La risurrezione di Cristo è quell’atto d’amore salvifico perfetto che caccia via in noi la paura della morte

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA RISURREZIONE DI CRISTO È QUELL’ATTO D’AMORE SALVIFICO PERFETTO CHE CACCIA VIA IN NOI LA PAURA DELLA MORTE

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[…] quando considero Gesù come un defunto, quando vedo in lui il caro estinto da compiangere oppure quando vedo in lui solo una tradizione del passato da rispettare annualmente è difficile fare Pasqua, è difficile trovare un rimedio alla paura e alla morte. Ma Gesù non è un morto è il Vivente, è l’eterno presente e sono chiamato a sperimentare questo, così come è avvenuto per le donne: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Cari fratelli e sorelle, 

Lampada del Santissimo Sacramento nella chiesa parrocchiale del convento dei Frati Minori Cappuccini di Laconi (Oristano)

«Non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto come aveva detto» [Mt 28, 1-10].

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Queste le parole tratte dal Vangelo di Matteo di questa notte che ci annunciano la Risurrezione di Cristo. n annuncio forte che contrasta con due aspetti presenti nella vita di ciascuno di noi: la paura e la morte. E davanti alla paura e alla morte non abbiamo bisogno solo di essere incoraggiati, ma abbiamo necessità di trovare qualcuno che ci liberi dalla morte e metta in fuga la paura. La Pasqua è la risposta a questa necessità. Infatti, per prima cosa, l’Angelo invita le donne a non avere paura.

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Per l’attuale crisi sanitaria ognuno di noi sta vivendo un tempo di scoraggiamento e di timore. È bastato un virus per mettere in discussione tutta la nostra vita e quello che sembrava fino a poco tempo fa normale, oggi non lo è più. La Pasqua è l’evento in cui Dio attraverso Gesù Cristo ci dice che l’uomo non è stato creato per vivere nella paura, ma è stato creato libero e privo di ogni male. Non possiamo perciò pensare di condurre una vita normale ― anche di fede ― se permettiamo alla paura di dominarci. Allora quale è il rimedio alla paura? È Gesù, è il sapere che egli non si è scordato di noi, egli è il Vivente anche durante questo tempo di prova. Proprio perché è vero Dio e vero uomo è capace di un abbraccio che salva, che supera enormemente ogni peccato e ogni male del mondo.

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Padre Ivano Liguori, celebrazione del Triduo Paquale nella chiesa parrocchiale del Convento dei Frati Minori Cappuccini di Laconi (Oristano)

Quando abbiamo superato la paura, resta in noi una domanda che vediamo presente anche nel cuore delle donne che si recano al sepolcro: quando vado alla ricerca di Gesù, io chi cerco, un vivo oppure un morto? L’angelo dice chiaramente alle donne: «So che cercate Gesù, il crocifisso», il che significa voi cercate quel Gesù che è stato ammazzato. Ma quel Gesù dopo il Venerdì e il Sabato Santo non c’è più, non esiste più un cadavere ma il Risorto, non esiste più un defunto ma il Vivente.

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Cari fratelli, quando considero Gesù come un defunto, quando vedo in lui il caro estinto da compiangere oppure quando vedo in lui solo una tradizione del passato da rispettare annualmente è difficile fare Pasqua, è difficile trovare un rimedio alla paura e alla morte. Ma Gesù non è un morto è il Vivente, è l’eterno presente e sono chiamato a sperimentare questo, così come è avvenuto per le donne: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».

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Padre Ivano Liguori, celebrazione del Triduo Paquale nella chiesa parrocchiale del Convento dei Frati Minori Cappuccini di Laconi (Oristano)

Oggi la sfida della fede pasquale ci porta a incontrare Gesù vivo nella Galilea dell’emergenza sanitaria di Coronavirus. Significa portare l’annuncio del vivente ― l’Exultet Pasquale ― dentro quelle situazioni di morte, di malattia, di paura che imperversano nelle nostre città, all’interno della nostra cara nazione, nel mondo intero.

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Dov’è o morte la tua vittoria, dov’è o malattia la tua vittoria? Non c’è, ha avuto termine con il silenzio del Sabato Santo, oggi è la domenica di Pasqua, oggi vince la vita e la salvezza di Cristo.

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Cari amici, pur vivendo una Pasqua a porte chiuse, nell’intimità delle nostre case, dei nostri appartamenti, questo non impedisce al Risorto di farsi presente. Egli che entrò a porte chiuse nel cenacolo per mostrarsi risorto agli Apostoli, si manifesterà anche a noi, radunati in questo giorno nel suo nome. Gesù vivo spalanca le porte delle nostre case, spalanca le porte delle nostre paure e vi entra come Salvatore potente. Non sarà un virus a strapparci dall’amore di Cristo, non sarà un virus a rendere vana la Pasqua del Signore.

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Cristo risorto benedica noi tutti e ci ottenga di ritornare presto alla serenità della vita quotidiana, non nella paura della morte ma nella gioia della vita che non ha fine.

Buona Pasqua, Cristo è veramente risorto!

Laconi, 11 aprile 2020

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Domenica delle Palme: quell’obbedienza tanto difficile da far comprendere a molti laici cattolici

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DOMENICA DELLE PALME: QUELL’OBBEDIENZA TANTO DIFFICILE DA FAR COMPRENDERE A MOLTI LAICI CATTOLICI

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Proprio in questo tempo di emergenza sanitaria abbiamo bisogno di essere salvati da Lui; proprio in questo tempo di paura è necessario consegnare la nostra vita al Signore affinché ci custodisca al sicuro; proprio in questo momento di crisi e instabilità dobbiamo seguire i Pastori della Chiesa, gravati di indubbi limiti, difetti e peccati, per riscoprire l’umiltà della mansuetudine e per evitare di usare Dio per i nostri scopi e scoprirci disobbedienti.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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ubi charitas et amor, Deus ibi est

Con la Domenica delle Palme iniziamo la grande settimana, la settimana che è chiamata santa perché ciascuno di noi verrà messo davanti al Santo di Dio, al Vivente, a colui che toglie il peccato del mondo. Per questo motivo, in questa settimana di grazia, desidero vivamente invitare ciascuno di voi a compiere due gesti: il primo è chiamato a rafforzare la fede e il secondo l’umiltà.

