Il rinnegare se stessi e prendere la croce è una esaltazione del dolore? No,

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL RINNEGARE SE STESSI E PRENDERE LA CROCE È UNA ESALTAZIONE DEL DOLORE? NO, È VIA VERSO LA VIA, LA VERITÀ E LA VITA

«Attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio» (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa)

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È iniziato il campionato di calcio che, come gli appassionati sanno, è preceduto nel periodo estivo dalla preparazione che le squadre fanno in forma ritirata per provare schemi e tattiche senza svelarsi troppo agli avversari poiché, come spesso accade, ad ogni grande manifestazione si antepone un tempo di attesa e di silenzio. In un certo qual modo è anche ciò che capitò a Gesù quando iniziò una nuova tappa della sua vita e missione. Chiese ai suoi di non rivelare chi egli fosse, anche se Pietro lo aveva appena confessato. Riporto allora il brano del Vangelo di questa ventiduesima domenica del tempo per annum, con l’aggiunta iniziale del verso 20 del capitolo 16 di Matteo che non è presente nel brano liturgico:

Masaccio, Gesù che paga il tributo, 1425 circa, Chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze

«(Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.) Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”»  (Mt 16, 20 – 27).

Gesù aveva appena chiesto, a chi evidentemente a quel punto doveva sapere molto su di lui, chi egli fosse per loro (Mt 16, 15). Di fronte alla bella confessione di Pietro sentì di poter allora spiegare (letteralmente: mostrare) ai suoi qualcosa di nuovo riguardo la sua persona e il suo destino. Che si tratti di un nuovo inizio, forse anche un cambio di prospettiva e di maturata consapevolezza intervenuta in Gesù, lo testimonia il parallelismo con Mt 4, 17 che narra l’apertura del suo ministero dopo l’arresto di Giovanni: «Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire». Nel versetto iniziale del testo odierno l’evangelista adopera il verbo ‘mostrare’ (ἐπιδείκνυμι epideíknymi) che rimanda e fa da contraltare alla richiesta dei farisei di far vedere un segno della sua autorità. Il segno mostrato loro da Gesù sarà la vicenda del profeta Giona che oggi ai discepoli è decodificato:

«Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12, 39-40).

Ritorna l’identificazione di Gesù con la figura del ‘Figlio dell’uomo’. Inizialmente parlavamo di nascondimento e Gesù amò celare, finché poté, la sua identità più profonda dietro questa figura celeste descritta nella letteratura biblica (Libro di Daniele, capitolo 71 e in quella apocrifa giudaica (Enoc etiopico)2 perché questo personaggio che vive nascosto, che è vicino a Dio come un’ipostasi e che ha il compito di giudicare, rappresentava per lui l’immagine più confacente al Messia, almeno come ci riporta principalmente il Vangelo più antico, quello di Marco. Nonostante le diverse stratificazioni convenute nei ricordi evangelici, pare proprio che Gesù rifuggisse letteralmente (cfr. Gv 6,15) dall’idea del Messia  discendente  davidico e cioè legato al potere o alla sua restaurazione. Poteva accettare che l’espressione ‘Figlio di David’ gli fosse rivolta da un cieco (Mc 10,47), un povero dunque che non poteva che saper le cose se non riferite da altri o da una donna pagana come la cananea; ma Gesù, identificando preferibilmente se stesso col Figlio dell’Uomo, comunicava ai discepoli che egli era quel ‘messia segreto’ e che da questo momento desiderava condurli verso la comprensione piena dei pensieri e dei voleri di Dio circa questo suo inviato. Un’impresa ardua, allora e oggi, come testimoniato dall’episodio di Pietro. Le parole iniziali del brano odierno – lo abbiamo già segnalato – legate a ciò che precede (‘da allora’ – Ἀπὸ τότε), e corrispondenti ad un nuovo inizio (‘cominciò’ – ἤρξατο) rappresentano non solo un cambio di scena nel testo ma anche per i discepoli una sorta di doccia fredda perché nel momento in cui Gesù annuncerà il suo destino di sofferenza Pietro lo respingerà come un’assurdità. Il Figlio dell’uomo che Pietro infatti conosce è figura potente e gloriosa la quale non può che essere vincitrice. Il brano, nonostante lo sconcerto dell’apostolo, mostra invece quanto Gesù fosse consapevole di essere qualcosa di più del Figlio dell’Uomo di derivazione danielica o come fu rappresentato nella letteratura apocrifa, la qual cosa avrà necessità di una ulteriore rivelazione, sconcertante per la sua grandezza, che, per questa stessa ragione, sarebbe difficile da credere e accettare se fosse venuta da lui. Sarà quindi la voce stessa di Dio sul Tabor, alla Trasfigurazione, a fare tale rivelazione:

«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5).

