Ce jour où un démoniaque reconnut immédiatement Jésus-Christ comme puissance divine

Homilétique des Pères de l'île de Patmos

QUEL GIORNO IN CUI UN INDEMONIATO RICONOBBE IMMEDIATAMENTE GESU CRISTO COME POTENZA DIVINA

«Nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, disant: “Que voulez-vous de nous, Jésus Nazaréen? Vous venez de détruire? je sais qui tu es: le saint de Dieu!”. E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui».

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

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Le chant évangélique de ce dimanche forma parte di quella che viene comunemente definita la «giornata di Gesù a Cafarnao».

« À ce moment-là, Jésus, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao] il a enseigné. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Et ici, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, disant: “Que voulez-vous de nous, Jésus Nazaréen? Vous venez de détruire? je sais qui tu es: le saint de Dieu!”. E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!”. La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea». (Mc 1,21-28).

Si tratta di una raccolta di brevi episodi che vanno da Mc 1,21 fino a 1,34 che l’Evangelista racchiude nell’arco di ventiquattro ore. Si inizia con la preghiera del mattino in sinagoga, descritta dal v. 21― preghiera celebrata ancora oggi dagli Ebrei, che prevede la proclamazione della Torah, del Profeta e il successivo sermone tenuto dal rabbino ― per arrivare al tramonto del sole, quando ormai, finito lo Chabbat, è permesso portare i malati davanti a Gesù. L’attività di Gesù è frenetica: non ha tempo se non per insegnare e per guarire. C’è un avverbio, «subito» (εὐθύς, euthys), importantissimo per Marco, che si ripete nei vv. 21.23.28 ― purtroppo non colto dalla traduzione italiana, ma presente in greco ― e addirittura dodici volte solo nel primo capitolo, quarantacinque nell’intero vangelo di Marco; sta a indicare la fretta di Gesù per il quale «il tempo è compiuto» (Mc 1,15): se il tempo è compiuto, non c’è tempo da perdere per mostrare come il Regno è arrivato tra gli uomini.

La prima attività che ci riferisce Marco su Gesù è il fatto che insegnava con autorità. Il primo miracolo, appelons ça comme ça, che compie non è una guarigione o un esorcismo, ma l’insegnamento. E, in proporzione, Marco presenta Gesù come un maestro, più degli altri Vangeli: per cinque volte usa a suo riguardo la parola didachē ― «insegnamento» ― e per dieci volte lo chiama «maestro», riferendo questo titolo solo a lui. L’insegnamento è uno dei ministeri di cui parla Paolo nella Lettera ai Romani (12,7), ed è forse la carità di cui più abbiamo bisogno in tempi in cui è difficile trasmettere la fede.

Les autres, a cui viene paragonato Gesù, sono gli scribi. Ma non hanno la sua stessa «autorità». Anche se non vengono disprezzati o diminuiti dall’Evangelista, Marco sottolinea due volte (vv. 22 e 27) che egli insegna in modo molto diverso rispetto a loro. La differenza tra lui e gli altri «rabbini» potrebbe stare a due livelli. Il primo è quello dell’autorevolezza con cui Gesù dice le cose. Leggendo i testi della tradizione rabbinica, che sono stati raccolti a partire dalla caduta del secondo Tempio, nella seconda metà del I secolo d.C., si rimane colpiti dall’attaccamento alle «tradizioni degli antichi» ― di cui parla anche Marco in 7,1-13 ― tramandate con una lunga catena di detti e di sentenze, ma soprattutto dal modo in cui queste sono elencate una dopo l’altra, come una raccolta di opinioni diverse ma dello stesso valore. La parola di Gesù invece ha un carattere più creativo ed un peso più grande: si rifà direttamente alla Legge e a Dio e, acquisendone forza, la sua parola non è mai solo un parere. Ma c’è di più e qui siamo al secondo livello dell’autorità di Gesù. Le sue non sono semplicemente parole, ma compiono ciò che dicono. Egli è il «santo di Dio» (Mc 1,24) e perciò la sua autorità esprime il potere di Dio stesso: per questo insegna, esorcizza e guarisce, ma sempre attraverso una parola che libera e salva.

Il Regno di Dio è una nuova creazione dans lequel, come già nella prima, le parole proferite autorevolmente realizzano ciò che proferiscono. Questo diventa evidente nella seconda attività che contraddistingue l’avvento del Regno in Gesù: la guarigione dei malati e gli esorcismi. Dove c’è Dio con il suo regno, lì non c’è spazio per il male e le sue potenze: se ne devono andare.

Gesù infatti non lascia parlare lo spirito immondo: «Taci», gli ordina. Non vuole che Satana apra bocca e non solo perché il diavolo è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Infatti già era accaduto una volta che il serpente avesse parlato, ed ebbe inizio la triste storia del peccato dell’uomo: il serpente antico per tentare al male Adamo aveva infatti inculcato il veleno del dubbio in Eva: « Il est vrai que?» (Gén 3,1). Se allora fosse stato fatto tacere, Adamo avrebbe vinto la tentazione.

In questa parte del Vangelo secondo Marco la cristologia è centrata sull’idea che Gesù sia capace di recuperare la sorte del primo uomo. Qui, quando fa tacere il demonio e anche nella scena del deserto, ovvero nel racconto della sua tentation. Gesù viene «cacciato» in quel luogo (Mc 1,12) così come Adamo era stato «cacciato» dal paradiso (Gén 3,24), condividendone così la sventura, ma uscendo vittorioso dalla prova. Al termine di essa, registra Marco, Gesù «stava con le fiere», cioè di nuovo in pace con la creazione, come Adamo, «e gli angeli lo servivano», cioè ricevendo lo stesso onore che, secondo una tradizione rabbinica, Dio aveva dato alla sua più bella creatura, l’onore di essere nutrito dagli spiriti buoni. Jésus, enfin, appare nel Vangelo di Marco non come un bambino, come invece nei vangeli dell’infanzia di Matteo e di Luca, ma arriva sulla scena già adulto, uomo fatto, come anche Adamo era stato creato adulto.

La giornata di Cafarnao si svolge in un sabato, il giorno in cui Dio si è riposato dopo aver creato l’uomo. In questo giorno Gesù può riportare alla sua originale bellezza il mondo, per mezzo della stessa parola creatrice che ha fatto l’universo e che gli permette di esercitare la sua autorità forte; ma anche esercitando su quel giorno, il sabato, una speciale signoria. Il «Figlio dell’uomo», come ascolteremo in un’altra domenica, è «Signore anche del sabato» (Mc 2,28). Il tempo è di Dio e Gesù afferma questa sovranità sul tempo compiendo guarigioni di sabato. E sono guarigioni che toccano uomini e donne che a causa della loro malattia avevano perso la ragione stessa del tempo. Per una persona sana, lo svolgersi delle attività lungo l’arco della settimana mirava ad un compimento nel riposo sabbatico: l’incontro con Dio e con la sua parola permeava di significato e di speranza l’esistenza.

