se non ha ritenuto di dover far ciò, lasciando immutata la legge di San Giovanni Paolo II, vuol dire che ha avuto delle buone ragioni per farlo, e noi, da buoni cattolici, accogliamo docilmente e fiduciosamente le decisioni del Vicario di Cristo.

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Passiamo adesso alla seconda questione. Dice il Santo Padre:

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251. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso [278].

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292. Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo. I Padri sinodali hanno affermato che la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio [314].

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Amoris laetitia

Qui non ci sono commenti da fare, tanto il testo è chiaro. Quello che possiamo auspicare è che tra società civile e Chiesa possa sorgere, in questa delicata materia, una fruttuosa collaborazione ed accettazione reciproche, fra il punto di vista dello Stato e quello espresso qui dai Padri sinodali col consenso del Papa.

Lo Stato, da una parte, deve rendersi conto del suo dovere, nel suo stesso interesse, di impedire l’aggravarsi di questo fenomeno sociale, che, all’evidenza più palmare, porterebbe, a lungo andare, non dico all’estinzione della Chiesa, alla quale Cristo ha promesso l’eternità, ma a danni gravissimi al consorzio umano e al buon ordine dello Stato.

Quanto alla Chiesa, dal canto suo, è oggi più che mai chiamata ad annunciare il Vangelo della famiglia, non come il residuo di un passato da conservare per forza, o un modello di vita monocromo e monolitico da imporre a tutti, e neppure come una unione contingente, lasciata al capriccio dei singoli, ma come libera e creativa comunità d’amore, che, nella società e nella Chiesa, opera per il bene di entrambi in amoris laetitia.

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[1] Vedi il mio studio La dipendenza dell’idea dalla realtà nell’Evangelii gaudium di Papa Francesco, in Pontificia Accademia Theologica, 2014/2, pp. 287-316 [testo, QUI]

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Amoris laetitia, “salutare autocritica”

– Angolo dei Confratelli Ospiti dell’Isola di Patmos

AMORIS LÆTITIA, «SALUTARE AUTOCRITICA»

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È possibile che, via via che passano gli anni, le esortazioni apostoliche post-sinodali diventino sempre più prolisse? È possibile che non si riesca a sintetizzare in poche proposizioni i risultati delle discussioni dei Padri? La concisione, in genere, si sposa bene con l’efficacia e l’incisività: quando ci si dilunga oltre il necessario per trasmettere un determinato messaggio, il più delle volte significa che le idee non erano molto chiare.

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Giovanni Scalese, CRSP

Giovanni Scalese, CRSP *

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Canova eros e psiche

Eros e psiche, opera di Antonio Canova

Mi è stato sollecitato un intervento sulla esortazione apostolica Amoris laetitia. I lettori che mi seguono ab initio [cf. QUI] sanno che non mi piace molto commentare i documenti pontifici. Scrissi in altra occasione: «Le sentenze non si discutono, si applicano». In questa circostanza, pertanto, anziché entrare nel merito della esortazione, preferirei soffermarmi principalmente su alcuni aspetti procedurali, anche se sarà inevitabile fare dei riferimenti ai contenuti.

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Il documento ci invita a essere umili e realisti e a fare una «salutare autocritica» [n.36]. Credo che tale atteggiamento non debba essere rivolto solo verso la Chiesa del passato e la sua prassi pastorale, ma, per essere autentico, debba estendersi a 360° e quindi anche alla Chiesa odierna. Vorrei pertanto fare alcune domande, non con spirito polemico, ma come semplice invito alla riflessione.

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amoris laetitia

l’esortazione post-sinodale Amoris Laetitia

È corretto tornare su questioni che erano state già affrontate in tempi relativamente recenti (il precedente Sinodo sulla famiglia risale al 1980), senza che nel frattempo la situazione fosse radicalmente mutata? È vero che in questi trentacinque anni ci sono state non poche novità, che non erano state allora affrontate (p. es., la fecondazione assistita, la maternità surrogata, la teoria del gender, le unioni omosessuali, la stepchild adoption, ecc.); ma è altrettanto vero che tali tematiche non sono state al centro dei lavori degli ultimi Sinodi e sono toccate solo in parte e di sfuggita nell’esortazione apostolica. L’attenzione sembrava rivolta esclusivamente su una questione che era stata già ampiamente dibattuta e definita: l’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati civilmente. La questione era stata autorevolmente risolta nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (n. 84); il suo insegnamento era stato poi ripreso dal atechismo della Chiesa cattolica (n. 1650) e ribadito dalla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 14 settembre 1994 e dalla Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000. Mi rendo perfettamente conto che Amoris laetitia sfugge a questa logica dottrinale-giuridica, per porsi su un piano squisitamente pastorale; chiedo solo: è corretto rimettere in discussione un insegnamento ormai praticamente definitivo?