I tre discepoli che udranno questa rivelazione sapranno che ormai Gesù, del quale avevano qualche cognizione, è Figlio di Dio. È quel ‘nascosto’ nel mistero di Dio, destinato a rivelarsi.

Per poter comprendere la densità del testo proclamato in questa domenica partirei dall’affermazione sorprendente che Gesù rivolse al suo discepolo migliore, Pietro:

«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

A mio avviso ci aiuta ad allontanare un paio di tentazioni perniciose. La prima è quella di accontentarci di alleggerire la nostra coscienza, ribaltando su altri quelle che sono debolezze insite nella umana natura, dunque anche nostre, dimenticando di guardare più in profondità. Magari anche solo gettare uno sguardo al dramma in scena se proprio non ci riesce quello mosso da una fede capace di penetrare il mistero più grande che la scrittura ogni volta ci propone. Così faremo con Giuda nel tempo della passione ed ora con Pietro che strattona Gesù (‘Lo trasse con sé’ – καὶ προσλαβόμενος αὐτὸν)3. È vero che Pietro fece quel gesto e disse quelle parole («Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»), ma la risposta che diede Gesù, la risposta di uno che ha piena consapevolezza di chi fosse e profonda conoscenza di dove venisse e di chi lo aveva mandato, non sembra neanche rivolta a Pietro, piuttosto a colui che fin dall’inizio lo aveva ostacolato tentandolo (cfr. Mt 4). Il Signore avvertì, nelle parole dell’apostolo, l’ultimo tentativo dell’avversario di bloccare la sua missione. Se Egli non smise mai di pazientare e usare comprensione verso i suoi discepoli, anche quando li rimproverava, sapeva bene d’altro canto contro chi aveva a che fare e davvero poneva inciampo alla sua missione. Anche se a prima vista Gesù non lesina parole dure a Pietro: il beneficiario della rivelazione del Padre ora è apostrofato come ‘satana’, il destinatario della beatitudine è ora motivo di scandalo, la roccia è ora pietra d’inciampo. In Pietro queste dimensioni contraddittorie convivono, come convivono in ogni credente possibilità di fede e di non-fede, di comprensione e di ignoranza, di fedeltà e di abbandono, di umiltà e di supponenza. In particolare di fede e di sufficienza, di adesione al Signore e di presunzione di sé.

L’altra tentazione, forse anche peggiore, è quella di togliere valore all’incarnazione del Figlio di Dio, come se sulle parole di Gesù circa il suo destino pendesse una divina necessità o a un fato ineluttabile, come se la volontà divina fosse una sovrascrittura della sua esperienza umana con l’intento di far soffrire e morire Gesù perché espiasse i peccati come una vittima o un sacrificio. Una conseguenza pur vera che andrebbe però letta bene, mentre invece spopola di frequente fra i credenti che prediligono una religiosità devozionale e sentimentale, con poca voglia di confrontarsi col mondo.

Nelle parole di Gesù cogliamo, invece, tutta la freschezza di un’esperienza umana autentica e la scoperta di una vocazione che corrisponde a quel ‘pensare secondo Dio’ che Pietro ancora non aveva. Nell’annuncio nuovo che Gesù da e che risuonerà altre due volte (Mt 17, 22-23; 20, 17-19) mentre camminerà verso Gerusalemme, la città che «uccide i profeti» (Mt 23, 37), Egli comunica ai suoi la passione per il mondo che è la stessa di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»4. Gesù sa bene di aver sollecitato ostilità con le sue parole e con le azioni e per questo forse si era anche attardato nella parte nord del paese, ma era giunto il momento di non rimandare l’incontro con quei poteri che possono togliere la vita con violenza: una circostanza che chi pregava con i salmi e leggeva i profeti conosceva bene. Questa è la vocazione di Gesù che riconosce come una necessità – «doveva (ὅτι δεῖ) andare a Gerusalemme e soffrire molto» (Mt 16,21) – e che accoglie con la libertà di chi pensa secondo Dio.

