Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Stupiscimi Signore e io oltrepasserò il deserto di Ninive per cercare di stupire gli uomini con l’annuncio della tua Parola

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

STUPISCIMI SIGNORE E IO OLTREPASSERÒ IL DESERTO DI NINIVE PER CERCARE DI STUPIRE GLI UOMINI CON L’ANNUNCIO DELLA TUA PAROLA

Pescare gli uomini nella rete di Dio vuol dire proprio toglierli da un’ottica immanente, priva di riferimenti assoluti e priva di senso ultimo, per portarli invece in un orizzonte più ampio e profondo. Fra le centomila parole che sentiamo dalle televisioni, dai social media, dalle radio, da Youtube, da Tik Tok e che sono spesso inopportune e prive di realtà, è bene che nella nostra vita risuoni la Sacra Scrittura, la storia delle storie scritta da Dio per noi.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

In questa III settimana del tempo ordinario celebriamo con la Chiesa Universale la Domenica della Parola di Dio, istituita di recente dal Sommo Pontefice Francesco I [vedere Liturgia della Parola QUI].

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La Parola di Dio che è contenuta nella Sacra Scrittura è una delle sorgenti da dove attingere l’acqua della nostra fede, che scorre come un fiume nelle nostre anime. La Sacra Scrittura è dunque all’interno della Bibbia che racchiude i 74 libri sacri, la composizione dei quali è ispirata da Dio che ha aiutato l’autore umano.

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Per cercare di far capire il concetto di ispirazione provo a farvi un esempio. Qual è il vostro libro preferito? Vi dico il mio, per quanto riguarda la letteratura recente: Novecento di Alessandro Baricco. Una breve storia nata tutta quanta dalla semplice fantasia. L’Autore aveva intenti artistici e letterari, era guidato anche da buoni scopi, raccontarci una splendida storia; ma di certo non aveva ricevuto la grazia speciale dell’aiuto dello Spirito Santo affinché componesse un libro che rivelasse le opere di Dio per l’uomo. Inoltre, il fine dell’autore non era quello di trasmettere delle narrazioni che riguardavano la rivelazione di Dio.

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Ecco allora la differenza: i 74 libri biblici sono ispirati, scritti a quattro mani dall’autore umano e dallo Spirito Santo per raccontarci questa bellissima storia d’amore che è la salvezza che il Dio trinitario offre all’uomo. Al fine di comprendere il vero senso della Sacra Scrittura, Dio ha donato, specialmente ai vescovi e ai presbiteri, la grazia di coglierne il senso profondo e la missione di insegnarla presso il Popolo di Dio e anche presso chi non lo conosce.  E questo insegnamento della Parola di Dio è ciò che si evince in modo evidente dalle letture di oggi. Innanzitutto Giona, di cui leggiamo:  

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«Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: “Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico”. Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la Parola del Signore» [Gio 3,1-5.10].

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Giona è inviato a Ninive, la capitale dell’Assiria, o detta in altre parole: è inviato proprio nell’occhio del ciclone, nel centro politico religioso politeistico in cui c’era una concezione opposta a quella del Popolo ebraico. Il Signore cerca perciò con la Sua Parola di generare amicizia, contatti e legami anche fra popoli totalmente diversi, totalmente in contrasto culturale e ideologico. È così che Giona diviene annunciatore di questa Parola di vita eterna, la parola con la quale Dio cerca di cambiare la nostra vita quotidiana, quella che viviamo oggi nell’anno 2021.

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In che modo la parola cambia la nostra vita lo scopriamo nel Santo Vangelo di oggi nel quale Gesù è presentato come Parola vivente del Padre nonché compimento della parola veterotestamentaria. Attraverso quella Parola è quindi il Verbo di Dio incarnato che ci parla e ci dice in che modo la nostra vita cambia, se lo ascoltiamo:

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«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono» [Mc 1, 14-20].

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Simone e Andrea sono resi pescatori di uomini da Gesù. La Parola di Dio li rende capaci di pescare l’uomo nel loro quotidiano e portarli a conoscenza di verità più alte. Pescare gli uomini nella rete di Dio vuol dire proprio toglierli da un’ottica immanente, priva di riferimenti assoluti e priva di senso ultimo, per portarli invece in un orizzonte più ampio e profondo. Fra le centomila parole che sentiamo dalle televisioni, dai social media, dalle radio, da Youtube, da Tik Tok e che sono spesso inopportune e prive di realtà, è bene che nella nostra vita risuoni la Sacra Scrittura, la storia delle storie scritta da Dio per noi. Come infatti ha detto il premio Nobel per la letteratura Sir Kazuo Ishiguro, britannico di origine giapponese, rivolgendosi all’Accademia di Svezia:

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«Tutte le belle storie, indipendentemente dal metodo con cui sono narrate, devono contenere rapporti che risultino importanti ai nostri occhi; che ci commuovano, ci divertano, ci esasperino o ci sorprendano».

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Chiediamo al Signore la grazia di aprirci sempre più all’ascolto e alla interiorizzazione della Sua parola, affinché sia sempre il suo amore trinitario a commuoverci, a divertirci, a esasperarci e a sorprenderci nella nostra vita di fede e carità.

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Roma, 24 gennaio 2021

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Il Cristianesimo da menù di ristorante che sfugge la croce e trasforma Cristo Dio in un delizioso pasticcino altamente digeribile

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

IL CRISTIANESIMO DA MENÙ DI RISTORANTE CHE SFUGGE LA CROCE E TRASFORMA CRISTO DIO IN UN DELIZIOSO PASTICCINO ALTAMENTE DIGERIBILE 

Oggi più che mai sfugge, persino a noi consacrati, l’elemento sacrificale della vera esperienza di fede. Da tempo abbiamo ormai creato quello che potremmo definire come un cristianesimo da menù di ristorante in cui si entra, si legge la carta e si sceglie quel che piace. E così a farla da padrona è il peggio della emotività animata dall’umano egoismo.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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I tre Vangeli sinottici dei Beati Evangelisti Marco, Matteo e Luca, hanno caratteristiche diverse, proprio come la simbologia con la quale gli Evangelisti sono raffigurati sin dal primo medioevo, che prende vita sul finire del V secolo con la caduta dell’Impero Romano.

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L’Evangelista Matteo è raffigurato con l’immagine dell’uomo alato, perché la sua redazione inizia con la genealogia di Cristo Signore e Messia; il Beato Evangelista Marco con il leone alato, perché la sua redazione inizia con la narrazione della predicazione del Precursore, il Beato Giovanni detto il Battista, che predicava nel deserto, luogo abitato da bestie selvatiche; il Beato Evangelista Luca con il bue, perché la sua redazione inizia con la visione avuta da Zaccaria nel Tempio di Gerusalemme, dove si sacrificavano animali, tra i quali anche i buoi.

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Gli Autori dei tre Vangeli sinottici seguono uno schema simile e narrano le stesse vicende della vita di Cristo Dio, pur con le loro differenze stilistiche. Infine il così detto Quarto Vangelo, quello del Beato Evangelista Giovanni, raffigurato con l’immagine di un animale considerato all’epoca il più nobile tra tutte le specie della terra: l’Aquila, colei che sola poteva fissare a occhi aperti la luce del sole.

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Il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni, che si apre con un inno al mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio ― «E il Verbo si fece carne» ― è un mirabile inno alla luce del Cristo vero Dio e vero uomo, raffigurato appresso come sole vivo disceso dal cielo. Al Beato Evangelista Giovanni, definito dai grandi Padri e dottori della Chiesa come il teologo per antonomasia, è accompagnato il motto «Altius caeteris Dei patefecit arcana» [in modo più alto degli altri – Giovanni – rivelò gli arcani misteri di Dio].

