Comprendo la Cina Comunista e il suo timore verso il Cattolicesimo, non comprendo invece le ragioni dell’accordo fantasma della Santa Sede col Governo di Pechino

— Chiesa nel mondo: saggio breve di un prete che ama la Cina e il suo Popolo —

COMPRENDO LA CINA COMUNISTA E IL SUO TIMORE VERSO IL CATTOLICESIMO, NON COMPRENDO INVECE LE RAGIONI DELL’ACCORDO FANTASMA DELLA SANTA SEDE COL GOVERNO DI PECHINO

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il Cristianesimo è divenuto elemento di aggregazione e di unità, senza però impedire, come forse pensava l’Imperatore Costantino, la disgregazione dell’Impero, anzi sotto certi aspetti favorendola. Sicché, il potere politico che cercò di rinsaldarsi usando come elemento di unità ed unificazione il Cristianesimo, credendo di poter in tal senso ed a tal fine assorbire il Cristianesimo, è stato invece assorbito dal Cristianesimo, che è sopravvissuto all’Impero Romano mantenendo al proprio interno tradizioni, usi e costumi romani totalmente cristianizzati. Ecco cosa spaventa il Governo Comunista della Cina, ed hanno ragione, sul piano politico, a essere spaventati, quindi ad agire di conseguenza. È la Santa Sede che forse non ha capito la ragione di queste paure..

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Roma 2010 – il Padre Ariel S. Levi di Gualdo alla Via Crucis al Colosseo in ricordo dei Beati Martiri Cristiani, assieme a uno dei diversi confratelli cinesi coi quali ha vissuto a contatto nella Capitale

Da tempo desideravo spender due parole sulla questione cinese, ma ho evitato di farlo perché molti sono ormai gli auto-eletti esperti che sugli organi di stampa cattolici, per seguire con la pletora di siti e blog cattolici, ci donano preziose perle di saggezza. I commentatori più accreditati si limitano a pubblicare veline a loro passate da qualche addetto della Segreteria di Stato, dando così continuità all’interno della Chiesa Cattolica a quello che era il rapporto tra l’organo ufficiale del Partito Comunista, il quotidiano Правда [in italiano Pravda], e il Soviet di Mosca. Peraltro, nella lingua russa, Правда vuol dire Verità. E ciò fa sorridere, come oggi fa sorridere il nome del quotidiano dei vescovi d’Italia: Avvenire. Dato che di questo passo, l’avvenire della Chiesa pellegrina sulla terra, a breve non sarà purtroppo tra i più edificanti.

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Ho conosciuto negli anni eminenti studiosi, inclusi diversi missionari, che pur avendo studiato per decenni il fenomeno cinese ed avendo vissuto in quel grande Paese, quando nominavano la Cina erano pervasi da una sorta di sacro timore, poiché consapevoli della sua complessità storico-sociale e della sua antica e gloriosa cultura. Soprattutto, sin dalla mia formazione al sacerdozio, ho conosciuto e vissuto a stretto contatto a Roma con diversi cinesi; e posso garantire ai nostri Lettori che per il “poco” che dalle loro vite vissute posso avere appreso, forse ho appreso qualche cosa in più rispetto ai velinari della Pravda Pontificia, ai quali qualche monsignorino della Segreteria di Stato, che in Cina non ci ha mai messo piede, ha passato qualche velina affinché scrivessero che il Venerabile Cardinale Joseph Zen Ze-Kiun, cinese d’antica stirpe, ottantasei anni d’età e già Arcivescovo di Hong Kong, è  solo un vecchio rabbioso prevenuto contro il governo ateo-comunista di quel Paese. Parola di velinari, il tutto su impulso di qualche curiale, che forse ha avuto modo di conoscer molto meglio e molto più a fondo la Cina, semmai spulciando sulle carte della Segreteria di Stato di Sua Santità.

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Se un uomo venerabile come il Cardinale Joseph Zen Ze-Kiun, contrario da sempre a ogni genere di cedimento da parte della Santa Sede al Governo della Cina, afferma «Stanno dando il gregge in pasto ai lupi» e che ciò è un incredibile tradimento», ed infine aggiungendo: «La firma di un accordo con il regime ateo di Pechino mina la credibilità del Papa» [Reuters, servizio QUI], qualcuno, vuol porsi per caso perlomeno delle domande? Il problema è che la Chiesa del superficiale, dell’approssimativo, ma soprattutto dell’emotivo, del dialogo al di sopra di tutto costasse pure distruggere tutto, da tempo ha cessato di ascoltare gli esperti; e dopo averli più o meno bonariamente liquidati, ha deciso di andare … dove ti porta il cuoricino soggettivo che batte.

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Sorridiamo quindi con tenerezza sia sui velinari da sacro palazzo sia su coloro che si improvvisano esperti su questo antico e complesso gigante, tal è la Cina, parlando della quale l’umiltà è da sempre lo strumento prìncipe usato dai suoi veri e grandi studiosi, che semmai, alla tenera età di ottant’anni, dopo mezzo secolo di studi ad essa dedicati, col candore tipico dei veri conoscitori ti dicono: «Dopo mezzo secolo di studi approfonditi, ho imparato qualche cosa della Cina, della sua storia e della sua antica cultura … ma, beninteso: solo qualche cosa!».

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UN PICCOLO CAFFÈ STORICO SULLA GRANDE CINA

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Roma, 2010 – Il Padre Ariel S. Levi di Gualdo con un confratello cinese

Le prime cronache storiche scritte della Cina affondano le antiche radici nella dinastia Shang risalente agli anni 1.800-1100 a.C. Mentre alla dinastia Zhou, che occuperà la scena per oltre dodici secoli di storia, tra l’anno 1.500 e l’anno 250 circa a.C. risalgono invece i primi caratteri di scrittura impressi sugli ossi oracolari, pezzi di osso o di gusci di animali sui quali erano incisi dei dipinti e delle iscrizioni che nella attuale forma evoluta corrispondono ai caratteri di scrittura cinesi oggi in uso. A questo potremmo aggiungere che, a livello tecnico e architettonico, nella grande Cina furono realizzate opere che sia in precisione sia in grandezza, ma sotto molti aspetti anche in perfezione e bellezza, superano le grandi opere degli egizi, dei greci e dei romani. Si pensi solo alla Grande Muraglia cinese, la cui costruzione prende avvio nel V secolo a.C. Tra l’altro, nel 2009 il dipartimento di archeologia del Governo Cinese rendeva noto che la Grande Muraglia non era lunga, come si credeva, 8.800 chilometri, ma 21.196,18 chilometri. In ogni caso sappiamo da sempre che la Cina ha realizzato la più grande opera architettonica e ingegneristica della storia dell’intera umanità. E, detto questo, chi vuole intendere intenda …

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L’Occidente è oggi prodotto del poco che resta della cultura greco-romana, per seguire con la cultura cristiana. Le basi sulle quali si svilupperà nel corso dei secoli il diritto e la politica hanno le loro fondamentali basi nella filosofia di Platone, Socrate e Aristotele; e come epoca storica, siamo tra il IV e III secolo a.C. La Cina comincia invece ad avere uno sviluppo filosofico a partire dal VII e VI secolo a.C. attraverso il confucianesimo, il moismo ed il cosiddetto legalismo, pensieri dai quali prenderà vita una struttura giuridica e politica del tutto diversa, rispetto a quella dell’Occidente.

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Il diritto cinese è antico di 4.000 anni e sin dai tempi più remoti erano soliti codificare le proprie leggi per scritto. Per la cultura cinese, la legge, è un precetto assoluto ed un modello rigido di comportamento. Per quanto riguarda la legge e la sua applicazione, andrebbe anzitutto tenuto conto che il diritto cinese non ha certo assimilato quelli che sono i principi del Cristianesimo trasfusi poi in epoca post-costantiniana nel diritto romano, dove prende forma il concetto di punizione comunque mirata al recupero del reo condannato. Per quanto oggi certe cose siano di difficile comprensione se analizzate con criteri di analisi contemporanea, attraverso la stessa pena di morte era data la possibilità al condannato di espiare la colpa del proprio delitto, quindi di tornare ad uno stato di purezza attraverso una pena capitale che era appunto espiativa, applicata non per vendetta punitiva, ma come atto di misericordia mirato alla salvaguardia della salute eterna dell’anima del condannato.

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Nella cultura giuridica cinese, certi concetti sono del tutto estranei: la condanna, qualunque essa sia, è un’azione puramente e decisamente punitiva inflitta per un delitto commesso. Solo in epoca maoista prenderanno vita, per motivi puramente socio-politici, degli elementi di per sé estranei alla cultura cinese, per esempio la pubblica sconfessione degli errori e la rieducazione. Si tratta però di elementi che nulla hanno da spartire col diritto romano-cristiano, ma col marxismo modulato ad uso del regime cinese durante la rivoluzione maoista.

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Solo questo potrebbe bastare per delineare due culture che nascono, prendono forma e si sviluppano attraverso i secoli su fondamenta del tutto diverse; ma soprattutto che parlano due linguaggi completamente diversi, generando di conseguenza un diverso sentire ed un diverso vivere.

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Quella occidentale-europea, è una società decadente ammalata di odio verso se stessa e verso le proprie origini. E quelle dell’Europa — con tutto il debito rispetto per la numerosa rappresentanza di gay e lesbiche che strepitano nel Parlamento di Strasburgo — sono origini eminentemente cristiane, non origini LGBT. Non a caso, l’idea di Europa, ed il suo stesso nome, nasce nell’ambito monastico, a partire dall’VIII secolo, dopo la caduta dell’Impero Romano.

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Se l’Europa è un vecchio continente sempre meno identitario preso a combattere con la negazione stessa delle proprie radici, quella cinese è invece una società che vive un’ascesa segnata da un continuo sviluppo, ma soprattutto è una società molto radicata nelle proprie antiche e nobili origini. E ciò detto sorge sùbito la prima domanda: una Chiesa Cattolica figlia di un’Europa morente che nega se stessa, afflitta al proprio interno da una crisi morale senza precedenti storici, con potenti lobby gay-lesbo che attraverso la totale sovversione del diritto naturale rivendicano il diritto “sacrosanto” alla distruzione della nostra civiltà; un’Europa che da mezzo secolo è stata indebolita da una crisi del principio interno di autorità dal quale ha preso poi vita la distruzione dell’autorità stessa … come può, questo genere di Europa, pensare di poter dialogare e trattare con una cultura come quella cinese? O qualcuno riesce a immaginare un grande Gay Pride a Pechino, con i soliti burloni mascherati semmai da Xi Jinping, il severo Presidente della Repubblica Popolare Cinese, raffigurato sotto forma di coniglietta rosa ricoperta di pajettes? O bisogna per caso spiegare che per una cosa del genere, in Cina, si è condannati a morte nel giro massimo di quarantotto ore dopo essere stati bastonati su una pubblica piazza? In Cina il Governo considera l’omosessualità «un segno esplicito della “decadenza borghese Occidentale». A questo si aggiunga che il Governo della Cina, ai genitori che richiedono di poter adottare un bimbo cinese, impone di essere uniti in matrimonio rigorosamente eterosessuale e proibisce la concessione dell’adozione di bimbi alle coppie LGBT. La legislazione della Repubblica Popolare Cinese definisce il matrimonio come unione unicamente tra un uomo e una donna e non riconosce alcuna legittimità alle coppie omosessuali [III sessione del V Congresso Nazionale del Popolo, 10 settembre 1980]. Molto restrittiva anche la legislazione sul cambio di sesso, che per legge non può avvenire prima dei vent’anni e dopo accurate perizie mediche che ne certifichino la assoluta necessità. Rarissimi quindi in Cina sono i cambi di sesso, mediante interventi chirurgici e relative cure ormonali. Detto questo, qualcuno pensa di poter dire al Governo della Cina: … chi sei tu, per giudicare dei gay e per impedire loro di realizzare il diritto al loro amore, ed a coronarlo con l’adozione di un bimbo, o col suo acquisto da un utero in affitto?

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Gli orientali in generale, i cinesi in particolare, non concepiscono neppure che l’autorità ed il principio di autorità possa essere scisso dalla autorevolezza di chi l’autorità la esercita. E qui sorge la seconda domanda: i Mago Merlino della Segreteria di Stato di Sua Santità, con buona pace delle veline pubblicate dai giornalisti della Pravda Pontificia, proprio mentre la struttura ecclesiastica si trova a vivere la sua più profonda crisi di autorevolezza a livello planetario, come pensano di trattare con chi sul principio di autorevolezza fonda invece ogni genere di rapporto sociale, politico ed economico?