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il Santo Padre Francesco con il Cardinale Carlo Caffarra, oggi Arcivescovo emerito di Bologna, considerato uno tra i più grandi esperti dei problemi sulla famiglia

È corretta la procedura seguita per affrontare questo tema? Prima il Concistoro straordinario nel febbraio 2014; poi l’assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre dello stesso anno; successivamente, la emanazione dei due motu proprio sulle cause di nullità matrimoniale nell’agosto 2015; quindi l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre immediatamente successivo; infine l’esortazione apostolica post-sinodale appena pubblicata. Finora non si era mai vista una simile procedura: non era sufficiente un’unica assemblea sinodale, debitamente preparata? Era proprio necessario questo “martellamento” durato due anni? A qual fine? Senza contare poi le anomalie registrate lungo il cammino: la segretezza della relazione al Concistoro e del dibattito sinodale; la relazione post disceptationem del Sinodo 2014, che non rifletteva i risultati del dibattito; la relazione finale del medesimo Sinodo, che riprendeva tematiche che non erano state approvate dai Padri; la lettera riservata dei tredici cardinali all’inizio del Sinodo 2015, denunciata pubblicamente come “cospirazione”; ecc.: sono cose normali?

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sinodo dei vescovi seduta

una seduta del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia

È corretto insinuare determinate soluzioni pastorali, che non erano state accolte dai Padri sinodali (e pertanto non potevano essere riprese nel testo dell’esortazione), nelle note del documento? È corretto mettere in discussione in un documento del magistero l’insegnamento di un documento precedente con la seguente formula: «molti … rilevano» [nota 329)] “Molti” chi? “Rilevano” a che titolo? Inoltre, quale tipo di adesione richiede la nota 351, che ammette una possibilità in aperto contrasto con con l’insegnamento e la prassi ininterrotta della Chiesa, basandosi su argomenti che erano stati già presi in considerazione e giudicati insufficienti a giustificare una deroga a quell’insegnamento e a quella prassi [cf. la Lettera della Congregazione della Dottrina della fede del 14 settembre 1994, in particolare il n.5: «Tale prassi di non ammettere i divorziati risposati all’Eucaristia], presentata [da Familiaris consortio] come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni»]?

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assemblea dei fedeli

assemblea dei fedeli

Non ci si dovrebbe preoccupare, quando si pubblica un documento, di che cosa arriverà ai fedeli? In Evangelii gaudium si poneva, giustamente, il problema della comunicazione del messaggio evangelico [n.41)] in Amoris laetitia si ammonisce di «evitare il grave rischio di messaggi sbagliati» [n.300]. Il fatto che nei giorni successivi all’uscita dell’esortazione siano stati pubblicati commenti contrastanti fra loro non dovrebbe far riflettere? Non sarà che il linguaggio usato non fosse sufficientemente chiaro? È possibile che sullo stesso documento ci sia chi afferma che non cambia nulla e chi lo considera rivoluzionario? Se una affermazione fosse chiara, non se ne dovrebbero poter dare contemporaneamente due interpretazioni opposte. La confusione provocata non dovrebbe essere un campanello d’allarme? In Amoris laetitia non si ignora il problema: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» [n.308], ma poi, con Evangelii gaudium [n.45)], si risponde che è preferibile una Chiesa che «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada». Si è tentati addirittura di pensare che la confusione venga intenzionalmente ricercata, perché in essa agirebbe lo Spirito e in essa Dio va ricercato. Personalmente preferisco credere, con San Paolo, che «Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» [1 Cor 14:33].

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libri

le vecchie, amate e belle scaffalature dei libri …

È possibile che, via via che passano gli anni, le esortazioni apostoliche post-sinodali diventino sempre più prolisse? È possibile che non si riesca a sintetizzare in poche proposizioni i risultati delle discussioni dei Padri? La concisione, in genere, si sposa bene con l’efficacia e l’incisività: quando ci si dilunga oltre il necessario per trasmettere un determinato messaggio, il più delle volte significa che le idee non erano molto chiare. Senza contare che, elaborando documenti eccessivamente lunghi, si rischia di scoraggiare anche i più volenterosi a intraprenderne la lettura e li si costringe ad accontentarsi dei sunti, solitamente parziali e di parte, che ne fanno i mezzi di informazione.

