È vero che tutti chiedono, ma noi Padri de L’Isola di Patmos siamo fuori dubbio speciali. Sapete che tra poco è il nostro compleanno?

È VERO CHE TUTTI CHIEDONO, MA NOI PADRI DE L’ISOLA DI PATMOS SIAMO FUORI DUBBIO SPECIALI. SAPETE CHE TRA POCO È IL NOSTRO COMPLEANNO?

Il 19 ottobre 2014 la nostra webmaster caricava sulla piattaforma il sito della rivista L’Isola di Patmos che il 20 ottobre era aperto in rete, da allora a seguire non abbiamo mai conosciuto flessione ma solo continua crescita di visite.

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Cari Lettori,

quando il 20 ottobre 2014 esordì in rete L’Isola di Patmos, fondata dal compianto accademico della Scuola Romana Antonio Livi, dall’accademico pontificio Giovanni Cavalcoli e dal teologo Ariel S. Levi di Gualdo, alcuni dissero che non avremmo avuto più di un anno di vita. E infatti così sarebbe stato, se a causa dell’alto numero di visite non avessimo provveduto con la nostra webmaster e il nostro social manager a spostare nemmeno due anni dopo il sito di questa rivista su un server dedicato, che sommato a tutte le altre spese comporta per la nostra Redazione una spesa di 5.200 euro all’anno.

L’Isola di Patmos è portata avanti da una Redazione composta da sei presbiteri specializzati nelle varie scienze teologiche, liturgiche e giuridiche, più quattro collaboratori. Ha pubblicato sino a oggi 948 articoli e totalizzato oltre 500.000.000 di visite. Nel 2018 sono nate le Edizioni L’Isola di Patmos che sino a oggi hanno pubblicato e distribuito 25 libri.

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Il popolo che noi stessi abbiamo rinunciato da tempo a educare con la nostra autorità e autorevolezza dette una lezione dicendo «Basta!» all’Arcivescovo di Brindisi

E IL POPOLO CHE NOI STESSI ABBIAMO RINUNCIATO DA TEMPO A EDUCARE CON LA NOSTRA AUTORITÀ E AUTOREVOLEZZA DETTE UNA LEZIONE DICENDO «BASTA!» ALL’ARCIVESCOVO DI BRINDISI

Sulla durata eccessiva delle omelie si è detto molto e, come sopra ricordato, è intervenuto anche il Papa. A proposito, a sproposito? È una cosa che deve dire il Papa? Personalmente penso di no e otto minuti mi sembrano un letto di Procuste, ma lo sappiamo, Lui è fatto così.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Non tenendo conto o forse non ricordando il suggerimento dato dal Sommo Pontefice circa le omelie che non devono durare più di otto minuti[1] (QUI), l’Arcivescovo di Brindisi-Ostuni, S.E. Mons. Giovanni Intini, nei giorni scorsi ha pensato bene di aggiungere agli otto ben altri dieci minuti, in occasione dei festeggiamenti dei Santi patroni di Brindisi, San Lorenzo e San Teodoro d’Amasea. Erano previsti gli interventi del sindaco, durato guarda caso proprio otto minuti, e dell’arcivescovo. Ma le lamentele per la lunghezza del discorso, circa diciotto minuti, interrompono più volte le parole del presule brindisino. I borbotti della folla, provenienti dalla scalinata Virgilio e dal lungomare di Brindisi, sono diventati dei «Basta!» (QUI). E questi sono stati accompagnati da applausi ironici e qualche altro suono. L’Arcivescovo ha terminato l’intervento senza dare alcun segno di disturbo e, come da programma, è iniziato l’attesissimo spettacolo pirotecnico seguito dalla processione.

Il giorno dopo, in Chiesa durante il solenne Pontificale, il Vescovo, che evidentemente male aveva digerito la cosa ha pensato bene di non tenere l’Omelia, anzi di tenerne una brevissima di questo tenore:

«Per non stancare anche voi stasera come ho stancato gli ascoltatori di ieri sera e non vorrei che qualcun altro gridasse basta, ho pensato stasera di tacere. Accogliamo nel silenzio la parola di Dio che è stata seminata nei nostri cuori» (QUI).

Per la sua silenziosa protesta ha incassato, manco a dirlo, la solidarietà di una frazione politica, però, insomma, Eccellenza, possibile che una notte intera non sia bastata a superare una cosa così modesta? Non era forse l’occasione per riderci sopra e casomai lanciare un breve, incisivo e costruttivo messaggio ai contestatori, visto che la cosa era ormai finita sui giornali e quindi risaputa? È andata così. In fondo all’Arcivescovo di Otranto Stefano Pendinelli andò molto peggio: fu sgozzato dai turchi che attese seduto sulla sua cattedra episcopale assieme ai devoti fedeli radunati attorno a lui nella chiesa cattedrale nel lontano 11 agosto del 1480, trasformata dagli infedeli in un orribile mattatoio (cfr. I Martiri di Otranto).

L’Arcivescovo Giovanni Intini non è stato il primo contestato della storia e neanche il più famoso. Tutti ricordiamo che addirittura l’Apostolo Paolo pensando bene di approfittare delle circostanze e trovandosi in un luogo autorevole come l’Areopago di Atene si lanciò in un discorso con un altisonante incipit: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi». Ma tutti conosciamo come andò a finire appena Paolo introdusse il tema centrale del Cristianesimo, cioè la Risurrezione di Cristo: «Su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17). Un flop diremmo oggi, povero Apostolo. Ma non è che il giorno dopo San Paolo si perse d’animo. Anzi partì e si recò a Corinto senza mai smettere di porgere la parola del suo Vangelo.

Tutti coloro che hanno a che fare con l’annuncio cristiano sanno di dover mettere in conto la contestazione o il fastidio di una parte. In questi tempi nei quali corre l’obbligo di dire la propria sui social, anche e forse soprattutto se non si conosce la materia, è quasi un refrain che appena vengono riportate le parole di qualche ecclesiastico ci sia chi commenta: «ah ma la pedofilia?»; «Le ricchezze del Vaticano?» … O il più classico: «Accoglieteli voi che avete le strutture»; se casomai si parla di migranti. Se vi capita la notizia sui social che ha riguardato l’Arcivescovo di Brindisi vedete che da questa regola non si scantona, alcuni lo difendono, altri lo criticano, molti ridono, fanno battute e non manca qualche bestemmia.

Ma non vuol dire che bisogna prendersela, forse un tantino sul momento, e men che meno tacere. A volte l’arma dell’ironia, a saperla usare, diventa più efficace del silenzio e apre possibilità di dialogo.

Sulla durata eccessiva delle omelie si è detto molto e, come sopra ricordato, è intervenuto anche il Papa. A proposito, a sproposito? È una cosa che deve dire il Papa? Personalmente penso di no e otto minuti mi sembrano un letto di Procuste, ma lo sappiamo, Lui è fatto così.

Ricordo un fatto simpatico a cui ho assistito più di una volta. In una parrocchia di campagna dove sono stato la stima per il «Signor Curato» era radicata: guai a chi toccava il prete. Ma succedeva che anche lui potesse a volte dilungarsi nelle omelie. C’era in parrocchia un coltivatore diretto, non di elevata cultura, ma di solida saggezza, che non perdeva una Messa nonostante gli impegni. Si metteva di lato, lungo la navata e qualche volta, per fortuna rare, se la predica diventava eccessivamente lunga o ripetitiva, lo faceva notare alzandosi in piedi. Nessuna offesa o sgarbo, solo un segnale di amicizia, poiché voleva molto bene al Parroco, e lui, capendo, arrivava velocemente alla conclusione.

Non è che uno vuol insegnare il Credo agli Apostoli, come si suol dire, e ancora meno dare consigli a un Arcivescovo. Ma se proprio dovesse ricapitare e, ahimè, ricapiterà, sarebbe meglio non prendersela più di tanto per una contestazione. Sappiamo bene che ci sono in giro dei cavalieri difensori della fede che in occasioni ghiotte come questa ci si buttano a capofitto. Ma con quale risultato? Di inasprire gli animi e con la scusa di difendere una parte finire per allargare il fossato che divide? È un po’ difficile dire come bisogna comportarsi in tali circostanze, l’episodio dell’Arcivescovo di Brindisi ci insegna che le emozioni son difficili da arginare o tenere a freno. Ricordiamo sempre, però, che ogni occasione, buona o cattiva che sia, avversa o propizia, è buona per offrire la parola del Vangelo, per non tacere il fatto cristiano. Ce lo ricordano ancora dopo tanti secoli proprio i primi Apostoli, San Paolo che abbiamo su ricordato, che non si perse d’animo e Pietro che nella sua lettera scrisse:

«Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,14-15). 

Dall’Eremo, 4 settembre 2024

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[1]  «L’omelia non deve andare oltre gli otto minuti, perché dopo con il tempo si perde l’attenzione e la gente si addormenta, e ha ragione. Un’omelia deve essere così»

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Ai Confratelli Presbiteri: come difendersi da certi Vescovi new generation, specie dall’invasione dei puglièni?

AI CONFRATELLI PRESBITERI: COME DIFENDERSI DA CERTI VESCOVI NEW GENERATION, SPECIE DALL’INVASIONE DEI PUGLIÈNI?

Esiste il senso delle proporzioni che va sempre applicato mediante l’esercizio di quella sapienza che i giuristi romani chiamavano aequitas, poi trasferita di sana pianta nel Diritto Canonico Romano. Cosa vuol dire aequitas e come si applica? Presto detto: se ai membri del Senato Romano è concesso di insultare e di stuprare la moglie di Cesare, senza che Cesare e suoi preposti reagiscano in alcun modo, non si può applicare poi il massimo rigore stroncando le gambe a chi si è permesso di rispondere male a una servetta preposta alle pulizie del calidarium delle Terme di Diocleziano.