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Una caratteristica del Vangelo del Beato Evangelista Matteo è la precisione narrativa dalla quale prende forma la figura del Gesù storico, da lui collegata a numerosi riferimenti vetero-testamentari. Il tutto, per dare testimonianza che il Cristo non era venuto sulla terra per abolire la Legge e i Profeti, ma per dare compimento [cfr. Mt 5, 17-20]. E il compimento era Lui, il Dio fatto uomo, la luce che brilla nelle tenebre, come lo definisce nel suo prologo l’Evangelista Giovanni, il «Dio da Dio luce da Luce», come lo definirono i Padri della Chiesa scrivendo nei Concilî di Nicea e di Costantinopoli il Credo che tra poco reciteremo. O il Christus totus, come lo definì Sant’Agostino, quella totalità nella quale Cristo Dio è il centro, l’inizio e il fine ultimo del nostro intero umanesimo.

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Dunque quattro personalità di uomini diversi, ciascuno illuminato dalla divina grazia, che annunciano il mistero con parole fisse e senza tempo, perché come rivela Cristo Dio mediante il racconto del Beato Evangelista Matteo: «I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno mai» [Mt 24, 32-35], perché sono fissate nell’eterno attraverso il mistero della passione, della morte e della risurrezione di Cristo Dio, nel corpo glorioso del quale sono tutt’oggi impressi i segni della passione; segno eterno del suo amore consumato per la redenzione dell’uomo sino al supplizio della croce, mutando il Verbo che si è fatto carne nell’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.

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E con questo siamo giunti al cuore di questo Santo Vangelo del Beato Evangelista Matteo nel quale Cristo Signore ci offre qualche cosa di terribile: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» [vedere Liturgia della Parola di questa XIII domenica del tempo ordinario, QUI].

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Oggi più che mai sfugge, persino a noi consacrati, l’elemento sacrificale della vera esperienza di fede. Da tempo abbiamo ormai creato quello che potremmo definire come un cristianesimo da menù di ristorante in cui si entra, si legge la carta e si sceglie quel che piace. E così a farla da padrona è il peggio della emotività animata dall’umano egoismo. È la tragedia della fede annacquata da cuoricino che batte, per esempio dinanzi alle tenere immagini popolari struggenti di Gesù Bambino durante il Santo Natale, ignari però che quello è solo l’inizio di un percorso che giunge poi nel dolore dell’Orto degli Ulivi, per proseguire con l’immane strazio della via dolorosa e della crocifissione.

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La fede è sacrificio, ma molti l’hanno mutata in un diritto mondano a ciò che a me piace. Ecco allora i cattolici che da una parte si dicono tali, dall’altra si dichiarano favorevoli all’aborto, o che affermano «… è giusto che due uomini vivano assieme se si amano, perché quel che importa è l’amore, anzi è giusto dargli anche un bambino in adozione». E qui bisognerebbe chiarire cosa è l’amore e cosa invece non è quello che alcuni chiamano amore. Come vi sono altri cattolici che affermano che è giusto, anzi è caritatevole praticare l’eutanasia a un malato terminale, per quale motivo lasciarlo soffrire? È disumano. E proprio a questi ultimi risposi: «Forse non sapete che cosa sia lo strazio di una crocifissione, ma se parlate con un clinico anatomo-patologo, vi spiegherà lui il dolore e anche le umilianti reazioni che siffatto supplizio generava nel corpo dei condannati esposti nudi alla vista di tutti. Ebbene, vi risulta forse che la Beata Vergine Maria abbia supplicato di porre fine ai patimenti del suo Divino Figlio?».

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Oggi abbiamo creata una società mostruosa che insegue una falsa felicità nella quale la vita è senza la malattia e senza il decadimento fisico; la giovinezza senza vecchiaia e la vita senza la morte. A questo modo si è creata una società dell’irreale che rifiuta Cristo, o una comunità cattolica che annacqua il messaggio di Cristo che ci invita ad assimilarci al suo dolore. A quel punto la stessa Santa Messa viene confusa con un incontro tra amici che si ritrovano assieme per fare festa, per rallegrarsi attorno alla mensa. Eppure basterebbe ascoltare le parole della sacra liturgia per comprendere che attraverso il mistero del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo si rinnova il divino memoriale della passione, morte e risurrezione, perché l’Eucaristia è il sacrificio vivo e santo … e quando io mi dirigo verso l’altare, non vado a fare un gioioso festino, ma salgo sul Monte Calvario, perché sull’altare si rinnova il sacrificio incruento della passione di Cristo Dio.

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Il Santo Pontefice Giovanni Paolo II scrisse nel 1984 una splendida lettera apostolica in occasione del Giubileo della Redenzione intitolata Salvifici doloris, che significa: il valore salvifico della sofferenza. All’epoca, il futuro Santo Pontefice aveva appena 62 anni, era un uomo sportivo e pieno di energie. Come mai quella Lettera dedicata al valore salvifico della sofferenza scritta da un uomo che pareva il ritratto della bellezza e della salute? Ebbene, pensiamo al Giovanni Paolo II non del 1984, ma a quello del 2000, quando si ostinava a inginocchiarsi dinanzi al Santissimo Sacramento anche se era ormai sfiancato dalla malattia, tremante e privo di forze, con i cerimonieri pontifici che gli sudavano attorno quando in tutti i modi voleva genuflettersi, ossequioso fino in fondo al monito del Beato Apostolo Paolo «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» [Fil 2, 10]. Giovanni Paolo II aveva compreso da subito, nello splendore della sua salute, molto prima della sua malattia, l’elemento salvifico del dolore che ci assimila alla croce di Cristo …

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… Quando io fui consacrato sacerdote, inginocchiato dinanzi al vescovo ricevetti il sacro calice e la patena con queste parole: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Non mi fu detto … adesso vai a fare festa con gli amici gioiosi attorno alla mensa tra schitarrate, danze e tamburelli. Nella sostanza mi fu detto: adesso sali sul Monte Calvario e mediante il tuo sacrificio conformati al sacrificio di Cristo. Questa, è l’essenza della nostra fede e, se vogliamo veramente seguirlo, dobbiamo essere consapevoli ― come sta scritto nel Vangelo del Beato Evangelista Luca ― non c’è altra strada che quella indicata da Cristo stesso: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» [Lc 9, 22-25].

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… ma come sarebbe a dire dolore … croce … il Cristianesimo è amore, è gioia! Certo, è l’amore di Cristo morto in croce per la nostra salvezza ed è la gioia della risurrezione del Verbo di Dio fatto uomo e asceso al cielo che siede oggi alla destra del Padre; il Cristianesimo è la gioia di quella risurrezione alla quale noi siamo assimilati, perché come recitiamo nella IIIª Preghiera Eucaristica quando facciamo memoria dei defunti: «Egli trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso». Questo, è il Cristianesimo, tutto il resto, per parafrasare il Libro del Qoelet che diceva «vanità di vanità», è solo emotività di emotività. E, tra la fede e l’emotività, la differenza che corre è profondamente sostanziale, perché di mezzo c’è quella croce che l’emotivo superficiale non vuole e che fugge per vivere una falsa fede da menù di ristorante, mentre l’uomo di vera fede è chiamato invece a conformare la sua vita alla croce di Cristo: «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» [Mt 10, 38].

Laudetur Jesus Christus!