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psicoterapia

«… cominci a narrarmi la sua infanzia»

È proprio necessario che i documenti pontifici si trasformino in trattati di psicologia, pedagogia, teologia morale, pastorale, spiritualità? È questo il compito del magistero della Chiesa? Prima si afferma che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» [n.3] poi, di fatto, ci si pronuncia su ogni aspetto e si rischia addirittura di cadere in quella “casuistica insopportabile”, che pure, a parole, si dice di deprecare [n.304]. Al magistero spetta il compito di interpretare la parola di Dio [Dei Verbum, n.10; Catechismo della Chiesa cattolica, n.85], definire le verità della fede, custodire e interpretare la legge morale, non solo evangelica, ma anche naturale [Humanae vitae, n.4]. Il resto — la spiegazione, l’approfondimento, le applicazioni pratiche, ecc. — è sempre stato lasciato ai teologi, ai confessori, ai maestri di spirito, alla coscienza ben formata dei singoli fedeli. Un’esortazione apostolica, destinata a tutti i fedeli, non può, a mio parere, diventare un manuale per confessori.

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astrattezza

il problema dell’astrattezza …

È giusto insistere sull’astrattezza della dottrina [nn. 22; 36; 59; 201; 312], contrapponendola al discernimento e all’accompagnamento pastorale, quasi non ci fosse possibilità di convivenza fra le due realtà? Che la dottrina sia astratta, non mette conto di sottolinearlo: lo è per natura; come la prassi, di per sé, è pratica. Ma ciò non significa che nella vita umana non ci sia bisogno dell’una e dell’altra: la prassi deriva sempre da una teoria, basti pensare che in Amoris laetitia si ripete per ben due volte, ai nn. 3 e 261, un principio filosofico — e pertanto astratto — che era stato già enunciato in Evangelii gaudium ai nn. 222-225: «Il tempo è superiore allo spazio». Ragion per cui è importante che la prassi, per essere buona (“ortoprassi”), sia ispirata da una dottrina vera (“ortodossia”); in caso contrario, una dottrina errata genererebbe inevitabilmente una prassi cattiva. Disprezzare la dottrina non giova a nulla, serve solo a privare la prassi del suo fondamento, della luce che dovrebbe guidarla. Non ci si accorge, inoltre, che il parlare della prassi non si identifica con la prassi stessa, ma costituisce solo una teoria della prassi? E la teoria della prassi è pur sempre una teoria, altrettanto astratta quanto la dottrina a cui si vuole contrapporre la prassi.

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Bologna-chiesa-del-Baraccano-anni-50 giuseppe savini

Bologna, Chiesa del Baraccano, anni ’50 [foto di Giuseppe Savini]

Descrivere la Chiesa del passato come una Chiesa esclusivamente interessata alla purezza della dottrina e indifferente ai problemi reali delle persone, non è forse una caricatura che non corrisponde in alcun modo alla realtà storica? Arrivare al punto di usare certe espressioni [n. 49: «Invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri”»; n. 305: «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”»] è non solo offensivo, ma falso e ingeneroso verso quanto la Chiesa ha fatto e continua a fare, pur fra mille contraddizioni e infedeltà, per la salvezza delle anime. Nella Chiesa il discernimento e l’accompagnamento pastorale, magari chiamati con nomi diversi e senza fare troppe teorizzazioni, ci sono sempre stati; solo che finora ciascuno faceva il suo mestiere: il magistero insegnava la dottrina, i teologi l’approfondivano, i confessori e i direttori spirituali l’applicavano ai singoli casi. Oggi invece sembrerebbe che nessuno riesca più a distinguere la specificità del proprio ruolo.

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Trasformare le esigenze della vita cristiana in “ideali” [nn. 34; 36; 38; 119; 157; 230; 292; 298; 303; 307; 308] non significa — davvero in questo caso — trasformare il cristianesimo in qualcosa di astratto, peggio, in una filosofia, se non addirittura in una ideologia? Non significa forse dimenticare che la parola di Dio è viva ed efficace [Eb 4:12], che la verità rivelata è una “verità che salva” [Dei Verbum, n. 7; Gaudium et spes, n. 28], che il vangelo «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» [Rm 1:16], che «Dio non comanda l’impossibile; ma, quando comanda, ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, e ti aiuta perché tu possa farlo» [Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, c. 11; cf Agostino, De natura et gratia, 43, 50]?