Per una persona invalida, che era esclusa dal riposo sabbatico e dallo spazio del tempio, ecco che ogni giorno della settimana si caricava del medesimo dolore e sofferenza. Le guarigioni di Gesù nel giorno di sabato interrompono questo fluire indistinto del tempo nel corpo dei malati e ridonano a uomini e donne che hanno perso il senso del tempo il suo pieno valore attraverso il sabato. La guarigione di quell’uomo «posseduto da uno spirito impuro», che quel giorno di sabato si trovava proprio lì dove era presente anche Gesù, è l’inizio di un nuovo sabato, ossia di una nuova creazione, in cui al centro c’è la vita di ogni persona da salvare. Come ha scritto il rabbino e filosofo Heshel:

«Dobbiamo sentirci sopraffatti dalla meraviglia del tempo se vogliamo essere pronti a ricevere la presenza dell’eternità in un singolo momento. Dobbiamo vivere ed agire come se il destino di tutto il tempo dipendesse da un singolo momento» (Heshel A. J, Le samedi, Garzanti, Milan 2015, p. 96).

 

De l'Ermitage, 27 janvier 2024

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Grotte Saint-Ange à Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Les Pères Patmos Island

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La charité lave et rend propre même l’argent sale, Les grands saints de la Charité nous l'enseignent dans l'histoire de l'Église

UNE CHARITÉ LAVE ET REND PROPRE MÊME L’ARGENT SALE, CE LO INSEGNANO NELLA STORIA DELLA CHIESA PROPRIO I GRANDI SANTI DELLA CARITÀ

Certi vescovi di Migrantopoli e Pauperopoli sembra che vogliano presentarsi oggi più puri e immacolati della Beata Vergine Maria, pur di piacere al mondo e compiacerlo. Sino a non capire che la carità «tutto copre» e «tutto trasforma», cosa che però non possono cogliere e capire, se come loro Presidente si ritrovano un soggetto che afferma: «il Vangelo non è un distillato di verità».

- Nouvelles de l'Église -

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Quando il Beato Apostolo Paolo compose la lode alla carità parlò anche ai giorni nostri. Questa è la caratteristica della Parola di Dio: un linguaggio eterno che comunica agli uomini di tutti i tempi e che nel corso dei secoli svela messaggi nuovi racchiusi in quelle stesse parole.

Le Sacre Scritture hanno uno stile e un linguaggio apocalittico nel senso etimologico del termine. Benché nel linguaggio corrente parlato il termine apocalisse, le grec ἀποκάλυψις, sia erroneamente usato per indicare un evento catastrofico o la fine del mondo, il suo vero significato è “disvelare”, “togliere il velo che copre”, quindi scoprire. Tra il termine apocalisse e il termine epifania, dérivant du grec ἐπιφαίνω, che significa “mi rendo manifesto”, c’è uno stretto legame. L’epifania intesa come manifestazione della divinità è un continuo “disvelare” dei contenuti racchiusi sulle righe, dentro le righe e oltre le righe stesse delle Sacre Scritture che racchiudono la Parola di Dio.

Nel brano in questione, aussi connu sous le nom Hymne à la Charité, il Beato Apostolo Paolo esprime:

«La carità è paziente, la charité est gentille; la charité n'est pas envieuse, ne se vante pas, ne gonfle pas, ne manque pas de respect, ne recherche pas son intérêt, ne te fâche pas, il ne tient pas compte du mal reçu, n'apprécie pas l'injustice, mais prend plaisir à la vérité. Tout couvre, tout le monde croit, j'espère tout, supporte tout. La charité ne finira jamais. […] Ce sont donc les trois choses qui restent: Foi, espoir et charité; mais de tous le plus grand est la charité!» (Je Cor 1, 1-13)

Confrontiamo questo brano paolino, facile e comprensibile solo all’apparenza, con un recente fatto di cronaca ecclesiale:

«”L’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma ha fatto bene a rifiutare la ricca donazione della società Leonardo” perché “è denaro sporco, sporco di armi, sporco di sangue, sporco di guerra”. Mons. Giovanni Ricchiuti presidente nazionale di Pax Christi e vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, prende una posizione più che netta dopo che la République ha scritto che sarebbe stato rifiutato un milione e mezzo di euro. “Finalmente” dice “Siamo in linea con una Chiesa che veramente si libera di questi condizionamenti, di queste elargizioni che vengono, come nel caso, da una industria che produce armi. Ha fatto bene il Vaticano a rifiutare questa offerta. Lo dico come vescovo: è una Chiesa che ama la verità”» (cf.. QUI e QUI).

D'abord une question. Dopo che il Presidente di Paix du Christ ha annunciato che la nostra attuale «è una Chiesa che ama la verità», si renderebbe necessario chiarire due cose fondamentali. la première: précédemment, l'église, per duemila anni quale verità amava, ammesso che la amasse? La deuxième: quelle est la vérité?

Récemment, il Presidente dei Vescovi d’Italia, nel totale silenzio del nostro episcopato nazionale ha affermato che «il Vangelo non è un distillato di verità» (cf.. QUI). Au moins, Ponce Pilate, a suo tempo non fece una affermazione come quella del Presidente dei Vescovi d’Italia, in modo molto più elegante rivolse al Cristo una domanda: «Qu'est-ce que la vérité?», Cos’è la verità (cf.. Gv 18,38).

Non è facile parlare di verità nella odierna Chiesa emozionale di Migrantopoli e Pauperopoli. Proviamo allora a rifarci a quel San Tommaso d’Aquino che nei salotti dei sempre più ignoranti clericali chic radical è variamente indicato come «vecchio» e «superato». Pour le Docteur Angélicus O Docteur communis La verità è Dio stesso ipsa summa et prima veritas (Summa, I q. 16 une. 5 c). La verità non si disvela mai pienamente, per questo motivo «verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile [...] diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In lui Dio è entrato nel mondo, ed ha innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia» (Joseph Ratzinger, dans Jésus de Nazareth, la domanda di Pilato, pp. 216-218).