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Il primo gesto lo impariamo dalla folla dei fedeli di Gerusalemme che alla vista di Gesù esclamano «Osanna» per poi stendere i loro mantelli al suo passaggio. Osanna, è il grido della fede che riconosce nel Signore Gesù il Salvatore potente, l’atteso dalle genti. Il gesto di stendere il mantello, invece, significa donare al Signore tutto quello che di più caro abbiamo, significa donare interamente la vita a Lui nel bene e nel male.

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Proclamare «Osanna» e stendere il mantello, mi ricorda che solo attraverso il dono totale della mia esistenza al Signore posso incontrare la salvezza. Non basta chiedere al Signore la liberazione dal male e dal peccato se trattengo la mia vita per me in modo egoistico, se non lascio il Signore libero di agire dentro le pieghe della mia vita, anche in quelle più oscure e imbarazzanti.  Gesù è il Salvatore totale della vita, non solo di alcune parti marginali di essa.

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Il secondo atteggiamento lo apprendiamo da Gesù stesso, che sceglie di entrare nella città santa a dorso di un’asina. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme avviene non nello stile dei conquistatori del mondo antico ma nello stile dell’umile servo obbediente, di colui che è venuto a fare la volontà del Padre e non per imporre la propria. È attraverso questa umiltà e piccolezza che Cristo potrà mettersi a servizio degli apostoli nella lavanda dei piedi che culminerà nel dono della vita sulla croce. Gesù con questo gesto diventa maestro di mansuetudine, ci mostra come la salvezza di Dio non si impone con la forza ma con la determinazione della mitezza.

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Se è nostro desiderio vivere bene la Settimana Santa e giungere alla Pasqua rinnovati, cantiamo con gioia l’Osanna della vittoria e consegniamo la vita a Gesù, e in questa consegna impariamo l’umiltà.

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Proprio in questo tempo di emergenza sanitaria abbiamo bisogno di essere salvati da Lui; proprio in questo tempo di paura è necessario consegnare la nostra vita al Signore affinché ci custodisca al sicuro; proprio in questo momento di crisi e instabilità dobbiamo seguire i Pastori della Chiesa, gravati di indubbi limiti, difetti e peccati, per riscoprire l’umiltà della mansuetudine e per evitare di usare Dio per i nostri scopi e scoprirci disobbedienti.

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Laconi, 5 aprile 2020

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Anche oggi, dinanzi alle bare stipate nei magazzini in attesa di sepoltura, sembra di udire di nuovo il lamento di Marta: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

ANCHE OGGI, CON LE BARE STIPATE NEI MAGAZZINI IN ATTESA DI SEPOLTURA, SEMBRA DI UDIRE DI NUOVO IL LAMENTO DI MARTA: «SIGNORE, SE TU FOSSI STATO QUI, MIO FRATELLO NON SAREBBE MORTO!»

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Dov’è Dio? È anche inutile pensare a una risposta che si basi sulla sola ragionevolezza o che interpelli la teologia razionale, al fine di farci familiarizzare con una realtà come la morte che è sì naturale ma mai totalmente accettata. Nel momento della perdita di una persona cara, la ragione è fragile. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Cristo Risorto antidoto al coronavirus: «Svègliati, o tu che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

CRISTO RISORTO ANTIDOTO AL CORONAVIRUS: «SVÈGLIATI, O TU CHE DORMI, DÉSTATI DAI MORTI E CRISTO TI ILLUMINERÀ»

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La quarantena antivirus ci lascia a casa, modificando le libertà, le abitudini, i bisogni. C’è però una via d’uscita. Se possiedo Cristo, anzi se permetto a Cristo di possedermi, anche se mi trovo barricato in casa, sono libero. Fossi anche incarcerato per la mia fede, così come hanno sperimentato gli apostoli, Cristo mi renderebbe ugualmente un uomo libero. Se siamo con il Signore, qualunque situazione può essere superata, la disgrazia è essere senza Cristo, è voler essere pastori di sé stessi. Paradossalmente scopriamo adesso quanto la nostra presunta libertà può essere limitata, quanto la nostra vita può essere offuscata, quanto ciò che reputiamo reale assomigli in realtà a un lungo sonno.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Al termine di questa quarantena, Cristo ci attende come la samaritana al pozzo d’acqua

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

AL TERMINE DI QUESTA QUARANTENA, CRISTO CI ATTENDE COME LA SAMARITANA AL POZZO D’ACQUA 

Il dischiudersi della donna a Gesù, che è Dio realmente presente, permette alla samaritana innanzitutto di scoprire la verità su sé stessa. Si lascia scoprire da Dio e non si ferma alla superficie di sé stessa. Il dialogo con Dio realmente presente è una rivelazione su sé stessi, entrare in profondità rispetto alla propria identità.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

“Cristo e la Samaritana al pozzo”, opera di Alessandro Vodret Fava. Roma, collezione privata

in questi momenti nei quali un intero Paese è sottoposto a quarantena, con attività esterne quasi inesistenti e di molta attività interna dentro la nostra comunità e le nostre famiglie, è possibile trovare dei momenti per riflettere un po’ su alcuni temi della nostra fede che facilmente sfuggono a una meditazione profonda.

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In una gara di pallacanestro, c’è uno schema chiamato “isolamento” in cui si lascia il giocatore attaccante da solo contro il difensore. Uno contro uno, isolati dal resto delle loro squadre. In quel momento, chi attacca deve ricordare bene quali sono le sue caratteristiche, i suoi talenti atletici, per vincere la partita.

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Lo schema di isolamento è spiegato dal cestista Tony Mitchell [cf. video QUI].

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Uno dei temi che in questa Quaresima possiamo allora meditare è il tema della Presenza Reale e concreta di Dio nella nostra vita. La prima lettura ci mostra un quadro un po’ particolare. Leggiamo infatti:

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«Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: ”Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”».