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Zoverallo di Verbania, 28 giugno 2020

Casa delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

“Accoglienza” come spazio segreto da aprire a Dio perché diventi luogo di donazione

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

“ACCOGLIENZA” COME SPAZIO SEGRETO DA APRIRE A DIO PERCHÉ DIVENTI LUOGO DI DONAZIONE 

Gesù parla dell’accoglienza di un profeta e di un giusto. Chi li sa accogliere vuol dire che è lui il primo profeta e giusto. Lo dice perché Gesù è l’accogliente per eccellenza e vuole a sua volta essere accolto nelle nostre vite. Questo fa sì che noi riceviamo Gesù che è il dono per eccellenza. Dunque siamo in grado di donarci e di amare, come Lui ha fatto, portando le nostre croci, nei momenti più difficili e complessi della nostra vita.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Roma, 28 giugno 2019, Santa Maria Sopra Minerva, Gabriele Giordano Maria Scardocci, O.P. è consacrato sacerdote

qualche anno fa lessi la storia del Giardino Segreto della scrittrice Frances Hodgson Burnett. È la storia di Annie, una bambina che, in una tenuta inglese, scopre casualmente un giardino, di cui nessuno conosce l’esistenza, perché è stato reso segreto a causa di una vicenda tragica. Quel giardino, una volta aperto agli occhi di Annie diventa luogo di accoglienza, di crescita e di maturazione.

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Similmente, nelle letture di oggi [vedere Liturgia della Parola, QUI], il Signore ci parla innanzitutto dell’accoglienza di uno spazio segreto da aprire a Dio, perché diventi luogo fecondo di donazione. Nel Libro dei Re leggiamo:

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«Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere» [2Re 4, 9-10].

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In questa prima lettura, moglie e marito innominati aprono la loro casa ad Eliseo, dunque come se loro aprissero uno spazio fra lui e Dio. Eliseo prega e dopo profetizza; così viene un figlio per loro, inaspettato, e in un certo senso quasi disperato. Marito e moglie si schiudono a Dio poi sperimentano l’intervento di Dio. Dunque loro per primi sono aperti e sono in qualche modo fecondi.

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Questa è la bellezza di quando anche noi apriamo uno spazio per Dio e per chi ci manda. Questo accade anche oggi, per tutti noi, se sappiamo aprire il cuore e la nostra intimità al progetto di Dio, davvero ci riempirà di doni inattesi, di un centuplo inaspettato, di amicizie e gioie che mai ci saremmo aspettati. Dunque, dall’accoglienza del progetto di Dio su di noi, viene un essere fecondi. Scrive San Paolo:

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«Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» [Rm 6, 4].

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La fecondatività è espressa da Paolo proprio nella vita nuova che viviamo, a cominciare dal Battesimo. Infatti dal Battesimo in poi, il Signore ha preso dimora, ha riempito lo spazio della nostra anima, permettendoci di camminare in un cammino di vita nuova, fino alla gloria, dunque fino a quando saremo insieme a Lui in Paradiso.  Il Battesimo è vita nuova feconda, perché permette a tutti noi di essere liberati dal peccato originale e riempiti dal carattere battesimale, dalla grazia e dai doni dello Spirito Santo. Così diviene feconda anche la nostra vita spirituale, perché in forza del battesimo viviamo la liturgia e una preghiera personale con cui chiediamo intercessione per gli altri battezzati. Quindi dall’accoglienza viene la fecondatività, e dalla fecondatività viene il dono di sé. Nel vangelo leggiamo:

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«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto» [Mt 10, 40-41].

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Gesù parla dell’accoglienza di un profeta e di un giusto. Chi li sa accogliere vuol dire che è lui il primo profeta e giusto. Lo dice perché Gesù è l’accogliente per eccellenza e vuole a sua volta essere accolto nelle nostre vite. Questo fa sì che noi riceviamo Gesù che è il dono per eccellenza. Dunque siamo in grado di donarci e di amare, come Lui ha fatto, portando le nostre croci, nei momenti più difficili e complessi della nostra vita.

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La ricompensa del giusto è allora l’imitazione di Gesù in un amore più grande, fino alla morte, un’imitazione che dopo la morte lo porterà a risorgere con Cristo stesso.

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Scriveva Voltaire «L’originalità non è altro che imitazione giudiziosa».

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Signore donaci il coraggio di imitarti nelle scelte decisive, la forza di aprire uno spazio in fondo al cuore, la tenerezza di donarci come te nella Trinità per amare fino alla fine.

Così sia.

Roma, 28 giugno 2020

Solennità dei Santi Pietro e Paolo

Anno I del mio sacro ministero sacerdotale

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Padre Gabriele

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Cristo Pio Pellicano è il cuore della solennità del Corpus Domini

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

CRISTO PIO PELLICANO È IL CUORE DELLA SOLENNITÀ DEL CORPUS DOMINI   

L’inno Adoro te devote esprime nei suoi versi la tenerezza di Gesù, perché ci descrive il Signore come un pellicano che si strappa il cuore per cibare i suoi piccoli.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Pie pellicáne, Jesu Dómine, Me immúndum munda tuo sánguine, Cujus una stilla salvum fácere, Totum mundum quit ab ómni scélere (O pio pellicano Signore Gesù, purifica me, peccatore, col tuo sangue, che, con una sola goccia, può rendere salvo tutto il mondo da ogni peccato).

oggi celebriamo un’altra meravigliosa festa del Signore, il Corpus Domini. Mistero grande, donatoci dal Signore nell’Ultima Cena, ultimo atto di tenerezza per l’uomo.

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Il bellissimo testo di san Tommaso D’Aquino Adoro te devote esprime nei suoi versi la tenerezza di Gesù, perché ci descrive il Signore come un pellicano:

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«Oh pio Pellicano, Signore Gesù, / Purifica me, immondo, col Tuo sangue / Del quale una sola goccia può salvare / Il mondo intero da ogni peccato».

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Gesù è il pellicano che dona il suo sangue per noi suoi piccoli, per tenerci in vita. Sicché, le letture di oggi [vedere Liturgia della Parola, QUI] ci introducono a questo mistero di presenza, comunione e dimora con Gesù. Innanzitutto, in Deuteronomio, troviamo già delle tracce della presenza viva e forte del Signore:

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«Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

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L’invito di Mosè al popolo ebraico è di non dimenticare e, dunque, di ricordare che il Signore ha nutrito con la manna il suo popolo, mentre era in situazioni di grande pericolo. Era sempre con loro, mentre li conduceva fuori dalla schiavitù egizia. La manna è una prefigurazione del cibo eucaristico, con cui ancora oggi il Signore ci è vicino e ci dona nutrimento nelle difficoltà della vita. Questo invito è allora per noi: non dimentichiamoci di Gesù Eucaristico, quando tutto sembra buio, quando sembra non ci sia via di uscita.  Il Signore stesso aiuta, mediante l’Eucarestia, a riconoscere le nostre schiavitù morali ed esistenziali e a uscirne. Mentre San Paolo espone in modo forte e chiaro questo mistero di presenza e comunione:

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«Vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane».

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Questo è un insegnamento grandissimo. Ogni volta che facciamo la comunione, entriamo in comunione con Gesù; e questo, ci rende comunione fra noi. Diventiamo uno solo, senza perdere la nostra distinzione personale. Il grande insegnamento di questa festa è di provare a vivere ogni messa, ogni partecipazione alla comunione come fonte di unità, ecclesiale ma anche interpersonale: l’Eucarestia ci aiuti a superare le divisioni e le spaccature che possono nascere.  Infatti da questa comunione c’è l’esperienza di Dio che dimora in noi. È questo allora il centro dell’insegnamento di Gesù:

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«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».

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Nell’originale greco, quel “rimane” si può tradurre anche con dimorare, prendendo proprio una sfumatura di luogo. Adesso che faremo la comunione, Dio prenderà dimora in noi. Questo dimorare ha un significato importantissimo: infatti è accogliere un altro punto di vista, quello di Dio che entra nelle pieghe più intima dell’anima, del cuore e dunque della vita. Il rimanere di Gesù in noi permette allora di aprirci ad una visione contemplativa, profonda, con lo sguardo di Dio su tutte le persone che incontriamo, su tutti gli eventi che ci accadono.

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Scriveva il poeta William Blake: «Le rovine del tempo costruiscono dimore nell’eternità».