Per volontà del suo divino fondatore la Chiesa di Cristo non è nata per piacere al mondo e compiacerlo, ma per combatterlo:

« Si le monde vous hait, sachez qu'il m'a haï avant. Si vous étiez du monde, le monde vous aimer comme son propre; parce que vous n'êtes pas du monde, mais je vous ai choisi dans le monde, c'est pourquoi le monde te déteste" (Gv 15, 18-19).

Se alla verità si sovrappongono opinioni errate che prendono vita da elementi emozionali soggettivi o collettivi, essa rimane completamente occultata nella emotiva Chiesa di Migrantopoli e Pauperopoli, dove non si esita ad affermare che «il Vangelo non è un distillato di verità», il tutto nel silenzio dell’intero l’episcopato italiano.

Rifiutando quella donazione si è cercato ancóra una volta di compiacere il mondo, in particolare quello composto da persone che lungi dall’andare alla Santa Messa per Pasqua e per Natale, non sanno farsi neppure il segno della croce. Questo il mondo al quale questa nostra Chiesa visibile dal sapore sempre più esotico desidera piacere a tutti i costi, dimenticando la propria storia, a partire da quella dei grandi Santi della carità.

Partiamo dai Gesuiti, ai quali nel momento storico presente è giusto conferire un meritato diritto di priorità: gli istituti faraonici costruiti in giro per il mondo, rasenti non di rado la megalomania, assieme alle chiese adiacenti i loro collegi, che in molte occasioni hanno fatto tanto irritare i vescovi diocesani, perché costruite volutamente più grandi, ricche e solenni delle loro chiese cattedrali, con i soldi e i contributi di chi furono costruiti? Perché gli spagnoli e i portoghesi che offrirono loro ampi finanziamenti erano gli stessi che gestivano il mercato della tratta degli schiavi o che all’occorrenza amministravano la giustizia in modo disinvolto, cela signifie: prima ti tagliavano la testa o t’impiccavano, poi eventualmente valutavano se avevi fatto veramente qualche cosa di sbagliato. I gesuiti odierni, che di Migrantopoli e Pauperopoli sono il motore ideologico propulsore, un minimo di memoria storia non ce l’hanno proprio?

Ai grandi Santi della Carità e ai grandi pedagoghi ai quali dobbiamo la fondazione di preziosi istituti assistenziali per orfani, anziani abbandonati, per l’istruzione dei fanciulli poveri e per l’accoglienza e la cura dei disabili, donne San Filippo Neri sino a San Giovanni Bosco, passando per San Vincenzo de Paoli e giungendo ai più recenti Saint Joseph Benoît Cottolengo, San Giovanni Calabria e San Luigi Orione, chi fornì i necessari fondi di danaro per la realizzazione delle loro opere? Quand dans le 1980 fu beatificato Luigi Orione, poco dopo si levarono varie proteste da parte di circoli di persone che non conoscevano neppure le prime sei parole del Notre père, inclusa la patetica protesta dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) che lo accusò di essere stato un sostenitore del regime fascista grazie al quale ebbe fondi per la realizzazione delle sue opere; protesta che fu poi ripetuta nel 2004, quando il Beato Luigi Orione fu canonizzato.

Le grandi opere di questi Santi della carità sono tutt’oggi attive, alcune delle quali costituiscono centri clinici e di assistenza considerati di vera eccellenza a livello europeo: l’opera torinese di San Giovanni Benedetto Cottolengo, le enormi opere assistenziali di Genova di San Luigi Orione, l’Ospedale Sacro Cuore di Verona di San Giovanni Calabria … qualcuno, si è mai domandato da dove e da chi provenissero i soldi? Più che altro viene da chiedersi se oggi, specie a fronte di certe assurde proteste, la Chiesa visibile avrebbe avuto il coraggio di beatificarli e canonizzarli, o se invece avrebbe ceduto a gruppi di persone che non conoscono neppure le prime sei parole del Notre père ma che pretendono pur malgrado di dettarci legge, con le nostre Autorità Ecclesiastiche che piegano il capo e cedono a capricci politici e ideologici da parte di ambienti non cattolici e non cristiani. A tal proposito rimando alle mie opere herbes Amare e Pie XII et la Shoah nelle quali spiego le influenze esterne esercitate da certi agguerriti gruppi che tentarono con ogni mezzo sleale, sino a ricorrere alla fabbricazione di veri e proprio falsi storici, di bloccare la causa di beatificazione di Pio XII e la cerimonia della beatificazione di Padre Leon Dehon per la quale era già stata fissata la data al 24 avril 2005 sur la place Saint-Pierre, ma che fu annullata per improbabili accuse di antisemitismo a lui mosse da alcuni circoli ebraici. Posto che mai e in alcun caso la Chiesa può prendere ordini dal moderno Gran Sinedrio e accettare le sue proteste, la domanda da porsi era la seguente: ammesso che il Padre Leon Dehon abbia scritto alcune frasi critiche sugli imprenditori ebrei — che andavano di rigore lette e contestualizzate storicamente nell’ambito della Rivoluzione industriale —, posto che il suo processo di beatificazione durò quasi mezzo secolo, perché certi circoli ebraici attesero pazienti fino a cerimonia di beatificazione fissata per dare vita a quella pubblica polemica sulla stampa mondiale? Simple: anche se quegli scritti li conoscevano da sempre, dovevano dimostrare, con una vera e propria prova di forza, che loro erano in grado di dare ordini alla Chiesa e indurla a retrocedere non solo da una decisione presa, ma addirittura da una cerimonia di beatificazione ormai già ufficializzata e fissata. Questo era il vero scopo, che fu ampiamente ottenuto per la prepotenza loro e la debolezza nostra. Il problema non era la beatificazione in sé e di per sé di Padre Leon Dehon, la Chiesa può beatificare chi vuole e non deve mai accettare a tal fine proteste, dato che gli ebrei non hanno alcun genere di obbligo a venerare i nostri Beati e Santi nelle loro sinagoghe, proprio come certe frange del sionismo politico, nato e sviluppatosi dal seno dell’Ebraismo, non accettano critiche rivolte all’Esercito Israeliano quando rade al suolo interi centri abitati sulla Striscia di Gaza, salvo gridare come prefiche all’antisemita verso chiunque osi dissentire verso azioni che non costituiscono legittima difesa ma veri e propri crimini contro humanité.