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Se diamo un’occhiata all’originale ebraico, quella protesta con cui il popolo ebraico si rivolge a Dio, è espressa con la parola Rib, indicante nel giudaismo una forma di litigio giuridico a due, che si risolve senza mettere a morte il colpevole. Ecco allora che il popolo ebraico si lamenta in continuazione e, in quella protesta, sembra quasi mettere in dubbio la capacità profetica di Mosè, in un litigio senza fine.  Anche dopo il miracolo, il popolo ebraico è indeciso. È insomma un popolo che affannosamente, ansiosamente e senza serenità cerca segni sensazionalistici. Il giusto intermediario che gli è mandato, Mosè, non lo soddisfa.

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Questa può essere una meditazione per noi: la nostra fede è affannosa, in continua ricerca di segni, miracoli e prodigi?  Il Signore ci chiede di abbandonarci a Lui, rileggendo gli eventi che ci succedono con lo sguardo di fede, senza continuamente mettere in dubbio la sua azione con noi. Potremo domandarci se anche noi, come il popolo ebraico, “litighiamo” con Dio e i suoi intermediari, perché non ci fidiamo di nessuno. Da qui la domanda: quanto ci fidiamo della presenza reale concreta del Signore?

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In questo senso il Vangelo della samaritana vuole rompere con la tradizione giudaica. Si ripropone lo scenario dell’Antico Testamento. Il deserto, la sete, e un dialogo. Ma qui è tutto diverso. Nel dialogo fra la donna e Gesù, c’è un’apertura a un dialogo col Tu Eterno di Dio. La richiesta di acqua, è un po’ una scusa del Signore, per entrare in contatto con la donna. Tanto che poi le dirà

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«Hai detto bene: ”Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».

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Ecco allora che il dischiudersi della donna a Gesù, che è Dio realmente presente, permette alla samaritana innanzitutto di scoprire la verità su sé stessa. Si lascia scoprire da Dio e non si ferma alla superficie di sé stessa. Il dialogo con Dio realmente presente è una rivelazione su sé stessi, entrare in profondità rispetto alla propria identità.

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Immediatamente dopo è uno schiudersi anche alla verità su Dio. Gesù infatti le dirà:

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«So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa».

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Le dice Gesù:

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«Sono io (lett. Io sono = nome di Dio), che parlo con te».

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Ecco l’insegnamento per noi su come costruire un vero autentico rapporto e non una ricerca spasmodica di segni, prodigi, fantasticherie: ma un dialogo vivo e fecondo, nel silenzio del deserto, mentre Cristo ci disseta dell’acqua della verità.

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Chiediamo al Signore di essere giorno dopo giorno sempre più come la samaritana e sempre più come Maria, che nella tenerezza dell’ascolto orante, si fecero prime predicatrici delle verità divine.

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In questo momento di dolore e di prova, noi Sacerdoti di Cristo eleviamo più che mai suppliche. Nelle nostre celebrazioni eucaristiche fatte senza popolo, per i motivi di sicurezza che ben conoscete, imploriamo ogni giorno Dio Padre affinché preservi la salute dei corpi e delle anime dei nostri amati fedeli.

Così sia.

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Roma, 15 marzo 2020

 

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Padre Gabriele

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Gabriele Giordano M. Scardocci
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Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

La Quaresima e la “mission impossible” che nella via della fede e della purificazione diviene invece possibile

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

LA QUARESIMA E LA MISSION IMPOSSIBLE CHE NELLA VIA DELLA FEDE E DELLA PURIFICAZIONE DIVIENE INVECE POSSIBILE 

La Quaresima è quindi un invito a riscoprire un poco la missione che il Signore ci ha dato. Riscoprire quella vocazione a cui tutti quanti siamo indirizzati, ognuno in modo diverso, ma comunque secondo una vocazione santa.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

locandina del celebre film

non so se vi ricordate il film di Tom Cruise, il celebre Mission Impossible del 1996. In quel film, il protagonista Ethan Hunt ha appunto una missione impossibile: una missione anti terrorismo. A tal fine, chiama con sé dei colleghi fidati, a cui dà incarichi importanti e difficili.

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La Quaresima è quindi un invito a riscoprire un poco la missione che il Signore ci ha dato. Riscoprire quella vocazione a cui tutti quanti siamo indirizzati, ognuno in modo diverso, ma comunque secondo una vocazione santa.

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Le tre letture di questa seconda domenica di Quaresima ci parlano di questo, a partire dal testo vetero testamentario [vedere il testo della Liturgia della Parola, QUI]:

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«In quei giorni, il Signore disse ad Abram: “Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”»

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Quel «vattene» non va inteso come un cacciare via Abram da parte di Dio. È sì, un imperativo, ma letteralmente suona più come un comando militare. Ecco allora che la missione ha un mandato che Abram non ha inventato ma ha ricevuto dal Signore. Un mandato pensato e voluto esclusivamente per Abram, che diventerà Abramo e inizierà la grande missione di guidare il popolo di Israele.

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Questo si riferisce anche a noi: proviamo a riflettere sulle origini del mandato che abbiamo ricevuto. Qualsiasi sia lo stato di vita a cui siamo chiamati, ecco che il Signore ci ha chiamati per nome, invitandoci a uscire da noi stessi, dalla nostra terra, le nostre sicurezze e serenità per aprirci a una missione più grande. E per farlo non ci ha lasciati da soli. Leggiamo infatti San Paolo quando scrive:

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«Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia».

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Ecco che San Paolo scrive all’amato Timoteo nel momento della prigionia. Nel momento in cui la sua missione di predicatore e apostolo è davvero messa alla prova. Però Paolo sa bene che ha ricevuto la grazia. La grazia è la forza che Dio ci dona per poter partecipare al meglio alla nostra missione insieme con Lui, e con Lui e metterla in pratica.

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Anche noi, dunque, abbiamo ricevuto la grazia per la nostra vocazione. E possiamo rinvigorirla mediante la vita di grazia, di preghiera e in questo periodo anche di qualche penitenza. Anche in questo momento di sofferenza a livello nazionale, sappiamo di avere l’aiuto vicino del Signore.

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Questo annuncio di avere vicino il Signore, ci è dato dal Vangelo di questa domenica:

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«Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”».