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Ormai l’Italia è piena di vescovi ― o per meglio dire di episcopetti ― tutti molto sociali, con un occhio strizzato al PD e l’altro agli attivisti LGBT. E tutti, come dischi rotti, pronunciano precise parole d’ordine: «Chiesa in uscita … rompere gli schemi … sporcarsi le mani …», ma soprattutto «poveri e migranti … migranti e poveri …».

Poi ci sono anche quelli che ti si rivoltano dicendo: «Come osi chiamarmi Eccellenza? Non siamo mica più in epoca rinascimentale, non vedi che porto al collo la crocetta di legno e che sono un oriundo della terra del santissimo Tonino Bello? Chiamami Don Checco, perché forse non lo sai, ma io sono un episcopetto uscito dalla scuola di Checco Zalone. In fondo appartengo alla specie dei puglièni, mezzi apùlei e mezzi alièni, oggi in gran voga. Perché se non sei puglièno, divendare episcopo new generation in Italia non è facile, ma neppure nunzio apostolico, accademico o officiale della Curia Romana». Anche perché i vescovi, sebbene non siano santi, pare che li facciano direttamente presso il Dicastero delle Cause dei Santi, dove oggi alberga un celebre prefetto puglièno, mezzo apùleo e mezzo alièno.

Ebbene, cari Confratelli, tutte queste immagini grottesche che circolano sui social media, raffiguranti preti grotteschi la cui esistenza è dovuta a vescovi più grotteschi di loro, mettetele da parte, in un archivio, tutte quante. Poi, la prima volta che l’episcopetto di turno che in pubblico parla continuamente di «più dialogo, più democrazia nella Chiesa… occorre sinodalità e conversazione nello Spirito …», vi chiamerà a rapporto dentro una chiusa stanza più autoritario e dispotico di Pol Pot e del coreano Kim Jong, semmai per rimproverarvi di essere troppo cattolici, che oggi vuol dire essere “rigidi” e “cupi”, fategliele vedere tutte quante queste immagini e questi filmati: dal prete col baffo, l’orecchino e gli occhiali da sole durante le sacre liturgie, a tutti gli altri che sembrano concorrere tra di loro a chi fa la cazzata più grossa, ma soprattutto la più dissacrante …

Se l’episcopetto oserà fare un sospiro, ricordategli che esiste il senso delle proporzioni che va sempre applicato mediante l’esercizio di quella sapienza che i giuristi romani chiamavano aequitas, poi trasferita di sana pianta nel Diritto Canonico Romano. Cosa vuol dire aequitas e come si applica? Presto detto: se ai membri del Senato Romano è concesso di insultare e di stuprare la moglie di Cesare, senza che Cesare e suoi preposti reagiscano in alcun modo, non si può applicare poi il massimo rigore stroncando le gambe a chi si è permesso di rispondere male a una servetta preposta alle pulizie del calidarium delle Terme di Diocleziano. E se gli episcopetti dovessero insistere, pur contro l’evidenza dei fatti, come sono capaci a fare, avendo ormai perduto assieme al pudore anche il senso della vergogna, sapete bene dove mandarli, perché in discussione non è la loro autorità, che resta indiscussa, ma la loro intelligenza, sulla quale si può e si deve discutere. Anche un vescovo, fatta salva la sua auctoritas apostolica, può essere un perfetto cretino. E oggi, di vescovi cretini, ne abbiamo a un tasso di inflazione da fare invidia alla moneta argentina al massimo storico della sua svalutazione.

dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2024

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Noi credenti dobbiamo evitare di entrare dentro le chiese storiche per tutelare la nostra fede e il nostro senso del sacro?

NOI CREDENTI DOBBIAMO EVITARE DI ENTRARE DENTRO LE CHIESE STORICHE PER TUTELARE LA NOSTRA FEDE E IL NOSTRO SENSO INNATO DEL SACRO?

Se un credente, per di più un prete ― anche se oggi essere prete non implica essere credente, ne abbiamo a bizzeffe di preti che sono dei perfetti atei devoti al nuovo potere clericale, tutti impegnati nel sociale ― si rifiuta di entrare dentro le chiese storiche, qualche domanda i vescovi se la dovrebbero porre, se non fossero a loro volta impegnati a fare i capo-operatori sociali.

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In questo mese di agosto ho trascorso dieci giorni al fresco, sui monti d’Abruzzo. Tra non molto “al fresco” ci finirò nel senso letterale del termine: in galera. O per dirla col Cardinale Francis George (1937 – †2015), sul quale ci rende testimonianza anche il Cardinale Angelo Comastri:

«Penso di morire nel mio letto ma il mio successore ho paura che morirà in prigione. E il successore ancora ho paura che morirà fucilato, perché difendiamo la famiglia, perché diciamo che la famiglia è formata da un uomo e da una donna e che la vita deve nascere da un padre e da una madre. Saremo perseguitati per questo» (dall’omelia del 4 agosto 2024, QUI).

Anche se molti non ne sono consapevoli, il nostro destino è segnato. Altri, che invece ne sono consapevoli, amoreggiano con questo nostro mondo immondo cercando di piacergli, nella speranza di ottenere le sue grazie ed essere graziati al momento opportuno.

Da anni evito di entrare nelle chiese storiche, a partire da quelle di Roma, memore delle dissacrazioni alle quali i credenti sono costretti ad assistere per opera dell’assalto dei moderni lanzichenecchi (cfr. Sacco di Roma del 1527). E così, quando ritrovandomi con persone in giro per la nostra Capitale mi è stato più volte proposto di entrare con loro in alcune di queste chiese, senza esitare ho risposto: «Andate voi, io vi aspetto fuori».

Prima di ripartire dai freschi monti mi sono recato nelle vicine Marche, ad Ascoli Piceno, per visitare quell’autentico gioiello urbano, questa volta entrando dentro la Chiesa Cattedrale, coi risultati visibili dal video che ho girato col mio telefono cellulare. Posso narrarne una sola, perché penso basti e avanzi: entrando nella cappella del Santissimo Sacramento mi sono inginocchiato alla balaustra davanti al tabernacolo, alle mie spalle una voce femminile esordisce così a basso tono: «…e quello lì che cazzo fa in ginocchio davanti a quel mobile?». Mi volto e vedo a pochi metri di distanza da me tre ragazzine di tredici, quattordici anni circa, in pantaloncini-mutanda-inguinali, intente a osservarmi da dietro come fossi stato David Bowie nel film di fantascienza L’uomo che cadde sulla terra.

Se un credente, per di più un prete ― anche se oggi essere prete non implica essere credente, ne abbiamo a bizzeffe di preti che sono dei perfetti atei devoti al nuovo potere clericale, tutti impegnati nel sociale ― si rifiuta di entrare dentro le chiese storiche, qualche domanda i vescovi se la dovrebbero porre, se non fossero a loro volta impegnati a fare i capo-operatori sociali.

Non entro dentro le chiese storiche ridotte a musei visitati da persone sempre più irriverenti e volutamente sprezzanti tutto ciò che è sacro, perché non sono disposto a vedere ragazze che non indossano neppure più pantaloncini corti detti shorts, ormai entrano nei luoghi di culto vestendo delle vere e proprie mutande, quelle che una volta si chiamavano culottes e che costituivano la biancheria intima femminile indossata sotto i vestiti. Oggi le culottes hanno invece assunto rango di vestiti e con esse si entra nelle chiese, con tanto di reggiseni detti top che lasciano la pancia scoperta in bella vista.

Non entro dentro le chiese storiche perché molte donne e ragazzine che con certi loro atteggiamenti provocano volutamente e intenzionalmente, non desiderano di meglio che qualche prete irritato dai loro atteggiamenti oltraggiosi verso la sacralità del luogo apra bocca per redarguirle; questo vogliono e cercano, per poi scatenare pubbliche polemiche sui social media o dare vita a un vero e proprio caso mediatico.

Se osassi redarguire qualcuna di queste porno-visitatrici, per assurdo che sembri finirei redarguito io dalla competente autorità ecclesiastica, non essendo né il vescovo di quella diocesi né il parroco né il rettore di quella chiesa. Anche perché, se dentro una chiesa cattedrale si entra in mutande, chi di fatto lo permette è anzitutto il vescovo.

In occasione del tradizionale Palio ho commentato giorni fa sulla mia pagina socialin modo volutamente colorito — l’immagine di diverse ragazze entrate urlanti e sguaiate dentro la cattedrale metropolitana di Siena vestite non tanto in modo indecente, ma proprio mezze nude. Il filmato qui riportato mostra in primo piano le donzelle che attraversano la navata centrale in mutande a pancia scoperta.

Ovviamente mi sono dovuto sorbire le ire e gli insulti del più gretto provincialismo senesota formato da contradaioli che se fermati e interrogati non saprebbero recitare il Padre Nostro dall’inizio alla fine; soggetti che rimarrebbero ammutoliti dinanzi alla domanda: riesci a dirmi le prime cinque parole del Credo? Questo esercito social di persone che non sanno neppure da quale punto preciso del loro corpo partire per farsi il segno della croce, ha difeso a spada tratta queste spudorate dando del «volgare» e della «vergogna di prete a me» per avere osato — a loro dire — emettere un sospiro sul “sacro dogma” del Palio, di cui a me non interessa niente, come avevo spiegato in modo chiaro. Ciò che solo a me interessa è che delle giovani donne prive di comune senso del pudore non siano fatte entrare urlanti dentro una storica chiesa cattedrale in mutande a pancia scoperta, neppure se ha vinto la loro cosiddetta Contrada, di cui a me, come a qualsiasi altro figlio della orbe catholica, ripeto, non può interessar di meno, perché il rispetto del luogo sacro è di gran lunga superiore ai tradizionali ludi pagani del Palio di Siena.