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ministero pastorale

la pastorale non può prescindere dalla dottrina e viceversa …

Siamo sicuri che la “conversione pastorale” [Evangelii gaudium, n. 25], che si richiede alla Chiesa odierna, sia un bene per essa? Ho l’impressione che alla base di tale conversione ci sia un equivoco di fondo, già presente al momento dell’indizione del Concilio Vaticano II e giunto fino ai nostri giorni: pensare che non sia più necessario che la Chiesa oggi si prenda cura della dottrina, essendo già essa sufficientemente chiara, conosciuta e accettata da tutti, e che ci si debba preoccupare solo della prassi pastorale. Ma siamo proprio sicuri che la dottrina sia oggi così chiara, che non necessiti di ulteriori approfondimenti e di essere difesa da interpretazioni erronee? Siamo proprio certi che tutti, oggi, conoscano la dottrina cristiana? Non basta rispondere a queste domande dicendo che c’è il Catechismo della Chiesa cattolica: primo, perché non è scontato che tutti lo conoscano; secondo, perché, quand’anche fosse conosciuto, non è detto che sia da tutti condiviso. Se è vero che «la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione piú luminosa della verità di Dio» [Amoris laetitia, n. 311], è altrettanto vero che «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime» [Humanae vitae, n. 29; cf Familiaris consortio, n. 33;Reconciliatio et paenitentia, n. 34; Veritatis splendor, n. 95]. E il servizio che il magistero deve offrire alla Chiesa è, innanzi tutto, il servizio della verità [Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890]; proprio insegnando la verità che salva il magistero assume un atteggiamento pastorale e “misericordioso” verso le anime. Solo quando il magistero avrà adempiuto a questo suo compito primario, gli operatori pastorali potranno, a loro volta, formare le coscienze, fare opera di discernimento e accompagnare le anime nel loro cammino di vita cristiana.

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* Giovanni Scalese [Roma, 1955] è sacerdote e teologo dell’Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo (Padri Barnabiti).

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.,Senza peli sulla lingua

Pensieri in libertà di un Querciolino errante,

di Giovanni Scalese

[edito il 14 aprile 2016]

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grafica e foto a cura della redazione dell’Isola di Pamos

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L’arte al servizio della fede: il mistero della crocifissione

Arte&fede

L’ARTE AL SERVIZIO DELLA FEDE: IL MISTERO DELLA CROCIFISSIONE

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I primi cristiani declinarono l’iconografia della croce, considerata come pena capitale per i furfanti e i malfattori; non a caso, il simbolo del primo cristianesimo delle origini era un pesce stilizzato. Tra l’altro il Crocifisso era qualcosa che lo stesso San Paolo definiva «scandalo e stoltezza». Infatti, la croce, era per i cristiani segno con cui venivano svergognati e derisi.

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Autore Licia Oddo *

Autore
Licia Oddo *

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michelangelo bozzetto

Michelangelo, bozzetto di una crocifissione

Il simbolo per antonomasia della fede cristiana è senza dubbio il mistero della morte di Cristo in croce, che lo stesso cristiano rileva ogni qualvolta si raccoglie in preghiera. Epilogo drammatico della missione terrena di Gesù ma anche una nuova alleanza con gli uomini espressa nel sacrificio cristologico, di quel supplizio chiamato Via Crucis contemplato nei Vangeli della passione, la Crocifissione diventa altresì l’iconografia più rappresentativa e speculativa della storia, sino ai nostri giorni, ed è il messaggio cristiano di natura catechetica alle masse.

La Croce quale peculiarità cristiana, rappresenta il binomio del bene e del male, da una parte il simbolo a cui si spinge la malvagità umana come strumento di tortura che giunga alla morte, simboleggiando la cieca violenza che irrompe nel cuore dell’uomo, ma, d’altro canto, essa mostra la resistenza e la forza del bene: sulla croce, infatti, nonostante l’inaudita violenza che gli viene inflitta ingiustamente, Gesù non risponde al male col male. E invocando il perdono per i suoi carnefici, vince il male, mettendovi fine: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» [cf. Lc 23,43]. San Paolo esprime questo duplice aspetto della croce in una frase topica: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» [cf. Rm 5,20]. Ed in effetti la giustizia divina, è in verità una giustizia riparatrice e non vendicativa; una giustizia che restaura e, per di più, perviene alla grazia [cf. dal sito della diocesi di Padova: “La Croce nell’arte” A. Fossion].  

I primi cristiani tuttavia declinarono l’iconografia della croce, considerata come pena capitale per i furfanti e i malfattori; non a caso, il simbolo del primo cristianesimo delle origini era un pesce stilizzato. Tra l’altro il Crocifisso era qualcosa che lo stesso San Paolo definiva «scandalo e stoltezza» [cf. 1 Cor 1,23]: infatti la croce era per i cristiani segno con cui venivano svergognati e derisi.

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crocifissione di san Pietro di carlo giuseppe ratti

Carlo Giuseppe Ratti, crocifissione di San Pietro

Bisogna anche fare una valutazione di carattere socio-giuridico. Nel diritto penale romano, la pena alla crocifissione era considerata una condanna a tal punto infamante che non poteva essere inflitta ai cittadini romani, neppure a quanti si fossero macchiati dei crimini più efferati e gravi. Il tutto è a suo modo sintetizzato nella morte dei due Santi Apostoli Pietro e Paolo. Pietro il galileo, che era abitante di una colonia romana, fu messo a morte attraverso la crocifissione sul Colle Vaticano; Paolo, che invece era cittadino Romano, originario di Tarso nell’attuale Turchia, anch’esso morto martire a Roma, fu giustiziato attraverso decapitazione alle Acque Salvie, sulla Via Laurentina, dove oggi sorge il complesso dell’Abbazia delle Tre Fontane.