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Gesù si è trasfigurato. Gli apostoli hanno saputo dal Padre che quello che insegna, vive e parla con loro è il Figlio prediletto; è il Figlio di Dio. Si rivela anche a loro, per quello che è, dopo che a Natale si era mostrato ai pastori tramite l’annuncio angelico. E dice quella frase. Chiede il segreto messianico: Gesù passerà da una terribile sofferenza, poi risorgerà. Da quegli atroci momenti, che gli apostoli presenti non riescono a capire, verrà la grazia. Verrà la nostra gioia e la nostra liberazione.

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In questo tempo di quaresima cominciamo sin d’ora a riflettere sugli eventi della passione come eventi che preparano l’Era Nuova della grazia: in cui ciascuno di noi avrà la sua personale Pasqua, e il passaggio ad una vita autentica.

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Scriveva Jean Paul Sartre:

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«Chi è autentico, assume la responsabilità per essere quello che è, e si riconosce libero di essere quello che è».

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Il Signore ci doni sempre il coraggio di abbracciare la nostra vocazione, per vivere sempre più con l’autenticità e il coraggio dei figli di Dio.

Così sia.

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Roma, 8 marzo 2020

 

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Padre Gabriele

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Padre Gabriele

Eppure la soluzione esiste: «Amare i nemici è l’unica via perché non resti sulla terra neanche un nemico»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

EPPURE LA SOLUZIONE ESISTE: «AMARE I NEMICI È L’UNICA VIA PERCHÉ NON RESTI SULLA TERRA NEANCHE UN NEMICO»

La mentalità della legge del taglione va superata, non perché sia sbagliata la giustizia distributiva, che è il valore che la stessa legge vuole insegnare: se infatti commetto un torto, è giusto rifonderlo. Ma l’amore per il nemico e la preghiera per chi ci offende, ci fa del male e ci considera dei nemici è un comandamento grandissimo che va oltre quella legge. Quella attuale, che è sempre più una cultura senza Dio, questo messaggio non sa riceverlo, come abbiamo visto parlando del film di Tarantino.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

la serie cinematografica di Quentin Tarantino

chi ha visto il film di Quentin Tarantino: Kill Bill vol. 1 – 2, ricorderà che la protagonista Beatrix Kiddo, conosciuta come la Sposa, vola tra Giappone e Stati Uniti, con un unico fine: vendicare i propri parenti uccisi nel giorno del suo matrimonio. Beatrix vuole uccidere Bill, il mandante degli omicidi che l’hanno coinvolta. La pellicola è un insieme di fotogrammi che narrano una violenza gratuita, dunque una fredda cronaca di una vendetta.

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Questo terribile messaggio sfugge dall’ottica evangelica. Il messaggio di Gesù, in questa VII domenica del tempo ordinario [cfr. Liturgia della Parola, QUI] è diametralmente opposto. È un invito ad un amore grandissimo, che nasce dal desiderio di santità, di essere in piena amicizia con Dio. Di questa santità ce ne parla innanzitutto il Levitico, dove Dio dice agli israeliti:

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«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello» [Lv 19,2].

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Questo essere santi per gli israeliti indicava dunque un’appartenenza a Dio. Loro erano il popolo eletto, scelto affinché anzitutto si ricevesse il decalogo, poi si propagasse la testimonianza della presenza di YHWY in tutto il mondo. Per questo, Dio li rende partecipi della santità dell’essere staccati dalle altre cose del mondo, in particolare dal sentimento dell’odio, che facilmente si genera nell’uomo insieme all’ira.

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Questo richiamo alla santità è anche per noi: un richiamo dunque a non covare odio, ma amore di Dio. Un amore più grande, universale e che coinvolge non solo noi stessi ma chi incontriamo. Perciò siamo santi, non del mondo ma nel mondo, pronti a far entrare tutto il mondo nella santità di Dio. È questa la nostra vocazione, come ci dice San Paolo:

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«Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» [I Cor 3, 21-23].

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L’invito di Paolo ai corinzi è di non centrare la loro attenzione a tutte queste cose. Perché tutte queste cose, l’amicizia di Paolo, Apollo, Cefa, tutte le cose del mondo come la vita e la morte, la conoscenza degli eventi presenti e futuri sono già offerti ai credenti in Cristo. Possedere il mondo vuol dire per il credente riempirlo del messaggio di Cristo e di dargli un senso nuovo: di brillare dunque come portatore e testimone di un messaggio che lo supera, ma che al tempo stesso ne mostra la specialità e unicità davanti a tutti.  La santità personale è allora la sorgente della testimonianza e della carità nella verità per il mondo bisognoso di Dio.

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Ma la santità ha un effetto più forte, più evidente, e che in un certo senso scandalizza il mondo stesso. È l’insegnamento centrale del vangelo di oggi:

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«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» [Mt 5, 43-44].

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La mentalità della legge del taglione va superata, non perché sia sbagliata la giustizia distributiva, che è il valore che la stessa legge vuole insegnare: se infatti commetto un torto, è giusto rifonderlo. Ma l’amore per il nemico e la preghiera per chi ci offende, ci fa del male e ci considera dei nemici è un comandamento grandissimo che va oltre quella legge. Quella attuale, che è sempre più una cultura senza Dio, questo messaggio non sa riceverlo, come abbiamo visto parlando del film di Tarantino. Questo amore per il nemico sgorga da una speciale santità che è donata dall’Eterno Padre a tutti noi. Il primo ad averla mostrata è stato lo stesso Gesù: sulla croce infatti ha continuato ad amare, perdonare e pregare per i suoi aguzzini. Quello è il comandamento di Gesù per eccellenza, e con il suo aiuto tutti possiamo arrivare a questo. Come infatti scriveva il saggista Giovanni Papini: «Amare i nemici è l’unica via perché non resti sulla terra neanche un nemico».

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Chiediamo al Signore il coraggio, la perseveranza e la tenacia di amare santamente chi ci odia, per generare un regno di fede e pace, in cui l’amore trinitario sia giorno dopo giorno il raggio di luce che illumina le tenebre del mondo che odia.

Così sia.