15 agosto 2024, ingresso trionfale delle donne in mutande dentro la Cattedrale metropolitana di Siena per festeggiare la contrada vincitrice del Palio

Ecco perché non entro dentro le chiese storiche, con buona pace dei nostri vescovi che dinanzi a queste scene dissacranti si sfogano più che mai parlando di poveri e migranti, di migranti e poveri, oltre che di «Chiesa in uscita».

Il problema è che dalle chiese stiamo uscendo noi credenti, noi preti stessi animati da fede e solido spirito sacerdotale, per lasciare spazio alle mutande delle sfacciate che con i perizoma in mezzo al culo rimirano nella storica cattedrale quella grande sedia posta in bella mostra sul presbiterio, a noi nota come cattedra episcopale, sulla quale sale una tantum uno dei numerosi tizi che cerca di piacere e compiacere le Sinistre internazionali parlando di poveri e migranti di migranti e poveri, mentre dentro la sua chiesa cattedrale si passeggia con le culottes o il filo del perizoma messo in mostra nel bel mezzo del culo sotto pantaloncini trasparenti. Per questo è molto coerente che il Santo Padre abbia lanciato a suo tempo l’eccitante slogan della «Chiesa in uscita», dalla quale i primi a uscire sono proprio i credenti, a tutela e salvaguardia della loro fede, semmai dietro consiglio di noi preti stessi rimasti ancóra cattolici.

Io sarò tra quelli che non moriranno nel proprio letto, sicuramente morirò in carcere, mentre quelli dopo di me, i pochi che avranno conservata la fede, moriranno fucilati in piazza per aver affermato che un bambino può nascere solo da un padre e da una madre, mentre i clericali piacioni della «Chiesa in uscita» domanderanno perdono a tutte le Sinistre internazionali per il rigore di certi cattolici indegni privi di spirito inclusivo incapaci di stare al passo coi tempi, proprio come quei vili ecclesiastici che per aver salva la pelle e mantenere i propri privilegi giurarono fedeltà sul testo ateo e anti-cristiano della Carta Costituzionale di Francia durante la Rivoluzione.

Il filo del perizoma certe donne lo portano in mezzo al culo quando vanno a visitare le chiese storiche; certi ecclesiastici, il perizoma, lo portano invece stampato sulle loro facce mentre governano e gestiscono la Chiesa in modo tale da dimostrare di giorno in giorno quanto si vergognino profondamente di Cristo, scusandosi col mondo per lui e per il suo eccessivo rigore impresso sulle pagine del Santo Vangelo che racchiude al proprio interno tutto ciò che non piace al mondo, per questo è fonte di imbarazzo sempre più crescente per il clericalismo accondiscendente che desidera piacere, compiacere e vivere sereno.

 

dall’Isola di Patmos, 21 agosto 2024

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Gli affreschi omoerotici realizzati dal Sodoma nell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sono peggiori della parodia dell’ultima cena fatta da gay e trans all’apertura delle Olimpiadi in Francia

GLI AFFRESCHI OMOEROTICI REALIZZATI DAL SODOMA NELL’ABBAZIA DI MONTE OLIVETO MAGGIORE SONO PEGGIORI DELLA PARODIA DELL’ULTIMA CENA FATTA DAI GAY E TRANS  ALL’APERTURA DELLE OLIMPIADI IN FRANCIA

L’onestà intellettuale impone di ammettere che immagini ben peggiori sono state fissate su affreschi e tele all’interno dei nostri luoghi sacri, con scene tali da far impallidire il teatrino dei gay e dei trans che hanno parodiata l’Ultima Cena all’apertura delle Olimpiadi.

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Nel 2019 scrissi e pubblicati un articolo che ripropongo oggi in seguito alle polemiche del tutto legittime sulla dissacrazione anti-cristiana fatta alla inaugurazione delle Olimpiadi in Francia, la cui cerimonia è stata mutata in un grottesco Gay Pride.

L’onestà intellettuale impone di ammettere che immagini ben peggiori sono state fissate su affreschi e tele all’interno dei nostri luoghi sacri, con scene tali da far impallidire il teatrino dei gay e dei trans che hanno parodiata l’Ultima Cena all’apertura delle Olimpiadi. Si pensi per esempio agli osceni affreschi omoerotici nel chiostro centrale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sui quali nessun pio abate, nel corso di oltre cinque secoli, si è mai sognato di far passar sopra della calce bianca, pur trattandosi di splendide pitture realizzate da Ugo Bassi, noto col suo nome d’arte che non a caso era Il Sodoma.

Dinanzi certi trionfi di frocismo nei nostri luoghi sacri, abbiamo veramente motivo di scandalizzarci come delle vergini vilipese, ferma restando l’offesa e la volgarità di quanto accaduto alle Olimpiadi?

dall’Isola di Patmos, 5 agosto 2024

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— attualità ecclesiale —

DAL SODOMA ALLO SPINELLO SINO AGLI ESERCIZI SPIRITUALI ALLA CURIA ROMANA, MENTRE NEL MONDO DELL’IRREALE NESSUNO SI RENDE CONTO CHE LA VITA MONASTICA È MORTA E CIÒ CHE NE RESTA È UNA PARODIA: «TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI»

L’Abate predicatore parlerà alla Curia Romana del sognatore Giorgio La Pira e del poeta Mario Luzi, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni …

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Avanti il Concilio di Trento che tentò di porre freno alle derive del clero, molte abbazie versavano in condizioni morali disastrose. Di recente se n’è parlato in un saggio dedicato alla vita religiosa [cf. QUI]. Lo stato delle abbazie maschili, sul finir del XV secolo non era dissimile da quello desolante di molti monasteri femminili, specie in quelle dotate di ricchi patrimoni.

L’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, XIV secolo, eretta nella zona delle crete senesi

Un esempio tra i tanti: nell’architettura di molte storiche abbazie possiamo osservare delle costruzioni indipendenti, distaccate dal complesso monastico perlomeno di un centinaio di metri. Se domandiamo ai monaci che seguitano a vivere in quelle abbazie e monasteri — perché molte di queste strutture oggi non sono più abbazie e monasteri, altre non sono più abitate da monaci —, le risposte che ne riceveremo saranno disparate, ed in modo altrettanto disparato non sarà risposto il vero, perché spesso la verità brucia, soprattutto può risultare davvero poco edificante.

l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

Giacché parleremo degli affreschi del chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, eretta nel XIV secolo nelle campagne delle crete senesi, come esempio prenderemo uno di questi stabili distaccati dal monastero e oggi indicato come porta d’ingresso. Nulla da dire che gli stili architettonici mutino nel corso dei secoli, ma che funzione aveva una torre distaccata dall’abbazia e non visibile dal complesso abbaziale, che si sviluppa su quattro livelli ed incorpora una struttura che partendo dal piano terra è sovrastata da due livelli superiori, il tutto su una superficie di oltre mille metri quadrati? Dobbiamo proprio credere che questo architettonico ben di Dio sia stato veramente creato solo come porta d’ingresso all’abbazia, oppure forse come fortilizio? Ma un fortilizio sarebbe tale se vi fossero delle solide ed alte mura di cinta, che in quella struttura non sono però mai esistite, dunque?

Dunque quella struttura era la residenza di certi gaudenti abati, divenuti tali per i buoni uffici di potenti famiglie o per questioni legate a precisi assetti politici, che essendo avvezzi condurre stili di vita affatto monastici, in quei locali avevano le proprie piccole corti, erano dediti alle battute di caccia, alle feste e via dicendo. Poi ogni tanto scendevano nel monastero, per adempiere all’occorrenza i loro uffici.

l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

L’epoca di fine Quattrocento segnò una crisi dottrinale, morale e dei costumi preceduta circa tre secoli prima da altrettanta infausta epoca, quando nel XIII secolo il Sommo Pontefice Eugenio III indisse il IV Concilio Lateranense che sancì severi canoni contro i malcostumi del clero e dei religiosi. E fu in questa gaudente epoca rinascimentale che giunge da Vercelli presso la ricca e potente Abbazia di Monte Oliveto Maggiore un gaio personaggio: Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma [1477-1549].

Riguardo Il Sodoma, le successive storiografie vergate da pii religiosi tenteranno di precisare quanto fosse malizioso collegare il soprannome col quale il celebre artista è passato alla storia dell’arte con quelli che sarebbero stati i suoi gusti omosessuali. Si tentò persino di ricorrere ad un sofisma patetico affermando che il soprannome de Il Sodoma non aveva a che fare con la pratica della sodomia bensì fosse legato ad un’espressione dell’artista che nel suo dialetto piemontese era solito dire «su, ‘nduma», che significava «su andiamo». Diversamente da ciò che in seguito tentarono di affermare i pii critici per salvare l’onore non del Bazzi, ma quello delle strutture monastiche che questo sodomita se lo contendevano tra di loro, il celebre pittore e architetto aretino Giorgio Vasari [1511-1574], che fu suo coevo e conoscitore delle sue gesta, afferma che l’origine di siffatto soprannome derivava proprio dalla sua omosessualità. Il Vasari precisa che quella del Sodoma era anche una omosessualità per nulla celata, tutt’altro: era esibita in modo ostentato e sfacciato.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma: Cristo legato alla colonna per la flagellazione

Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma si sposò in gioventù, ma molto presto si separò dalla moglie. Chissà se pur a tal proposito qualche pio critico d’arte — convinto che nessuno conosca il diritto canonico e la disciplina dei Sacramenti —, possa affermare che questa separazione era dovuta a pura incompatibilità caratteriale. Come se sul finire del Quattrocento separarsi dalla moglie e darsela a gambe fosse quanto di più ovvio potesse accadere?