Questi grandi Santi della Carità non hanno esitato ad accettare soldi provenienti dai patrimoni di soggetti noti e conosciuti per la loro immoralità e per il modo alquanto disinvolto col quale portavano avanti i propri affari senza farsi troppi scrupoli. Li boni gesuiti che furono, la cui rigida morale era ben nota e che per lungo tempo hanno tentato di trasformare gli adolescenti in preda a crisi ormonali in un casto esercito di San Luigi Gonzaga, non si sono mai fatti particolari scrupoli nell’accettare cospicui donativi da parte dei più grandi puttanieri e fedifraghi delle corti spagnole. Puri e casti dovevano essere solo gli adolescenti, ai quali si imponeva nei loro collegi, sino a tempi tutt’altro che remoti, di dormire con le mani fuori dalle lenzuola del letto onde evitare il rischio di commettereabominevoli atti impuri”, pendant ce temps-là, sotto le lenzuola di coloro ai quali dovevano grandi elargizioni di danaro per la costruzione delle loro strutture faraoniche, si poteva fare invece di tutto e di più, in atti impuri veramente abominevoli.

Il grande problema ― posto che «il Vangelo non è un distillato di verità» ― è dato dalla incapacità di leggere le parole del Beato Apostolo Paolo sulla carità, per esempio l’affermazione che essa «tutto copre». Se le sue parole fossero lette e comprese nella loro profondità, si giungerebbe a comprendere che per la realizzazione di opere di carità si dovrebbe accettare non solo il danaro delle aziende che fabbricano armi, ma persino i soldi donati dai narcotrafficanti messicani. Perché se quei soldi sporchi sono interamente usati per opere di carità a favore di poveri, faible, oppressi, disabili e ammalati, diverranno comunque puliti, perché la carità «tutto copre», ou si nous préférons: «tutto trasforma», perché solo la divina carità, qui est le Christ, può mutare il male in bene, quindi i soldi sporchi in soldi puliti. In caso contrario potrebbe subentrare un problema teologico di non poco conto: negare che la grazia di Dio possa mutare il male in bene. Comme cela est bien connu, cependant,, una delle cose che di questi tempi va meno di moda nella Chiesa dell’emozionale e del politicamente corretto è proprio la teologia.

Certi vescovi di Migrantopoli e Pauperopoli sembra che vogliano presentarsi oggi più puri e immacolati della Beata Vergine Maria, pur di piacere al mondo e compiacerlo. Sino a non capire che la carità «tutto copre» e «tutto trasforma», cosa che però non possono cogliere e capire, se come loro Presidente si ritrovano un soggetto che afferma: «il Vangelo non è un distillato di verità».

de l'île de Patmos, 23 janvier 2024

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Les Pères Patmos Island

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"Viens derrière moi, Je vous ferai pêcheurs d'hommes ". Et aussitôt ils quittèrent leurs filets et le suivirent

Homilétique des Pères de l'île de Patmos

« VENEZ DERRIÈRE MOI, JE VOUS FAIS DEVENIR PÊCHEURS D'HOMMES". E SUBITO LASCIARONO LE RETI E LO SEGUIRONO

Come potremmo descrivere il regno di Dio proclamato da Gesù? La principale difficulté est que Jésus n’a jamais utilisé de définition pour en parler.. Il a plutôt utilisé des paraboles et des images, paragonandolo, per rimanere sempre al Vangelo di Marco che leggeremo quest’anno, a un seminatore che getta del seme in terra o a un granello di senapa e così via.

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

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Lasciato alle spalle il passaggio nel Vangelo secondo Giovanni di domenica scorsa, il lezionario ci riporta a Marco, OMS, terminata l’esposizione della trilogia comune ai sinottici (Jean le Baptiste, Battesimo di Gesù e la prova nel deserto), riprende la narrazione dandoci un’indicazione temporale importante che apprendiamo dall’attacco del Vangelo di oggi.

«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, il a vu Simone et Andrea, frère de Simone, comme ils jettent leurs filets dans la mer; c'étaient en fait des pêcheurs. Jésus leur a dit: «Venite dietro a me, Je vous ferai pêcheurs d'hommes ". Et aussitôt ils quittèrent leurs filets et le suivirent. Aller un peu plus loin, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui. (Mc 1,14-20).

Scrive Marco che Gesù inizia a proclamare il regno di Dio «dopo che Giovanni fu arrestato» (Mc 1,14 cf.. aussi Mont 4,12). Molti immaginano che la cronologia dell’inizio del ministero pubblico di Gesù si sia svolta così: de Galilée, regione da cui viene, Gesù scende al Giordano per essere battezzato. Subito dopo, tenté, rimane quaranta giorni nel deserto per poi ritornare in Galilea. Ma deve invece essere passato più tempo e il punto di svolta, ciò che fa tornare Gesù in Galilea è rappresentato dall’arresto del Battista. Forse è in quel preciso momento che per Gesù giunge la consapevolezza che è ora di assumersi le sue responsabilità.

La voce che gridava nel deserto, poiché è stata messa a tacere, passa ora alla Parola che annuncia il regno. Questa interpretazione aiuta noi credenti nei momenti di difficoltà e sofferenza, come deve essere stato per Gesù l’arresto di Giovanni e ci fa proferire: bisogna fare qualcosa. È in tali situazioni che, se non vai tu, nessuno può andare al posto tuo. La chiamata che ora Gesù farà dei discepoli, l’ha vissuta in prima persona lui; il regno che annuncia l’ha visto arrivare per primo lui, anche nella dolorosa notizia che Giovanni non può più parlare.

Ma eccoci a una questione teologica importante. Come potremmo descrivere il regno di Dio proclamato da Gesù? La principale difficulté est que Jésus n’a jamais utilisé de définition pour en parler.. Il a plutôt utilisé des paraboles et des images, paragonandolo, per rimanere sempre al Vangelo di Marco che leggeremo quest’anno, a un seminatore che getta del seme in terra (Mc 4,26) o a un granello di senapa (Mc 4,31) etc. Il regno, dit Jésus, non solo è vicino, ma bisogna accoglierlo come fanno i bambini (Mc 10,15) ed entrarci dentro, anche se non è così facile, soprattutto se si hanno molte ricchezze (Mc 10,23). È presente, cioè qui o vicino, ma è anche futuro, come quello in cui Gesù berrà, avec nous, il vino nuovo, altro vino rispetto a quello dell’ultima sua cena (Mc 14,25). La teologia cristiana ha elaborato a proposito una formula, quella del «già» ma «non ancora», quasi un ossimoro che dice però come il regno possiamo già ereditarlo e viverci, anche se non è ancora compiuto. Non è ancora esteso a tutti gli uomini, maman, come insegna il documento del Concilio Vaticano II La lumière «è già presente in mistero» con la Chiesa (cf.. n. 5).