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Chiediamo al Signore di sentire il bellissimo tocco di Gesù nei nostri cuori tramite le specie eucaristiche, affinché al di là del tempo che scorre fra minuti e secondi e della storia che si dipana fra anni e secoli, possiamo continuare a camminare fino al raggiungimento della vita Eterna e a costruire la dimora eterna per gustare il banchetto finale del Paradiso.

Così sia

Roma, 14 giugno 2020

Solennità del Corpus Domini

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Il Mistero della Pentecoste: «La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

IL MISTERO DELLA PENTECOSTE: «LA BELLEZZA NON È CHE IL DISVELAMENTO DI UNA TENEBRA CADUTA E DELLA LUCE CHE NE È VENUTA FUORI»

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» [At 2,1].

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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AUDIO LETTURA DELL’ARTICOLO

I Padri de L’Isola di Patmos hanno inserita in tutti gli articoli la audio-lettura a uso dei Lettori colpiti da quelle disabilità che impediscono la lettura, fornendo al tempo stesso un servizio utile anche a coloro che trovandosi in viaggio e non potendo leggere possono usufruire agevolmente della audio-lettura

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Cari fratelli e sorelle,

vetrata istoriata del XVIII secolo: Lo Spirito Santo

chiudiamo il lungo periodo di Pasqua e il mese mariano con la festività di Pentecoste. È la discesa dello Spirito Santo, come sappiamo, sugli Apostoli e Discepoli, quindi su tutti noi come Chiesa. Di questo bellissimo legame fra lo Spirito e la Chiesa, madre di tutti i santi, scriveva Alessandro Manzoni nel suo inno La Pentecoste:

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«Madre de’ Santi, immagine della città superna/ del sangue incorruttibile conservatrice eterna/ Tu che, da tanti secoli/ Soffri, combatti e preghi/ che le tue tende spieghi/ dall’uno all’altro mar»

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Questi versi eterni del Manzoni ci introducono ad una meditazione sulle letture di oggi, della Pentecoste quale Mistero vivificante di preghiera, comunione e missione. A partire dalla prima lettura dove leggiamo:

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«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» [At 2,1].

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Questo essere chiusi dentro ricorda la nostra esperienza di quarantena vissuta proprio nel periodo marzo-aprile scorso. Se immaginiamo la scena, vediamo che gli apostoli stanno pregando ― durante la pentecoste ebraica ― chiusi dentro e lo Spirito irrompe in forma di lingue di fuoco. Entra nei cuori degli apostoli che iniziano a parlare tutte le lingue allora conosciute. Lo Spirito Santo/Amore entra nei loro cuori mediante la preghiera e questo gli permette di parlare il linguaggio universale, mondiale proprio dell’amore che non conosce distinzioni etniche e culturali. Ecco allora anche per noi l’importanza della preghiera come apertura ad uno sguardo diverso in grado di rileggere gli eventi quotidiani che ci accadono in un’ottica alta e contemplativa.

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Dalla preghiera di Pentecoste, viene allora la comunione con Dio e con il prossimo.  San Paolo scrive infatti:

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«Nessuno può dire «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore» [1 Cor 12, 3-4].

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Lo Spirito Santo viene a Pentecoste e ci dona la comunione, come unità nella distinzione. Tutti abbiamo infatti una chiamata alla santità, in cui lo Spirito aiuta a renderci santi. Questo essere uniti, non toglie la distinzione nella propria identità, alla propria vocazione e doni carismatici; anzi indica anche che il Signore ci ha creati unici e irripetibili, con i nostri talenti, virtuosismi e specialità e che se le poniamo al servizio del prossimo, divengono momento di crescita umana e spirituale. Al tempo stesso, nell’essere in comunione l’uno con l’altro riconosciamo che Gesù è Dio nella professione della fede nell’esercizio delle opere di misericordia, dove vediamo Gesù nel povero bisognoso. Da questo allora indica che la Pentecoste è preghiera e comunione in vista di una missione. Gesù dice:

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«”Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» [Gv 20,21].

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Quel soffiò nell’originale greco sarebbe “generò lo Spirito in loro”. Dunque come l’Eterno Padre manda il Figlio e oggi lo Spirito Santo, manda anche noi innestati in loro a proseguire questa missione di propagazione della Verità e del Perdono dei peccati. Da un lato, questo perdono dei peccati richiama il Sacramento della Penitenza, affidato ai vescovi e sacerdoti. Dall’altro, è importante notare che Dio manda tutto il popolo di Dio ad annunciare che il perdono dei peccati è la rigenerazione da una tenebra profonda, una uscita da uno stato di isolamento e lontananza da Dio.

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Scriveva la poetessa Alda Merini: «La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori».

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Chiediamo al Signore di essere inviati a Pentecoste a mostrare quanto grande è l’abbraccio del Dio Trinitario, di essere noi stessi quel dono di bellezza che propaghi la luce di Gesù Risorto.

Così Sia.

Roma, 31 maggio 2020

Solennità di Pentecoste

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Quella superficiale mediocrità e indolente tiepidezza che ci impedisce di giungere alla via, alla verità e alla vita

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUELLA SUPERFICIALE MEDIOCRITÀ E INDOLENTE TIEPIDEZZA CHE CI IMPEDISCE DI GIUNGERE ALLA VIA, VERITÀ E VITA

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Abbiamo tanto bisogno di vede uomini che si ergano sulla breccia come difensori di un popolo oramai incapace di trovare Dio, sperduto come un fanciullo rimasto orfano. L’emergenza sanitaria attuale ha portato alla luce le miserie umane più nascoste, anche quelle miserie del popolo cristiano e dei suoi ministri entrambi dimentichi dell’unica relazione vivificante con Cristo a favore di rapporti virtuali e di soluzioni alternative non prive di nobili propositi. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

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Vangelo di San Giovanni: 14, 6

Domenica scorsa Gesù si presenta a noi come la porta delle pecore e il pastore buono, come colui che è la guida sicura verso il raggiungimento della vera vita [vedere precedente omelia, QUI]. In questo tempo pasquale, segnato dalla fastidiosa pandemia di Covid-19, la vita non può che anelare alla verità, senza capitolare davanti al fatalismo menzognero del mondo, affinché acquisti sempre più sensatezza e valore anche nell’infermità [Liturgia della Parola di questa V domenica pasquale, QUI]. Tale alta aspettativa di esistenza terrena non può che realizzarsi nella collaborazione con la grazia, ribadendo la scelta radicale del Signore Risorto: in Lui pietra angolare ogni vita cresce in modo ordinato e ben compaginato e connesso per edificarsi come luogo santo abitato dallo Spirito di Dio [cf. Ef 2,21; 4,16].

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E dentro la Chiesa, sposa del Risorto, lo Spirito Santo non cessa mai di far risuonare con fermezza quell’interrogativo del Salmo 34 che costituisce uno dei capisaldi di ogni rinnovamento interiore e di ogni sicura azione vocazionale:

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«C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?» [cf. Sal 34, 13].

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Chiediamocelo veramente, c’è ancora oggi qualcuno che desidera vivere in pienezza oppure ci si vuole accomodare solo sulla superficiale mediocrità e sulla indolente tiepidezza? Le nostre comunità cristiane sono ancora capaci di rispondere all’invito di Dio rivolto al profeta:

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«Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato» [cf. Ez 22,30].

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Abbiamo tanto bisogno di vede uomini che si ergano sulla breccia come difensori di un popolo oramai incapace di trovare Dio, sperduto come un fanciullo rimasto orfano. L’emergenza sanitaria attuale ha portato alla luce le miserie umane più nascoste, anche quelle miserie del popolo cristiano e dei suoi ministri entrambi dimentichi dell’unica relazione vivificante con Cristo a favore di rapporti virtuali e di soluzioni alternative non prive di nobili propositi.