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Il sistema cinese forma e pone ai propri vertici dei fuoriclasse quasi sempre formati sin da bambini in modo molto meticoloso e severo, per poter poi ricoprire certi ruoli. E nell’esercizio di certi ruoli, nella cultura cinese non si applica il bonario principio che errare humanum est, bensì l’opposto: in certi ruoli è impossibile sbagliare, specie quando un errore comprometterebbe — anche se ciò avvenisse in modo lieve — l’immagine della autorevolezza e l’onore del proprio Paese. Ciò per ribadire che parlando della Cina in ascesa il cui impianto socio-filosofico è di radice confuciana, quindi dell’Europa decadente il cui impianto socio-filosofico, seppure dalla stessa sprezzato e rinnegato, è di radice greco-romana e cristiana, noi poniamo a confronto due mondi e due società del tutto antitetiche, soprattutto per quanto riguarda il concetto stesso di uomo, società, diritto e diritti. Un solo esempio: nella cultura europea, non solo cristiana, ma anche in quella laica che risente di quella radice cristiana che pure rinnega, il perdono e la clemenza sono di fatto segni di civile superiorità; prova n’è il fatto che quasi in tutti i sistemi costituzionali e giuridici è previsto l’atto di clemenza da parte del Capo dello Stato per i condannati anche per gravi reati contro lo Stato stesso. Diversamente, nella cultura sociale e politica cinese, il perdono e la clemenza possono essere segno di inaudita debolezza che svigorirebbe in certe particolari situazioni l’autorità e l’autorevolezza dell’intero sistema sociale, politico e giuridico, in modo particolare per quelli che sono considerati i reati contro il Popolo e lo Stato. E, detto questo, non induca in inganno il modo in cui tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento fu modulata dal regime di Mao Zedong la sconfessione pubblica degli errori contro il Popolo e lo Stato, quindi la rieducazione di quelli che noi chiameremo “pentiti”. Tutto ciò avvenne infatti al solo scopo di poterli trasformare nei più attivi propagandisti del Regime Comunista, rinati dall’errore e quindi divenuti testimoni della verità. Un caso eclatante in tal senso? Quello dell’ultimo Imperatore della Cina Pu Yi, internato nel 1950 in un istituto di rieducazione per criminali di guerra, dal quale fu scarcerato nel 1959. Una volta rieducato e divenuto fedele e rispettoso al Regime Comunista, lavorò come funzionario addetto alla collezione e classificazione del materiale storico e come giardiniere del parco botanico di Pechino, fino alla sua morte avvenuta nel 1967 [cf. Pu Yi, Sono stato imperatore, a cura di Francesco Saba Sardi. Milano, Ed. italiana Bompiani, 1987].

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Passiamo ad un altro esempio esaustivo: si  pensi a quella che fu il 28 agosto del 2008 la inaugurazione delle olimpiadi a Pechino. Il mondo intero rimase sbalordito da quelle scenografie e dai movimenti sincronizzati di migliaia di figuranti che dettero prova di che cosa sia quel genere di perfezione che non ammette errori. Ma soprattutto, dietro a quelle scenografie uniche e sino a oggi irripetibili per qualsiasi altro popolo del mondo, è racchiuso un elemento socio-culturale che costituisce un altro fondamento di quella cultura: i concetti di popolo, stato e nazione sono al di sopra del singolo. Nella società europea è invece l’individuo al di sopra di tutto, mentre in quella cinese, al di sopra di tutto, c’è il concetto e l’identità di popolo. E qui sorge la quarta domanda: una Chiesa Cattolica ridotta ad una vecchia fattrice che partorisce piccoli topolini, all’interno della quale la qualità ed il talento sono penalizzati con ferocia distruttiva, dove i mediocri giunti al potere ormai da un trentennio impongono delle categorie di autentici sotto-mediocri come propri collaboratori e poi successori — il tutto  sulla base del principio che dei polli che razzolano nel pollaio non possono certo circondarsi di aquile reali —, come può pensare di trattare con dei soggetti che sono stati selezionati, cresciuti e formati per essere invece degli autentici fuoriclasse di elevato talento? Quando i cinesi si mettono in gioco, ma soprattutto, quando a qualsiasi titolo è in gioco la dignità e l’onore del loro Paese, devono solo e di rigore eccellere; e riescono sempre ad eccellere in tutto, figli come sono di una cultura che mai, ed in particolare in certe posizioni e ruoli, non ammette errori e meno che mai forme di mediocrità.

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Un esempio per ancor meglio chiarire: una volta un sacerdote cinese della Chiesa clandestina giunto da pochi giorni a Roma, dopo che avevo tentato di rivolgermi a lui salutandolo in inglese, poi in francese, mentre io mi domandavo dentro di me quale lingua egli parlasse oltre al cinese, questi mi si rivolse così: «Veneràbilis Fràter, gràtias et pàx tibi. Ego sum sacèrdos Sìnicus. Non loquor itàlico sermone. Tàmen, sènex epìscopus sìnicus, qui loquitur làtino sermone, me  latìnum docuit» [Venerabile Fratello, grazia e pace a te. Io sono un sacerdote cinese. Non parlo l’italiano. Però, gli anziani vescovi cinesi che parlano la lingua latina, mi hanno insegnato a parlare il latino]. Detto questo non voglio essere irriverente, ma sarei tentato di invitare chicchessia a entrare nell’aula della Conferenza Episcopale Italiana, quindi a rivolgersi in latino ad un po’ di vescovi a caso, soprattutto a quelli di ultima generazione che si atteggiano a intellettuali sopraffini, per poi vedere che cosa accade, ma soprattutto per appurare che cosa capiscono …

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Chiarito il concetto di non erranza che vige a certi livelli sociali e istituzionali nella cultura cinese, possiamo aggiungere infine un’ultima domanda, rivolta sia ai Mago Merlino della Segreteria di Stato di Sua Santità sia ai velinari che pubblicano amenità, vale a dire la seguente: la Segreteria di Stato di Sua Santità, nella quale assieme agli incapaci brulicano persone che se sbagliano rimangono impunite ai loro posti, oppure peggio, se sbagliano non ammetterebbero mai il loro errore, specie se il loro grado gerarchico è particolarmente alto, costasse pure punire degli innocenti pur di difendere i colpevoli di gravi danni … ebbene, come possono pensare che si possa trattare con persone che a certi livelli pubblici e istituzionali non ammettono errore, sino a considerarlo un danno imperdonabile e un immane disonore, posto che nella cultura socio-politica cinese non prevale la difesa del singolo, ma la massima tutela dell’onore del corpo istituzionale unitario?

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Nell’attuale momento storico, la Chiesa non ha né la forza né i diplomatici idonei per poter interloquire col Governo della Cina, per dialogare col quale occorrerebbero figure di ecclesiastici in grado anzitutto di colpirli con la loro grande autorità e soprattutto con la loro grande autorevolezza. E noi oggi, mentre vaghiamo da uno scandalo grottesco all’altro, personaggi simili, da dove pensiamo di tirarli fuori?

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IMMAGINE PUBBLICA, CONCETTO DI FORMA E SOSTANZA NELLA CULTURA CINESE

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… questo è un ministro del governo del Capo della Chiesa Cattolica – perché tale sul piano politico è considerato un cardinale da qualsiasi autorità governativa internazionale – impegnato a illustrare le lavatrici e gli stendi-biancheria al Romano Pontefice, il tutto sotto le vigili riprese di un cameraman, a chiara prova, semmai ve ne fosse bisogno, che questa scenetta non s’intendeva affatto lasciarla nella sfera privata, ma renderla proprio pubblica …

Giacché viviamo nel mondo della immagine, proviamo allora a dare due immagini del tutto diverse, anche se oggi molti, troppi, non vogliono accettare l’idea che la forma, a suo modo, concorre a fare la sostanza, o perlomeno a metterla nella giusta luce. Omettendo volutamente di indicare la persona ed anche l’anno, cosicché neppure attraverso la data si risalga al personaggio, ricordo, anni fa, un documentario di approfondimento nel quale era ripresa una assemblea plenaria presso le Nazioni Unite. Con sgomento notai il rappresentate della Santa Sede, che presso il Palazzo di Vetro ha un seggio come osservatore permanente. Il rappresentante della Santa Sede era vestito con uno sciatto clergyman che lasciava trasparire il lucido sdrucito dalla televisione, con i capelli mal pettinati, della forfora bianca visibile sulle spalle dalle inquadrature in primo piano, ed un’aria alquanto goffa. Poco dopo fu inquadrato — non so se per caso o apposta — il rappresentante della Repubblica Popolare Cinese accompagnato da due collaboratori. Tutti e tre con un portamento da autentici prìncipi delle loro più antiche dinastie storiche, vestiti d’alta sartoria, pettinati, rasati e tirati a lucido meglio e forse più di tre attori di Hollywood durante la grande notte degli Oscar. Dinanzi al cinese, per il quale forma e sostanza sono inscindibili e che non concepisce neppure che in assenza di adeguata forma possa esservi alcuna sostanza, quale impressione poteva fare, quello sciatto soggetto che rappresentava la Santa Sede all’O.N.U? Poi, se detto questo precisiamo che all’epoca del fatto testé narrato, tutto sommato non ce la passavamo ancòra male come oggi, penso che sia detto tutto, o perlomeno si è detto tutto quello che si doveva dire. Specie considerando che oggi, una delegazione cinese che giungesse col proprio stile ufficiale presso la Città del Vaticano, entrando od uscendo dalle mura leonine potrebbe incrociare il Cardinal barista che esce col termos, un sacchetto di plastica, le maniche della camicia tirate sopra i gomiti, per portare il caffè serale ai barboni sotto il Colonnato di Bernini.

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… questo è invece un ministro del Governo della Repubblica Popolare Cinese, S.E. Wang Yi, titolare del dicastero degli affari esteri dal 2013 al 2018, oggi Consigliere di Stato, pare discenda dalla dinastia dell’ultimo Imperatore della Cina. Si prega notare se in una occasione pubblica ufficiale, tra “una lavatrice ed uno stenditoio”, ha un solo capello fuori posto …

Senza rispetto per la figura e l’età, i giornalisti della Pravda Pontificia hanno instillato veleno sul Cardinale Joseph Zen Ze-Kiun, che oltre a esser cinese, dopo esser stato Arcivescovo di Hong Kong, a ottantasei anni si presume conosca la Cina più di certi velinari e lor padroncini. Eppure su di lui abbiamo letto critiche velate che l’hanno dipinto come un senile testardo. Nessuno ha messo a fuoco che questo Cardinale che si dichiara nemico di un governo ateo, dai membri di quel governo comunista è riconosciuto come una autentica autorità. Perché questa è un’altra caratteristica della socio-psicologia cinese: riconoscere il profondo valore del nemico. E il Cardinale Joseph Zen Ze-Kiun è un nemico rispettato e profondamente onorato da quel governo ateo-comunista col quale egli, inutilmente, ha ribadito che la Santa Sede non doveva trattare, o che perlomeno non avrebbe dovuto trattare in fretta ed a tutti i costi, perché quelli della grande Cina sono sempre e di prassi tempi molto lenti.

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IL GOVERNO CINESE HA TUTTE LE STORICHE RAGIONI PER TEMERE IL CATTOLICESIMO

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Roma 2009 – ricordi fraterni …

Veniamo al cuore del problema: noi che presumiamo di trattar coi cinesi e di stilare accordi con loro, non conosciamo né la cultura cinese né la Cina, mentre i cinesi degli alti vertici governativi, selezionati sin da bimbi, cresciuti e formati per diventare delle aquile reali, non dei polli, conoscono invece noi; assieme a noi conoscono il Cristianesimo, più di quanto si possa immaginare.