En ce sens Gesù si distingue dalle due principali concezioni sul regno che circolavano nel giudaismo del suo tempo. Egli infatti non ha inventato questa idea, già nota all’Antico Testamento (cf. 1Cr 28,5) e non l’ha applicata né a quel modo di pensare che vedeva il regno come una realtà «nazionalistica», tutta presente, da attuare magari ad ogni costo, né tanto meno alla concezione opposta, di tipo apocalittico, che vedeva il regno possibile solo come una realizzazione futura che negava il presente. Se vogliamo rintracciare questi due estremi nella storia dell’umanità, potremmo dire che il materialismo si è spesso fondato sull’illusione che tutto potesse risolversi qui, à présent; ma dall’altra parte è facile riconoscere in certi movimenti spiritualistici la svalutano del presente, considerato in modo negativo.

Gesù ha invece usato l’idea di regno per dire anzitutto che è arrivato e quindi ci si può entrare. Ma per farlo bisogna cambiare mentalità, modo di ragionare e pensare; per dirlo con le parole di Gesù: «convertirsi» (Mc 1,15). « Que ton règne!», prega ancora la Chiesa, aujourd'hui, après deux mille ans. Il regno c’è già, ma deve ancora essere accolto come un dono e trovato lì anche dove si fatica a vederlo.

In conformità dunque con l’attesa escatologica giudaica, ma con la differenza decisiva però che non più di attesa si tratta, il Regno di Dio è l’effetto dell’evento messianico annunciato da Gesù e in lui presente. Il pieno dispiegamento della sua sovranità redentrice non si è ancora realizzato, ma il tempo della fine è giunto e dunque per parlare in modo appropriato non c’è più sviluppo storico, mais plutôt une récapitulation de toute l'histoire mise en jugement.

«È questo il contenuto dell’«evangelo di Dio» quale ci è sinteticamente riferito dalla tradizione più antica raccolta da Marco: «Il tempo è compiuto ed è vicino il Regno di Dio: convertir, e credete nell’evangelo» (1,14-15). Ce qui est annoncé ici, c'est l'heure (la Kairos) d'accomplissement définitif, la venue promise du Royaume, le grand tournant du monde inauguré par Jésus dont l'acte final est sur le point d'avoir lieu avec sa parousie. Evidentemente qui non può essere il Gesù storico a parlare, bensì il Risorto predicato dall’evangelista, che segna con precisione il tempo della fine tra resurrezione e parusia, come un evento unico in cui tutto il tempo, tutta la storia si condensa, ivi compresa la vita stessa di Gesù. Pour ça maintenant, contrairement à l'eschatologie juive, occorre «fede nell’evangelo», c'est-à-dire en Jésus-Christ, dans le Messie, qui est présent comme celui qui est venu et qui vient. Tutto dunque in forza di questa fede precipita e si concentra nel presente, non vi è più oscillazione tra passato e futuro, tradizione e attesa; ma solo l’ora attuale in cui il passato è redento e il futuro è solo desiderio del compimento: «Viens Seigneur Jésus» (App 22, 20).[1]

Il Vangelo prosegue descrivendo la fretta di Gesù di portare ad attuazione la sua parola sul regno, perché “il tempo è compiuto”. Il concetto emerge molto chiaramente nel Vangelo di Marco, dove abbonda l’avverbio euthus (εὐθὺς), «subito», ripetuto decine di volte. Tale sollecitudine trova una prima applicazione nella chiamata dei quattro discepoli (vv. 16-20) e nell’episodio dell’insegnamento nella sinagoga di Cafarnao, accompagnato dalla liberazione di un indemoniato (dimanche prochain). Jésus, con gesti e con parole, mostra davvero come il regno è arrivato, e lo dice: ai discepoli (appena chiamati a sé) e alla sua gente (nella sinagoga). Ecco che allora il regno può essere solo uno spazio in cui Dio è presente, Colombe, précisément, solo lui regna. Le altre potenze non possono fare altro che riconoscerne l’autorità («Io so chi tu sei: il santo di Dio» di Mc 1,24) e sottomettersi.

I padri della Chiesa erano colpiti dal modo in cui Gesù chiamò i primi a seguirlo: rilevano che erano persone semplici e illetterate (Origène), che probabilmente avranno obiettato con la loro inadeguatezza (Eusebio); noi ci stupiamo anche del fatto che questi «subito» lascino le reti lo seguano (cf.. Mc 1,18), ma soprattutto per il fatto che ancora oggi, après tant d'années, Gesù ancora «passi accanto» (Mc 1,16) alle nostre situazioni, al nostro quotidiano, alle nostre reti, e ci inviti a seguirlo per stare con lui.

Ciascuno di noi viene chiamato lì dove si trova e ogni inizio ha sempre un prima che lo ha preparato su cui poi si innesta una novità, un cambiamento: come il seme che è stato seminato ha una forma diversa dalla pianta che poi germoglierà, così anche noi siamo presi dal Signore a partire dalle nostre storie e dal nostro oggi per far sviluppare quelle potenzialità di bene e di vita che sono racchiuse nel «piccolo seme» della nostra vita e che solo il Signore può dischiudere e trasformare con la forza e la fantasia del suo Spirito. A noi è chiesta l’attenzione alla sua voce che chiama, l’abbandono filiale e fiducioso alle sue parole, e la prontezza nel rispondere senza dilazioni nel tempo o attaccamenti al «già», a quel noto e conosciuto che ci rassicura ma anche rischia di bloccarci: «E subito lasciarono le reti e lo seguirono».

 

De l'Ermitage, 21 janvier 2024

 

REMARQUE

[1] Gaète G., Le temps de la fin, N'importe quel, 2020

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Une maîtrise charitable: "Rabbin, où vous vivez? Viens et vois"

Homilétique des Pères de l'île de Patmos

UNE MAÎTRISE CHARITABLE: "RABBIN, OÙ VOUS VIVEZ? VENITE E VEDETE»

Scriveva Isaac Newton «Più imparo, plus je réalise combien de choses je ne sais pas". Aujourd'hui, il semble que beaucoup ne veulent pas apprendre même s'ils sont certains et sûrs de savoir.

 

Auteur:
Gabriele Giordano M. Scardocci, o.p.

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Chers lecteurs de l'île de Patmos,

uno degli atteggiamenti più naturali che tutti abbiamo è quello della ricerca. Quando siamo bambini ci domandiamo spesso il perché delle cose. Crescendo troviamo poi delle risposte, e continuamente rinnoviamo questa nostra ricerca del senso della verità nelle cose. Scriveva Isaac Newton «Più imparo, plus je réalise combien de choses je ne sais pas".