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Nella nostra ipocrisia, che si colora a volte di incredulità e a volte di bigottismo, abbiamo scordato che siamo stati creati esclusivamente per conoscere, amare e godere di Dio. La vita dell’uomo sulla terra, anche di quello più peccatore e distante, non serve a null’altro se non ad esprimere questa consapevolezza: Dio mi ama e io amo Lui. E la misura di questo amore è la Croce gloriosa del Risorto che mai come in questo tempo di tribolazione rifulge al mondo come spes unica.

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Dio è alla ricerca di innamorati, di uomini che desiderano vivere senza sconti, senza alibi, senza compromessi, senza interferenze con il mondo. Dio si rende – attraverso l’umanità del Figlio suo – mendicante d’amore, affinché l’uomo trovi la ricchezza della vita in Lui. In questa ricerca d’amore e di nuova vita è urgente rimuovere l’io personale e innestare l’Io di Cristo:

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«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» [cf. Gv 14,6].

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I tre predicati che troviamo in questo versetto evangelico vengono introdotti dalla solenne formula divina dell’Ego eimi, dell’Io Sono, formula che non lascia alcuna possibilità di appello e di fraintendimento ma sigilla l’essenzialità della sequela vocazionale del discepolo. Cristo è realmente il volto del Dio visibile e conoscibile che è Via, Verità e Vita. E chi sceglie Cristo sa di dover percorrere una via differente, fare propria una verità scomoda, assumere una vita che domanda perfezione oltre misura.

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La Via che orienta l’esistenza è la Parola di Cristo, è la nuova Torah che ha portato alla perfezione e alla pienezza l’antica Legge mosaica [cf. Mt 5,17], il suo Vangelo è ora regola e orientamento sine glossa.

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La Verità che libera non è più data da quella sottile e maliziosa sapienza umana, finalmente sussiste una sapienza incarnata, graziosa che nel Verbo di Dio divenuto figlio di Giuseppe e di Maria si rivela e si comunica, svelando l’uomo a sé stesso nel suo vero volto [cf. Gv 19,5].  La Vita ci ricorda il legame profondo con Dio perché è Lui il datore di ogni vita attraverso il suo Spirito, accettare la vita significa accettare indiscutibilmente la firma di Dio sul mondo creato. Nel Vangelo di Giovanni, Cristo è il depositario della vita del Padre, è lui che la dona a chi egli vuole [cf. Gv 5,21; 11,25-26].

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La fede nel Risorto Via, Verità e Vita ci permette di raggiungere Dio, questo è l’obiettivo di ogni professione di fede tanto è vero che l’evangelista Giovanni tende a sottolinearlo molto bene nel finale del suo Vangelo:

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«Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» [cf. Gv 20,30-31].

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La fede in Lui ci conduce sulla breccia, ci dispone all’Eccomi, ci rende possibile l’abbraccio col Padre in un tempo in cui gli abbracci ci sono negati. Non perdiamo tempo, desideriamo la vita, desideriamola sempre, desideriamola ora!

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Laconi, 10 maggio 2020

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Per stare quanto più possibile vicini ai fedeli in questo momento di grave crisi ed emergenza, la redazione de L’Isola di Patmos informa i Lettori che il nostro autore Padre IVANO LIGUORI, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, cura su Facebook la rubrica «LA PAROLA IN RETE», offrendo delle meditazioni tre volte a settimana. Potete accedere alla pagina curata dal nostro Padre cliccando sul logo sotto:

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Il Bel Pastore non è una iconografia devozionale, ma il modello possibile e realizzabile da perseguire che Cristo Divino Maestro ci offre

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL BEL PASTORE NON È UNA ICONOGRAFIA DEVOZIONALE, MA IL MODELLO POSSIBILE E REALIZZABILE DA PERSEGUIRE CHE CRISTO DIVINO MAESTRO CI OFFRE 

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Sia che siamo pastori o pecore è necessario passare attraverso Cristo Risorto perché è la sola regola per trovare la vita. Ripudiamo tutte le altre porte inutili, tutti gli altri pastori ingannevoli, non lasciamoci confondere per poi finire i nostri giorni delusi, ammalati e affamati. Chi non passa attraverso Gesù o è un ladro che vuole usare la fede per arricchirsi illecitamente oppure è un brigante che vuole usare la fede con violenza e aggressività. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa
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Foto di repertorio: il Sommo Pontefice Francesco

In questa IV domenica di Pasqua la nostra riflessione sul Vangelo di Giovanni si incentra sulla figura di Cristo risorto presentato come il buon Pastore, titolo che nell’originale greco è reso come il bel pastore cioè il modello esemplare per tutti coloro che sono chiamati ad essere pastori. Questa constatazione ci conduce oggi a portare nel cuore tutti i nostri pastori: dal Vescovo di Roma all’ultimo sacerdote ordinato. Tutti costoro sono pastori vicari nella misura in cui la loro vita ricalca quella dell’unico e autentico Pastore che è Cristo Risorto.

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Sarò sincero, non mi è mai piaciuto che il giudizio su un sacerdote venga confezionato a partire da quello che sa fare o da quello che può dare. Peggio ancora quando il sacerdote – o vescovo – viene individuato attraverso i propri titolo accademici, quali novelli blasoni da esporre nella pletora degli arrampicatori clericali verso la scalata carrieristica. L’unico titolo essenziale per un sacerdote è dato dal suo essere di Cristo, dentro quel mistero immeritato e gravoso di cui mai capiremo abbastanza il valore è racchiuso tutto il necessario per spalancare le porte del paradiso. Per questo – dicevo – soffro parecchio quando un sacerdote viene reputato meritevole o meno in base alle sue doti fisiche, intellettuali, accademiche, sociali, organizzative, ecclesiastiche. A me basta che sia sacerdote: convinto di esserlo, felice di esserlo, responsabile di esserlo.

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Lo sappiamo bene noi parroci quando ci sentiamo portare a metro di paragone dai fedeli: «Quel prete organizza molte gite e pellegrinaggi per i parrocchiani, ha messo numerose attività di aggregazione nella parrocchia, ha attrezzato l’oratorio in maniera magnifica, sa parlare ai giovani, ha dotato la Chiesa di tutti confort etc..».  Scusate, ma non posso che pensare come davanti a tutte queste meraviglie – sicuramente utili e giuste – molte comunità super accessoriate restano ancora vuote, i ragazzi abbandonano la fede dopo la cresima, la fame dell’Eucaristia e della Parola non viene colmata, la difficoltà a permanere nella fedeltà al Vangelo rappresenta la norma a cui abituarsi per non farsi etichettare come rigidi.

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Ecco allora perché il Vangelo di questa domenica è estremamente importante non solo per i fedeli laici ma soprattutto per noi ministri, costituiti pastori del gregge di Dio a noi affidato. Cristo nella sua incarnazione si carica della nostra natura umana e negli eventi della Pasqua la sopraeleva alla gloria di Dio. La nostra condizione finale, da un punto di vista teologico, è decisamente più superiore e sublime di quella che sperimentarono i nostri progenitori nel Paradiso Terrestre.

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Cari amici cristiani, questa è l’opera compiuta dal Risorto, da colui che è il Signore, e quest’opera di sopraelevazione dei fedeli alla gloria del Padre attraverso la loro quotidiana santificazione è compito eminente dei sacerdoti, questo è, e dovrebbe essere l’unico assillo che ci ha fatto lasciare tutto per seguire Cristo.

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Non mi posso accontentare di un gregge di fedeli soddisfatto se questo non è anche santo, la soddisfazione attiene all’immanenza, la santità abbraccia l’oggi eterno di Dio in un continuo movimento di conversione:

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«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (cf. Lc 9,23-24).

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Per questo motivo l’evangelista Giovanni ci dice oggi che Gesù è l’unica porta attraverso la quale le pecore possono passare per essere sante e piene di Dio. Parole che vogliono indicare la mediazione di Colui che ci permette l’accesso al Padre, dentro una vita totalmente ripiena di Dio e che parli di Lui in tutte le sfaccettature più minute.