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Anzitutto, nel Cattolicesimo, diversamente dalle varie altre comunità cristiane facenti capo al Movimento Protestante, che come sappiamo non è un fenomeno unitario, altrettanto vale per l’Islam, il Governo Comunista cinese vede una forza che dipende da una potenza straniera; cosa questa inaccettabile per un impianto socio-culturale e politico come quello cinese. E partendo da questa paura, proviamo adesso ad analizzare la comprensibile e fondamentale paura che il Governo della Cina ha del Cristianesimo, ma soprattutto del Cattolicesimo, perché se vogliamo fare una analisi seria e imparziale, dobbiamo ammettere che si tratta di una paura del tutto comprensibile e soprattutto storicamente fondata. Nella storia, il Cristianesimo, ha creato un effetto aggregante che ha prodotto però successivamente un effetto disgregante, in molti casi assorbente. Caso più eclatante della storia è la caduta dell’Impero Romano. Nel morente Impero, a partire dall’epoca costantiniana, il Cristianesimo è divenuto elemento di aggregazione e di unità, senza però impedire, come forse pensava l’Imperatore Costantino, la disgregazione dell’Impero, anzi sotto certi aspetti favorendola. Sicché, il potere politico che cercò di rinsaldarsi usando come elemento di unità ed unificazione il Cristianesimo, credendo di poter in tal senso ed a tal fine assorbire il Cristianesimo, è stato invece assorbito dal Cristianesimo, che è sopravvissuto all’impero mantenendo al proprio interno tradizioni, usi e costumi romani totalmente cristianizzati. Se poi dall’antichità vogliamo passare alla modernità, basti citare il caso della Polonia d’inizi anni Settanta del Novecento, nella quale il Cristianesimo, a livello aggregativo, ha costituito non solo un fronte contro il regime comunista, ma tramite effetto domino ha originato il suo successivo sgretolamento in tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico.

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Quando si parla del Cattolicesimo in Cina, si menzionano subito, solo e quasi sempre i Gesuiti, che vi giunsero alla metà del Cinquecento. Purtroppo si tratta però di un grossolano errore storico, perché i primi a portare il Vangelo in Cina furono attorno al 1246 i Frati Francescani, due secoli e mezzo prima della nascita della Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio di Loyola. Tanto che, quando dopo il 1260 i Fratelli Polo giunsero come mercanti e furono infine ricevuti a corte dal Gran Khan, che si trovava nella odierna Pechino, si sentirono chiedere dal sovrano «notizie sul Pontefice Romano e sulle condizioni della Chiesa Romana e delle usanze dei latini». Figura determinante fu alcuni decenni dopo quella del Francescano Giovanni da Montercorvino, che riuscì a conquistare la fiducia del Gran Khan e ad iniziare una vera e propria evangelizzazione. Fu così che il Sommo Pontefice Clemente V rispose alle richieste di Frate Giovanni, che chiedeva di poter organizzare delle circoscrizioni ecclesiastiche, inviando in Cina un altro gruppo di Frati Francescani, assieme a sette vescovi. Il gruppo di vescovi e religiosi giunse in Cina attorno al 1310, dopo diversi anni di viaggio. I vescovi avevano ricevuto ordine dal Sommo Pontefice di procedere alla consacrazione episcopale di Frate Giovanni, che fu il primo vescovo consacrato in Cina ed il primo Arcivescovo di Pechino [cf. AA.VV. I Francescani in Cina. 800 anni di storia. Ed. Porziuncola, 2001, un estratto è disponibile QUI]. Insomma … con buona pace della venerata memoria del gesuita Matteo Ricci [Macerata 1552 – Pechino 1610], i gesuiti sono giunti oltre due secoli e mezzo dopo. E volendo — sempre per essere storicamente onesti — possiamo dire che giunsero non ultimo per fare anche danni, oltre all’indubbio bene da essi operato. E passando con un salto di secoli alla modernità, non possiamo certo omettere di ricordare che il principale sviluppo del Cattolicesimo in Cina tra fine Settecento e inizi Ottocento, è sì dovuto anche ai Gesuiti, ma bisogna precisare che i missionari gesuiti giunsero al seguito dei francesi e tutti loro, per la maggiore, erano di nazionalità francese. La Francia, in Cina, aveva infatti numerosi consolati per motivi di carattere prevalentemente economico; ed attorno a questi consolati sorsero le comunità e le attività dei Gesuiti francesi. Potendo poi disporre per le proprie attività di notevoli risorse economiche, nel 1903 aprirono l’Università Aurora, nella attuale Shanghai, che cessò di essere un ateneo cattolico nel 1953. In seguito fu aperta nel 1905 l’Università Fudan e nel 1926 la prestigiosa Università Fu Jen di Pechino, oggi con sede a Taiwan. Scopo di queste istituzioni, in particolare dell’Università di Pechino, era di formare le future classi dirigenti della Cina, il tutto in epoche nelle quali i Gesuiti non mostravano ancòra alcun sintomo di desiderare «una Chiesa povera per i poveri».

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Già in precedenza i Gesuiti, dai missionari Francescani e Domenicani erano stati accusati di lassismo, di ricerca del potere e del prestigio, ma soprattutto di favorire l’idolatria ed il cosiddetto Culto degli Antenati. I Gesuiti provarono a giustificarsi replicando che per loro, le offerte poste davanti alle Tavolette degli Antenati, non avevano alcuna valenza rituale religiosa. Affatto persuaso dalle loro giustificazioni, nel 1645 il Sommo Pontefice Innocenzo X — a dir poco inconsapevole con chi avesse a che fare e quindi cosa avrebbe prodotto — condannò queste usanze come incompatibili col Cristianesimo. L’Imperatore si sentì oltraggiato da siffatta intromissione imperiosa negli affari cinesi, mentre prendeva così vita la “disputa sui riti”.

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Nel 1704 il Sommo Pontefice Clemente XI rincarò la dose emanando un decreto di condanna sulla pratica dei riti confuciani ed il Culto degli Antenati, inviando un legato pontificio affinché vigilasse sulla sua applicazione. L’Imperatore, già perplesso per le lotte e le rivalità tra i membri dei vari Ordini Religiosi presenti sul suo territorio, si sentì profondamente offeso per il decreto pontificio ed il modo in cui era stata stabilita la vigilanza sulla sua applicazione, il tutto seguìto un decennio dopo dalla Bolla Ex illa Die del 1715 nella quale si imponeva ai missionari il giuramento di rinuncia alla diffusione e alla pratica di certi riti superstiziosi. L’Imperatore replicò attraverso i propri ambasciatori: «Che cosa direbbe il Pontefice di Roma, se l’Imperatore della Cina si permettesse di giudicare e di riformare le cerimonie della Sede Apostolica?». E nel 1717 proibì nell’Impero il proselitismo cristiano e la predicazione del Vangelo. È presto detto: se da una parte, tra i membri della Compagnia di Gesù missionari in Cina, c’era una casta di Gesuiti che si comportavano come mandarini e che ricoprivano anche pubblici ruoli politico-amministrativi, dall’altra c’erano missionari Domenicani che, affetti per altro verso da miopia non meno grave, anzi forse persino peggiore, pensavano di poter scatenare dispute teologiche e di poter lanciare accuse di eresia, proprio come se si trovassero in qualche Paese cosiddetto cattolico dell’Europa dell’epoca. E, ben presto, il grave danno fu, producendo effetti non facilmente riparabili fino ai giorni nostri …

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Detto questo bisogna chiarire, sempre per dovere storico e politico, che fu in seguito all’opera dei Gesuiti giunti appresso ai francesi, che cominciò a prendere forma l’idea che il Cattolicesimo era la longa manus di una potenza straniera. E bisogna altresì ricordare che i primi ad accusare i preti stranieri, ed in particolare proprio i Gesuiti, furono i preti cinesi, non ultimo per il fatto che più volte, i missionari della Compagnia di Gesù che gestivano numerosi vicariati apostolici, fecero ostruzionismo a Roma per la nomina di vescovi locali, quindi per l’erezione canonica delle diocesi, affermando che non si trattava di soggetti idonei, mentre la verità era ch’essi non volevano perdere la loro giurisdizione su questi vicariati, come invece sarebbe avvenuto se fosse stata eretta una diocesi e nominato un vescovo, ed in particolare se il vescovo fosse stato un presbìtero del luogo. Inutile dire che situazioni simili, negli stessi anni, od a pochi decenni di distanza a seguire, sempre per opera dei Gesuiti, presero vita nei territori di evangelizzazione dell’attuale Continente latino-americano, con altrettanti missionari Domenicani e Francescani che a un polo opposto della terra, ma allo stesso identico modo, accusavano i Gesuiti di operare commistioni tra i vecchi riti del luogo ed il Cristianesimo, il cosiddetto sincretismo religioso.

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Quando esplose la Grande Rivoluzione Culturale che portò poi al potere Mao Zedong, la ragione per procedere, nell’ipotesi migliore, alla espulsione di tutti i missionari stranieri dalla Cina, era quindi già bella e confezionata da circa due o tre secoli: i missionari ed i preti stranieri erano gli emissari ed i servi del potere borghese, capitalista ed imperialista dell’Occidente. A quel punto, i missionari che ebbero la meglio, ripararono a Hong Kong e nelle Filippine, altri, compresi soprattutto coloro che non intendevano abbandonare i fedeli senza sacerdoti e assistenza pastorale e sacramentale, finirono invece nelle prigioni, dove nello spazio di pochi metri erano stipate numerose persone, tanto che per poter dormire un po’ la notte era necessario fare dei turni e distendersi un po’ ciascuno. Le sofferenze di questi missionari furono terribili, perché, a quanto ci è dato sapere, nessuno di loro accettò di essere sottoposto a programmi di rieducazione per divenire dei devoti fedeli al Regime Maoista. Programmi che furono invece accettati da diversi preti cinesi, incarcerati con l’accusa di avere servito potenze straniere. A tal proposito si noti però che nell’accettazione dei programmi di rieducazione alla fedeltà verso il regime, i preti cinesi furono indotti non dal desiderio di salvare se stessi e la propria vita, ma quella dei loro familiari. Infatti, i membri del clero secolare e regolare che si trovavano missionari in Cina durante gli sconvolgimenti della Grande Rivoluzione Culturale, i propri familiari li avevano nei vari Paesi dell’Occidente, mentre i preti cinesi incarcerati, prima di essere uccisi, avrebbero dovuto assistere all’uccisione dei loro genitori, fratelli, sorelle e nipoti, poi sarebbero stati infine giustiziati loro.

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Sotto il Governo di Mao Zedong, è approvata nel 1954 la nuova Costituzione della Repubblica Popolare Cinese nella quale è stabilito il controllo del Partito Comunista su qualsiasi genere di attività organizzata. Prevedendo ciò che questo avrebbe comportato, il Sommo Pontefice Pio XII pubblicò poco dopo l’enciclica Ad Sinarum Gentes, condannando la creazione di una Chiesa Cattolica divisa da Roma. Per inciso: il testo di questa enciclica, che è un autentico capolavoro di pastorale ed al tempo stesso di diplomazia, dovrebbero leggerlo, ma leggerlo proprio in ginocchio, sia gli odierni velinari della Pravda Pontificia, sia i loro padroncini della Segreteria di Stato che li istruiscono nella pubblicazione delle loro perle di saggezza [vedere testo dell’enciclica, QUI] …

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… la risposta fu che l’anno successivo, una delle più grandi diocesi del Paese, quella di Shanghai, governata dall’Arcivescovo Ignazio Kung Pin Mei, fu in breve devastata. Alla fine del 1954 i missionari stranieri ancora presenti sul territorio, inclusi due vescovi, risultavano appena sedici, tra di essi quattordici in prigione. Nel 1957 furono chiuse le ultime istituzioni religiose cattoliche e creata dal Regime Comunista la Chiesa Patriottica distaccata da Roma totalmente sottomessa allo Stato. Paradigma di questa persecuzione fu la tragica sorte inflitta ai Monaci della Certosa di Nostra Signora della Consolazione, nel distretto di Pechino, situata a circa 180 chilometri dalla Capitale. La certosa fu assaltata più volte da bande comuniste negli anni Quaranta del Novecento ed infine data alle fiamme nel 1957. I monaci furono catturati, legati mani e piedi con fili di ferro e obbligati a compiere marce forzate sotto le temperature invernali. Gran parte di loro perse la vita durante questi tragitti forzati, mentre i pochi sopravvissuti, dopo essere stati sottoposti alla gran farsa dei cosiddetti processi popolari maoisti, messi a morte per essersi rifiutati di abiurare ed essere sottoposti a processi di rieducazione [cf. James T. Myers, Nemici senza fucile – La Chiesa Cattolica nella Repubblica Popolare Cinese, cit. pagg. 31 e ss. testo leggibile QUI].