Dans l'Évangile d'aujourd'hui Gesù ci mostra due uomini in ricerca e la via da seguire per trovare la risposta definitiva. La risposta è molto bella: andare con Lui e vedere dove dimora il Signore.

«Gesù allora si voltò e, osservando che [Giovanni e due discepoli] lo seguivano, il leur dit:: “Che cosa cercate?”. Ils lui ont répondu: “Rabbì — che, tradotto, significa maestro — , où vous vivez?”. Il leur a dit: “Venite e vedrete”».

Troviamo dunque una scena molto bella. Giovanni, Andrea e un altro discepolo di cui non sappiamo il nome si muovono seguendo Gesù. Lui se ne accorge e li interroga. Rispondono e così lo riconoscono come maestro e vogliono sapere dove abita. Ed è allora che Gesù li invita a venire e vedere.

È un dialogo vivido e forte fra i tre e Gesù. Il Signore con il suo sguardo umano divino coglie un cuore e una mente pronti a cercare la casa di Dio. Pronti a cercare quel luogo dove possono trovare la verità che schiude il loro mistero e quello di Dio.

Gesù è davvero maestro per loro perché in quanto figlio di Dio può condurre Andrea, Giovanni e l’altro discepolo ad una maestria, ad una conoscenza che diventa amore. Una conoscenza di Dio che gli permette di amare in modo concreto e pratico sé stessi e gli altri.

In questo incontro ci siamo anche noi. Potremmo dire che siamo simboleggiati da quel discepolo innominato. Quello senza nome è colui che ascolta e chiede a Gesù qual è la sua dimora oggi nel 2024.

Il Signore chiede a tutti noi di cercarlo innanzitutto nella Chiesa, jea sua dimora principale, perché in essa si vive e si celebra l’Eucarestia, cioè la presenza reale di Gesù in corpo, du sang, l'âme et la divinité. Se seguiamo e vediamo Gesù nella Chiesa che celebra l’Eucarestia, e dunque ci rende partecipi attivamente nell’Incontro con Lui, tutti possiamo crescere anche nell’imparare la comunione con il prossimo. pouquoi, en vigueur, la seconda dimora dove possiamo incontrare Gesù oggi, è proprio il nostro prossimo. Tutti noi infatti siamo tempio dello Spirito Santo e tempio dell’Eucarestia. Perciò impariamo a guardare nel prossimo sofferente e bisognoso, quello stesso Gesù che ci chiede aiuto.

Così dobbiamo innanzitutto imparare ad ascoltare la voce di Gesù che oggi domanda ai nostri cuori “Cosa cercate?”. Domandiamoci se i nostri desideri sono santi, giusti e buoni, e davvero sentiremo il Signore invitarci a camminare sui sentieri dell’Eternità.

Chiediamo al Signore il dono di una ricerca che ci porti alla vita autentica, la vita in Lui e nella sua Chiesa, per diventare ricercatori della Luce Eterna.

 

Santa Maria Novella à Florence, 14 janvier 2024

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Le divin provocateur Jésus aux Apôtres: "Qu'est-ce que tu cherches??»

Homilétique des Pères de l'île de Patmos

LE DIVIN PROVOTEUR JÉSUS AUX APÔTRES: "QU'EST-CE QUE TU CHERCHES?»

Questo primo incontro di Gesù coi suoi primi discepoli è un intreccio di sguardi e di testimonianze che convergono verso il Signore. Le profond mystère de sa personne commence à se révéler, ainsi que les noms des premiers followers. Tanto significativo dovette essere questo momento che ne conservarono anche l’orario: le quattro del pomeriggio, l’ora decima.

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.https://youtu.be/4fP7neCJapw.

 

Nel Vangelo di questa II domenica del tempo ordinario Lisons: «In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, il a dit: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, il leur dit:: "Qu'est-ce que tu cherches??». Ils lui ont répondu: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, où vous vivez?». Il leur a dit: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Jésus a dit: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro». (Gv 1,35-42).

La Chiesa ha compreso l’unità dei tre misteri che hanno attinenza con la rivelazione di Gesù, e li ha legati già nell’antica antifona dei Secondi Vespri del giorno dell’Epifania:

«Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza, alleluia».

Quest’anno il terzo mistero che attiene alla manifestazione di Gesù è annunciato sempre tramite il Vangelo secondo San Giovanni, ma invece che l’episodio di Cana, la liturgia propone quello della prima manifestazione di Gesù ai discepoli, a seguito della indicazione di Giovanni Battista che lo definisce come «Agnello di Dio».

L'épisode évangélique si colloca al terzo giorno della settimana inaugurale del ministero di Gesù, settimana che culminerà nella manifestazione della sua gloria a Cana davanti ai suoi discepoli che «credettero in lui» (Gv 2,11). Il testo offre la versione giovannea della chiamata dei primi discepoli narrata dalla tradizione sinottica, ma con differenze rimarchevoli. Giovanni presenta uno schema in cui è fondamentale la mediazione di un testimone che confessa la fede in Gesù e conduce altri all’incontro con lui: è così per Giovanni Battista nei riguardi di due suoi discepoli (1,35-39), per Andrea nei confronti di Simon Pietro (1,40-41), per Filippo che si rivolge a Natanaele. In particolare Giovanni Battista che, dopo una testimonianza negativa su di sé («Io non sono il Cristo») e una positiva su Gesù («Ecco l’Agnello di Dio»), rivela davanti a due suoi discepoli l’identità di colui di cui egli è stato il precursore e li conduce a farsi discepoli di Gesù. Colui che era stato inviato da Dio come testimone del Verbo «perché tutti credessero per mezzo di lui» (1,7) adempie così il suo mandato lasciando che i suoi discepoli diventino di Gesù, chiedendo che aderiscano a lui.