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Padre Gabriele

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Zucchero e «Lo spirito nel buio» dove brilla la luce inestinguibile di Cristo Redentore

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

ZUCCHERO E LO «SPIRITO NEL BUIO» DOVE BRILLA LA LUCE INESTINGUIBILE DI CRISTO REDENTORE 

Nella festa della Presentazione del Signore, detta la Candelora, si accendono delle candele. Queste candele, le nostre candele permettono alla piccolissima fiammella di accendere il buio nel mondo. Di mostrare il nostro spirito nel buio, perché acceso dallo spirito d’amore di Gesù offerto al tempio. 

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

in questa festa della Presentazione del Signore [testi della Liturgia della Parola, QUI], passava per le radio una canzone del cantautore italiano Zucchero, intitolata Spirito nel buio. L’autore ha un desiderio: che il mondo sia effuso di una luce d’amore. Infatti il testo della canzone dice esplicitamente: «Vorrei vedere tutto il mondo in festa che accende spirito nel buio».

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Nella festa della Presentazione del Signore, detta la Candelora, si accendono delle candele. Queste candele, le nostre candele permettono alla piccolissima fiammella di accendere il buio nel mondo. Di mostrare il nostro spirito nel buio, perché acceso dallo spirito d’amore di Gesù offerto al tempio.

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Cerchiamo di meditare su questa festa, partendo dal testo vetero-testamentario del Profeta Malachia:

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«Ecco io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me […] Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai» [Ml 3, 2].

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In questa profezia Malachia descrive il messaggero di Dio con due immagini: il fuoco e la lisciva, che si usava come detergente per sbiancare i panni. Entrambi questi due elementi, richiamano la purificazione e il tornare puliti dopo essere sporchi. Questo messaggero non può essere allora un angelo, che non è chiamato a purificare, disinfettare e a lavare. Malachia annuncia già Cristo, chiamato per questo compito così importante: offrirsi per la nostra purificazione.

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Questo è un richiamo a purificare allora le nostre vite, le nostre abitudini, soprattutto il nostro modo di vivere la fede. Purifichiamo la nostra vita dagli idoli che, senza farsi vedere, ne hanno occupato il centro.

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Per giungere a questo prendiamo consapevolezza che Dio stesso si prende cura di noi, come ci spiega l’Autore della Lettera agli Ebrei:

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«Cristo infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura» [Eb 2, 16]

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In un certo senso, possiamo stare tranquilli di questa protezione continua del Signore. Anche di fronte agli eventi difficili e terribili della Storia, che sfuggono al nostro controllo e alla nostra responsabilità, possiamo solo metterci sotto la sua ala protettiva.

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Penso anche a questi giorni, per esempio riguardo le notizie sul Coronavirus, che per quanto esagerate, mostrano da parte di buona fetta della popolazione mondiale un senso di smarrimento. Lasciamo che sia il Signore a proteggerci, con l’aiuto degli scienziati e dei medici: senza paura.

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Infatti la festa di Gesù che é presentato al tempio è sintetizzato in questo: Gesù è offerto al Padre, consacrato del padre per liberarci dal peccato e da tutte le inquietudini conseguenti, come ci illustrano le parole del saggio e anziano Simeone che li benedisse e a Maria sua madre disse:

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«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» [Lc 2, 34].

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Gesù è chiamato ed è offerto al Tempio, di cui Egli diviene centro e fondamento. Infatti, nel suo essere offerto e presentato al Tempio, si pone come definitivo Luogo dove incontrare Dio. Ecco perché Gesù è segno di contraddizione e caduta per molti: perché i farisei erano legati ai loro schemi rituali e alle pratiche del Tempio, che però avevano perso la loro caratteristica di essere riti per mettere in comunione con Dio. Gesù è invece colui che svela i pensieri di molti cuori: svela la contraddizione di una religione bigotta e ripetitiva rispetto invece a Dio che ci chiede una adesione di fede autentica, viva e responsabile.

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La fede non diventi dunque per tutti noi abitudine e ripetizione meccanica: questa sarebbe davvero una contraddizione per tutti noi. Ravviviamo invece la fede, offrendoci tutti noi al tempio con Gesù, vivendola con forza nel quotidiano.

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Charles Baudelaire, sebbene annoverato dalla critica letteraria nel gruppo dei cosiddetti “poeti maledetti”, lungi dall’essere privo di profondità, scrive: «Vola via lontano da questi morbosi miasmi; va’ a purificarti nell’aria superiore, e bevi, come un puro e divino liquore, il chiaro fuoco che riempie i limpidi spazi»

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Il Signore ci doni sempre il desiderio di dissetarci del suo vino consacrato, per far entrare gli spazi della sua Eternità nella nostra vita offerta a Lui.

Così sia.

Roma, 2 febbraio 2020

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Padre Gabriele

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Dalla luce delle Olimpiadi all’eterna luce salvifica di Gesù Cristo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

DALLA LUCE DELLE OLIMPIADI ALL’ETERNA LUCE SALVIFICA DI GESÙ CRISTO

«Giorno e notte, un fuoco divino ci spinge ad aprire la via. Su vieni! Guardiamo nell’Aperto, cerchiamo qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano».

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa
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Cari fratelli e sorelle,

accensione della fiaccola olimpica, Atene 2018

ogni quattro anni si ripete l’evento sportivo delle Olimpiadi. La prossima estate avremo giochi olimpici Tokyo. Ricordo le prime Olimpiadi che vidi in televisione, Atlanta 1996. Ricordo che in quei quattro anni di preparazione alle olimpiadi è portata da un tedoforo la fiaccola olimpica: nelle antiche olimpiadi quel fuoco indica la continua presenza del dio principale: per i greci Zeus. La fiaccola è anche simbolo di calore e luce che rischiara e mostra la presenza di Dio. Questo richiama il senso della luce, la luce generata dal Dio Trinitario in cui noi crediamo e sappiamo essere il Dio vero e vivente.

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La liturgia di questa II domenica del tempo ordinario (vedere testo della Liturgia della Parola, QUI), nella prima lettura vetero testamentaria ci offre questo brano:

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«Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,3.5-6).

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Il profeta Isaia ascolta la voce del Signore, Adonai. E ascolta verso sé stesso una promessa grandissima: essere luce per tutte le nazioni. Il richiamo alle estremità indica che il messaggio di Dio è un messaggio universale e non racchiuso solo ad Israele. Ma essere luce delle nazioni vuol dire portare rivelazione e vita. Un dare alla luce in modo spirituale, è generare alla vita in Dio.