La gaia ricerca del bello che in questo artista trascende nell’omoerotico, è una caratteristica della pittura del Sodoma, basti analizzare la figura davvero eclatante del Cristo legato alla colonna ubicata in un angolo del chiostro centrale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore prima della porta d’ingresso interna alla cattedrale abbaziale. Immagine questa sufficiente per valutare se Cristo legato alla colonna può avere quell’aria sensuale da maschietto ammiccante. Ma per la carità divina, si guardi con attenzione l’aria e la posizione sfacciata di quel Cristo alla colonna ritratto dal Sodoma: non vi ricorda forse certe immagini del celebre film Un uomo da marciapiede, con l’allora giovane Jon Voight nei panni del provinciale texano che giunto a New York pieno di sogni finisce poi appoggiato ad un palo della strada a fare marchette?

 la storica locandina del celebre film Un uomo da marciapiede, con il giovane Jon Voight appoggiato al palo nel ruolo del marchettaro

Il Sodoma, in quel luogo di apparente quiete, nonché di religiosità ancor più apparente, forse il segno lo ha lasciato non solo negli affreschi, ma anche nell’aria, ed attraverso i secoli! Infatti, la splendida natura che circonda quell’abbazia altrettanto splendida con tutte le opere d’arte architettoniche e pittoriche, incluse le pitture omoerotiche, suppliscono da secoli alla carente mancanza di religiosità; cosa questa che non affermo io, perché a provarlo è la storia. Basterebbe porsi solo questa domanda: dal 1313 ad oggi, quanti sono i monaci della Congregazione Benedettina Olivetana che nei successivi settecento anni di vita sono stati beatificati e canonizzati? Si tenga presente che questa Congregazione, seppur giunta tra la fine del XV e la fine del XVII secolo a contare sino a 1200 monaci distribuiti in diverse decine di monasteri italiani, in sette secoli di vita ha dato alla Chiesa un unico beato, il proprio fondatore Bernardo Maria Tolomei [Siena 1272 — †Siena 1348], beatificato a tre secoli di distanza dalla sua morte. Poi, decorsi 661 anni, il Beato Bernardo Maria Tolomei fu infine canonizzato il 20 agosto 2009.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto

Riguardo la canonizzazione di Bernardo Maria Tolomei sarebbe interessante verificare in che modo l’illustre agiografo benedettino belga Dom Réginald Grégoire [1935 — †2013], postulatore della causa, abbia infine reperito i documenti per portare avanti questa causa storica presso la Congregazione delle cause dei Santi, a ben considerare che per diversi secoli è stata lamentata proprio la oggettiva impossibilità di procedere con un processo di canonizzazione per la mancanza di necessaria documentazione storica, alla quale pare abbia infine supplito la agiografia (!?). Essendo però questa Congregazione dotata di un ricco patrimonio ed essendo annoverata tra le grandi aziende toscane che posseggono i più grandi appezzamenti terrieri, può essere che abbia avuto i mezzi per reperire infine le storiografie che per secoli non sono esistite?

 particolare dell’affresco grande

Di Bernardo Maria Tolomei ci sono stati forse tramandati memorabili sermoni e mirabili lezioni di spiritualità tenute ai propri monaci o altrettanti suoi testi di alta levatura teologica? A dire il vero, la raccolta delle sue lettere [cf. QUI] più che dello spirituale hanno il sapore degli scritti di un amministratore che organizza, dirige, impartisce direttive e che richiede a legati pontifici e vescovi concessioni e privilegi per i propri monasteri. Per quanto riguarda i testi sulla sua vita, a partire da uno dei più antichi [cf. QUI], essi sono una evidente accozzaglia di ordinarie leggende auree con le quali erano infiorettate alla metà del Seicento le vite dei Santi o dei candidati alla canonizzazione, il tutto attraverso stili precisi e ripetitivi, grazie agli agiografi che spesso riunivano assieme episodi, visioni e prove di virtù che emergevano tali e quali nelle vite di altre decine di santi o di candidati alla canonizzazione. E lavorando neppure di agiografia in agiografia ma di apografia in apografia, l’insigne agiografo benedettino belga ha infine mutato apografie stratificate nei secoli in una Positio super vitavirtutibus et fama sanctitatis. Dunque oggi, narrare le sante gesta di Bernardo Maria Tolomei, di cui non esistono scritti ed opere originali ma solo biografie postume, è come narrare la lotta di San Giorgio con il drago, canonizzando infine biografi e agiografi. Detto questo è bene chiarire, a coloro ai quali non fosse eventualmente chiaro, che i discorsi testé fatti non si basano su opinioni più o meno severe o addirittura ingenerose, ma su dati rigorosamente scientifici e non facili da smentire. 

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma

A puro titolo di indagine storica, vogliamo verificare quanti beati e santi sono stati invece donati, compresi anche alcuni Dottori della Chiesa, da altre Congregazioni religiose, in un lasso di vita molto inferiore alla Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani? Può una Congregazione monastica non donare alla Chiesa Beati e Santi in settecento anni? Sì, è possibile, quanto un gaio personaggio come Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma non si limita a lasciar la propria impronta solo negli affreschi del passato, ma anche nell’aria che impregna quelle mura, dal palazzotto d’ingresso che fu la garçonnière dei gaudenti abati rinascimentali sino allo stabile monastico popolato di svariati altri monaci non meno gaudenti. Se è vero il detto che «la bótte dà il vino che ha», la carenza di beati, santi, mistici e padri della spiritualità, è stata però compensata con altri talenti, a partire da quello di Dom Francesco Ringhieri [1721-1787], dedito in epoca barocca alle opere teatrali e definito dai critici come «Più eretico d’ogni altro frate tragediante in quel secolo» [si può consultare QUI, QUI, QUI].

Sempre parlando sul piano patrimoniale: nessun Abate di Monte Oliveto Maggiore ha mai avuto problema ad accogliere tra quelle mura ricche di uno spirituale estetico ma spesso vuote di Anima Christi, un nutrito esercito di figli del Sodoma simili all’incirca al povero Cristo sensuale e ammiccante legato alla colonna. Quando però l’Abate Dom Maurizio Maria Contorni [1986-1992], in precedenza già economo generale della Congregazione, fu coinvolto nell’avallo di operazioni finanziarie che comportarono la perdita di svariati miliardi delle vecchie lire, i figli del Sodoma non esitarono a destituirlo, perché sulla morale dei monaci sfarfallanti legati alla colonna si può soprassedere, ma sui soldi depositati presso la Banca del Monte dei Paschi di Siena non si può invece transige. Il tutto sebbene un Abate rimanga in carica fino a 75 anni d’età, quantunque rieletto dal capitolo generale ogni sei anni. A documentare il tutto è la cronotassi degli abati del Novecento, che fino al 1970 rimanevano in carica a vita, solo a partire dal successore di Dom Romualdo Maria Zilianti [1928-1946], con il suo successore Dom Angelo Maria Sabatini [1970-1986] subentra la prassi della rinuncia alla cattedra abbaziale al compimento del 75° anno di età.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma, tra sacro, profano e scene da baccanali … alla destra sono raffigurati i familiari dell’Abate dell’epoca

Se oggi possiamo dirci cristiani lo dobbiamo ai figli di San Benedetto da Norcia che attraverso il monachesimo hanno prima salvato, poi diffuso la Cristianità nell’Occidente. Lo stesso lemma Europa, di cui San Benedetto è patrono, nasce come idea e concetto nel grande circuito delle abbazie benedettine, perché sono stati i figli di San Benedetto a creare l’Europa. E se oggi possiamo leggere e studiare la filosofia greca, la letteratura classica latina o conoscere le opere dei grandi Padri della Chiesa, se possediamo tante opere profane dai contenuti tutt’altro che cristiani, ivi incluso Valerio Gaio Catullo, lo dobbiamo proprio ai Monaci Benedettini, nati figli di San Benedetto, per poi essere ridotti secoli dopo ai figli del Sodoma.

A chi ha sempre nutrita grande venerazione storica e teologica verso l’Ordine Benedettino, strazia il cuore vedere oggi il monachesimo ridotto in simile decadenza. Purtroppo in questo mondo nel quale anche le notizie più scandalose nascono oggi per morire domani e lasciare spazio ad altri scandali, temo che in pochi si siano resi conto che a Montecassino, madre di tutte le abbazie dell’Occidente, un omosessuale incancrenito nei propri vizi sfrenati ha decretata la morte del monachesimo; ed oggi, ciò che ne resta, è un guscio vuoto, fatto di storiche abbazie — quelle che oggi sono sopravvissute — ricche di opere d’arte e di bellezze paesaggistiche, ma vuote della sostanza della fede e di quel glorioso monachesimo che a partire dal VI secolo la fede l’ha salvata e poi diffusa. Insomma: attenzione a lasciarsi sedurre dalle storiche cornici di quel bello e di quell’estetico che cela però il vuoto dello spirito e delle cristiane virtù, perché il Demonio, oltre ad avere straordinario senso estetico, canta meravigliosamente in gregoriano e “celebra i pontificali abbaziali” con grande eleganza esteriore, dopo essersi formato alla vita monastica saltando da una “amicizia particolare all’altra”. E oggi, tutti gli “amici particolari” di ieri, sono abati nelle varie abbazie, per non parlare dei monaci che le “amicizie particolari” le hanno suggellate col loro voto nei capitoli monastici e nel capitolo generale, vale a dire quanto basterebbe a pregare la misericordia di Dio per tutta la loro vita affinché possa preservarli dalle fiamme dell’Inferno.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma.