Che siamo di fronte alla manifestazione di un mistero è segnalato anche dallo “schema di rivelazione”, spesso usato dall’evangelista nella sua opera e che si può riassumere nelle tre fasi del vedere, dire e proferire l’avverbio: «Ecco». Il brano evangelico si apre, comme ça, con Giovanni che «fissa lo sguardo» (1,36) su Gesù e dice: «Ecco l’Agnello di Dio» e si chiude con Gesù che «fissando lo sguardo» (1,42) su Simon Pietro gli dice: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, sarai chiamato Cefa – che significa Pietro». Ça parle de, dans les deux cas, di uno sguardo intenso, un vedere in profondità, un discernere l’identità di una persona. La vocazione non è solo una chiamata come nei sinottici, ma anche uno sguardo come qui in Giovanni. Lo sguardo, come e forse più della voce è comunicazione e rivelazione. In Giovanni Il verbo più neutro è scorgere, βλέπειν (Blepein). Lo troviamo per la scena iniziale del battesimo al Giordano. Giovanni Battista scorge Gesù che viene a lui e dice: «Ecco l’agnello di Dio». Ma si nota già in questo episodio un passaggio dallo scorgere al contemplare (Gv 1,32) e poi all’«ho visto» di Gv 1,34, come in Gv 14,9.

Alla forma verbale più completa arriviamo in Gv 14,9, dove il verbo «vede­re» verrà usato al perfetto: έώρακα (Eoraka). Applicato a Gesù, descrive ciò che lo sguardo attento e stupito ha scoperto in lui e di cui si conserva nella memoria la scoperta. Possiamo osservare che ogni volta che Giovanni usa questo verbo «ho visto» (e ne conservo la memoria) Gesù viene riconosciuto come il luogo santo dove Dio si manifesta, il tempio della presenza divina, la maison, ovvero la dimora in cui Dio stesso abita. In un tale contesto diventa chiaro il senso del versetto di Gv14,9: « Celui qui m'a vu a vu le Père ». Aver visto Gesù e conservarne la visione interiore nella memoria vuol dire riconoscere Gesù come il luogo di inabitazione del Padre, presente nel suo Figlio come in una dimora. À cause de ce, ritornando al brano evangelico di questa domenica, bisogna dire che in modo adeguato la versione rinnovata della Bibbia CEI del 2008 ha tradotto il v.38 con: «Rabbì dove dimori?» e non «dove abiti?» come era nella precedente versione, data la presenza del verbo μένεις (Menein) che riveste nel quarto Vangelo una importanza particolare. Il tema del dimorare corre, en fait, come un filo rosso attraverso tutto il quarto Vangelo, arricchendosi progressivamente. Allargando lo sguardo all’insieme del Vangelo e provando a tirare le fila del nostro discorso possiamo affermare che lo stesso evan­gelista in 1,14 ci invita a comprendere che nell’uomo Gesù — il Verbo fatto carne «pieno della grazia della verità» in cui i testimoni hanno «contemplato la gloria dell’unigenito» — c’era un mistero, «insondabilmente nascosto» ma che ci viene manifestato «simbolicamente» (Saint Maxime le Confesseur). È il mistero dell’«unigenito venuto da presso il Padre», che «è venuto a mettere la sua tenda in mezzo a noi». Così egli diventa la dimora del Padre (Gv 14,10), il nuovo tempio della presenza di Dio (Gv 2,21; cf.. Gv 4,20-24). Un bellissimo brano di san Massimo il Confessore, sep­pur difficile, dice l’essenziale:

«Il Signore […] è diventato precursore di se stesso; è diventato tipo e simbolo di se stesso. Simbolicamente fa conoscere se stesso attraverso se stes­so. Cioè conduce tutta la creazione, partendo da se stesso in quanto si manifesta, ma per condurla a se stesso in quanto è insondabilmente nascosto».

Forse più intellegibile e nello stesso tempo mirabile è questa frase di Guglielmo di Saint-Thierry, l’amico di San Bernardo, che interpretò in senso spirituale e trinitario la domanda dei primi discepoli:

"Maestro, où vous vivez? Vieni e vedi, disse Egli. Non credi che io sono nel Padre, e che il Padre è in me? Grazie a te, seigneur! […] Noi abbiamo trovato il tuo luogo. Il tuo luogo è il Padre; c'est toujours, il luogo del Padre sei tu. Tu sei dunque localizzato a partire da questo luogo. Ma questa localizzazione, che è la tua, […] è l’unità del Padre e del Figlio»[1].

Questo primo incontro di Gesù coi suoi primi discepoli è un intreccio di sguardi e di testimonianze che convergono verso il Signore. Le profond mystère de sa personne commence à se révéler, ainsi que les noms des premiers followers. Tanto significativo dovette essere questo momento che ne conservarono anche l’orario: le quattro del pomeriggio, l’ora decima. Così iniziamo a conoscere Andrea fratello di Simon Pietro, (1,42) che da Gesù riceve la vocazione a diventare «roccia» (questo significa «Cefa»), in mezzo ai suoi fratelli. Chi è l’altro discepolo che era insieme a Andrea? Possiamo ipotizzare che sia «il discepolo amato». Egli è colui che, presente alla croce di Gesù, vedendo Gesù morire come Agnello a cui non viene spezzato alcun osso (Gv 19,33.36) «testimonia perché voi crediate» (Gv 19,35), proprio come Giovanni Battista testimonia di Gesù, dopo averlo visto e indicato come Agnello di Dio perché tutti credano (Gv 1,34.36.37). Il parallelismo tra Gv 1,38 («Voltatosi Gesù e vedendo essi che lo seguivano dice loro») e Gv 21,20-21 («Voltatosi, Pietro vede il discepolo che Gesù amava che seguiva … e dice a Gesù») mostra che accanto a Pietro, agli inizi della sequela e dopo la Pasqua, c’è, con ogni probabilità, il discepolo amato che ha seguito l’Agnello con fedeltà fin dagli inizi. E Pietro, mentre viene costituito pastore delle pecore del Signore e invitato nuovamente a seguire Gesù come pecora egli stesso (cf.. Gv 10,4), riceve la rivelazione che la sequela dell’Agnello e il ministero pastorale trovano il loro esito nel dare la vita per le pecore, nel glorificare Dio con il martirio. Questa sarà la testimonianza di Pietro: nella morte di croce l’apostolo si troverà là dove è stato il suo Signore: «Se uno mi vuol servire mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Gv 12,26).

De l'Ermitage, 13 janvier 2024

 

REMARQUE

[1] GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, La contemplation de Dieu. L’oraison de Dom Guillaume, Paris, Éd. Du Cerf, 1959 (Col. Sources Chrétiennes, n.61), 124-125.

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Giuseppe Betori, un homme de culture et un évêque qui a réussi la tâche difficile de se faire apprécier du presbytère florentin

GIUSEPPE BETORI, UN HOMME DE CULTURE ET UN ÉVÊQUE QUI RÉUSSISSENT LA TÂCHE DIFFICILE DE FAIRE ACCUEILLIR LE PRESBYTÈRE DE FLORENCE

Tandis qu'un misérable trafiquant de poison déclare: «Sans oublier que le clergé de Florence en a marre de Betori qui a fait plus de dégâts qu'autre chose», Au lieu de cela, une question résonne en chacun de nous qui, si on le souhaite, suscite l'anxiété dans nos âmes.: et après?