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Bisogna poi notare che a livello mondiale, una Chiesa Cattolica Patriottica, ha preso vita solamente in Cina; in varie altre parti del mondo, diversi regimi, hanno tentato di compiere analoghe operazioni, ma senza mai riuscirvi. Perché ciò è stato invece possibile in Cina? Ciò è stato possibile in virtù della forte avversione che i cinesi hanno a livello socio-culturale verso gli stranieri. Ciò non vuol dire che il cinese non sia ospitale, tutt’altro! Il cinese ha un senso molto profondo dell’ospitalità e dell’accoglienza dello straniero, ed è anche ben disposto e lieto, di collaborare con lo straniero, purché esso rispetti profondamente la antica e nobile cultura cinese e non osi tentare d’inserire all’interno della sua società elementi ad essa del tutto estranei. Ovviamente, questo creò da sùbito enormi problemi per la evangelizzazione. Alcuni dicono però, in toni più o meno trionfali, che «ad avere successo furono solo i Gesuiti». Sempre per essere onesti bisogna replicare che se per successo dei Gesuiti, s’intende il sincretismo religioso, o la filosofia confuciana miscelata alla filosofia cristiana e viceversa, in tal caso, stiamo allora parlando del più grande insuccesso nel quale possa cadere qualsiasi opera missionaria di evangelizzazione, sempre con buona pace della venerata memoria di Matteo Ricci.

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IL COMUNISMO CINESE NON SI ANALIZZA CON CRITERI OCCIDENTALI

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Roma, 2009 – fraterni ricordi …

La Cina Comunista non può essere capita se applichiamo al Comunismo cinese categorie occidentali. Bisogna allora chiarire un elemento fondamentale: il Comunismo della Cina è cosa a sé, trattandosi di un Comunismo cinesizzato inserito in una cultura che non nasce da radici greco-romano-cristiane ma da radici confuciane. Quello Sovietico e quello Cinese hanno come comune base solo il colore rosso delle bandiere comuniste. Un esempio esauriente: la Chiesa Cattolica fu duramente perseguitata nell’Unione Sovietica, sempre sulla base del principio ch’essa faceva capo a una potenza straniera. Meno perseguitata fu la Chiesa Ortodossa di Russia, seppure anch’essa sottoposta a persecuzioni e restrizioni. Detto questo basti ricordare — sempre per tracciare la differenza che corre tra questi due diversi Comunismi —, che poco dopo la caduta del Regime Sovietico fu scoperto che, quasi tutti i membri del Partito Comunista, a partire da quelli di più alto rango, erano battezzati, avevano fatto battezzare i figli ed in segreto avevano celebrato il matrimonio religioso. E per il battesimo dei loro figli, gli alti dirigenti del Soviet non s’erano neppure accontentati di un Pope, li avevano fatti battezzare da qualche Metropolita, se non direttamente, ai livelli davvero più alti, personalmente da Sua Beatitudine il Patriarca di Mosca.

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Detto questo, credo non vi sia altro da aggiungere per quanto riguarda la sostanziale differenza che corre tra un Regime Comunista nato dalla Rivoluzione d’Ottobre nella Grande Russia Cristiana, ed il Regime Comunista nato dalla Grande Rivoluzione Culturale nella antica e nobile Cina confuciana.

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In Cina il Comunismo, seppur oggi del tutto trasformato, rimane saldo come sistema di governo; e per paradossale possa apparire, specie se affermato da me, dovremmo pure auspicarci che questo sistema di governo regga il più a lungo possibile, trasformandosi in modo molto lento e graduale. Semplice il motivo di questo auspicio: in Cina esistono centinaia di etnie diverse che nutrono forme di odio atavico le une verso le altre. Il Regime Comunista costituisce deterrente e soprattutto freno allo scoppio di feroci lotte e guerre intestine. A livello di comparazione potremmo usare la ex Jugoslavia, nella quale erano presenti diverse etnie animate da feroce odio le une verso le altre, ma tenute a bada dal regime di Josif Broz, detto Maresciallo Tito. Abbiamo poi visto che cosa di brutale è accaduto nel cuore dell’Europa, al tramonto di questo regime; le mattanze che in quegli anni furono consumate, erano talmente violente che la stampa internazionale riportava e descriveva i fatti, ma evitava di pubblicare le fotografie che ritraevano morti avvenute con una violenza inaudita. Qualcuno riesce forse a immaginare, o peggio ad auspicare, semmai in nome dei princìpi occidentali di democrazia — come se il feticcio della decadente democrazia occidentale fosse sempre applicabile ovunque ed a tutte le culture —, un caso Jugoslavia moltiplicato alla potenza di mille?

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DA UN “ACCORDO FANTASMA” AL PROBLEMA DEI MARTIRI E DEI PERSEGUITATI

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un dipinto inviato a Roma da Pechino da un presbìtero cinese al Padre Ariel S. Levi di Gualdo nel giorno della sua sacra ordinazione sacerdotale

Al contrario dei velinari della Pravda Pontificia e dei tuttologi che imperversano dalla carta stampata alla rete telematica, io non ho risposte da dare ma solo quesiti da porre. Partiamo dal primo: in un momento nel quale il Governo Comunista della Cina ha irrigidito le restrizioni verso i cattolici, sino a impedire l’accesso alle chiese ai minori di diciotto anni [cf. servizio QUI], ed in un momento nel quale la Chiesa Cattolica, a livello planetario, versa in stato di decadenza e profonda crisi di credibilità, come si è potuti giungere a un accordo? Anche perché sino a oggi, di questo “accordo fantasma”, a parte commenti e successivi discorsi di garanzia, non si conoscono però i contenuti, si sono solo seguite sui giornali notizie vaghe. Come dare quindi torto al Cardinale Joseph Zen Ze-Kiun che lamenta: «Il comunicato, tanto atteso, della Santa Sede è un capolavoro di creatività nel dire niente con tante parole»? [cf. servizio, QUI]. Noi non sappiamo infatti che cosa pensa il Governo cinese di questo accordo, né sappiamo che cosa ne pensa la cosiddetta Chiesa patriottica, meno che mai che cosa ne pensa la Chiesa clandestina da sempre fedele a Roma a prezzo di sangue.

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Tutto ciò che noi al momento sappiamo è che c’è stato un accordo con il Governo della Cina di cui non si conoscono i contenuti. In pratica come se nel 1929, per porre fine alla Questione Romana, fossero stati firmati i Patti Lateranensi tra la Santa Sede e l’allora Regno d’Italia, senza che però nessuno conoscesse i contenuti di quei patti, le modalità della loro applicazione e quindi tutti gli impegni e le possibili conseguenze per i due contraenti che li avevano sottoscritti. Ma soprattutto: quanti sono stati i vescovi della Chiesa patriottica legittimati dopo questo accordo? Quanti sono rimasti esclusi invece dalla legittimazione, ad esempio per gravi motivi, a partire da quei vescovi che hanno amanti e figli? O forse, per non irritare il Regime Comunista, saranno legittimati anche loro, semmai prima ancòra degli altri? E quelli che fossero nel caso esclusi dalla legittimazione, lo saranno perché, ma soprattutto per volontà di chi? Come funzionerà, dopo questo “accordo fantasma” il meccanismo della nomina dei vescovi? Qualcuno pensa davvero che il Governo della Cina, dopo questo “accordo fantasma”, concederà libertà ai vescovi per l’esercizio del loro sacro ministero ed altrettanta libertà ai fedeli? Per caso, dopo questo «storico accordo» di «portata epocale», come lo hanno definito certi velinari della Pradva Pontificia, è stato per caso revocato dal Governo il divieto di accesso nelle chiese ai minori di diciotto anni, con tanto di proibizione e svolgere qualsiasi attività pastorale con i giovani? Ma soprattutto: era mai accaduto, nella bi-millenaria storia della Chiesa, che qualcuno facesse accordi con i persecutori mentre le persecuzioni erano in corso? Risulta per caso a qualcuno che il Pontefice Marcellino [296-304], quando l’Imperatore Diocleziano scatenò l’ultima grande persecuzione verso i cristiani, corse ad accordarsi con lui? Le cose non andarono in tal senso, stando alle cronache che narrano il martirio di Marcellino, avvenuto il 25 ottobre dell’anno 304, per decapitazione, eseguita su ordine dell’Imperatore Diocleziano. Il suo successore, il Pontefice Marcello I, dovette affrontare la questione dei cosiddetti lapsi, coloro che durante la persecuzione rinnegarono la fede in Cristo e che chiesero di essere riammessi alla Chiesa. Marcello I pretese per la loro ammissione un percorso di penitenza, che non tutti però accettarono, al punto che fu lui, alla fine, ad essere condannato all’esilio, come apprendiamo dalla epigrafe redatta dal Pontefice Damaso I per la sua tomba:

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«Pastore vero, perché manifestò ai lapsi l’obbligo che essi avevano di espiare il loro rinnegamento con le lacrime della penitenza, fu considerato da quei miserabili come un terribile nemico. Di qui il furore, l’odio, la discordia, la sedizione e la morte. A causa del delitto di uno che anche durante la pace rinnegò Cristo, Marcello fu deportato, vittima della crudeltà di un tiranno».

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Io non sono un velinaro e tanto meno un tuttologo, quindi non ho risposte da dare, perché a profondersi in risposte e spiegazioni su ciò che non si conosce, possono provvedere solo i velinari della Pravda Pontificia; ma sono risposte basate di fatto sul niente. Dio non voglia che qualcuno, pur di porsi una medaglietta di latta sul petto nella Roma decadente, abbia giocato in modo maldestro coi fedeli perseguitati e coi vescovi che hanno trascorso gran parte della propria vita in carcere od ai lavori forzati; perché sono dei martiri ai quali non si possono dire quattro parole di circostanza, mentre loro, per una vita intera, hanno pagata la propria fedeltà a Roma ed al Papato.

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Comunque vediamo adesso se sulla base di un accordo reso fantasma dal fatto che non se ne conoscono i contenuti, si cercherà di tirarsi fuori da questo impiccio dicendo: quel che solo conta è l’unità. Senza spiegare però cosa questa unità molto soggettiva e molto poco corrispondente ai princìpi di unità contenuti nel Santo Vangelo ha comportato in prezzo da pagare, considerato che la merce acquistata non è chiara, ed è sconosciuto il prezzo per essa pagato, ma soprattutto quello da pagare nel vicino futuro. Dio non voglia che questo prezzo pagato per una medaglietta di latta sia stato pagato sulla pelle dei martiri e dei cattolici perseguitati della Cina, ai quali tra l’altro, se non si vorrà gravemente irritare la suscettibilità del Governo Comunista ed ateo, non si potrà neppure rivolgersi a loro chiamandoli “martiri” e “perseguitati”, perché sarebbe appunto gravemente offensivo verso i persecutori con i quali si è stilato un accordo mentre le persecuzioni sono sempre in corso.

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Nell’èra moderna, la Santa Sede ha firmato più accordi di intesa e reciproco riconoscimento con Paesi di cultura non solo, non cattolica, ma di cultura proprio non cristiana. Basti andare a vedere con quanti Paesi la Santa Sede ha relazioni diplomatiche. Dall’anno 2007 la Santa Sede ha relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti. La Santa Sede ha relazioni diplomatiche con la Turchia, Paese nel quale fu Nunzio Apostolico il futuro Giovanni XXIII; con l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Tunisia, il Marocco, la Libia, l’Algeria. La Santa sede ha persino relazioni diplomatiche con il Turkmenistan, dove risiedono appena cinquecento cattolici. Ebbene, noi che non siamo menti sottili e specialisti in alta diplomazia come invece lo sono i migliori elementi della Segreteria di Stato di Sua Santità, ci domandiamo: posto che la Santa Sede ha relazioni diplomatiche anche con Paesi nei quali vige come legge dello Stato la Sharija e dove il proselitismo da parte di altre religioni è vietato e perseguito dalla legge, come si può dialogare, ma soprattutto stabilire accordi di qualsiasi genere essi siano se, il primo passo, non è quello del reciproco riconoscimento? Perché tutti i Paesi poc’anzi citati, riconoscono la Santa Sede come capo della Comunità Cattolica mondiale, al punto da avere stabilito con essa relazioni diplomatiche.

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Insomma: io posso dialogare, cosa che peraltro ho fatto anche spesso, con persone non solo non cattoliche, ma con persone non cristiane né legate ad alcun titolo ad alcuna radice culturale cristiana, purché però, questi miei interlocutori, riconoscano anzitutto il diritto alla mia esistenza.