La marcia funebre sul monachesimo, dopo tanti scandali avvenuti nelle abbazie e nei monasteri d’Europa l’ha infine suonata Dom Pietro Vittorelli, 191° successore di San Benedetto da Norcia, che si dilettava a condurre una vita di lusso in giro per l’Europa, a soggiornare in hotel costosi ed pagare ad elevato prezzo la compagnia di giovani gay con i soldi dell’Abbazia [cf. QUI, QUI, QUI, ecc …]. A questo va poi aggiunto pure l’uso delle droghe, per le quali ha avuto conseguenti problemi di salute costati all’Abbazia di Montecassino somme molto elevate quando per un periodo di tempo l’Abate si ricoverò in una clinica svizzera per disintossicarsi e per cercare di curare la propria dipendenza dalla cocaina. La cosa però più tragica è che costui non sia stato sottoposto a sanzioni canoniche e che non sia stato dimesso dallo stato clericale, tanto da risultare tutt’oggi nella cronotassi degli Arciabati di Montecassino e negli annuari della Conferenza Episcopale Italiana come «Abate Ordinario emerito» [cf. QUI] anziché come «destituito».

 le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma

Con l’Abate di Montecassino la marcia funebre del monachesimo è giunta solo al finale, perché l’esecuzione è avvenuta in precedenza con scandali morali disseminati per le abbazie sparse per l’Europa. Certo, altri casi s’è riusciti a trattarli con riservatezza, dall’Abbazia di San Paolo fuori le mura, privata infine dello status di prelatura territoriale, per seguire con l’Abbazia di Grottaferrata, dove fu destituito l’Abate Dom Emiliano Fabbricatore, anche in quel caso ciò avvenne specie pel viavai notturno degli immancabili giovanotti a pagamento che andavano a sollazzare alcuni monaci viziosi, tanto che la Santa Sede — cosa invero rara — procedette a dichiarare invalide alcune ordinazioni sacerdotali di giovani monaci. Potremmo seguire col Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, struttura accademica della Confederazione Benedettina, alla quale più volte il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica [1999-2015], tra il 2007 ed il 2008 intimò che se non ripulivano il loro collegio interno dalle varie gaiezze e dalle numerose coppiette di fatto, la Santa Sede glielo avrebbero chiuso.

Per limitarci sempre e solo all’ambito romano: che cosa accadde all’Abbazia cistercense di Santa Croce in Gerusalemme, dove fu eletto abate un ex stilista milanese, anch’esso molto gaio, passato dal mondo della moda al monachesimo e divenuto in pochi anni monaco, sacerdote e infine abate estetico? Eppure, sul vicino Colle Aventino, si trova la Curia Generalizia dei Monaci Cistercensi, dove un decennio fa, all’epoca di certi fatti, risiedeva l’Abate Generale Dom Mauro Esteva i Alsina [1933 — †2014], la preoccupazione del quale era di impartire ossessive lezioni di galateo ai giovani monaci e di verificare che il refettorio fosse apparecchiato con le forchette ed i coltelli posizionati a giusta distanza alla destra ed alla sinistra del piatto, o che gli inchini fossero fatti secondo l’angolazione giusta, quasi che da essi fosse dipesa la sopravvivenza e lo storico onore dell’Ordine Cistercense. Possa oggi quest’uomo riposare in pace nella cripta dell’Abbazia catalana di Poblet e possa la misericordia di Dio perdonargli con un mite purgatorio tutti i gravi ed irreparabili danni da lui recati all’intero Ordine Cistercense durante il suo mandato di Generale svolto tra il 1995 ed il 2010.

particolare: efebo ammiccante

Per gli esercizi spirituali alla Curia Romana quest’anno è stato scelto dal Cardinale Gianfranco Ravasi e presentato al Pontefice un membro della Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani, Dom Bernardo Gianni, Abate dell’Abbazia di San Miniato al Monte in Firenze. Se nell’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore primeggia Il Sodoma, a San Miniato gli affreschi più pregevoli sono quelli di Spinello Aretino. La sostanza resta però la stessa, pur spaziando dall’arte del Sodoma a quella dello Spinello. E quest’ultimo — lo Spinello —, sarebbe stato particolarmente apprezzato dall’Arciabate di Montecassino Dom Pietro Vittorelli, che delle droghe era un gran cultore e consumatore.

L’Abate dell’Abbazia di San Miniato in Firenze è uno che sa parlare a questo mondo. Egli parla al mondo il linguaggio che piace al mondo. Infatti, gli esercizi spirituali, saranno improntati su sogno e poesia: il sogno del politico Giorgio La Pira e la poesia di Mario Luzi, la cui poesia, cristianamente parlando, non è certo quella dello scrittore e presbitero francese Michel Quoist [1921-1997]. 

le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma

L’Abate predicatore, figlio del nobile Ordine di San Benedetto cui dobbiamo la sopravvivenza della Cristianità e la salvaguardia del patrimonio storico, filosofico e letterario, parlerà alla Curia Romana di un sognatore e di un poeta, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo, non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni :

 particolare: efebo ammiccante che mostra il posteriore

«E chiudere gli occhi per fermare 
qualcosa che è dentro me 
ma nella mente tua non c’è 
Capire tu non puoi 
tu chiamale se vuoi 
emozioni » [Mogol-Battisti, 1970]

Sappiamo che dopo la tragedia giunge sempre la farsa grottesca che spazia appunto tra Il Sodoma e lo Spinello. Ragione in più per pregare e per purificarci durante questa Santa Quaresima, nel corso della quale, la più grande delle mortificazioni, resta la consapevolezza di non essere più credibili al mondo, ma di essere invece derisi dal mondo, specie quando per compiacere il mondo cerchiamo di parlare il linguaggio del mondo, dopo esserci svuotati di Cristo e del mistero della Croce, per riempirci di sogni e poesie … «tu chiamale se vuoi emozioni».

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: la insistente ossessione del Sodoma a raffigurare il posteriore maschile che “si offre” e nel quale potremmo leggere la profezia sul postumo monachesimo decadente …

Una cosa è certa: l’arte non lascia il segno semplicemente sui muri, specie se certe immagini pittoriche sono la più realistica rappresentazione di chi certe mura le abita. Ovviamente, il quesito sul perché in settecento anni di vita i Monaci della Congregazione Benedettina Olivetana non hanno dato alla Chiesa beati, santi, mistici, teologi, dottori e padri della spiritualità, è una domanda puramente retorica, la risposta è infatti tutta contenuta nelle immagini omoerotiche che campeggiano negli affreschi realizzati dal Sodoma nel chiostro; ed al chiostro si giunge dopo essere entrati nel territorio abbaziale passando dal palazzotto usato un tempo come garçonnière dagli abati rinascimentali gaudenti. Nel Paradiso, invece, si giunge solo dopo essersi convertiti, pentiti e mondati dai peccati, non ci si giunge né coi sogni di Giorgio La Pira, né con le poesie di Mario Luzi. La Quaresima inizia con l’imposizione delle ceneri seguita dal monito «convertiti e credi al Vangelo», non comincia con l’invito a credere nei sogni e vivere le poesie 

 

dall’Isola di Patmos, 08 marzo 2019

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Cari Cugini d’Oltralpe, stando così le cose, molto semplicemente, ridateci la Gioconda

CARI CUGINI D’OLTRALPE, STANDO COSÌ LE COSE, MOLTO SEMPLICEMENTE, RIDATECI LA GIOCONDA

Non mi straccio le vesti in nome del sacrilegio, non di questo si tratta. Le vesti me le straccio per l’aborto inserito in Costituzione. Terribile. In questo caso, teniamoci pure addosso le vesti, nonostante l’afa, e chiediamoci: cosa c’entra la carnevalata con le Olimpiadi?

Attualità

Autore
Anna Monia Alfieri, I.M. 
Cavaliere della Repubblica Italiana

             

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In sostanza è questo che ho pensato, quando ho visto, all’interno della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi, il carro con la parodia, chiamiamola così, dell’ultima cena di Leonardo (cfr. Avvenire, QUI e QUI).

Non mi straccio le vesti in nome del sacrilegio, non di questo si tratta. Le vesti me le straccio per l’aborto inserito nella Costituzione Francese. Terribile. In questo caso, teniamoci pure addosso le vesti, nonostante l’afa, e chiediamoci: cosa c’entra la carnevalata con le Olimpiadi, cui prodest?

Si è voluto ribadire il carattere laico dello Stato? Laicità non vuol dire cattivo gusto o dissacrazione della cultura. Credo che si sia trattato di una brutta pagina della storia delle Olimpiadi e della Francia, in generale della cultura occidentale, visto anche il silenzio pressoché generale. Del resto tutti, mi correggo, quasi tutti — perché chi non è allineato con la cultura dominante deve stare zitto, pena l’accusa di essere oscurantista — hanno il diritto di dire la loro, indipendentemente dalla forma che è sempre sostanza.

Ancora un’altra considerazione, questa, lo ammetto, suoresca, del resto appartengo anch’io alla categoria: vedendo quelle immagini ho pensato a Carlo Magno, ho pensato alle pagine del Bossuet, così tanto amato dal Manzoni, ho pensato a Santa Teresa di Lisieux, ho pensato a Maritain, così apprezzato da San Paolo VI. Ma, soprattutto, ho pensato alla grotta di Lourdes che ancora attira pellegrini da tutto il mondo e che rimane segno di contraddizione per le intelligenze di tutti, anche laiche, quelle oneste, è ovvio.

Cari giovani, riflettete e rifiutate il cattivo gusto, l’ignoranza e il vilipendio della vera cultura che, per essere tale, è frutto di cuori e menti liberi e onesti. A noi che abbiamo ereditato tanta bellezza spetta il compito di custodirla e rispettarla. Se non ne siamo capaci, diamo ad altri il compito di farlo. Dunque, ridateci la Gioconda!