All’inizio della vita della Ecclesia compare l’utilizzo del simbolo del “Chiro” [o Chrismon] già noto ai più perché le due lettere sono le iniziali della parola ‘Χριστός’ [Khristòs], l’appellativo di Gesù, che in greco significa “unto” e traduce l’ebraico “messia”.

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labaro costantiniano

bassorilievo marmoreo raffigurante il labaro costantiniano

Solo con l’epoca costantiniana, dopo il concilio di Nicea celebrato nell’anno 325, appaiono le prime raffigurazioni esplicite di Cristo, talvolta con la croce in pugno. Ma è il monogramma costantiniano il primo utilizzo pubblico della croce. Nel 312, secondo quanto racconta lo storico Eusebio nella Vita Constantini: la notte prima della battaglia contro Massenzio, l’imperatore Costantino I ha la visione di una croce luminosa con su scritto “In hoc signo vinces”. L’imperatore fece così stampare il simbolo cristologico, il cosiddetto labaro costantiniano, della croce sugli scudi dei soldati romani che, poco dopo, vinsero la famosa battaglia di Ponte Milvio.

Alla fine del secolo IV si assiste allo sviluppo del culto della Croce e delle reliquie. Nello stesso periodo si procede alla rappresentazione iconografica della etimasia, il trono vuoto con la croce gemmata, un cuscino sul quale è posto il mantello da giudice (riferimento al giudizio divino), un libro chiuso (il Libro della Legge), e gli strumenti della Passione simbolo della presenza del Cristo assente fino a quando non apparirà con la seconda venuta per il Giudizio Universale. Il IV secolo segna la diffusione del messaggio cristiano attraverso la decorazione musiva del trionfo pasquale di Cristo delle zone absidali e delle pareti delle navate laterali delle grandi basiliche romane quali vittoria del cristianesimo sulle altre religioni politeiste e quindi pagane (mosaico di Santa Pudenziana del 390).

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croce di mastro guglielmo

Mastro Guglielmo, Cristo Trionfante, Cattedrale di Sarzana

A questo punto è doverosa una considerazione di carattere iconografico i cui riflessi iconologici possono ricondursi alla osservazione preliminare della doppia accezione della croce. Mi riferisco al carattere vittorioso della croce del bene sul male nota con la prima apparizione di quest’ultima che vede il Christus Triumphans.  Il Cristo è in posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce e ritratto come trionfatore sulla morte, attorniato da scene tratte dalla Passione, e poteva altresì presentare agli estremi dei bracci della croce figurine di contorno, successivamente la Vergine e San Giovanni evangelista in posizione di compianto. Talvolta si incontrano anche i simboli degli evangelisti e, nel braccio superiore la cimasa, un Cristo in maestà. Tra gli esempi più antichi di Crocifisso triumphans si annoverano la Croce di Mastro Guglielmo nel Duomo di Sarzana, la Croce di San Damiano nella chiesa di Santa Chiara ad Assisi e la croce di un anonimo maestro pisano nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa. È con il periodo relativo alle rinascenze carolingia ed ottoniana, che si verifica l’inizio di una nuova iconografia del Cristo morto detto (Christus Patiens) nel X sec.; questa volta gli occhi sono chiusi e l’espressione è sofferente, ad indicare l’umanità di fondo di Cristo. In età Romanica prima e soprattutto nel Gotico poi, sotto l’influsso dei “mistici” assistiamo alla crescita dell’attenzione anatomica. La diffusione di questa iconografia avviene per opera degli Ordini Mendicanti domenicani e francescani secondo i quali il Crocifisso assume un ruolo centrale, quale vessillo della passio e quindi del sangue e del dolore. L’iconografia assume toni più forti o drammatici con i Crocifissi di Cimabue e di Giotto. La Croce ispirata alla scuola della spiritualità francescana del Cristo patiens evidenzia il tema della passione rispetto a quello della gloria e per questo i suoi colori sono il nero, il bianco e il rosso, colori che rappresentano la morte, la pura innocenza, il sangue e, appunto, la passione, attraverso l’intensificazione delle piaghe e del sangue dalla corona di spine, evidenziando così l’aspetto malvagio dello strumento di tortura praticato dai romani. Negli scomparti laterali della croce sono narrate per immagini la passione e la resurrezione.