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Detto questo mi domando e poi domando di conseguenza: come si può dialogare e stabilire accordi con chi a monte non riconosce il diritto alla tua esistenza, o che al limite, riconoscendo la tua esistenza, ti considera un pericolo da tenere quanto più e quanto meglio sotto controllo? Perché è con questo genere di persone che la Santa Sede, temo, abbia stabilito un “accordo fantasma”. Sono certo però che i velinari della Pravda Pontificia non esiteranno a chiarire anche questo non lieve dilemma, diamogli solo il tempo di ricevere una velina dai sacri palazzi, ed avremo delle chiarificatrici perle di saggezza, costasse pure spingersi oltre i confini della realtà, ma soprattutto oltre il sangue sparso dai martiri e dai perseguitati, posto che in Cina, le persecuzioni verso i cattolici fedeli a Roma, sono tutt’altro che terminate. E non poniamoci neppure il dilemma, del tutto retorico, di quanto invece, Roma, di questi martiri perseguitati si sia dimostrata autentica e fedele madre …

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In postilla finale vi spiego perché io nutro profondo rispetto per il Governo Comunista della Cina, mentre invece non nutro alcun rispetto per certe Madame che popolano e devastano la Santa Sede, quelle, per intendersi, che i velinari della Pravda Pontificia non vedono, insensibili come sono alle persecuzioni della Chiesa e del clero che veramente soffre. Ebbene, i Comunisti della Cina, non solo hanno un’antica e nobile dignità, ma nobilitano anche i perseguitati ed i martiri. Sicché per me sarebbe un vero onore, essere perseguitato come prete da dei persecutori così altamente onorevoli e nobili, finire nelle loro patrie galere se non peggio ancòra; e tra le due parti, persino nella ferocia, ci sarebbe un mutuo rispetto reciproco tra persecutore e perseguitato. Quale rispetto dovrei invece nutrire, per quei due o tre monsignorini finocchi protetti da qualche cardinale sodomita, che sentendosi dinanzi a me scoperti, ti perseguitano per tutta la vita con una vera e propria ferocia da isteria mestruale? Spero che qualche velinaro della Pravda Pontificia riferisca il tutto agli amici della Segreteria di Stato — che pure mi leggono da sempre con attenzione — e soprattutto all’Augusto Inquilino della Domus Sancthae Marthae, la cui sensibilità ed alto senso della giustizia, pare esaurirsi tutto quanto con i gelati mandati in omaggio ai poveri ed ai migranti di Roma, inclusi i presunti profughi, peraltro fuggiti seduta stante appena giunti al centro di accoglienza della Conferenza Episcopale Italiana a Rocca di Papa [cf. cronaca, QUI, QUI, QUI]. Il tutto, ovviamente, corredato di ampi servizi fotografici e giornalistici, affinché la carità faccia rumore e notizia, oltre che provocazione politica verso l’attuale Governo della Repubblica Italiana [cf. cronaca, QUI].

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Quale santa invidia provo per i cinesi perseguitati perché fedeli alla Chiesa di Roma, mentre io, uscendo di casa per recarmi a fare spesa, rischio di ritrovarmi con un moccioso di dodici o tredici anni che vedendo passare una tonaca nera ti strilla alle spalle due bestemmie contro la Vergine Maria! Nelle province di Pechino non ti strillano dietro, semmai ti arrestano alle due di notte mentre celebri furtivamente la Santa Messa per un gruppo di fedeli. E ciò è molto più dignitoso, sia per chi arresta sia per chi è arrestato. Anche per questo la Cina è una grande potenza, mentre l’Europa, che ormai è la madre del tutto è lecito e concesso al di là del bene e del male, è solo un povero Continente alla totale disfatta politica, sociale, culturale, morale e religiosa [cf. QUI, QUI, QUI ecc ..].

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Dio benedica la Grande Cina ed il suo nobile Popolo !

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dall’Isola di Patmos, 29 settembre 2018

Festa dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele

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Lettera dell’Arcivescovo Carlo Maria Viganò: «So in chi ho creduto»

LETTERA DELL’ARCIVESCOVO CARLO MARIA VIGANÒ: «SO IN CHI HO CREDUTO»

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Né il Papa, né alcuno dei cardinali a Roma hanno negato i fatti che io ho affermato nella mia testimonianza. Il detto Qui tacet consentit si applica sicuramente in questo caso, perché se volessero negare la mia testimonianza, non hanno che farlo, e fornire i documenti in supporto della loro negazione. Come è possibile non concludere che la ragione per cui non forniscono i documenti è perché essi sanno che i documenti confermerebbero la mia testimonianza?

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Carlo Maria Viganò
Arcivescovo tit. di Ulpiana
Nunzio Apostolico

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Scio Cui credidi – So in Chi ho creduto [II Tim. 1, 12]

All’inizio di questo mio scritto desidero innanzitutto ringraziare e rendere gloria a Dio Padre per ogni situazione e prova che ha disposto e che vorrà disporre per me durante la mia vita. Come ogni battezzato, come sacerdote e vescovo della santa Chiesa, sposa di Cristo, sono chiamato a rendere testimonianza alla verità. Per il dono dello Spirito che mi sostiene con gioia nella strada che sono chiamato a percorrere, intendo farlo fino alla fine dei miei giorni. Il nostro unico Signore ha rivolto anche a me l’invito: «Seguimi!», ed intendo seguirlo con l’aiuto della sua grazia fino alla fine dei miei giorni.

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«Finché avrò vita, canterò al Signore,

finché esisto, voglio inneggiare a Dio.

A Lui sia gradito il mio canto;

In Lui sarà la mia gioia».

[Sal. 103, 33-34]

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È trascorso ormai un mese da quando ho reso la mia testimonianza, unicamente per il bene della Chiesa, di quanto avvenuto nell’udienza con Papa Francesco il 23 giugno 2013 e al riguardo di certe questioni che mi è stato dato di conoscere negli incarichi che mi furono affidati in Segreteria di Stato e a Washington, con relazione a coloro che si sono resi responsabili di aver coperto i crimini commessi dal già Arcivescovo di quella Capitale.

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La decisione di rivelare quei fatti è stata per me la più sofferta e grave che abbia mai preso in tutta la mia vita. La presi dopo lunga riflessione e preghiera, durante mesi di profonda sofferenza e angoscia, in un crescendo di continue notizie di terribili eventi, con migliaia di vittime innocenti distrutte, di vocazioni e di giovani vite sacerdotali e religiose sconvolte. Il silenzio dei pastori che avrebbero potuto porvi rimedio, e prevenire nuove vittime, diventava sempre più insostenibile, un crimine devastante per la Chiesa. Ben consapevole delle enormi conseguenze che la mia testimonianza avrebbe potuto avere, perché quello che stavo per rivelare coinvolgeva lo stesso successore di Pietro, ciò nonostante scelsi di parlare per proteggere la Chiesa e dichiaro con chiara coscienza davanti a Dio che la mia testimonianza è vera. Cristo è morto per la Chiesa, e Pietro, Servus servorum Dei, è il primo chiamato a servire la sposa di Cristo.

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Certo, alcuni dei fatti che stavo per rivelare erano coperti dal secreto pontificio che avevo promesso di osservare e che ho fedelmente osservato fin dall’inizio del mio servizio alla Santa Sede. Ma la finalità del secreto, anche di quello pontificio, è di proteggere la Chiesa dai suoi nemici, non di coprire e diventare complici di crimini commessi da alcuni suoi membri. Io ero stato testimone, non per mia scelta, di fatti sconvolgenti, e come sta scritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica [par. 2491], il sigillo del segreto non è vincolante quando la custodia del segreto dovesse causare danni molto gravi ed evitabili soltanto mediante la divulgazione della verità. Solo il sigillo del segreto sacramentale avrebbe potuto giustificare il mio silenzio.

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Né il Papa, né alcuno dei cardinali a Roma hanno negato i fatti che io ho affermato nella mia testimonianza. Il detto Qui tacet consentit si applica sicuramente in questo caso, perché se volessero negare la mia testimonianza, non hanno che farlo, e fornire i documenti in supporto della loro negazione. Come è possibile non concludere che la ragione per cui non forniscono i documenti è perché essi sanno che i documenti confermerebbero la mia testimonianza?

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Il centro della mia testimonianza è che almeno dal 23 giugno 2013 il Papa ha saputo da me quanto perverso e diabolico fosse McCarrick nei suoi intenti e nel suo agire, e invece di prendere nei suoi confronti quei provvedimenti che ogni buon pastore avrebbe preso, il Papa fece di McCarrick uno dei suoi principali agenti di governo della Chiesa, per gli Stati Uniti, la Curia e perfino per la Cina, come con grande sconcerto e preoccupazione per quella Chiesa martire stiamo vedendo in questi giorni.

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Ora, la risposta del Papa alla mia testimonianza è stata: «Io non dirò una parola!» Salvo poi, contraddicendo se stesso, paragonare il suo silenzio a quello di Gesù a Nazareth davanti a Pilato e paragonare me al grande accusatore, Satana, che semina scandalo e divisione nella Chiesa, ma senza mai pronunciare il mio nome. Se avesse detto: «Viganò ha mentito» avrebbe contestato la mia credibilità e cercato di accreditare la sua. Così facendo però avrebbe accresciuto la richiesta da parte del popolo di Dio e del mondo dei documenti necessari per determinare chi dei due avesse detto la verità. Egli ha invece posto in essere una sottile calunnia contro di me, calunnia da lui stesso tanto spesso condannata persino con la gravità di un assassinio. Per di più, lo ha fatto ripetutamente, nel contesto della celebrazione del sacramento più sacro, l’Eucaristia, in cui non si corre il rischio di essere contestati come davanti ai giornalisti. Quando ha parlato ai giornalisti, ha chiesto loro di esercitare la loro professione con maturità e di tirare le loro conclusioni. Ma come possono i giornalisti scoprire e conoscere la verità se quelli che sono direttamente implicati si rifiutano di rispondere ad ogni domanda o di rilasciare qualsiasi documento? La non volontà del Papa di rispondere alle mie accuse e la sua sordità agli appelli dei fedeli ad essere responsabile non è assolutamente compatibile con la sua richiesta di trasparenza e di essere costruttori di ponti e non di muri.

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Ma c’è di più: l’aver coperto McCarrick non sembra essere stato certamente un errore isolato da parte del Papa. Molti altri casi sono stati recentemente documentati dalla stampa, mostrando che Papa Francesco ha difeso preti omosessuali che hanno commesso gravi abusi sessuali contro minori o adulti. Incluso il suo ruolo nel caso del Padre Julio Grassi a Buenos Aires Ndr, QUI] l’aver reinstallato Padre Mauro Inzoli [Ndr. QUI], dopo che Papa Benedetto lo aveva rimosso dal ministero sacerdotale — fino al momento in cui è stato messo in carcere, e allora a questo punto Papa Francesco lo ha ridotto allo stato laicale —, e per aver fermato le indagini per accuse di abusi sessuali contro il Cardinale Cormac Murphy O’Connor.

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Nel frattempo, una delegazione della United States Conference of Catholic Bishops, guidata dal suo presidente, il Cardinale Di Nardo, è andata a Roma per chiedere un’indagine del Vaticano su McCarrick. Il Cardinale Di Nardo e gli altri prelati devono dire alla Chiesa in America e nel mondo: il Papa si è rifiutato di svolgere un’indagine in Vaticano sui crimini di McCarrick e dei responsabili di averli coperti? I fedeli hanno diritto di saperlo.

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Vorrei fare un appello speciale al Cardinale Marc Ouellet, perché con lui come nunzio ho sempre lavorato in grande sintonia e ho sempre avuto grande stima e affetto nei suoi confronti. Ricorderà quando, ormai terminata la mia missione a Washington, mi ricevette la sera nel suo appartamento a Roma per una lunga conversazione. All’inizio del pontificato di Papa Francesco aveva mantenuto la sua dignità, come aveva dimostrato con coraggio quando era Arcivescovo di Québec. Poi, invece, quando il suo lavoro come prefetto della Congregazione per i vescovi è stato virtualmente compromesso perché la presentazione per le nomine vescovili da due “amici” omosessuali del suo dicastero passava direttamente al Papa, bypassando il cardinale, ha ceduto. Un suo lungo articolo su L’Osservatore Romano, in cui si è schierato a favore degli aspetti più controversi dell’Amoris Laetitia, ha rappresentato la sua resa.

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Eminenza, prima che io partissi per Washington, lei mi parlò delle sanzioni di Papa Benedetto nei confronti di McCarrick. Lei ha a sua completa disposizione i documenti più importanti che incriminano McCarrick e molti in curia che li hanno coperti. Eminenza, le chiedo caldamente di voler rendere testimonianza alla verità!