Milano, 1 agosto 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

 

 

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Quando l’anfibologo onirico autore del “Codice Katzinger” s’occupava di “katz und matz” e cercava di stuzzicare i pruriti celebrando i vent’anni del Viagra …

QUANDO L’ANFIBOLOGO ONIRICO AUTORE DEL CODICE KATZINGER S’OCCUPAVA DI CATZ UND MATZ E CERCAVA DI STUZZICARE I PRURITI CELEBRANDO I VENT’ANNI DEL VIAGRA …

Bei tempi, quando tirava più un pelo di donna anziché il ridicolo Codice Katzinger di un personaggio patetico che pur di far notizia e cassetta non fa distinzione tra il ventennale del Viagra e i venti secoli di storia Papato!

Sorridendo su ciò che non è serio ma vorrebbe esserlo — 

 

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Travolti dal caldo che in quest’estate ci avvolge, i Padri de L’Isola di Patmos hanno affidato alla mia penna il dono di un fresco sorriso col quale rendere omaggio ai nostri Lettori, ribadendo per inciso che come presbiteri noi siamo chiamati a essere persone serie e non seriose. Tra il serio e il serioso corre infatti la differenza che passa tra un uomo sincero e un uomo ipocrita.

L’uomo italiano non è più quello di una volta, quando per una gonnella perdeva il lume della ragione. E dinanzi a certe situazioni attuali possiamo solo dire … bei tempi furono quelli! Oggi, il lume della ragione, molti lo perdono dietro a complotti o improbabili codici criptici di Sommi Pontefici che hanno fatto false rinunce al pontificato, per seguire con non meglio precisate anfibologie smerciate da qualche piazzista …

Anziché testosterone certi uomini italiani sprizzano fobie fantascientifiche, sovente pure di stampo pseudo-religioso. Non più quindi con la bava alla bocca come avveniva in passato, a parlare delle indimenticabili prestazioni da Mille e una Notte che offrirebbero a certe belle donne; oggi, con le bocche, sbavano concitati per parlare di munus e ministerium pontificio, eccitandosi molto più di quanto non si ecciterebbero dinanzi a una bellissima fotomodella messa sulla copertina di un mensile erotico.

E fu così che un certo giornalista ― la cui onestà intellettuale è pari a quella di una volpe che entra dentro un pollaio vestita da monaca carmelitana a predicare il digiuno penitenziale ―, ha capito che il saggio proverbio popolare si era tragicamente invertito. Dicevano infatti i nostri saggi anziani:

«Tira più un pelo di donna che un carro di buoi».

Ecco perché il nostro, in data 6 febbraio 2019, cercò di suscitar pruriti con l’apologia storica degli antenati del Viagra firmando sul quotidiano Il Secolo XIX questo articolo:

«Gli antenati del Viagra. Storia millenaria degli afrodisiaci, dagli antichi romani alle parole in chat» (vedere articolo QUI).

Può essere che lavorando a questo articolo abbia finito con lo scoprire che se il Viagra esiste è proprio perché il pelo di donna tira sempre di meno, il carro è sempre più stanco e i buoi che lo trainano sempre più cornuti. E come per magia ecco che decise di trasformarsi da improbabile storico della urologia e dell’andrologia in un canonista, ecclesiologo e storico della Chiesa più improbabile ancóra, confezionando un genere di pelo e di prurito che oggi tira più che mai, forse anche a livello compensativo, perché molti uomini sembrano supplire alla loro naturale carenza di libido eccitandosi con complotti incentrati su falsi papi che governano false chiese dopo che il loro predecessore aveva falsamente rinunciato al sacro soglio per inaugurare una fantastica “sede impedita” (!?).

A noi preti mancano terribilmente quegli uomini che si lasciavano tirare più da un pelo di donna che da un carro di buoi. Per noi confessori, poi, era un piacere e una grande azione di grazia assolvere un esercito di lussuriosi, dietro ai quali, bene non dimenticarlo mai, c’erano altrettante e numerose lussuriose, perché gli uomini non facevano da soli, in tal caso sarebbe stata solo masturbazione. Pertanto, quando certe donne piangenti, gementi e afflitte nel loro vittimismo parlano della piaga dei fedifraghi indicandoli come puttanieri, con la dovuta onestà dovrebbero ricordare e ammettere che dietro a ogni puttaniere c’è sempre e di necessità una puttaniera, a meno che, come dicevamo poc’anzi, l’uomo non faccia da solo, il tal caso non sarebbe però tradimento ma tutt’altra cosa e ben diversa pratica e attività sessuale.

Oggi, gli psico-impotenti nel cervello al seguito di cani idrofobi sciolti per Carini e di anfibologi autori di codici criptici da de-codificare, sono ben lungi dal venire a confessarsi, perché più fanno scempio immane della Chiesa e del Papato, più fingono di sentirsi nel giusto.

Bei tempi, quando tirava più un pelo di donna anziché il ridicolo Codice Katzinger di un personaggio patetico che pur di far notizia e cassetta non fa distinzione tra il ventennale del Viagra e i venti secoli di storia Papato!

Buona estate a tutti.

Dall’Isola di Patmos, 31 luglio 2024

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L’operato del Demonio nella storia dell’uomo: la tentazione come battaglia quotidiana

L’OPERATO DEL DEMONIO NELLA STORIA DELL’UOMO: LA TENTAZIONE COME BATTAGLIA QUOTIDIANA

Ora la possessione diabolica, di cui fu accusato perfino il Signore Gesù è un’azione straordinaria, rarissima, di cui la Chiesa per la sua certificazione segue un procedimento e delle norme severe. Ma l’azione ordinaria, quotidiana, del Demonio è la tentazione che arriva a colpire l’uomo sia nel corpo che nella psiche.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

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Tempo fa ho dedicato un articolo alla figura del Demonio, dopo che in Sicilia, nel febbraio di quest’anno, è stato compiuto un efferato delitto dove l’uccisore, per spiegare il suo gesto insano, si nascondeva dietro il motivo che in casa sua, nei suoi familiari, ci fosse questa oscura presenza (QUI).

Ho continuato a riflettervi sopra e trovo sia prudente oltre che ragionevole aggiungere alcune parole sulla tentazione, che appare come la via ordinaria attraverso la quale Satana agisce fra gli uomini, ponendo inciampi, in virtù del suo essere lui per primo disobbediente e mentitore. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 395, questi viene definito come uno spirito dotato di una potenza limitata:

«La potenza di Satana però non è infinita. Egli non è che una creatura, potente per il fatto di essere puro spirito, ma pur sempre una creatura: non può impedire l’edificazione del regno di Dio. Sebbene Satana agisca nel mondo per odio contro Dio e il suo regno in Cristo Gesù, e sebbene la sua azione causi gravi danni – di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica – per ogni uomo e per la società, questa azione è permessa dalla divina provvidenza, la quale guida la storia dell’uomo e del mondo con forza e dolcezza. La permissione divina dell’attività diabolica è un grande mistero, ma «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rm 8,28)».

Ritengo sia giusto tornare a riflettere sul significato della tentazione, perché tale argomento sembra sparito dall’orizzonte della vita cristiana, anzi, talvolta, si cerca di sminuire la responsabilità personale in ordine al peccato. Quante volte abbiamo sentito pronunciare, a mo di burla, la celebre frase di Oscar Wilde: «Il modo migliore per liberarsi di una tentazione, è cedervi». Oppure di una nota frase di Gesù nel Vangelo si mantiene solo la prima parte: «Neanch’io ti condanno»; dimenticando che il testo prosegue con: «va’ e d’ora in poi non peccare più». O quando nel frasario quotidiano, a scusa di particolari peccati si suol dire: «La carne è debole».

Solo per accenno, avendo citato il celebre scrittore Oscar Wilde, vorrei ricordare che, nonostante i suoi trascorsi, le molte avventure omosessuali, egli mori da cattolico, dopo aver ricevuto da un sacerdote il Battesimo, l’assoluzione dai peccati in articulo mortis e l’estrema unzione. Nella celebre lettera De profundis indirizzata a un suo amante, Oscar Wilde non smette un attimo di rimproverarsi le debolezze dimostrate in ogni occasione e pronuncia la frase: «Il Cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire».

Sempre per allentare la responsabilità personale nel peccare, a volte si arriva, in ambito religioso, a dare l’intera colpa al Diavolo. Oppure si ricorre, fuori dall’orizzonte di fede, ai processi psicologici per cui l’essere umano, siccome è tale, soggetto a pulsioni e desideri che spesso risalgono all’infanzia, è esente dal peccato; egli può autoassolversi senza intermediari, arrivando perfino alla rimozione della colpa stessa, in barba ad ogni etica della responsabilità. Cosa questa nella quale è pioniera la Psicoanalisi freudiana.

Comprendere cosa sia la tentazione vuol dire capire proprio questa umana fragilità. In un contesto religioso e specificatamente cristiano, vediamo che questa umanità soggetta a caducità non è stata condannata da Dio, ma anzi, assunta da Verbo, la seconda persona della Santa Trinità, tanto che nel Credo si professa che Egli è: «Vero Dio e vero Uomo». Sappiamo infatti che Gesù stesso subì l’attacco della tentazione e portò la parola del perdono e della misericordia a tutti, lasciando la libertà all’uomo di poter anche disattendere questa proposta a proprio discapito.

Affrontare la tentazione per noi esseri umani vuol dire intraprendere una guerra che combattiamo di frequente. E ci viene incontro proprio l’esempio del Cristo che ingaggiò col Demonio una battaglia finale. Secondo il racconto dei Sinottici, alla manifestazione pubblica della messianicità di Gesù nel battesimo fa immediatamente seguito il conflitto con il Demonio, il cui apice è raggiunto dalla versione lucana della seconda tentazione:

«E, conducendolo in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni dell’ecumene; e gli disse il Diavolo: “Ti darò tutta questa potenza e la loro gloria, perché a me è stata rimessa ed io la do a chi voglio; se tu dunque ti prostri davanti a me, sarà tutta tua”» (Lc 4, 5-6).