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Non deve meravigliarci questa prospettiva di perfezione, perché in questo mese di maggio abbiamo davanti l’esempio realizzato di Maria Santissima, colei che è chiamata santa e piena di grazia, proprio perché – attraverso il Figlio e in vista di Lui – ha ottenuto da Dio quella compiutezza di vita che è mèta di ogni battezzato. Maria è la prima cristiana che ha goduto in pienezza dei frutti della risurrezione del Figlio.

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Pertanto, sia che siamo pastori o pecore è necessario passare attraverso Cristo Risorto perché è la sola regola per trovare la vita. Ripudiamo tutte le altre porte inutili, tutti gli altri pastori ingannevoli, non lasciamoci confondere per poi finire i nostri giorni delusi, ammalati e affamati. Chi non passa attraverso Gesù o è un ladro che vuole usare la fede per arricchirsi illecitamente oppure è un brigante che vuole usare la fede con violenza e aggressività.

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Preghiamo ogni giorno affinché i nostri pastori non si tramutino in ladri o briganti, questo è compito di tutta la Chiesa, comunità che intercede affinché coloro che sono chiamati a santificare siano i primi santi di cui dover rendere grazie a Dio.

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Gesù è la porta della nostra vita, una vita risorta che – se accettata liberamente e con gioia – è capace di salvare dagli abissi della morte e costituire testimoni autentici di vita. Questo è il solo messaggio che desidero oggi incontrare negli occhi dei sacerdoti, questo solo è sufficiente, questo solo basta.

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Laconi, 3 maggio 2020

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Dinanzi al mistero del Cristo Risorto non possiamo rinunciare a vivere e ridurci a sopravvivere

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DINANZI AL MISTERO DEL CRISTO RISORTO NON POSSIAMO RINUNCIARE A VIVERE E RIDURCI A SOPRAVVIVERE 

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La mia coscienza di uomo, di cattolico, di sacerdote e di cittadino italiano mi impone quindi di prendere la seguente decisione: questa è l’ultima volta che celebro la Santa Messa in diretta televisiva, perché non voglio diventare complice di un modo di fare assurdo e mortificante. Altri decideranno in modo diverso, ma io non posso, non debbo e non voglio fare altrimenti, perché io voglio vivere e non ridurmi a sopravvivere, voglio essere testimone responsabile di Cristo risorto, l’unico che ci libera dal terrore del male e della morte. 

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Giovanni Zanchi

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Fratelli,

la effige di Santa Maria del Conforto, venerata nella Diocesi di Arezzo

celebriamo questa Santa Messa a gloria di Dio e in onore di Santa Maria nella resurrezione del Signore (cf Raccolta delle Messe della beata Vergine Maria 15). Il giorno di sabato è particolarmente consacrato alla devozione mariana, perché nel giorno del Sabato Santo la Madonna rimase sola sulla faccia della terra a credere e a sperare nella resurrezione di Gesù dai morti; nel giorno del Sabato Santo tutta la fede della Chiesa si “racchiuse” in Maria Santissima, sempre unita nella fede obbediente al suo Divin Figlio. Per questo, appena resuscitato, Gesù apparve innanzitutto alla sua Santa Madre; a questo proposito, rileggo parte di quanto insegnò san Giovanni Paolo II nel corso dell’Udienza generale del 21 maggio 1997:

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«I Vangeli riferiscono un piccolo numero di apparizioni di Gesù risorto e non certo il resoconto completo di quanto accadde nei quaranta giorni dopo la Pasqua. La Vergine, presente nella prima comunità dei discepoli (cf At 1, 14), come potrebbe essere stata esclusa dal numero di coloro che hanno incontrato il suo divin Figlio risuscitato dai morti? È anzi legittimo pensare che verosimilmente la Madre sia stata la prima persona a cui Gesù risorto è apparso. L’assenza di Maria dal gruppo delle donne che all’alba si reca al sepolcro (cf Mc 16, 1; Mt 28, 1), non potrebbe forse costituire un indizio del fatto che Ella aveva già incontrato Gesù? Questa deduzione troverebbe conferma anche nel dato che le prime testimoni della resurrezione, per volere di Gesù, sono state le donne, le quali erano rimaste fedeli ai piedi della Croce e quindi più salde nella fede. Il carattere unico e speciale della presenza della Vergine sul Calvario e la sua perfetta unione con il Figlio nella sofferenza della Croce, sembrano postulare una sua particolarissima partecipazione al mistero della risurrezione. Presente sul Calvario durante il Venerdì Santo (cf Gv 19, 25) e nel Cenacolo a Pentecoste (cf At 1, 14), la Vergine Santissima è probabilmente stata testimone privilegiata anche della risurrezione di Cristo, completando in tal modo la sua partecipazione a tutti i momenti essenziali del Mistero pasquale».

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San Giovanni Paolo II dunque insegna che, tra i singolari privilegi soprannaturali che la Madonna ebbe da Dio, vi fu anche l’apparizione del Figlio appena risorto dai morti. Per noi ora l’incontro con Gesù risorto avviene innanzitutto nel sacramento dell’Eucaristia, celebrato nella Santa Messa e ricevuto nella Santa Comunione; sotto le apparenze del pane e del vino consacrati è infatti presente veramente, realmente e sostanzialmente Gesù risorto, in corpo, sangue, anima e divinità; quello stesso e medesimo Cristo risorto che i beati godono già in Paradiso, quello stesso e medesimo Cristo risorto che la Madonna e i primi discepoli contemplarono qui in terra nei 40 giorni della prima Pasqua, quello stesso e medesimo Cristo risorto ora si comunica a noi nel Santissimo Sacramento dell’altare; l’unica differenza fra i beati in cielo, la Madonna e i primi discepoli e noi è che essi lo contemplano e lo contemplarono in visione, noi per ora solo nella fede sotto il velo del Sacramento.

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Nella Santa Messa e nella Comunione sacramentale noi godiamo quindi della presenza di Gesù risorto che ci assimila a sé e ci comunica la sua vita gloriosa. Ma a causa della pandemia in corso, la stragrande maggioranza dei fedeli è da ormai troppo tempo privata della grazia della partecipazione alla Santa Messa e della ricezione della Santa Comunione. In principio i nostri vescovi hanno giustificato tale gravissima privazione come un doloroso sacrificio e un atto di responsabilità da parte della Chiesa, per favorire la comune lotta contro il diffondersi della malattia e, nel sorgere dell’emergenza, questo poteva anche essere del tutto condivisibile, in attesa di potersi organizzare in sicurezza. Ma ora, continuare a negare per un tempo indefinito la partecipazione alla Santa Messa e la ricezione dei Sacramenti, espone il nostro popolo a gravissimi rischi spirituali, più pericolosi di quelli fisici; ne elenco alcuni: innanzitutto il pericolo di credere che la fede possa essere ridotta ad una semplice opinione soggettiva da vivere solo nel privato, senza forma pubblica e sociale e che anzi una pratica religiosa senza riti e manifestazioni pubbliche e ridotta al compimento di preghiere solitarie e atti filantropici sarebbe più pura e matura; poi il pericolo che la Chiesa sia totalmente asservita allo Stato, senza più alcuna libertà di predicazione e di azione, né al proprio interno né a livello sociale, come avviene per esempio nella Cina comunista, origine di questa pandemia che ci affligge; quindi il pericolo che le nostre chiese siano falsamente considerate i luoghi più pericolosi per la salute pubblica e le nostre Liturgie fonte principale di diffusione del contagio virale  ― mentre le chiese sono i luoghi dove con  più facilità si possono osservare le norme della profilassi e la celebrazione dei Sacramenti sono gli atti meno pericolosi per la salute ―; infine il pericolo che la gente si convinca erroneamente della inutilità della fede cristiana e della esistenza stessa della Chiesa.