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Anche noi come Isaia possiamo un po’ fare questo: essere portatori della luce divina. Essere cristofori della fiaccola dell’amore divino. Specialmente andando a risolvere questioni personali oscure: schiarendo con verità e carità quei nuclei di divisione per farli diventare comunione.

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Sappiamo allora di attingere la luce direttamente dalla sua Fonte Originaria: Gesù Cristo, l’eterno Figlio del Padre. Il primo ad accorgersi di questo è proprio il Battista, che nel Vangelo infatti dice:

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«Il Battista disse “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,29-34).

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Giovanni, dice il brano evangelico, vede Gesù venire verso di Lui. Vede un raggio di sole diverso rispetto a quello che era solito vedere nel deserto assolato. Cioè vede in Gesù quella luce speciale, l’esplosione divina dello Spirito Santo. Così il Battista può vedere e riconoscere la filiazione divina di Gesù. Dio si rivela allora in Cristo: la luce è quella verità definitiva, luce eterna che non finirà mai nel buio.

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Proviamo allora a ricordalo nei momenti della nostra oscurità: a cercare quella Luce divina, che rischiara e può darci consolazione. Anche quando la tenebra sembra profonda. Attingere a quella luce, significa rispondere ad una chiamata, ad una missione che è dall’eternità scritta nei nostri cuori. Lo spiega San Paolo:

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«Paolo, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù» (1Cor 1,1-3).

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C’è una santificazione originaria, un primo raggio di luce nella nostra vita: quando siamo stati concepiti sin da subito il Signore per noi ha da sempre avuto un progetto radioso e lucente. La chiamata alla santità, è chiamata ad essere luce per il mondo. Questo avviene anche nello stato di vita in cui viviamo. Avviene sul posto di lavoro e persino nei momenti di relax. Se rimaniamo legati alla luce centrale, che ci ha santificato appena concepiti, continuiamo ad ardere del Suo Amore e a santificare tutto il mondo.

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Scriveva il poeta Friedrich Hölderlin:

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«Giorno e notte, un fuoco divino ci spinge ad aprire la via. Su vieni! Guardiamo nell’Aperto, cerchiamo qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano».

Il Signore ci doni sempre più la Sua Luce, per brillare in tutta la nostra lucentezza, in tutta la nostra unicità e sacralità: per saper ardere come tizzoni ardenti ed essere quel fuoco sacro che si apre sull’Infinito.

Così sia.

Roma, 19 gennaio 2020

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Dalla penosa croce appendi-abito del politicamente corretto, al mistero salvifico del Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza del mondo che oggi precipita verso l’abisso

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

— omiletica —

DALLA PENOSA CROCE APPENDI-ABITO DEL POLITICAMENTE CORRETTO, AL MISTERO SALVIFICO DEL VERBO DI DIO FATTO UOMO PER LA SALVEZZA DEL MONDO CHE OGGI PRECIPITA VERSO L’ABISSO 

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… e oggi, questa terribile vanità mondana che mira a piacere al mondo, ha svuotato il mistero del Verbo di Dio fatto uomo, per riempirlo di altro: di barconi di migranti, di ciambelle di salvataggio, o di giubbotti salvagente attaccati sulla croce di Cristo. È l’emblema della peggiore sciatteria della Chiesa visibile contemporanea: la croce ridotta ad appendi-abito, dinanzi a cori esultanti di persone che non entrano nelle nostre chiese neppure per Natale e per Pasqua, ma che plaudono gaudenti dinanzi alla nostra auto-distruzione, mentre la povera sposa di Cristo sta annegando, non nelle acque del Mare Mediterraneo, sta annegando nel ridicolo, nel grottesco della sciatteria, senza che nessuno si curi di lanciarle neppure una misera ciambella di salvataggio, forse perché colpevole di non essere musulmana, sicché può anche tranquillamente affogare, sotto gli applausi di un mondo che odia sempre di più tutto ciò che è veramente e autenticamente cristiano.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Puer natus est, Alleluia !

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per secoli, sulla croce, l’unica cosa che la tradizione cristiana ha appeso, è stato solo il sudario di Cristo Dio

Lux in tenebris lucet. La luce splende nelle tenebre, è la luce del Verbo incarnato narrata nella poetica di questo monumentale prologo al Vangelo di Giovanni [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI]. Volendo potremmo aggiungere: la luce splende nelle tenebre in modo particolare in questo nostro mondo nel quale dobbiamo essere animati dalla più cristiana e operosa speranza, mentre siamo sottoposti alla più grande, difficile e temibile di tutte le prove: la grande prova della fede.

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Da diversi anni siamo spettatori silenti e impotenti protagonisti di mutamenti radicali generati da una condizione di grande crisi che investe a livello mondiale la morale, l’etica, la politica, l’economia, la comunità ecclesiale ed ecclesiastica che della crisi morale ed etica rischia di essere un paradigma. E proprio in questa situazione di grande crisi e decadenza dovremmo accogliere la luce che irrompe nelle tenebre attraverso l’incarnazione del Verbo di Dio, accogliendolo come nostro principio e fine ultimo.

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Il Verbo è stato annunciato nei tempi dalle parole di dolore, amore e speranza dei profeti; dalla voce del Battista, che all’alba della sua irruzione nella storia dell’umanità levò la voce dal deserto per rompere i deserti dell’animo umano. Il Verbo è parola viva ed eterna, ma è anche silenzio, perché nel nostro rumore mondano che tutto divora nell’indifferenza per meglio ingoiarci nel Grande Nulla, il Verbo tace nella misura che l’uomo non concede al suo amore eterno alcuno spazio per abitare in mezzo a noi, neppure un albergo di fortuna; neppure una mangiatoia in cui giacere dentro una stalla.

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Per rivelarsi il Verbo ha bisogno di quel luogo privilegiato che è il silenzio, per potersi manifestare e comunicare all’uomo che è oggetto del suo amore e suo soggetto amato.