È una sfida mortale. Gesù non può contestare l’affermazione di potere del Demonio, ma vi oppone la fede in un’altra potenza. A chi più tardi, facendo eco alle parole del demonio, lo accuserà di essere lui stesso un indemoniato, risponderà:

«Ma se è con il dito di Dio che io scaccio i demoni, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11, 20).

Ora la possessione diabolica, di cui fu accusato perfino il Signore Gesù è un’azione straordinaria, rarissima, di cui la Chiesa per la sua certificazione segue un procedimento e delle norme severe. Ma l’azione ordinaria, quotidiana, del Demonio è la tentazione che arriva a colpire l’uomo sia nel corpo che nella psiche.

Come affermava il Catechismo su menzionato, per i disegni misteriosi di Dio, questa attività tentatrice seppur limitata, pure è permessa, evidentemente per un fine superiore. Potremmo dire, per il bene delle anime. La dinamica psicologica e spirituale della tentazione ha come fine il rovesciamento del reale rapporto fra noi e Dio. Il demonio facendoci apparire come buone cose che invece non lo sono, inducendoci al peccato, tenta di allontanarci dal Dio vivo e vero mettendo davanti ai nostri occhi realtà appetibili che sono in verità poveri idoli.

Queste dinamiche demoniache della tentazione le possiamo rintracciare nel primo libro biblico della Genesi. È lì che troviamo narrata la madre di ogni tentazione, nel capitolo terzo dell’opera. Il testo ci mostra come si muove una tentazione che va a scapito dell’uomo e del suo originario rapporto col Creatore.

Innanzitutto la tentazione, nel suo primo movimento, si frappone fra l’uomo e il progetto di Dio su di lui, fino a corromperlo.

«Il serpente […] disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”» (Gen 3, 1).

Il tentatore si insinua così nel rapporto fra la creatura ed il Creatore, iniziando a porre dei dubbi sotto forma di domanda in un contesto di dialogo. Avviene qui il primo cedimento, il tranello nel quale cade Eva, perché risponde. Tutti gli autori spirituali, sulla scorta del testo biblico, avvisano che non bisogna dialogare col demonio, bensì tacitarlo, impedendo che inneschi un eventuale sospetto. L’unica voce che dobbiamo ascoltare è quella di Dio.

La prossima mossa, o secondo movimento di ogni tentazione, consiste nello stravolgimento morale di un bene, facendolo percepire come l’opposto:

«Il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”» (Gen 3, 4-5).

Una volta aperta una porta per il dialogo il Demonio non solo subdolamente si insinua e pone dubbi su Dio come pochi, ma stravolge il Suo insegnamento pervertendolo. È la fine della moralità e della ricerca del vero bene: far sembrare una scelta errata, un peccato, come la cosa più buona e ragionevole. Giunti a questo punto, come si può non cadere? Anzi tutto avviene con facilità. Perché il peccato ci è presentato come la via più vera e utile, salvo poi scoprire che invece è insidiosa e soprattutto ci allontana da Dio:

«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò»(Gen 3,6).

Come si nota, uscire poi dal tunnel della tentazione, una volta imboccato, è difficile se non impossibile. Eppure all’inizio dicevamo che non siamo soggetti senza libertà e responsabilità. Anche se beni indispensabili vengono minati da una minaccia come quella demoniaca, abbiamo la capacità, se non il dovere, di opporci. I Santi ed i maestri dello spirito ci hanno indicato alcuni mezzi i quali, se non ci fanno evitare di essere tentati, ci fortificano, ci donano quegli anticorpi che ci rendono quasi inattaccabili. Accennavo prima a non dare spazio al dialogo col demonio, che può essere, per esempio, interiore, nei nostri pensieri; e per fare questo occorre essere vigilanti.

La preghiera, sull’esempio di Gesù, aiuta molto nel non cadere nella tentazione. Essa ci allena alla vigilanza e ci prepara alle future difficoltà e lotte col demonio. Ma a volte è necessario anche fuggire dalla tentazione, come davanti ad un pericolo che ci sovrasta o che non possiamo controllare, un fuoco che divampa. I detti dei padri del deserto sono pieni di esempi di questo genere, quando erano tentati sulla loro fede genuina o sulla castità che avevano scelto. C’è un bellissimo quadro di Matthias Grünewald, conservato a Colmar in Francia, dove si vede il padre del deserto, Sant’Antonio abate, stiracchiato e assalito da ogni lato da bestie che rappresentano i demoni con le loro tentazioni. Ma non cede o demorde. Il resoconto delle battaglie di Sant’Antonio abate contro il demonio ci viene narrato in questi termini dal vescovo Atanasio di Alessandria che scrisse, avendolo conosciuto in vita, una biografia del santo anacoreta:

«Il posto sembrò esser sconquassato da un terremoto, ed i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero sembravano penetrare attraverso esse, ed apparire in forma di bestie e di cose striscianti. Il posto si riempì improvvisamente di forme di leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, aspidi, scorpioni, ed ognuna di esse si muoveva in accordo alla sua natura».

Si è giustamente osservato che le prediche sui demoni costituiscono

«… un grandioso esempio di psicologia cristiana, in cui le intemperanze umane vengono descritte sotto forma di demoni richiamati dagli abissi dell’inconscio, una sorta di Freud ante litteram con la potenza di Dostoevskij.» (Louis Goosen, Dizionario dei santi, Mondadori, 2000).

Da quanto detto finora risulta evidente che, essendo l’umanità fragile, è facile per noi cedere al peccato in conseguenza di una tentazione. Eppure sappiamo da tutta la rivelazione che non possiamo essere tentati oltre le nostre capacità, che Dio è la nostra forza in qualsiasi circostanza. E se pure cadiamo, Dio ama l’uomo pentito e lo accoglie sempre nella sua grande bontà, come ci insegnano le parabole della misericordia che leggiamo nel Vangelo. Tanto che Gesù stesso ci chiede di imitarlo nel perdono del prossimo e di convertirci.

Cedere alla tentazione ed accettare passivamente il peccato non appare solo come un atto grave di irresponsabilità e immoralità; direi anche che è un atto contro la bellezza e il valore della dignità e libertà che Dio stesso ci ha donato. La sua grazia ed il suo amore, che ci ha rivelato nel corso della storia della salvezza e sommamente nel Cristo Signore nostro ci spingono a liberarci dai lacci della tentazione per vivere abitualmente nella virtù.

In una prossima puntata potremo analizzare meglio l’equipaggiamento dell’uomo virtuoso e quali armi abbiamo da Dio per combattere gli assalti demoniaci. Intanto, per smorzare un po’ i toni seriosi, vi lascio con un consiglio di lettura, il bel libro di C.S. Lewis, Le lettere di berlicche. Questo libro è un racconto satirico in forma epistolare in cui un diavolo anziano, «sua potente Abissale Sublimità il Sottosegretario Berlicche», istruisce suo nipote Malacoda, un giovane diavolo apprendista tentatore. Berlicche consiglia Malacoda su come assicurare la dannazione dell’anima di un giovane essere umano a lui assegnato, indicato come il «paziente», mentre Dio è il «Nemico». Così afferma saggiamente, nella premessa, il Lewis:

«Ci sono due errori uguali ed opposti nei quali la nostra razza può cadere a riguardo dei diavoli. Uno è non credere alla loro esistenza. L’altro è crederci, e nutrire un eccessivo e insano interesse in essi. Loro stessi sono ugualmente compiaciuti da ambedue gli errori e salutano un materialista o un mago con lo stesso piacere».

Santa Maria Novella in Firenze, 3 luglio 2024

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Aldo Moro al mare in giacca e cravatta, vescovi e preti in mutande, noi “preti rigidi” chiamati “farisei” e “formalisti” se osiamo fare richiamo alla dignità sacerdotale

ALDO MORO AL MARE IN GIACCA E CRAVATTA, VESCOVI E PRETI IN MUTANDE, NOI “PRETI RIGIDI” CHIAMATI “FARISEI” E “FORMALISTI” SE OSIAMO FARE RICHIAMI ALLA DIGNITÀ SACERDOTALE

«Quando andavamo in spiaggia, papà indossava sempre la giacca e quando gli chiedevo una spiegazione lui mi rispondeva che essendo un rappresentante del popolo italiano doveva essere sempre dignitoso e presentabile».

 

 

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In questi giorni di calura estiva mi è capitata tra le mani la foto di un nostro statista italiano del Novecento, Aldo Moro, ritratto assieme alla figlia mentre passeggiava sulla spiaggia in giacca e cravatta. La figlia Agnese ricorda:

«Quando andavamo in spiaggia, papà indossava sempre la giacca e quando gli chiedevo una spiegazione lui mi rispondeva che essendo un rappresentante del popolo italiano doveva essere sempre dignitoso e presentabile» (cfr. QUI, QUI).

Foto 1963: Aldo Moro (1916-1978) con la figlia Agnese (1952) a passeggio sulla spiaggia in piena estate

A quei confratelli che non trovando di meglio si rivolgono a me come direttore spirituale o come confessore, sovente ripeto:

«Ciascuno di noi, forse senza neppure rendersene conto, ha come propri modelli quei sacerdoti conosciuti nei delicati anni della fanciullezza».

Ci sono fatti e situazioni in cui si ha la chiara percezione che non tanto siamo invecchiati, ma che siamo considerati vecchi da coloro che hanno trasformato la Chiesa visibile in un teatrino del burlesque.

Quando ero fanciullo andavo per due settimane a una colonia estiva organizzata dalla parrocchia e gestita dalle suore. Non avrei avuto bisogno di andare alla colonia per recarmi al mare, dove i miei familiari avevano delle residenze estive. Più volte mi recai anche con mia nonna materna sulle coste francesi in soggiorno estivo presso sua sorella. I miei genitori mi mandavano a quelle colonie marine, poi in seguito a quelle montane sopra l’Aquila, affinché trascorressi dei periodi di tempo con i miei coetanei.