- Nouvelles de l'Église -

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Auteur
Simone Pifizzi

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À partir de la dernière semaine de l'Avent et suivi des solennités du Saint Noël, les Pères de l'île de Patmos - qui avant d'être des érudits et des publicistes sont avant tout des prêtres - étaient engagés dans des activités pastorales. Certaines solennités, en particulier Noël et Pâques, ils sont toujours précédés de sermons, confessions et directions spirituelles, aujourd'hui plus que jamais, tout sauf facile, considérant les temps de confusion que vivent les fidèles catholiques d'une part, nous les prêtres d'un autre côté. Nous reprenons donc nos activités publicitaires sur notre magazine avec la présentation d'une vidéo très intéressante que nous vous recommandons de visionner..

Fin février prochain Cardinal Giuseppe Betori, Archevêque métropolitain de Florence, fêtera ses 77 ans. Il a passé plusieurs années de sa vie 16 à la tête de l'Église florentine, qui arrive bientôt’ laisser entre les mains de son successeur.

Malgré les jugements malveillants récemment répandu par quelque personnage obscur et douloureux qui s'érige en juge intransigeant de toute la hiérarchie ecclésiastique (cf.. QUI) et qui dit habituellement «nous au Vatican… ici au Vatican…», sauf de ne même pas pouvoir s'approcher des portes d'entrée de ce petit État souverain, parmi la majorité du clergé florentin, il y a la conscience que cet évêque ombrien - malgré les limites de chaque être humain - a réellement apporté une grande contribution à son Église particulière et à l'Église italienne toute entière.. Pour cette raison on le regrettera sans doute pour le bilan, la clarté et la profondeur théologique et culturelle dont il a fait preuve dans son service apostolique.

Faire une analyse réaliste Au cours des vingt dernières années, il apparaîtra que nous avons eu l'occasion d'expérimenter deux types d'évêques complètement différents.. Dans le passé, entre la fin du pontificat du Saint-Pontife Jean-Paul II et celui du Vénérable Benoît XVI, nous avons eu la saison des « évêques professeurs ». Compréhensible, la crise de la doctrine avait engendré des situations qu'il illustrait bien 14 il y a des années, notre père Ariel S. Levi di Gualdo dans un de ses livres sur l'analyse de l'Église:

«La crise de la doctrine a généré une profonde crise de la foi qui à son tour a donné lieu à une crise morale au sein de notre clergé» (cf.. Et Satan est devenu trinitaire, Éditions L'île de Patmos, 2010).

Sur cette question Notre Père Ivano Liguori est également revenu récemment avec un article précis et dramatique de son:

«De la désorientation doctrinale de l'Église au péché des prêtres et au recyclage des laïcs. Perspective d'une culture intransigeante qui en condamnant sanctifie et condamne en sanctifiant" (cf.. QUI).

Les soi-disant « évêques professeurs », à la lumière de ces problèmes, en soi, ce n'était pas une mauvaise idée, mais les résultats ne sont pas toujours heureux, quand nous avons commencé à voir des gens catapultés d'une chaire universitaire à une chaire épiscopale à la tête des diocèses, parce que ce sont deux chaires sensiblement différentes. Des évêques souvent dépourvus d'expérience pastorale et qui avaient tendance à considérer leurs prêtres comme des enseignants auprès des étudiants ou qui transformaient les assemblées et les réunions du clergé en cours académiques., ignorer, souvent, je ne comprends pas du tout, les problèmes que leurs prêtres vivaient et devaient affronter chaque jour.

Au prochain changement de vent le besoin de « bergers à l'odeur de mouton » a commencé à être invoqué, ce qui en soi ne serait pas du tout une mauvaise idée, tout comme celle des « évêques professeurs » n'était pas. Malheureusement, quand l'idéologie mine les bonnes intentions apparentes, ou si on veut une vraie prévention envers les "princiers" (!?) épiscopat italien, les résultats ne peuvent être que malheureux. Et nous nous retrouvons aujourd’hui avec un nombre important d’évêques retirés des centres Caritas ou de « périphéries » indéterminées., seulement capable de parler des pauvres, les migrants et « l’Église en mouvement ».

Au lieu d'avancer nous avons été catapultés à reculons, au début des années soixante-dix, quand les soixante-huitards parlaient de "interdit d'interdire" et de "l'imagination au pouvoir". Sur la préparation doctrinale et théologique de ces évêques tous projetés dans un système social dont nous avons déjà vu abondamment échouer dans les différents domaines sociaux et politiques, Tirons un voile compatissant sur la charité chrétienne. En effet, lorsque le Président des Évêques d'Italie répond en déclarant que « l'Évangile n'est pas une distillation de la vérité » (cf.. QUI), il n'y a pas grand chose d'autre à ajouter, tant en ce qui concerne les prêtres « frontaliers » que « de rue », tant en ce qui concerne «l'Église en sortie» qui nous apparaît, plus que "sortant", au bord de la faillite, la preuve en est que depuis quelques années nous essayons de résoudre les problèmes en plaçant sous le commandement tous les commissaires possibles et imaginables., à une exception près: la Compagnie de Jésus.

Cardinal Giuseppe Betori, peut-être l'un des derniers d'une génération en voie d'extinction, il a su mettre sa science et sa culture au service complet de la pastorale. Caractère à première approche introverti et timide, dans ses relations avec son clergé, il a fait preuve d'une grande capacité d'écoute et d'accueil, il était un enseignant et un gardien de la foi, pas de professeur à la chaire. Il aimait son Église et savait se faire aimer, même par ceux qui l'ont accueilli à son arrivée avec cet air de condescendance, suspicion et méfiance typiques de nous, Florentins, que nous sommes historiquement des sujets pas vraiment faciles à gérer, traiter et gouverner. Ses homélies, toujours profond mais en même temps clair et compréhensible, ont suscité l'estime et le respect de la part des fidèles catholiques.

Et tandis qu'un misérable trafiquant de poison déclare: «Sans oublier que le clergé de Florence en a marre de Betori qui a fait plus de dégâts qu'autre chose» (cf.. QUI), Au lieu de cela, une question résonne en chacun de nous qui, si on le souhaite, suscite l'anxiété dans nos âmes.: et après?

Florence, 12 janvier 2024

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