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In fine, desidero incoraggiarvi, cari fedeli, fratelli e sorelle in Cristo: non scoraggiatevi mai! Fate vostro l’atto di fede e di completa fiducia in Cristo Gesù, nostro Salvatore, di San Paolo nella sua seconda Lettera a Timoteo, Scio Cui credidi, che ho scelto come mio motto episcopale. Questo è un tempo di penitenza, di conversione, di grazia, per preparare la Chiesa, sposa dell’Agnello, ad essere pronta e vincere con Maria la battaglia contro il drago infernale.

Scio Cui credidi [2 Tim. 1, 12]

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In Te, Gesù, mio unico Signore, ripongo tutta mia fiducia. «Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum» [Rom. 8, 28].

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Come ricordo per la mia ordinazione episcopale, conferitami da San Giovanni Paolo II il 26 aprile 1992, avevo scelto un’immaginetta presa da un mosaico della basilica di San Marco, a Venezia. Essa riproduce il miracolo della tempesta sedata. Mi aveva colpito il fatto che nella barca di Pietro, sballottata dalle acque, la figura di Gesù è riprodotta due volte. A prua Gesù dorme profondamente, mentre Pietro dietro di lui cerca di svegliarlo: «Maestro, non t’importa che moriamo?». Mentre gli apostoli, atterriti, guardano ciascuno in una direzione diversa e non si avvedono che Gesù è ritto in piedi dietro di loro, benedicente, ben al comando della barca. “Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: taci, calmati […] Poi disse loro: perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» [Mc. 4, 38-40].

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La scena è quanto mai attuale per ritrarre la tremenda bufera che sta attraversando in questo momento la Chiesa, ma con una differenza sostanziale: il successore di Pietro non solo non vede il Signore a poppa che ha sicuramente il pieno controllo della barca, ma nemmeno intende svegliare il Gesù dormiente a prua.

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Cristo è forse diventato invisibile al suo vicario? È tentato forse di improvvisarsi come sostituto del nostro unico Maestro e Signore? Il Signore è ben saldo al comando della barca!

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Cristo, Verità, possa essere sempre luce nel nostro cammino!

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29 settembre 2018

Festa di San Michele, Arcangelo

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+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo tit. di Ulpiana

Nunzio Apostolico

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Autore
Redazione dell’Isola di Patmos

Il Romano Pontefice potrebbe decidere di non rispondere né di smentire direttamente, potrebbe avere ragioni per agire in tal senso; ragioni che in tal caso rimarrebbero insindacabili. Sua Santità dispone però di una Segreteria di Stato e della sua Terza Sezione per il personale in servizio diplomatico, della Congregazione per i Vescovi e del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, infine di una Sala Stampa della Santa Sede. Non mancano gli organi ufficiali che potrebbero rispondere: «S.E. Mons. Carlo Maria Viganò mente e mentendo reca grave affronto al Pontefice regnante e scandalo al Popolo di Dio». In questo modo, con una semplice e breve frase, numerosi Vescovi, Sacerdoti e devoti Christi Fideles amareggiati e addolorati potrebbero essere finalmente rasserenati.

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dall’Isola di Patmos, 28 settembre 2018

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

La scomunica come rimedio all’eresia

— attualità ecclesiale —

LA SCOMUNICA COME RIMEDIO ALL’ERESIA  

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L’appartenere o non appartenere alla Chiesa, il restare o uscire dalla Chiesa non sono cose così semplici. Certo, possono esistere forme di separazione netta e totale, come la perdita della fede con l’apostasia. Ma solitamente esistono diversi gradi di separazione e quindi di scomunica. Bisogna anche vedere che idea uno si fa della Chiesa e dell’appartenenza alla Chiesa o della comunione ecclesiale. Uno può essere convinto di appartenere pienamente alla Chiesa e invece vi appartiene solo parzialmente, come per esempio i protestanti o i modernisti.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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foto Alinari 1950 – i Frati Domenicani, durante la Festa della Fiorita a Firenze, depongono un omaggio sul luogo dove fu impiccato e bruciato Girolamo Savonarola

San Paolo Apostolo ammonisce: «Se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» [Gal 1,9].

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In ogni comunità il presidente ha il potere e il dovere di proteggere con opportuni interventi correttivi o coercitivi la comunità da membri che le recano disturbo o ne mettono in pericolo il buon ordine e la pace. Questo principio di giustizia vale anche per la Chiesa, come recita il Codice di Diritto Canonico: «La Chiesa ha il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che hanno commesso delitti» [can. 1311].

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Sin dai primissimi tempi della Chiesa gli apostoli, riprendendo la tradizione della sinagoga, che espelleva gli indisciplinati, i facinorosi e gli apostati, esercitarono il potere giudiziario contro i delitti gravi, come testimonia l’episodio di Anania e Saffìra [cf. At 5, 1-11]. Così San Paolo espelle dalla comunità l’incestuoso [cf. I Cor 5,8]. Per condannare gli erranti, egli usa un termine greco: anàthema, corrispondente all’ebraico chèrem, che significa “maledetto” e quindi “scomunicato”. Così egli avverte: «Se qualcuno non ama il Signore, sia anàthema!» [I Cor 16,22]. E: «Se qualcuno vi predica un Vangelo diverso, sia anàthema» [Gal 1.8]. Gesù stesso più volte lancia maledizioni. E infatti, sin dai primi secoli i Concili dichiarano anàthema, ossia scomunicati coloro che sostengono gli errori condannati.

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San Tommaso d’Aquino spiega l’origine del concetto di anàthema e quindi di scomunica. Dice l’Aquinate: « anàthema è voce greca composta di anà, che significa ‘sopra’ e thesis, che significa ‘posizione’, così da chiamare ‘anàtema’ ‘ciò-che-è-posto-in-alto’, perché quando veniva catturato come preda qualcosa che non si voleva mettere in uso degli uomini, lo si sospendeva nel tempio, sicché è invalsa fino ad oggi l’abitudine che quelle cose che sono separate dall’uso comune degli uomini, venivano chiamate “anàtemi”, come vediamo nel Libro della Genesi: «Sia questa città anàtema [1] e sia votato al Signore tutto ciò che si trova in essa” [Gs 6,17]» [2].

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Da qui, nei Concili Ecumenici, l’usatissima formula anàthema sit, che apparirà per l’ultima volta nel Concilio Vaticano I, mentre è assente nel Concilio Vaticano II, il che chiaramente non vuol dire che il Concilio non condanni degli errori, sostenendo i quali si incorre nella scomunica. L’odierna scomunica è ciò che la Chiesa in passato ha chiamato anàtema, ossia maledizione: un verdetto di condanna di un errore o di un errante, pronunciato dall’autorità con l’irrogazione di una pena e l’espulsione o allontanamento del  dissidente o del criminale dalla comunità.

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“Maledire” in questo contesto biblico significa “dir-male”, ma non nel senso della maldicenza, bensì nel senso di dichiarare in giudizio che qualcuno ha sparlato o fatto del male e quindi merita di essere punito, merita un male di pena. In tal senso la Bibbia dice che Dio maledice i malvagi e Cristo al Giudizio Universale allontana da se i reprobi [cf. Mt 25,41]. La maledizione può colpire l’azione malvagia, ma può colpire anche la persona che ha commesso quell’azione. È vero che tanto il Vangelo [cf. Lc 6,28], quanto San Paolo raccomandano di non maledire [cf. Rm 12,14]. Ma queste proibizioni colpiscono chi maledice gli innocenti, così come è proibito uccidere l’innocente, ma non il criminale. Diversamente, la Chiesa non avrebbe anatematizzato per secoli e millenni eretici e scismatici. E se oggi non sentiamo o leggiamo più i Papi maledire gli eretici, non possiamo ignorare che solo di recente la Chiesa ha abbandonato questo linguaggio, che essa ha usato tranquillamente per tanto tempo, ma che oggi, nell’attuale clima di ecumenismo e di dialogo inter-religioso, effettivamente ci metterebbe in imbarazzo. Oggi infatti a noi pare che il maledire sia suscitato dall’odio. Ma non è necessariamente così. Inteso nel senso giuridico, è atto di giustizia. E se la parola è stata abbandonata dal Magistero della Chiesa, resta il termine equivalente di “scomunica”. Ora, la comunione, l’unità, la pace, la carità reciproca e la concordia nella Chiesa nascono dalla comune accettazione da parte di tutti i fedeli delle medesime verità di fede e della medesima disciplina insegnate dal Magistero della Chiesa sotto la guida del Sommo Pontefice. Si capisce allora che l’eretico merita di essere scomunicato. La Chiesa è una comunità unita, coordinata e concorde nell’amore reciproco dallo Spirito Santo, il quale sostiene il Papa nel compito di fondar la comunione fraterna e con Dio sulla verità della Parola di Dio da tutti accolta. Tuttavia, col permesso di Dio, all’interno della Chiesa terrena, lavora il Demonio, col suo seguito di «figli del diavolo» [I Gv 3, 10]. Ciò fa sì che nella Chiesa nascano e si diffondano eresie, per cui l’autorità ecclesiastica è obbligata ad intervenire per mettere in guardia i fedeli e fermare la diffusione dell’errore. Così avvenne, per esempio, col fenomeno del modernismo all’epoca di San Pio X ed alcuni teologi, come per esempio Ernesto Buonaiuti, Alfred Loisy, George Tyrrell, Romolo Murri ed altri.    

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Succede infatti ogni tanto che il Demonio persuada e spinga astutamente e perfidamente alcuni fratelli imprudenti, ambiziosi e incauti, che possono essere anche pastori, a falsare il concetto di Chiesa e a lavorare per dividerla, profanarla e distruggerla, agendo in modo insidioso e coperto, con vani e speciosi pretesti di riforma o di conservazione, per non farsi scoprire e sedurre più facilmente.

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Questi falsi cattolici, sedotti da Satana, rivelano apertamente i loro piani perversi e sovversivi, per esempio massonici o atei, solo a quegli allocchi o sciagurati che, dopo averli per bene imboniti, magari con meschine adulazioni o scintillanti promesse, sanno di avere ormai alleati o in pugno nell’opera satanica intrapresa, mentre mantengono il segreto o sanno ben mascherarsi davanti ai veri fedeli. In tal senso il Diritto canonico mette in guardia contro le «associazioni che complottano contro la Chiesa» [can. 1374].

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Dopo avere tessuto le loro trame, gli eretici e gli scismatici emergono improvvisamente dalle tenebre e colpiscono di sorpresa, come dice il Salmo: «Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare per colpire di nascosto l’innocente; lo colpiscono di sorpresa e non hanno timore. Si ostinano nel fare il male; si accordano per nascondere tranelli» [Sal 64 3-6]. «Il misero soccombe all’orgoglio dell’empio e cade nelle insidie tramate» [Sal 9, 23]. Può trattarsi di gruppi di potere e di pressione nascosti all’interno della Chiesa e dello stesso ceto dei vescovi o dei cardinali, i quali all’apparenza sembrano rispettosi dell’autorità pontificia. Ma all’occhio esperto, come a quello del buon medico, bastano pochi segni o sintomi per intravedere il marcio che c’è sotto la bella apparenza, come quei sepolcri imbiancati dei quali parla il Signore. Si tratta di quel «nemico» [Mt 13, 25-36], del quale parla il Vangelo, che di nascosto nel campo di grano ha seminato la zizzania. Al riguardo, Gesù raccomanda di lasciar crescere assieme grano e zizzania, per timore che, togliendo questa, venga tolto anche quello. Si deve attendere, Egli dice, il giorno del Signore, quando Egli svelando i segreti dei cuori, farà giustizia. Ora, è chiaro che qui Gesù si riferisce al giudizio divino alla fine del mondo, giudizio definitivo ed inappellabile, che fissa il destino ultimo di tutti noi. Ma ciò non impedisce affatto a Gesù di affidare un potere giudiziario ai pastori della Chiesa, in primis a Pietro, quando gli ordina di pascere le sue pecorelle. E’ chiaro altresì che questo potere, limitato e fallibile, fa riferimento solo al foro esterno e non pretende di scrutare l’intimo delle coscienze, che solo Dio conosce. Tuttavia, a questo potere, funzionale al mantenimento del buon ordine della pace nella Chiesa, è assegnato da Cristo il diritto e il dovere di fissare per tutti le condizioni e i gradi di appartenenza alla Chiesa, per cui non gli è proibito, nelle dovute circostanze e per validi motivi, di escludere dalla comunione ecclesiale – ecco la scomunica – coloro che se ne rendessero indegni o per le loro false idee o per la loro cattiva condotta.