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Ormai è chiaro che molti politici e i loro sedicenti esperti, molti giornalisti, molta ― troppa ― gente comune vuole sfruttare la pandemia per annientare la presenza e l’opera della Chiesa in Italia, costringendo i cattolici a praticare la fede nemmeno nelle chiese, ma i preti nel chiuso delle sacrestie e i fedeli nel chiuso di casa propria, isolati gli uni dagli altri.

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Finora ci siamo adattati con grande sofferenza a tante rinunce spirituali anche in cose importantissime, ma ora la situazione è cambiata ― grazie a Dio e al sacrificio di tanti ― e non è più possibile continuare a vivere così, cioè: per paura della morte fisica ridursi a sopravvivere e rinunciare a vivere; morire di disoccupazione per non morire di contagio virale; morire come Chiesa per continuare a sopravvivere come singoli credenti appena tollerati dal mondo incredulo. Chi non crede in Cristo risorto dai morti finisce sempre e inevitabilmente a sopravvivere invece che a vivere: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15, 32), così pensano e vivono gli atei; ma noi cristiani siamo i testimoni di Cristo risorto dai morti e non ci è possibile rinunciare a vivere per ridurci a sopravvivere, né come uomini né come cristiani.

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Questo significa anche che le Messe solo teletrasmesse hanno fatto il loro tempo e non è più né necessario né opportuno continuare a celebrare in chiese deserte con tutto il nostro popolo ridotto ad una massa informe di telespettatori più o meno coinvolti; in tanti altri Paesi afflitti dalla pandemia hanno continuato a celebrare la Santa Messa col popolo, certamente con i dovuti accorgimenti; ora è possibile ricominciare a farlo anche in Italia, senza bisogno di permessi da parte di chicchessia ― tanto meno le autorità civili, che non hanno il potere di proibirci o di permetterci quello che dobbiamo fare nelle chiese ―; ora è possibile ricominciare a celebrare i Sacramenti col popolo in chiesa, senza mettere in pericolo la salute fisica di nessuno, certamente facendolo con quella responsabilità che noi cristiani abbiamo sempre abbondantemente dimostrato e insegnato agli altri in tempi di calamità. Pertanto la diretta televisiva della Santa Messa deve tornare quanto prima ad essere un fatto eccezionale e sporadico a servizio spirituale unicamente di coloro che per malattia o vecchiaia sono impediti a partecipare personalmente; tutti gli altri fedeli devono quanto prima poter tornare in chiesa a celebrare e ricevere i Sacramenti.

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Gesù dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno … Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». (Gv 6, 51. 54). Gesù dice «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19); Gesù non dice: «Statevene rintanati in casa ognuno per conto suo per paura di morire perché tanto fa lo stesso; ognun per sé e Dio per tutti».

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La mia coscienza di uomo, di cattolico, di sacerdote e di cittadino italiano mi impone quindi di prendere la seguente decisione: questa è l’ultima volta che celebro la Santa Messa in diretta televisiva, perché non voglio diventare complice di un modo di fare assurdo e mortificante. Altri decideranno in modo diverso, ma io non posso, non debbo e non voglio fare altrimenti, perché io voglio vivere e non ridurmi a sopravvivere, voglio essere testimone responsabile di Cristo risorto, l’unico che ci libera dal terrore del male e della morte.

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Santa Maria, allietata dal tuo Divin Figlio appena risorto dai morti all’alba della Pasqua, intercedi per noi e ottienici dal Signore glorioso la liberazione dalla pandemia e il coraggio di professare la nostra fede sempre e in ogni luogo e circostanza (sicura o pericolosa) e soprattutto ottienici la libertà dalla tirannia del potere mondano e dal ridurci a sopravvivere, prigionieri e paralizzati dalla paura della morte.

Sia lodato Gesù Cristo! 

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Chiesa Cattedrale di Arezzo, 2 maggio 2020

Missa de Sancta Maria in Sabbato

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Le video-meditazioni del Presbitero Mons. Giovanni Zanchi sono disponibili nella nostra pagina

VIDEO

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Lungo la strada risuona la supplica: «Resta con noi Signore, perché si fa sera»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LUNGO LA STRADA RISUONA LA SUPPLICA: «RESTA CON NOI SIGNORE PERCHÉ SI FA SERA» 

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Attualmente siamo tutti stanchi, ingannati nelle nostre aspettative, delusi dai nostri propositi, sfibrati e stufi da una fede che è sempre più immagine umana, distanziandosi anni luce da quella rivelazione autentica che troviamo nella Sacra Scrittura e che la predicazione apostolica ha portato dentro le nostre comunità di fede. Questi due mesi di esilio sanitario ci fanno desiderare – così come lo è stato per i discepoli di Emmaus – di riascoltare nuovamente delle Scritture vive, in cui poter ardere per la presenza di Gesù Risorto, all’interno di una comunità domenicale che si riunisce senza più paure e divieti. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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In questa III Domenica di Pasqua, dal Vangelo risuona: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» [Lc 24, 29], credo di interpretare correttamente la voce di tanti fedeli in questo momento storico particolare, a partire da questa bella richiesta di misericordia del Vangelo di Luca.

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Abbiamo bisogno, che Gesù resti con noi oggi; abbiamo un disperato bisogno di restare noi con Lui, senza più condizioni, il tempo ormai si è fatto breve e non possiamo più permetterci di sprecarlo.

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Attualmente siamo tutti stanchi, ingannati nelle nostre aspettative, delusi dai nostri propositi, sfibrati e stufi da una fede che è sempre più immagine umana, distanziandosi anni luce da quella rivelazione autentica che troviamo nella Sacra Scrittura e che la predicazione apostolica ha portato dentro le nostre comunità di fede. Questi due mesi di esilio sanitario ci fanno desiderare – così come lo è stato per i discepoli di Emmaus – di riascoltare nuovamente delle Scritture vive, in cui poter ardere per la presenza di Gesù Risorto, all’interno di una comunità domenicale che si riunisce senza più paure e divieti.

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Prima di tutto però, è necessario sanare una ferita che è quella che risiede nel nostro cuore indurito, nella sclerocardia che ci impedisce di credere a tutto ciò che hanno detto i profeti, immagine ampia per esprimere tutti coloro che nella storia dell’umanità sono stati incaricati dalla Chiesa dell’annuncio della Parola e dell’autentica interpretazione della stessa.

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Quanta Parola sprecata, quanti profeti inascoltati: da quelli del Vecchio Testamento, passando per Giovanni Battista fino ad arrivare a tanti bravi vescovi e all’ultimo parroco. Non possiamo dire che Gesù è risorto senza aderire all’annuncio delle Scritture e senza prestare ascolto alle parole di coloro che sono stati costituiti da Dio profeti di questo annuncio.

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Con tristezza dobbiamo riconoscere che la nostra ignoranza di Gesù Cristo, così come diceva San Girolamo, deriva dalla non conoscenza della Parola delle Scritture annunciata e proclamata. Che tristezza che la parola di tanti maestri della fede oggi sia ridicolizzata, banalizzata e ridimensionata davanti al pensiero unico e al politicamente corretto. Proprio in questa quarantena abbiamo più bisogno che mai dell’autentica Parola delle Scritture. Parola che sta scarseggiando anche in noi preti, per lasciare il posto a una presenza palliativa, umana che – all’annuncio sacramentale – preferisce le coccole della vicinanza. Perché vedete, cari fratelli, possiamo desiderare nell’intimo di compiere tante belle esperienze di Gesù ma se non ascoltiamo e aderiamo alla Parola, c’è il serio rischio di restare increduli e atei, pur bazzicando sacrestie, sagrati o partecipando a feste patronali e pellegrinaggi.

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La bellezza del brano di Luca di questa domenica consiste proprio in questo disvelamento che rivela il nostro paradosso di credenti increduli. Questi due uomini li possiamo considerare di famiglia, sono discepoli, sono vicini a Gesù eppure hanno un cuore distante da Lui, incredulo, tanto che gli eventi della Passione a cui hanno assistito non sono per nulla eloquenti per la loro vita ma anzi diventano un’occasione propizia di scandalo e di fuga timorosa da Gerusalemme.