Nel mese di agosto, all’inizio della colonia marina, tra le 10 e le 11 del mattino giungeva in visita inaugurale il vescovo della diocesi accompagnato dal parroco e dal suo segretario. Bambino di dieci anni che ero ― parliamo quindi di cinquant’anni fa ― tutt’oggi ricordo il vescovo con la sua talare filettata di rosso violaceo e gli altri due presbiteri con quella nera. All’epoca in Italia, l’uso delle talari bianche, era consentito solamente da Napoli in giù. Dopo il saluto rivolto a noi bambini ― come usava all’epoca e come per molti di noi seguita a usare tutt’oggi ―, a uno a uno andammo a baciare la mano destra al vescovo. Quando fu il turno mio, dopo avere baciata la mano al vescovo guardai lui e gli altri due preti e gli domandai se non avessero caldo. Il vescovo sorrise assieme agli altri due e mi rispose:  

«Sì abbiamo caldo, molto! Se però un giorno ti capiterà di vedere un pastore in mezzo al gregge delle sue pecore, noterai che è sempre vestito da pastore, in estate e in inverno. Le pecore il proprio pastore lo riconoscono anche per com’è vestito. Pure il lupo che cerca di aggredire le pecore, se riconosce il pastore sta lontano e non si avvicina».

Da allora è trascorso mezzo secolo esatto, eppure ricordo sempre, non solo le parole, ma persino il tono di voce di quel vescovo, morto ormai da trentacinque anni all’età di novant’anni. Oggi invece, taluni vescovi e preti new generation, dinanzi a racconti di questo genere sorridono, ti lanciano uno sguardo misto a tenerezza e pena, poi, come si dice ai poveri nostalgici, rispondono: «Ma cosa vai a pensare e rinvangare, erano altri tempi!». Siamo sicuri che la dignità e il decoro sacerdotale siano roba di altri tempi?

Nei giorni addietro a Roma si moriva di caldo, tra Borgo Santo Spirito, Borgo Pio e Via della Conciliazione era perlopiù un andirivieni di preti con le camicie a mezze maniche scollacciate, per non parlare delle suorine con le t-shirt bianche che lasciano intravedere i lacci del reggiseno in trasparenza, ed alle quali verrebbe da domandare perché portino il velo in testa, in quelle tenute sarebbe meglio andare senza. Volendo, con il caldo, potrebbero fare a meno anche del reggiseno, se le tette non gli arrivassero all’ombelico. Poi ci sono gli immancabili vescovi con la camicia scollacciata a mezze maniche e la croce pettorale dentro il taschino, affinché il pezzo di catenella lasciata in vista dia l’immagine del “potere” tramite quella che una volta si chiamava “croce pettorale”, oggi si chiama invece “croce panzorale”, perché non sta più sul petto ma pendente sulla panza, oppure “croce tascorale”, perché riposta dentro il taschino della camicia.

Percorrendo Borgo Pio, in direzione di una traversa che si trova poco prima della fine, ben tre gruppi di persone hanno fermato me, il “prete rigido” con la talare addosso, malgrado il caldo; e mi hanno chiesto la benedizione alcuni latinoamericani, altri due gruppetti di persone se potevo benedirgli degli oggetti religiosi appena acquistati. Come di prassi ho benedetto le persone e gli oggetti. Tra questi un giovane mi ha chiesto se non avessi caldo. Gli ho risposto che da sempre soffro molto il caldo e che stavo andando proprio alla lavanderia a ritirare le mie due talari bianche di lino leggero che avevo portato a lavare e che avrei indossato se quel caldo fosse continuato o peggio aumentato. Detto questo ho chiarito:

«Il decoro e la dignità sacerdotale si può manifestare sia vestiti sia mezzi nudi con due stracci sporchi addosso. I nostri vescovi e sacerdoti martiri, morti nei campi di concentramento nazisti o nei gulag comunisti, non erano forse rivestiti anch’essi di grande dignità? Ma siccome noi non siamo né dentro i campi di concentramento né dentro i gulag, è bene stare vestiti dal collo alle caviglie, anche quando fa caldo».

Ho usato altre parole, rispetto a quelle che usò quel vescovo con me mezzo secolo fa, ma la sostanza era quella e l’effetto prodotto penso sia stato lo stesso. Da buon prete “rigido” nessuno mi ha mai visto girare in pantaloncini corti, figurarsi entrare dentro le chiese per celebrare la Santa Messa in quelle condizioni. Nessuno mi ha mai visto al mare in costume da bagno in mezzo alla gente, le pochissime volte che durante l’estate ci vado, all’incirca tre o quattro volte, mi reco in posti isolati e spopolati dove non conosco nessuno e dove nessuno conosce me. Questioni di … rigidità.

O come dicono alcuni cari detrattori ai quali sto particolarmente simpatico e che vagano tranquillamente in braghe di tela dopo avere fatto sei o sette anni di fantastica formazione nel santissimo seminario:

«Non prestategli attenzione, lui non fa testo, non ha fatto nemmeno il seminario, è un rigido!».

Alla prova dei fatti è il caso di dire: «Grazie a Dio!», semmai ricordando a questi lacunosi in storia della Chiesa, oltre che in dottrina cattolica, che il seminario non lo fecero neppure Giovanni Paolo II, Paolo VI e prima di loro neanche Pio XII, quest’ultimo spacciato per allievo dell’Almo Collegio Capranica, dove però stette solo due o tre mesi, giusto per poter dire che era passato per il corridoio di un seminario romano prima di essere ordinato presbitero e catapultato il giorno dopo alla Pontificia Accademia Ecclesiastica. Il privilegio di non avere fatto il seminario non mi concederà certo di diventare Sommo Pontefice, spero però possa concedermi di santificarmi.

Sicuramente, il santissimo seminario, lo ha fatto il Vescovo di Vallo della Lucania, fotografato sorridente in mutande e messo sulla pagina social della sua Diocesi con tanto di goliardica maglietta indosso dell’8X1000 (cfr. QUI), a riguardo del quale qualcuno si domanda pure: come mai da anni, questo gettito a noi destinato dai contribuenti italiani, non è più neppure in calo, ma in caduta libera? Può essere che dipenda da mancanza di rigidità e dalle formazioni eccelse date nei nostri santissimi seminari ai nostri vescovi e preti new generation?

Siccome secondo il meglio del peggio del clericalese ― proprio quello che si impara nei santissimi seminari ―, la tecnica consolidata è quella di rovesciare i fatti e dare poi addosso a chi ha rivolto critiche del tutto legittime, conoscendo certe psicologie pretesche faccio presente che la pronta replica circa il fatto che la foto sarebbe stata rubata da qualcuno e poi pubblicata, non regge; soprattutto perché è stata pubblicata in un primo tempo sulla pagina social della Diocesi con tanto di messaggio ufficiale e poco dopo rimossa. La domanda è infatti a monte e va ben oltre la foto in sé: un vescovo di sessant’anni in condizioni fisiche tutt’altro che toniche e sportive, con abbondanza di pancia e grasso superfluo addosso, è opportuno che faccia il giovincello scendendo nel campo di calcio? A questa domanda pertinente ne segue poi una seconda: i giovani e meno giovani di oggi, sempre più poveri di Cristo e analfabeti in materia di dottrina e di fede, il Vescovo, lo preferiscono in cattedra a insegnare e trasmettere quelle verità di fede ormai perdute, oppure a fare le partite di calcio in una sorta di patetica riedizione delle vecchie e divertenti partite tra scapoli e ammogliati?

 

Dall’Isola di Patmos, 28 giugno 2024

 

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Vergogne del sacerdozio crescono e si moltiplicano

VERGOGNE DEL SACERDOZIO CRESCONO E SI MOLTIPLICANO

Le spiegazioni a questa vignetta che con due pennellate irride Gesù Cristo e gli Apostoli, non dovrebbe fornirle il presbitero veronese Giovanni Berti, ma chi ha l’obbligo di vigilare sulla corretta ortodossia dei preti.

— Tristi e brevi  —

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Dinanzi a questa irridente vignetta, vorremo che quanti sono preposti a vigilare sulla retta dottrina dei preti — e pare che questi preposti si chiamino vescovi, termine derivante dal greco ἐπίσκοπος, che significa vigilante / colui che sorveglia — ci illuminassero su come dobbiamo interpretare certi passi del Beato Apostolo Paolo. Nell’eventualità, è opportuno cancellarli dalle Sacre Scritture? O potrebbe essere sufficiente evitare di dire «Parola di Dio» al termine della proclamazione di certi passi, spiegando ai Christi Fideles che l’Apostolo era in grave errore? Scrive infatti Paolo:

«Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l’uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento» (Rm 1, 24-27).

E ancora:

«O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (I Cor 6, 9-10).

Sarà inoltre opportuno, sempre alla luce della illuminante vignetta di Giovanni Berti in arte Gioba, cancellare anche questo passo dal Catechismo della Chiesa Cattolica:

«L’omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni (cfr. Gn 19,1-29Rm 1,24-271 Cor 6,9-101 Tm 1,10), la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati” (Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Persona humana, 8: AAS 68 (1976) 85). Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati […] Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (nn. 2357-2358)

Siamo sicuri che Gesù Cristo, a quelli che praticavano «l’altra sponda» abbia detto «… ma va bene così, eh, eh …» e che un presbitero possa diffondere questo messaggio irridente nella totale indifferente di chi dovrebbe vigilare sull’ortodossia dottrinale e morale dei preti?

 

dall’Isola di Patmos, 24 giugno 2024

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