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Gli antichi israeliti erano così intimoriti dal tetragramma dell’alfabeto ebraico che componeva il nome di Dio, che nessuno doveva osare pronunciarlo, solo il Kohen Gadol, il Sommo Sacerdote, chiuso nel Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme, a testa bassa col capo coperto, dopo essersi lungamente purificato lo pronunciava sommessamente una volta all’anno per il Yom Kippur, il gran giorno dell’espiazione.

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Impariamo a considerare il Natale come nome ineffabile di Dio, perché durante questa festa il Verbo di Dio si incarna in un uomo e viene ad abitare in mezzo a noi nella persona fisica di Gesù di Nazareth, aprendo ai nostri orizzonti il mistero del vero Dio e vero uomo. Fuggiamo dunque la gran bestemmia del Natale profanato, svuotato del Verbo e riempito d’altro, in un proliferare di presepi costruiti dall’Ufficio Supremo del Politicamente Corretto su barconi e ciambelle di salvataggio, con la Beata Vergine Maria ed il Beato Patriarca Giuseppe rivestiti di un salvagente. Riappropriamoci del Mistero del Natale, che è l’irruzione di Dio in carne e ossa nella storia dell’umanità, attraverso quel Gesù che noi adoriamo nella mangiatoia di Betlemme nella quale l’intera umanità è rinata ed è chiamata a rinascere, per giungere al suo apice con la pietra divelta del sepolcro vuoto del Cristo, col quale l’intera umanità è risorta ed è chiamata a risorgere. Adoriamolo nell’Eucaristia, suo memoriale vivo e santo, dono della sua presenza reale tra di noi, nostro sostegno e nostro cibo di vita eterna. Adoriamolo, perché Lui solo è l’inizio, il centro e il fine ultimo del nostro intero umanesimo. Soltanto così potremo aprire le porte del cuore per esprimere in modo pertinente e coerente: Buon Natale … il Natale del Dio che si è fatto come noi per invitarci a farci come Lui, in Lui e per Lui.

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Nei momenti di silenzio di questa sacra liturgia, prostrandoci durante la Preghiera Eucaristica sulle parole dell’Ultima Cena che renderanno il pane e il vino corpo e sangue vivo di Cristo, cerchiamo di cogliere il mistero e divenirne intimi partecipi, consapevoli che in silenzio il Verbo s’incarna e nel silenzio il Verbo ci parla. Prostriamoci con le ginocchia a terra, perché «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi» [Fil 2, 10]. Non facciamo come coloro che dinanzi al Corpo e al Sangue vivo di Cristo hanno problemi all’anca, che però funziona a meraviglia per inginocchiarsi con scatto atletico dinanzi alla nuova “verità di fede”, o al nuovo “dogma del migrante” a cui sciacquare i piedi dinanzi ai giornalisti di regime che plaudono alla «nuova Chiesa» della «rivoluzione epocale», improntata su quella «misericordia» che concede la grazia della ghigliottina a chiunque osi proferire un legittimo, rispettoso e pacato sospiro di dissenso verso tutto ciò che può essere oggettivamente sbagliato e fuorviante.

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Il Gesù della storia, che col Natale entra nella nostra esperienza umana in carne e ossa, non è neppure un tenero simbolo a uso e consumo umano e commerciale delle varie tradizioni popolari o familiari, è il supremo mistero di Dio fatto uomo in Gesù che attraverso il mistero dell’Incarnazione comincia il suo percorso terreno deposto nella mangiatoia di una stalla e terminandolo deposto sul legno di una croce, per esplodere poco dopo come il Cristo della fede che rovescia la pietra del sepolcro, rendendoci per vocazione tutti partecipi della sua risurrezione.

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A questo siamo chiamati attraverso l’esperienza cristiana: ad incarnarci, a vivere, a morire ed a risorgere nel Cristo, perché Dio è giunto a farsi come noi affinché noi, proiettati nel mistero della sua grazia, ci facessimo come lui.

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Questo è il deposito della nostra fede, il resto è solo moderno paganesimo, nuova idolatria mirata a piacere e compiacere quel mondo sempre più anti-cristico al quale dovremmo cercare in ogni modo di non piacere. E noi, chiamati a servire e assistere il Popolo di Dio come sacerdoti, dobbiamo combattere sia il nuovo paganesimo sia il mondo sempre più anti-cristico, portando in modo amorevole e deciso il vero annuncio attraverso la vera pastorale evangelica, che non è certo l’odierna pastorale nevrotico-ossessiva del povero o del profugo vero o presunto, ma cristologica concretezza di vita vissuta. Non possiamo soprassedere, né peggio giustificare certe deviazioni come espressioni di fede, anzi siamo tenuti a chiamarle con il loro vero nome: veleno della fede.

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In nessuna pagina del Vangelo sta scritto che bisogna compiacere i vezzi ed i vizi del mondo, o peggio tacere sui suoi gravi peccati, perché il Verbo di Dio si è incarnato per divenire poi agnello sacrificale che lava con il sangue del proprio sacrificio sulla croce il peccato del mondo, ma soprattutto dopo averci avvisati:

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«Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; ma poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, perciò il mondo vi odia» [Gv 15, 18-19].

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Quale terribile giudizio e meritato castigo, molti di noi pastori in cura d’anime riceveranno dal Divino Giudice, per avere lasciato in pasto alla paganitas il Popolo che Dio ci ha affidato, per essere andati a braccetto con i Démoni, per avere invitato e accolto il lupo dentro l’ovile e bastonato al tempo stesso le pecore che hanno osato gridare: «Attenti al lupo!». Perché anche in questo eravamo stati avvisati: 

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«Guai ai pastori che distruggono e disperdono
il gregge del mio pascolo!», dice il Signore.
Perciò così parla il Signore, Dio d’Israele,
riguardo ai pastori che pascolano il mio popolo:
«Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate,
e non ne avete avuto cura;
ecco, io vi punirò, per la malvagità delle vostre azioni»,
dice il Signore.
«Raccoglierò il rimanente delle mie pecore
da tutti i paesi dove le ho scacciate,
le ricondurrò ai loro pascoli,
saranno feconde e si moltiplicheranno.
Costituirò su di loro dei pastori che le porteranno al pascolo,
ed esse non avranno più paura né spavento,
e non ne mancherà nessuna», dice il Signore [Ger 23, 1-4].