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Infatti, non basta vedere per credere, così come Tommaso ci ha ricordato domenica scorsa, occorre qualcosa di più. E questo di più consiste nell’ascoltare la Parola della Scrittura e applicarla a Gesù, partecipando a quello stupore che ciò che è stato scritto si è realmente realizzato. In modo semplice dobbiamo constatare come Dio rimane fedele a ciò che ha detto e operato. Ecco allora che Gesù si affianca in mezzo a questi due discepoli e riannuncia loro la Parola, li educa a una nuova fedeltà. Lui Verbo del Padre si rende Parola per questi increduli muti, accendendo nel loro cuore il desiderio del Dio vicino che proprio nel Risorto trova la sua piena realizzazione.

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La Parola fa ardere il loro cuore tanto che il segno sacramentale della frazione del pane, in quella casa dove avevano trovato rifugio, diventa momento opportuno affinché i loro occhi si aprano alla verità pasquale. Interessante notare come nell’attimo in cui riconoscono il Risorto esso scompare, così come accadrà altre volte nei racconti pasquali.

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Non è possibile per l’uomo dominare il Risorto, non è possibile bloccarlo, non è possibile addomesticarlo per i propri scopi. Quando il Signore ci apre gli occhi con la sua Parola lo fa per renderci annunciatori e profeti liberi e fedeli.

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Nella Pasqua i nostri occhi sono stati aperti per vedere il Signore come il vivente, il vincitore sulla morte e sul peccato, non per fare l’esperienza avvilente di Adamo ed Eva i cui occhi aperti dal frutto dell’Albero hanno scorto solo la nudità del peccato.

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I discepoli di Emmaus, con gli occhi bene aperti sulla salvezza pasquale, sono stati eletti come annunciatori della Parola che essi stessi proclameranno agli Undici radunati a Gerusalemme.

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Cari fratelli, per fare Pasqua dobbiamo aprire bene gli occhi e, con gli occhi aperti, dire anche ciò che il mondo non vuole sentire e che rifiuta, siamo chiamati a liberare i nostri fratelli attraverso la fedeltà della Parola di verità annunciata e proclamata, resa sacramento di salvezza nel segno del pane eucaristico domenicale che presto ritorneremo a spezzare insieme ai nostri pastori.

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Laconi, 26 aprile 2020

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Per stare quanto più possibile vicini ai fedeli in questo momento di grave crisi ed emergenza, la redazione de L’Isola di Patmos informa i Lettori che il nostro autore Padre IVANO LIGUORI, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, cura su Facebook la rubrica «LA PAROLA IN RETE», offrendo delle meditazioni tre volte a settimana. Potete accedere alla pagina curata dal nostro Padre cliccando sul logo sotto:

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Siamo tutti nel pennello di Caravaggio che ha dipinto il dito di Tommaso nel costato del Cristo Risorto

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

SIAMO TUTTI NEL PENNELLO DI CARAVAGGIO CHE HA DIPINTO IL DITO DI TOMMASO NEL COSTATO DEL CRISTO RISORTO 

Forse si può leggere nell’atteggiamento di Tommaso un po’ di orgoglio e diffidenza nei confronti della comunità apostolica. Gesù allora irrompe nelle porte chiuse del suo cuore e della sua mente. Porta una prova inconfutabile: quelle ferite sono vere e dense d’amore.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Caravaggio, particolare: San Tommaso incredulo

oggi celebriamo la domenica della misericordia, dell’amore di Dio per l’uomo. Si può parlare di amore e misericordia in questi tempi del coronavirus? A tal mi risponde così una cara amica infermiera nella zona rossa dalla Lombardia:

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«Misericordia è uscire alla propria zona di comfort […] e dire di sì a Dio e al prossimo. Con gesti semplici come mettere la crema a una persona, stringere una mano o comunicare con uno sguardo tutta la tenerezza che sentivo dentro di me, provenire non soltanto da Dio ma anche da tutti quanti quei fratelli che mi sono vicini con la preghiera, col pensiero, coi messaggi e ogni forma di bene che ho cercato di rimodellare perché mi potesse essere utile come amore da dare».

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Oggi possiamo meditare insieme allora sulla misericordia e sull’esperienza di Tommaso apostolo, nella tenerezza, nella verità e nella gioia. Leggiamo a tal proposito negli Atti degli Apostoli:

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«Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» [At 2, 42-47].

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La parola che esprime quell’insieme è ομοθυμαδόν (omotumadòn), termine che indica una comunione profonda nelle prime comunità cristiane. Tutto infatti, ci scrive l’Evangelista Luca, è ammantato di una comunione nella fede, nella carità e nei beni materiali. Dunque la comunione testimonia il vero volto di Dio ha come effetto la letizia e semplicità di cuore La comunione vera nella carità e nella fede mostra l’amore di Dio e le persone si convertono e decidono di diventare cristiani.

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Questo è lo sforzo che anche oggi il cristiano è chiamato a fare: essere una persona credente che vive in relazione comunionale, perché non esiste una misericordia in solitudine autarchica. L’egoismo è contrario alla misericordia ed è radice di divisione; la misericordia è apertura a Dio e all’altro, in un atto di donazione di sé fino all’eccesso.

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In questo senso, l’esempio di Tommaso apostolo ci mostra il modo in cui ci si apre a Dio e alla comunità. Il suo esempio ci è forse familiare.

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Il Vangelo di oggi è diviso in due scene: la prima descrive gli apostoli chiusi dentro per paura dei Giudei, l’arrivo di Gesù [Gv 19, 23], in cui c’è l’invio degli apostoli, il fondamento della confessione dei peccati per mezzo dello Spirito. Nella seconda scena [Gv 24, 31], gli Apostoli sono di nuovo chiusi dentro, e stavolta c’è anche Tommaso, il quale non aveva creduto alla comunità:

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«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Tommaso è la persona in ricerca di Dio: vuole credere solo dopo che ha visto e saputo (come infatti troviamo l’originale greco ίδιο (idiò) derivante da Οἶδα (oida) che indica “ho visto” quindi “so”, espressione che troviamo nell’opera Antigone di Sofocle.

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Forse, si può leggere nell’atteggiamento di Tommaso un po’ di orgoglio e diffidenza nei confronti della comunità apostolica. Gesù allora irrompe nelle porte chiuse del suo cuore e della sua mente. Porta una prova inconfutabile: quelle ferite sono vere e dense d’amore. Con Santa Caterina possiamo provare a leggere i pensieri di Tommaso «e lì, nella ferita del costato, scoprirai il segreto del suo cuore: egli ti ha amato e ti ama in modo inestimabile». Finalmente l’apostolo può prorompere «Signore mio Dio!». Verità e Misericordia si incontrano. Finalmente anche l’apostolo può lanciarsi in una missione di donazione di sé, mediante la predicazione del mistero di Dio.

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In Gesù Cristo tutti noi come Tommaso, scopriamo la verità di una tenerezza di chi non smette mai di amarci di fronte alle nostre fragilità. Questo ci dona la gioia della vita nuova, della domenica senza tramonto, che tutti iniziamo a vivere ora e vivremo in Paradiso con Lui.

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Scriveva Rabindranath Tagore: «Sognai, e vidi che la vita è gioia; mi destai, e vidi che la vita è servizio. Servii, e vidi che nel servire c’è gioia».

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Chiediamo a Dio di aprire il cuore alla misericordia perché il nostro servizio alla verità conduca tutti alla gioia dell’incontro.

Così Sia

Roma, 19 aprile 2020

 

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Novità dalla Provincia Domenicana Romana: visitate il sito ufficiale dei Padri Domenicani, QUI

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