Negli affreschi è possibile ravvisare il tema della Crocifissione attraverso l’ostentazione del dramma alle folle, il dolore lancinante di Maria, la Maddalena, il Pianto degli Angeli etc…

beato angelico crocifissione

Beato Angelico, crocifissione

Il Rinascimento italiano quale espressione del naturalismo antropologico evidenzia la produzione delle grandi pale d’altare e viene evidenziato col Cristo, l’uomo virtuoso, perfetto, anche un ideale di umanesimo cristiano [cf. i Crocifissi dell’Angelico]. Si arriva così alla celebrazione del Cristo eroe, con i pittori della prima metà del cinquecento. La grande Crocefissione del Beato Angelico, conservata nella Sala capitolare del convento domenicano di San Marco a Firenze, presenta un’iconografia innovativa, poiché al posto dei personaggi consueti presenti al Calvario mostra tutta una serie di santi, vissuti nelle epoche e nei luoghi più disparati, secondo un complesso sistema allegorico che adombra vari significati. Si tratta di una raffigurazione mistica, invece della consueta scena narrativa, assimilabile a opere come il Compianto della Croce al Tempio, sempre dell’Angelico. Ciò che descrive l’immagine è il significato salvifico dell’evento: la Redenzione.

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Antonello da Messina, Crocifissione

La Crocifissione [1475] di Antonello da Messina è un esempio di quegli elementi anatomici e prospettici tipici del periodo. La tipologia iconografica rimanda a esempi fiamminghi, anche nel trattamento del paesaggio, che sfuma dolcemente in lontananza nei colori azzurrini delle colline avvolte dalla foschia. La linea intensa delle acque del lago isola maggiormente la figura del Cristo, con un cerchio formato dalla Vergine e da San Giovanni.

Il dramma della croce viene tradotto in immagine nei disegni di Michelangelo, e verrà ripreso con un’iconografia diversa, quella della Pietà che vede la Vergine disperata con in braccio il figlio cadavere nonché quello della deposizione ove significativa é la Pala Baglioni di Raffaello detta Deposizione Borghese. L’iconografia assume toni più teatrali e vivaci nell’epoca Manierista, col Pontormo.

Il Concilio di Trento contribuirà in maniera evidente al rilancio dell’arte cattolica in funzione propagandistica, proselitista, e morale tramite gli ordini religiosi. Le chiese si riempiono di effetti scenografici senza precedenti e lo stucco simula la cornice dipinta, i grandi altari sembrano realizzati su piani ascendenti, come il monte Calvario, con la Croce al centro. In pittura si alternerà il gusto e la preferenza ad artisti più legati al realismo caravaggesco o al classicismo, come gli spagnoli Rubens e Velazquez. Si procederà alla realizzazione di crocifissi agonizzanti, molto intensi e commoventi, come nell’arte pittorica di Guido Reni; crocifissi che sembrano interpretare il passo evangelico: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», che Matteo mette al centro della sua presentazione apocalittica [Mt 27,46].

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Alla fine del settecento e l’inizio dell’ottocento è la tradizione che vince su tutto, si veda Francisco Goya, che finisce per esaltarla in un bellissimo Cristo che emerge radioso da uno sfondo cupo dominato totalmente dalle tenebre. L’impianto del corpo di Cristo, levigato e senza ferite, denuncia uno stile classicheggiante e accademico molto lontano dalla sensibilità del Goya più tardo: il suo Cristo crocifisso fu infatti dipinto nel 1780 come prova d’ingresso alla Real Accademia di San Fernando per compiacere gli accademici abbarbicati nella tradizione.

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crocifissione degas

Edgar Degas, Crocifissione

Altra grande novità si verifica alla fine dell’ottocento con gli artisti legati all’Impressionismo.

L’iconografia della Passione e della crocifissione permise a Degas di sperimentare il suo impressionismo in chiave religiosa, con copie degli artisti del passato. Il risultato fu una versione in cui la classicheggiante durezza dello stile del Mantegna cede il posto ad un aspetto fascinoso e diluito, dove il colore elimina dettagli e concretezza a cose e persone per lasciarvi solo l’energia, seppur tragica della morte, del dolore. Interessato poco al dettaglio folcloristico, che riporta in vita antichi usi e costumi, Degas non vede altro che colore per fondere lo spazio con i soggetti. La crocifissione impressionista diventa così la visione più completa e a noi comprensibile del dramma universale, simbolo iconografico della speranza.

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cristo giallo

Paul Gauguin, Crocifissione

Qualche decennio più avanti l’espressionismo vede nell’opera di Gauguin una singolare rappresentazione: il Cristo Giallo. Rappresenta Gesù crocifisso, ma con una trasposizione di luogo e di tempo, infatti Gauguin lo ambienta nel suo tempo e nella sua terra francese della Bretagna. Le donne indossano i tipici costumi bretoni e sullo sfondo si notano le case con i tetti aguzzi, anch’essi tipicamente bretoni. Il quadro è tagliato in due, le linee di Gesù sono più angolari e spigolose e ricordano i quadri medievali, mentre per il resto dominano linee curve. L’opera è composta da contorni netti e c’è un’assenza di ombra, è bidimensionale con colori irreali. La figura di Gesù è magra e nel paesaggio sullo sfondo spiccano gli alberi rossi che ricordano il suo sangue, che non mette invece sul suo corpo. Per il corpo di Cristo e il suo colore particolare, Gauguin s’ispirò ad un crocifisso, tuttora in loco, esposto nella Cappella di Tremalo, non lontano da Pont-Aven, in Bretagna. Ciò ad indicare che il tema cristiano del martirio per antonomasia, così come l’artista lo traspone nel tempo e nello spazio resta e resterà sempre attuale.