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LA SCOMUNICA ESCLUDE DALLA COMUNIONE ECCLESIALE

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La scomunica è un decreto dell’autorità, Papa o Vescovo, col quale il prelato, al fine di correggere — pene medicinali o censure, titolo IV, capitolo I — o di proteggere la comunità — pene espiatorie, capitolo II —, irroga delle pene che isolano in vari modi lo scomunicato dalla comunità e gli limitano la possibilità di aver rapporti con essa o di influire su di essa, perché tale attività è considerata pericolosa o comunque riprovevole. Tali pene possono essere, a mo’ di esempio: o il trasferimento ad altra residenza, l’esilio, o la dimissione da un ufficio o la proibizione di lasciare il domicilio o la proibizione dell’attività pubblicistica o dell’amministrazione o della recezione dei sacramenti, fino alla riduzione allo stato laicale per i chierici o all’espulsione dall’istituto per i religiosi.

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Lo scisma e l’eresia di per sé sono peccati mortali. Essi sono puniti a norma di legge canonica. È possibile che questi criminali sfuggano alla giustizia della Chiesa, ma non sfuggono al giudizio di Dio. Ogni fedele deve saper riconoscere lo scismatico e l’eretico, senza aspettare la sentenza della Chiesa, perché deve difendersi da queste tentazioni diaboliche. Per questo la Scrittura dà diversi avvertimenti.

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Nella condanna per eresia la Chiesa è infallibile e non si smentisce mai. Invece nello scomunicare la Chiesa può sbagliare o può togliere la scomunica. Questo perché nella questione dell’eresia c’è un gioco la verità di fede, che non muta e in questo campo il Sommo Pontefice ha ricevuto espressa promessa da Cristo di non errare. Invece la scomunica può essere legata alla condotta dello scomunicato, che può correggersi, per cui essa può essere tolta. Resta comunque che l’effetto della scomunica, che può essere anche ingiusta, illecita o invalida, non tocca per nulla lo stato dell’anima dello scomunicato davanti a Dio, stato che potrebbe essere di peccato mortale —  e di per sé lo scisma e l’eresia sono peccato mortale —, ma potrebbe essere anche uno stato di grazia, in quanto lo scomunicato è incolpato ingiustamente. Per questo, la potestà ecclesiastica, come disse fieramente Girolamo Savonarola al suo carnefice salendo al patibolo, può escludere dalla Chiesa terrena, ma non da quella celeste.

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C’è da dire inoltre che l’appartenenza alla Chiesa e per conseguenza la comunione ecclesiale e l’esclusione da essa —  ossia la scomunica —  non è un atto semplice della volontà, col quale essa può accogliere o rifiutare in toto una proposta o un’ingiunzione che le viene fatta, come sarebbe quella di restare in una stanza, oppure quella di uscirne.

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L’appartenere o non appartenere alla Chiesa, il restare o uscire dalla Chiesa non sono cose così semplici. Certo, possono esistere forme di separazione netta e totale, come la perdita della fede con l’apostasia. Ma solitamente esistono diversi gradi di separazione e quindi di scomunica. Bisogna anche vedere che idea uno si fa della Chiesa e dell’appartenenza alla Chiesa o della comunione ecclesiale. Uno può essere convinto di appartenere pienamente alla Chiesa e invece vi appartiene solo parzialmente, come per esempio i protestanti o i modernisti. Per questo, esistono solitamente gradi di appartenenza e gradi di esclusione o di separazione. Per questo, le scomuniche non sono tutte dello stesso peso o livello. Il tralcio può essere periclitante a vari livelli. Si può essere separati da certi valori, ma non da altri. Per converso, la comunione ecclesiale è il vertice di un’appartenenza che inizia da un grado minimo per salire al massimo. Qui ci soccorre l’immagine evangelica della vite e dei tralci. Un tralcio può essere parzialmente staccato dalla vite, ma riceve ancora la sua linfa. Così i fratelli separati godono di una certa comunione con la Chiesa cattolica, anche se questa comunione non è piena.

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Ogni fedele deve saper distinguere il grano dalla zizzania, deve saper giudicare da sé se un altro fratello, fosse teologo, vescovo o cardinale, è o non è in comunione con la Chiesa, e per conseguenza frequentarlo, se è in comunione; starsene alla larga, se non è in comunione. Ecco allora le direttive del Nuovo Testamento: «Tenetevi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata» [II Ts 3,6]. «Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti» [v. 14]. «Sta lontano dall’eretico [airetikòn]» [Tt 3,10]. «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, poiché chi lo saluta partecipa delle sue opere perverse» [II Gv 10-11]. Si tratta evidentemente di casi nei quali il dialogo è impossibile o sconveniente o pericoloso o inutile per i seguenti motivi: o perché l’eretico non accetta la correzione o perché tenta egli stesso di sedurci o perché ci tratta con disprezzo.

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Al fine di custodire e promuovere i valori teoretici e morali sui quali  si regge la compagine della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, dev’essere dunque somma cura di tutti i fedeli, ma soprattutto dei pastori e dei teologi sotto la supervisione e la direzione del Papa, aver cura che la sana dottrina del Vangelo sia da tutti rettamente interpretata, accolta, condivisa, diffusa e difesa contro le eresie, che sono appunto il rifiuto o la deformazione delle verità di fede. Il prelato, dunque, nella Chiesa, e innanzitutto il Sommo Pontefice, supremo custode dell’unità della Chiesa e fautore della comunione ecclesiale, hanno la facoltà di espellere dalla Chiesa, ossia di scomunicare, quei fedeli, i quali, o per il loro atteggiamento scismatico o per le loro idee ereticali o scandalose, falsificano la dottrina, disobbediscono al Sommo Pontefice o creano divisioni nella Chiesa.

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Ci sono fedeli che di fatto o per le loro idee o per loro condotta, sono fuori della Chiesa e contro la Chiesa, eppure vogliono restarvi per cambiarla con i loro errori. Capita in questi casi che il prelato ingenuo o connivente non li scomunichi, ma li lasci fare o addirittura li sostenga, oppure, che li inviti a predicare ai fedeli dentro le chiese. Viceversa ci sono vescovi, sacerdoti e fedeli in piena comunione con la Chiesa, della quale possono denunciare mali e scandali, che però, per il fatto di opporsi a pastori o teologi scismatici o eretici, vengono trattati da loro come se fossero scomunicati. Esiste dunque una differenza tra la scomunica ufficiale e l’esser di fatto fuori dell’apparato ecclesiastico.

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Qualunque cristiano può essere eretico, scismatico o scomunicato, all’infuori del Papa, che per assistenza divina è il supremo custode della verità evangelica e della comunione ecclesiale. Infatti l’esser scomunicato comporta la rottura con un superiore ecclesiastico o col Papa. Ma il Papa evidentemente non ha alcun superiore terreno al quale egli possa ribellarsi, se non Gesù Cristo. Ed inoltre c’è da notare che un Papa può essere un cattivo pastore della Chiesa, ma non può insegnare l’eresia. Per questo, il Codice pone tra i «delitti contro la religione e l’unità della Chiesa» [parte II, titolo I], «l’apostasia, l’eresia e lo scisma» [can. 1364], nonché la pubblicazione e diffusione della «bestemmia, dell’offesa ai buoni costumi, delle ingiurie, l’eccitamento all’odio o al disprezzo contro la religione o la Chiesa [can. 1369] e gli insegnamenti di dottrine condannate o dal Romano Pontefice o dal Concilio Ecumenico» [can. 1371], il che equivale al rifiuto o alla falsa interpretazione o falsificazione degli insegnamenti del Papa o del Concilio. Per questo il delitto di eresia merita la scomunica [cann. 1364, 1331].

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La scomunica può essere latae sententiae o ferendae sententiae. La prima scatta automaticamente al compimento dell’atto criminoso, per esempio percuotere la persona del Papa o abbracciare un’eresia per la quale sia già prevista scomunica. Latae sententiae vuol dire che la sentenza è già pronunciata. Ferendae sententiae invece vuol dire che occorre un processo, al termine del quale il giudice pronuncia la sentenza, per esempio per stabilire se una persona è o non è eretica.

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ESEMPI NOTEVOLI DI SCOMUNICA

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Un esempio recente, è quello dei quattro vescovi lefevriani, i quali, in un primo tempo scomunicati, sono poi stati successivamente liberati da Benedetto XVI. Invece chi appoggia la Messa vetus ordo — che peraltro in se stessa è lecita — ma rifiuta, come fece Lefebvre, la Messa novus ordo accusa di filo-luteranesimo, è scomunicato. La Messa novus ordo rappresenta infatti il momento massimo della comunione ecclesiale. Rifiutare tale Messa vuol dire quindi separarsi dalla comunione ecclesiale e per questo si è colpiti da scomunica.

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Famosa è rimasta la revoca reciproca della scomunica tra il Beato Paolo VI e il Patriarca Atenagora. Ci si domanda però che senso avesse avuto la scomunica nei confronti del Papa da parte del Patriarca Michele Cerulario nel 1054. Il Papa può scomunicare, ma non può essere scomunicato, perché non ha in terra nessun superiore dal quale possa separarsi. Il Papa infatti è il principio della comunione ecclesiastica, mentre il fedele è ciò che deriva da questo principio. Ora il principiato può separarsi dal principio, ma il principio non può separarsi da se stesso. Quindi il Patriarca di Costantinopoli, scomunicando il Papa, non ha fatto altro che separarsi dalla Chiesa. Paolo VI fece un gesto magnanimo revocando la scomunica ad Atenagora, ma il Patriarca, al di là della sua amicizia con Paolo VI,  fece un gesto obbiettivamente e giuridicamente nullo, come nulla era stata la sua scomunica. C’è inoltre da notare che la Chiesa può togliere la scomunica a eretici che restano eretici, come sono i nostri fratelli ortodossi, dato che con loro non è stata ancora risolta la vertenza sul Filioque. È evidente allora che questa loro reintegrazione comporta una comunione molto imperfetta, data la permanenza di carenze dottrinali.

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Nella storia ci sono state scomuniche che non solo non hanno sortito l’effetto sperato di indurre o stimolare lo scomunicato al pentimento, ma che hanno avuto l’effetto di provocarlo ancora di più all’odio contro il Papa e la Chiesa, come successe con la scomunica a Lutero di Papa Leone X e di San Pio V nei confronti della regina Elisabetta d’Inghilterra. Se lo scomunicato ha già un grosso seguito, egli è orgoglioso di ciò e se ne fa forte, per cui la scomunica lo inalbera e lo inasprisce maggiormente. Sono i santi, per esempio un San Pio da Pietrelcina, che si sottomettono anche a censure ingiuste. Ma gli eretici, potenti e facinorosi che sono scomunicati, facilmente fanno peggio. Per questo, soprattutto oggi che i modernisti sono molto potenti, i Papi rinunciano a scomunicarli.

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Quanto invece alla scomunica a chi professa la dottrina del comunismo ateo marxista, comminata da Pio XII, essa non è mai stata abolita, benché la Chiesa da allora non ne abbia fatto più cenno. Tuttavia, tale scomunica mantiene di fatto il suo valore, giacché è evidentemente impossibile che un ateo partecipi della comunione ecclesiale.

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Quanto all’appartenenza alla massoneria, un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1984 avverte che chi è affiliato alla massoneria è in peccato mortale e non può fare la Comunione. Anche in questo caso il motivo della scomunica è evidente: la massoneria non riconosce il dogma della comunione dei santi.

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Per quanto riguarda la scomunica degli associati alla mafia, essa è motivata dal fatto che si tratta di associazione a delinquere finalizzata al furto e all’estorsione con ricorso all’assassinio e alla vendetta privata, per cui è evidente che un membro di tale associazione non può fruire della comunione ecclesiale. La stessa cosa vale per i modernisti, i quali, hanno un concetto di Chiesa incompatibile con quello proprio della Chiesa cattolica.