Dobbiamo essere grati al gesto di Pietro che ha permesso di ricordare un detto sulla sequela del discepolo che risente della tensione escatologica che animava la predicazione di Gesù, per cui nulla è rimandabile poiché il tempo si è fatto breve e questo è il momento della decisione.

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?»5

Pietro è stato appena rimandato indietro da Gesù, nella posizione del discepolo che segue il maestro. E se prima era stata annunciata la passione del Messia, ora viene comunicata da Gesù quella del discepolo. Queste espressioni dal tenore semitico (perdere la vita – trovare la vita; guadagnare – trovare) prese da un contesto legale, per cui in un tribunale si può addirittura scegliere di non difendere se stessi (rinnegare se stessi – prendere il patibulum) come pure farà Gesù, sono il modo in cui i Vangeli ci offrono le rappresentazioni della vicenda umana di Gesù che convergono nel riconoscere nella fede escatologica il loro tratto distintivo. Una fede concretamente vissuta come conflitto ultimo e perciò mortale con il Satana, a cui è stata rimessa la potenza e la gloria di tutti i regni dell’ecumene, secondo il passo illuminante della seconda tentazione nella versione di Luca6. Una fede che si traduce in gesti e parole dai quali traspare con tutta la chiarezza desiderabile il rapporto vissuto da Gesù nei riguardi del mondo, vale a dire in concreto con la società di appartenenza: famiglia, classi sociali, poteri costituiti, rapporti di forza tra individui, ceti e generi, espressioni cultuali e culturali. Tutto questo universo di relazioni è come visto dal di fuori, e non certo perché egli fosse mosso da uno specifico intento di denuncia del giudaismo in vista della costruzione di una superiore forma di vita religiosa, ma perché in concreto il mondo gli si offriva nella fattispecie del giudaismo del suo tempo. Ciò che si oppone alla sua esigenza sono gli uomini e le istituzioni ebraiche nella misura in cui consapevolmente o meno si riconoscevano nel mondo.

Non sorprende pertanto che questo stesso atteggiamento sia richiesto da Gesù ai seguaci, con tutte le rotture che esso comporta e perciò anche i rischi; ciò che viene implicitamente chiesto è un atto di coraggio morale e, all’occorrenza, anche fisico: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» (Mt 10, 39). Coraggio di una qualità speciale che si coniuga anche con la compassione:

«Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia» (Mt 12, 20).

perché coraggio e compassione sono in Gesù aspetti inseparabili della stessa figura. In questo senso l’invito rivolto al seguace a ‘rinnegare sé stesso’ non aveva nulla di arbitrario né di contrario al rispetto verso se stessi. Va compreso come un modo, duro quanto si vuole, per rendere consapevole il discepolo della gravità della rottura che Gesù compiva: non si trattava di seguire un riformatore religioso né un maestro di sapienza, ma di riconoscere nella condizione mondana che ‘guadagnare la vita’ autentica corrispondeva all’accettare le conseguenze radicali della sua predicazione.

Nelle parole di Gesù è alla fine prefigurata anche la risurrezione, dopo la sofferenza e la morte. Il destino del Messia sconfitto7, che sarà chiaro e riconosciuto nella fede solamente dopo che questi avrà ripreso la vita, diventerà allora parte del cuore dell’annuncio cristiano, come testimoniano queste parole dell’apostolo Paolo:

«Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 22-24).

E finalmente il mistero di Gesù crocifisso e risorto sarà riconosciuto dai discepoli come il vero segno di Dio, perché il ‘pensare secondo Dio’ comportava la Pasqua di Gesù. Egli sarà visto allora come la parola concentrata (verbum abbreviatum), poiché Dio ha pronunciato una sola parola, quando ha parlato nel suo Figlio («Semel locutus est Deus, quando locutus in Filio est»”8) e quella parola era l’amore che lui ha rivelato:

«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv13,1).

Dall’Eremo, 3 Settembre 2023

 

NOTE

[1] «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dan 7, 13-14)

[2] Chialà S., Libro delle Parabole di Enoc, Paideia, 1997

[3] Mt 16, 22

[4] Gv 3, 16

[5] Mt 16, 24, 26

[6] «Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (Lc 4, 5-7).

[7] Dianich S., Il Messia sconfitto, l’enigma della morte di Gesù, Cittadella, 1997

[8] Sant’Ambrogio, cfr. Henri De Lubac, Esegesi medievale, vol. III, Milano, Jaca Book, 1996, pp. 261-262

 

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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