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Il Golgota - 1956 olio su tavola - cm. 80x120

Quirino de Ieso, Il golgota (1956)

Nel Novecento l’arte si divincola dalla propaganda ecclesiastica e concretizza nel mistero della crocifissione sul male dell’umanità e dell’inizio del secolo: le malattie nevrotiche tipiche del nuovo progresso tecnologico ed industriale, le guerre mondiali, lo sterminio nazista. Un grande contributo all’iconografia della Croce è quello di Chagall con la sua rilettura biblica della storia, in cui il Cristo è lo stereotipo del sacrificio violento. Tra gli altri artisti spiccano le creazioni autorevoli di Picasso, Guttuso, e Dalì.

«Il mistero della Crocifissione» che da il titolo ad alcune opere, rivive nella produzione sacra del maestro Quirino De Ieso, dagli anni cinquanta sino all’epoca odierna. Il Golgota, opera cubista recensita dallo stesso Pablo Picasso nel 1961, è un’opera in cui il colore degli oli e la linea segnano più che il soggetto umano il valore simbolico ricco del sacrificio cristologico. Il Golgota trasmette l’atmosfera carica di dolore, rievocata nel calore delle varie tonalità di un rosso sfaccettato, rappresentazione dell’ultimo istante della passione di Cristo, che precede l’oscurità dell’ora più infausta, esaltata in una prospettiva tridimensionale che colpisce lo spettatore attraverso la forma geometrica. Ciò che risalta all’occhio del contemplatore è però la differenza di colore dei due ladroni, colui che chiese a Gesù di ricordarsi di lui nel Regno dei Cieli, per questo raffigurato in bianco come il Salvatore.

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La croce di Manhattan - 2001 olio su tela - cm. 60 x 100 Edito Cam Mondadori n. 51

Quirino de Ieso, La croce di Manhattan (2001)

Ma l’arte è la più significativa e manifesta espressione della società, in particolar modo della Chiesa e quello che va sottolineato in questa breve storia della iconografia della croce è un’opera del maestro De Ieso, di cui, la sottoscritta ne è la curatrice, in cui il Calvario di Cristo è ripercorso a distanza di cinquant’anni nell’opera “La Croce di Manathan targata 2001. Il parallelismo ai fatti che hanno riscritto la storia solo un quindicennio or sono, rivissuto nel martirio di Cristo è di gran lunga attuale più che mai ai fatti accaduti sino a qualche giorno fa a causa del nuovo clima di terrore che sta invadendo il mondo. La goccia di sangue versata sulla croce duemila anni addietro, si rinnova nel sacrificio di tutte le persone che sono state immolate nel luogo definito “Punto zero” che come il monte Calvario è il luogo ove è terminato il martirio e si è accesa la speme fiduciosa nel futuro per un mondo migliore. La croce rappresenta il patto con gli uomini presenti nelle quattro figure contemplanti, le personificazioni della teologia, letteratura, scienza, e arte, a cui hanno attentato i figli dei demoni della nuova era, mentre uno stuolo di ghirigori inesplicabili, dai colori accesi, evoca l’attesa misteriosa nella salvezza, come embrioni relativi alle nuove generazioni future, ad indicare che nulla è perduto. In questa speme, che gli artisti di tutti i tempi hanno rappresentato nei modi e nei luoghi più singolari, si cela il messaggio di Cristo, che attraverso il supplizio della crocifissione a causa del male più incondizionato ricevuto dall’uomo, ha restituito bene chiedendo ed ottenendo da Dio Padre il perdono dell’umanità.

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* storica dell’arte

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Per aprire questa recensione cliccare sotto

Licia Oddo – Jorge A Facio Lince QUIRINO DE IESO TRA ARTE E KOINE

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Scuola, creatività e cultura del merito: “La scuola come valore sociale e bussola di orientamento nella vita e nel lavoro”

– I video dell’Isola di Patmos –

SCUOLA, CREATIVITÀ E CULTURA DEL MERITO: «LA SCUOLA COME VALORE SOCIALE BUSSOLA DI ORIENTAMENTO NELLA VITA E NEL LAVORO»

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[…] «Lo so benissimo che queste cose molti non ve le dicono, semmai mossi da buon cuore – che poi buon cuore non è – il quale porta a dire: “Ai giovani non vanno rubati i sogni”. Ebbene io vi dico che i giovani non vanno lasciati in un mondo di sogni, vanno educati e stimolati ad essere creativi e ad esprimere al massimo la loro creatività nel mondo della realtà».