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E ancora:

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«Profeti e sacerdoti sono empi,
nella mia casa stessa ho trovato la loro malvagità»,
dice il Signore .
«Perciò la loro via sarà per loro come luoghi sdrucciolevoli in mezzo alle tenebre;
essi vi saranno spinti e cadranno;
poiché io farò venire su di loro la calamità,
l’anno in cui li visiterò», dice il Signore [Ger 23, 11-12].

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Il tutto suggellato dalle parole di Cristo Dio che ammonisce:

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«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» [Lc 12, 48].

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Inutile a ricordarsi, sebbene lo faccia: a noi suoi sacerdoti, Dio ha affidato quanto ha di più prezioso: ci ha affidata la cura, la custodia e il governo pastorale del suo gregge, del suo Popolo Santo.

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Il Vangelo del Beato Evangelista Luca proclamato poche ore fa alla Messa della Santa Notte, narra in brevi parole con l’evento della nascita il modo scelto da Dio per rivelarsi nel Gesù della storia. Seguendo le parole di questo passo potremmo parlare del divino pudore di Dio che viene alla luce e che si manifesta agli uomini che attendevano il Messia, il Salvatore, quasi come se volesse nascondersi nell’atto stesso in cui si manifestava. È un aspetto che ci porta a riflettere sulla sfida sempre aperta delle sue divine intenzioni, della sua divina pedagogia.

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Forse il Signore, davanti alla sua rivelazione visibile, fisica e corporea, desiderava invitare gli uomini a non sentirsi esonerati dal dovere di ricercarlo, come i pastori che accorrono, come i magi che seguendo la luce di una stella giungono a portargli doni preziosi, senza alcuna paura di offendere la futura “idolatria del povero”. Forse, il Signore, il Salvatore nato in una stalla, voleva che questa nostra ricerca del suo essere eterno e del suo divenire tra di noi, ci obbligasse a piegare il nostro egocentrismo sulle vie dell’umiltà, che non è certo una posa a collo torto, ma la vera dignità dell’essere veri cristiani.

Contemplare l’umiltà di Dio Incarnato che giace in fasce dentro la mangiatoia di una stalla è un invito a penetrare il senso vero e profondo di quella virtù cristiana che è l’umiltà autentica, nostra strada maestra per correggere l’ostacolo principale che ci sbarra la via al nostro vero incontro col Cristo Salvatore: l’orgoglio che ci impedisce un rapporto con lui e un rapporto con gli altri. E dall’orgoglio si può guarire solo partendo dalla divina umiltà del bimbo Gesù nella stalla di Betlemme, per seguirlo sulla Via Dolorosa fino al Golgota, infine risorgere con quel Cristo della fede che fece dire a San Paolo: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me» [Gal 2, 20].

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Dio nasce nascosto e talvolta si nasconde affinché l’uomo possa cercarlo attraverso l’istinto libero e liberante di quell’amore che quando è perfetto caccia via ogni paura, come insegna il Beato Apostolo Giovanni in un altro passo del suo Vangelo [Cf. Gv 4, 18]. Perché Dio non si nasconde mai dietro le grandi cose che spesso tanto ci affascinano, ma dietro ai piccoli particolari che spesso ci lasciano del tutto indifferenti; Dio non lo troviamo e non lo incontriamo, in ciò che al mondo piace, ma in tutto ciò che il mondo rigetta e odia.

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Il modo in cui si può cercare e trovare Dio celato in una stalla, ce lo ricorda uno dei più grandi convertiti della storia, che con la sua esperienza ci invita tutti alla conversione. Questo maestro è Aurelio di Tagaste, meglio noto come Sant’Agostino Vescovo di Ippona, divenuto in seguito santo e Dottore della Chiesa: «Amore pètitur, amore quaèritur, amore pulsàtur, amore revelàtur» con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si bussa, con l’amore si rivela.

Solo in questo modo possiamo entrare nella vera stalla di Betlemme, che è la stalla della fede e del mistero divino; quindi capire qualche cosa del Natale; per vivere il Natale nella fede in Gesù Cristo nostro Dio, Signore e Salvatore. Il resto — come diceva nel lontano Cinquecento quel grande pedagogo di San Filippo Neri prendendo spunto dal Libro di Qoelet — è solo vanità, nient’altro che vanità di vanità [cf. Qo 1,2]. E oggi, questa terribile vanità mondana che mira a piacere al mondo, ha svuotato il mistero del Verbo di Dio fatto uomo, per riempirlo di altro: di barconi di migranti, di ciambelle di salvataggio, o di giubbotti salvagente attaccati sulla croce di Cristo. È l’emblema della peggiore sciatteria della Chiesa visibile contemporanea: la croce ridotta ad appendi-abito, dinanzi a cori esultanti di persone che non entrano nelle nostre chiese neppure per Natale e per Pasqua, ma che plaudono gaudenti alla nostra auto-distruzione, mentre la povera sposa di Cristo sta annegando, non nelle acque del Mare Mediterraneo, sta annegando nel ridicolo, nel grottesco della sciatteria, senza che nessuno si curi di lanciarle neppure una misera ciambella di salvataggio, forse perché colpevole di non essere musulmana, sicché può anche tranquillamente affogare, sotto gli applausi di un mondo che odia sempre di più tutto ciò che è veramente e autenticamente cristiano. E noi, indegni sacerdoti, oggi genuflessi al mondo come delle miserabili prostitute dinanzi al cliente, di questo annegamento siamo i responsabili. E di ciò dovremo un giorno rendere conto al Verbo di Dio che severo ci ricorderà:

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«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» [Lc 12, 48].

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Et homo factus est, alleluja!

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dall’Isola di Patmos, 25 dicembre 2019

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Cari Lettori,

nel mese di dicembre è entrato in distribuzione il mio nuovo libro Nada te turbe, un’opera di spiritualità sul martirio scritta in forma di romanzo storico e ambientata in un’epoca di feroce persecuzione della Chiesa. Ritengo che potrebbe edificare e aiutare molte persone, soprattutto in questo momento. Per questo vi invito ad acquistarlo presso il nostro negozio [vedere QUI] ma soprattutto a leggerlo.

 

 

 

 

 

 

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