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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aula magna dell’Istituto Adelfio Insolera di Siracusa, evento promosso dal Lions Club

In questa lectio che si è svolta il 2 aprile nella splendida cornice dell’antica Città di Siracusa presso l’aula magna dell’Istituto Adelfio Insolera, ho avuto il piacere di confrontarmi con una platea di oltre 300 giovani in età compresa tra i 17 ed i 18 anni delle scuole medie-superiori, percorrendo temi legati alla scuola, in particolare al loro futuro lavorativo, invitandoli a riflettere sul valore e sulla cultura del merito in rapporto sia allo studio sia al lavoro e toccando il delicato argomento dei numerosi lavori disponibili, che però i giovani italiani non vogliono svolgere più. Il tutto con la probabilità che domani, il figlio dell’extra-comunitario, dotato di ben altro spirito di sacrificio e animato da desiderio di riscatto, possa essere il loro futuro datore di lavoro.

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i rappresentanti del Lions Club promotori dell’evento

Lo spunto al quale mi sono ispirato per la riflessione è stata la conclusione del salmo 125: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni».

Mi è particolarmente caro ricordare la benedetta memoria del mio primo formatore e poi confratello sacerdote Vincenzo Maria Calvo [1937-2015], che fu a suo tempo insegnante e pedagogo premuroso di altre generazioni di giovani, ossia di molti genitori dei ragazzi ai quali pochi giorni fa ho parlato io con questa lectio [cf. QUI].

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conferenza 2 aprile

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Cari Lettori.

L’Isola di Patmos comincia il suo cammino il 20 ottobre 2014.

Nel corso dell’anno 2015 il numero delle visite ha superato i tre milioni, così suddivise: il 68% dei lettori appartenenti al pubblico italiano, il 32% a vari paesi del mondo.

Vi informiamo che nei primi tre mesi di questo anno 2016 abbiamo già raggiunto, dal 1° gennaio al 1° aprile, il numero complessivo di 2.852.000 visite.

Grazie a diversi lettori, ma soprattutto ad una singola benefattrice siamo riusciti a coprire le spese di gestione per l’anno in corso.

vi preghiamo di ricordarvi di noi, anche con un piccolo obolo, perché questa rivista telematica si sostiene unicamente con le offerte dei suoi lettori. 

I Padri dell’Isola di Patmos

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Il problema del linguaggio dottrinale e la neolingua dei nuovi teologi: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”

– I video dell’Isola di Patmos –

IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO DOTTRINALE E LA NEOLINGUA DEI NUOVI TEOLOGI: «FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI MA PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA»

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«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4,3-4]

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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veduta aerea di Ortigia, cuore dell’antica città greca di Siracusa

In questa lectio che sono stato inviato a tenere dai Cavalieri dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme e dai Soci del Lions Club nell’antica città di Siracusa il 1° aprile 2016, ho trattato un argomento teologico molto delicato: la perdita del linguaggio per la corretta trasmissione dei misteri della fede e del dogma, spiegando come nel corso dell’ultimo mezzo secolo di storia, alla precisione del linguaggio metafisico, si sia sostituita all’interno della Chiesa una neolingua intrisa di sociologismi e teologismi. Il cuore della lectio si  incentra sul brano del Vangelo di Matteo dove si narra di Gesù che prova tenerezza verso gli uomini che «parevano come pecore senza pastore», per questo «si mise ad insegnare loro molte cose» [Mt  6,30-44].

cattedrale siracusa

immagine della cattedrale di Siracusa eretta sopra l’antico tempio di Minerva [VII sec. a.C]. Quella di Siracusa è un’antichissima Chiesa fondata per volontà dell’Apostolo Pietro dal Vescovo Marziano e poi visitata dall’Apostolo Paolo  [cf. At 28, 11-16]

Infine il monito paolino che oggi suona più che mai di drammatica attualità e sul quale è strutturata la intera lectio:

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«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4,3-4].

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Mi è particolarmente caro ricordare il mio maestro e confratello sacerdote Giovanni Cavalcoli, figlio dell’Ordine di San Domenico e insigne discepolo di San Tommaso d’Aquino, con il quale da anni condivido con pena, amore ma anche con quella teologale speranza che unisce assieme fede e carità, la non facile situazione ecclesiale e teologica che stiamo vivendo. Parte di questa lectio è anche frutto dei lunghi colloqui e scambi di approfondimento intercorsi tra di noi in questi ultimi tre anni.

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conferenza san tommaso

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