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I MOTIVI E I FINI DELLA SCOMUNICA

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Merita di essere scomunicato chi sparge eresie, turba, ferisce, offende o disorganizza la comunità, crea scandalo e divisioni tra i fedeli, disobbedisce all’autorità. Purtroppo però oggi in modo macroscopico — salvo a non voler vedere perché bloccati dalla paura o dal rispetto umano o perché al carro dei modernisti o perché parte in causa o perchè chiusi nei propri meschini interessi o perché affetti allocchismo dottrinale [3] — questi personaggi si moltiplicano, sono onorati e salgono ad alti posti, mentre coloro che sono veramente in comunione con la Chiesa vengono bastonati, umiliati o emarginati. Così gli scomunicabili non sono scomunicati e capita che chi è in comunione è scomunicato o quanto meno viene trattato come se fosse uno scomunicato. Una bella confusione ed ingiustizia, dove chi ci gode è il demonio, maestro dell’oscurantismo che conduce alla perdizione.

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Circa la questione delle specie della scomunica, dobbiamo porci tre quesiti: un primo quesito è quello di distinguere la scomunica giusta o lecita da quella ingiusta o illecita; un secondo è quello di distinguere la scomunica valida da quella invalida o nulla; e un terzo è quello di distinguere lo scomunicato dichiarato o ufficiale da quello effettivo o di fatto.

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La scomunica è giusta, quando il prelato interviene mosso dalla preoccupazione di salvaguardare la verità della fede, la comunione ecclesiale e di richiamare il ribelle all’obbedienza. A proposito della scomunica ingiusta, invece, San Tommaso d’Aquino dice che la scomunica può essere ingiusta o da parte dello scomunicante o da parte dello scomunicato. Nel primo caso essa ha effetto, cioè il soggetto viene ufficialmente scomunicato mediante pubblico decreto, benché non meriti tale provvedimento e semmai avrebbe meritato un decreto di lode.  Quindi la scomunica può essere ingiusta, in quanto motivata non dal rispetto per l’autorità superiore, come sarebbe il Magistero della Chiesa, o il timor di Dio o l’amore per la verità o per la Chiesa, ma dall’ignoranza, dall’odio o dall’invidia per lo scomunicato; oppure può essere ingiusta perché senza fondamento o motivo giuridico o dottrinale, ed anzi basata su accuse false e motivi o pretesti ereticali [4]. La prima è valida ma illecita; la seconda è invalida e nulla.

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Il prelato deve fare molta attenzione a comprendere e valutare i motivi che guidano il pensiero e l’azione del supposto dissidente o eretico, soprattutto se ha molto seguito, per non confondere un profeta con un ribelle, come successe col Savonarola o viceversa per non confondere un ribelle con un riformatore, come successe a  certi vescovi tedeschi nei confronti di Lutero, i quali, anziché condannare il cosiddetto “Riformatore”, passarono dalla parte di Lutero. Il prelato non sia precipitoso nel giudicare, non si lasci condizionare dal clima passionale e fazioso che solitamente si crea attorno a queste vicende, sia cauto nel valutare le accuse rivolte dall’ambiente al supposto reo e preferisca ascoltarlo e consultarlo direttamente. Se è il caso, istituisca un processo, per non rischiare di condannare un innocente o di assolvere un colpevole.

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Può capitare anche che una scomunica ingiusta sia irrogata da un prelato eretico, il quale può non essere ufficialmente scomunicato, per cui non è sostanzialmente ed effettivamente in comunione con la Chiesa, mentre il suddito ufficialmente scomunicato, in quanto ortodosso, resta di fatto in comunione con la Chiesa.

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È chiaro che un prelato che scomunichi in base a un falso concetto di Chiesa o di obbedienza o senza essere lui per primo ad esser sottomesso al superiore maggiore o al Romano Pontefice o alla Parola di Dio, scomunica invalidamente, per cui di per sé, tale scomunica, è nulla e non dovrebbe produrre effetto. Tuttavia, di fatto, l’azione di un prelato autoritario, influente, prepotente, sorretto da pari suoi o dai poteri mondani verso una persona onesta ma indifesa  può comunque produrre un effetto sociale deleterio, esercitando violenza sullo scomunicato e sui suoi discepoli, lo diffama presso la comunità e danneggia la comunità stessa così ingannata dalla falsa scomunica.

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San Tommaso d’Aquino insegna che in questi casi lo scomunicato può ricorrere ai superiori maggiori. Certo, se è il Papa che ha scomunicato ingiustamente, bisognerà sopportare con pazienza, evitando di assumere atteggiamenti vendicativi o rancorosi, che metterebbero senz’altro lo scomunicato, nel caso avesse ragione, dalla parte del torto. Se poi, come fu il caso di Lutero, il ribelle è scomunicato giustamente, è chiaro che un’eventuale contestazione da parte dello scomunicato, aggraverebbe maggiormente la sua colpa.

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Il fatto che una scomunica non abbia vizi di forma —  essere per esempio emanata dalla legittima autorità o entri nel merito —  non vuol dire necessariamente che essa sia giusta, opportuna, benefica, lecita. Essa può esser originata da  prepotenza o grave colpa nello scomunicante, come fu la scomunica del Savonarola da parte di Alessandro VI. Se poi la scomunica è infetta anche da vizi di forma, come per esempio essere effetto di un abuso di autorità o, come osserva San Tommaso d’Aquino, essere «non dovuta o perché la sentenza è contraria all’ordine giuridico» [5], oltre ad essere ingiusta nel contenuto e nei motivi, essa è del tutto nulla.

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Casi di questo genere oggi sono frequenti per il fatto che il modernismo si è diffuso tra i vescovi, per cui non solo è raro che un vescovo scomunichi un eretico, ma succede addirittura che fedeli ortodossi siano scomunicati da vescovi eretici. È chiaro che una scomunica motivata da una causa ereticale, essendo contraria alle norme della fede e del diritto, è nulla, per cui lo scomunicato in linea di principio potrebbe non tenerne conto. Sennonché, però, è possibile che in tal caso il prelato infierisca ancora di più, per cui allo scomunicato conviene rassegnarsi. Sotto questo punto di vista San Tommaso d’Aquino osserva che una scomunica può essere ingiusta e tuttavia sortire l’effetto punitivo [6], al quale lo scomunicato, nell’ipotesi, non ha mezzo per scampare o liberarsi, come invece ebbe la fortuna di poter fare San Giovanni della Croce, fuggendo dal carcere del convento.

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La scomunica ha un duplice scopo: primo, quello di essere una punizione esemplare e salutare; esemplare, per scoraggiare altri ad imitare lo scomunicato; salutare, ossia tale da indurre lo scomunicato alla resipiscenza, al pentimento e alla penitenza, onde possa correggersi ed essere reintegrato nella comunione ecclesiale. Per questo, non deve essere né eccessiva, né troppo mite, ma commisurata all’entità del danno causato a se stesso e alla Chiesa dallo scismatico o dall’eretico e alla qualità e quantità delle sue forze morali e della sua reputazione nella Chiesa, nonché dell’ascendente, della fama e del seguito che egli ha in essa. Non deve isolarlo troppo dalla comunità, in modo che non peggiori la sua ostilità ad essa e non abbia la tentazione di lasciarla del tutto, ma gli sia mantenuto in essa un certo grado di stima e di considerazione. Capita anzi che il dissidente sia oggetto di un’ostilità ingiusta ed esagerata da parte di certi fedeli o nemici troppo zelanti, maligni o di corto intelletto, per cui il prelato deve difendere e proteggere il dissidente anche  da essi.

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La scomunica non deve neppure lasciare allo scomunicato troppa libertà di azione e di movimento, né deve lasciarlo troppo inserito nella comunità, perché ciò gli consentirebbe di continuare a spargere le sue eresie e a fomentare la ribellione alla Chiesa. Le scomuniche troppo blande, e puramente formali, che non disturbano lo scomunicato più di tanto, perdono la loro efficacia deterrente ed educativa, vengono derise da lui e dai suoi seguaci e non sortiscono alcun effetto, se non quello di creare un martire agli occhi dei seguaci. Tale probabilmente sarà la scomunica dei mafiosi e tale, purtroppo, è stata la scomunica dei comunisti.

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Secondo scopo della scomunica è quello di far chiarezza nel senso di aiutare a discernere chi appartiene alla Chiesa e chi è fuori, è quello quindi di liberare la Chiesa da un agente pericoloso scoraggiando i fedeli dal volerlo seguire. Può capitare che la Chiesa in questi interventi sia troppo severa, come sembra essere accaduto nei casi di Pietro Valdo nel XII secolo, degli albigesi nel XIII secolo, di Jan Hus nel XV secolo e di Lutero. Essi non mancavano di qualche buona idea nel proporre una riforma della Chiesa, anche se certamente le loro eresie erano condannabili. Essi tuttavia contavano tra le loro fila anche persone in buona fede, per cui, se si avesse avuta maggior fiducia nel dialogo, forse si sarebbe evitata una dolorosa divisione che dura ancora dopo secoli.

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LA RICOSTRUZIONE DELLA COMUNIONE

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Paradigmatica è la parabola del figliol prodigo [Lc 15, 11-32]. Lo scomunicato non è tanto uno che è cacciato, ma è uno che se ne va. Il decreto di scomunica bene spesso non è altro che la presa d’atto addolorata e la triste notizia pubblica che il fratello ci ha lasciato e ci è diventato nemico. Nella scomunica non c’è tanto lo sdegno, quanto piuttosto il dolore e la speranza che il figlio perduto sia ritrovato. È lui che se ne è voluto andare. E se un fratello è cacciato, è perché già praticamente non era in comunione e disturbava la comunione. Dunque che cosa si attende la scomunica? Il ritorno del fratello, il suo pentimento, il suo ravvedimento. Come mai sono così rari i fenomeni della conversione? Forse la Chiesa finora non ha fatto abbastanza per recuperare questi fratelli, queste pecorelle smarrite. Si è usata troppa severità e troppo poca misericordia. Così almeno pensò San Giovanni XXIII nel volere e nell’indire il Concilio Vaticano II. Si è voluto trattenere il figliol prodigo con la forza, senza tentare di convincerlo di che cosa sarebbe andato incontro lasciando la casa paterna. Però, bisogna anche riconoscere francamente che in molti casi l’onestà e l’umiltà delle quali il figliol prodigo dà prova nella parabola lucana, accorgendosi del brutto affare che ha fatto lasciando la casa paterna, sono sempre state virtù rare. Quasi sempre gli eretici sembrano trovarsi bene nel mangiare le carrube dei porci, e se ne vantano, indorandole di speciosi orpelli, come fossero segno di libertà e di saggezza, ed anzi invitano altri a seguirli ed altri li seguono.

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Che cosa la Chiesa può fare in questi casi? Col Concilio Vaticano II essa ha deciso di imboccare una nuova via, che riduca al minimo l’uso della severità e quindi della scomunica e del temuto anàthema sit. Alcuni teologi hanno interpretato la scelta conciliare nel senso che il Concilio supporrebbe che tutti gli uomini, almeno inconsciamente, cercano Dio e sono in grazia; per cui l’annuncio del Vangelo non dovrebbe essere più proposto nei termini categorici e minacciosi di un aut-aut: come unica via di salvezza, rifiutando la quale si apre il baratro dell’inferno: o credi o non ti salvi; ma semplicemente come annuncio di una misericordia, della quale già tutti gli uomini di buona volontà sono oggetto, magari inconsciamente, quale che sia la religione alla quale appartengono. In questa visuale ottimistica, siccome tutti si salvano, ognuno è libero di seguire la propria religione. I contrasti dottrinali non avrebbero importanza. Il fatto determinante sarebbe che tutti sono oggetto della divina volontà salvifica. Tutti quindi, magari inconsciamente, appartengono alla Chiesa, che abbraccia tutte le religioni, nessuno escluso.

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Per i modernisti non possiamo dire, quindi, al luterano, all’ebreo o al musulmano: tu sei in errore. Egli infatti può sempre dirci: in errore lo sono per te, ma non nella mia religione. Si comprende allora come in questa visuale relativistica perde di senso o di interesse la scomunica. È chiaro che  una Chiesa che non si ritiene in possesso della verità assoluta, come la concepiscono i modernisti, non distingue più nettamente e definitivamente il dogma dell’eresia, per cui l’idea stessa della scomunica non per lei ha alcun significato. Essa si oppone quindi alla Chiesa del passato, detta da costoro pre-conciliare, che adesso appare impositiva e illiberale, irrispettosa del pluralismo, e della libertà di coscienza.

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Altri dicono: la severità e la minaccia dell’Inferno non è servita. Ma poi non sarà che in fin dei conti la misericordia divina raggiunge tutti e tutti si salvano? Rispettiamo le diversità, puntiamo sul dialogo e su ciò che ci unisce: i comuni interessi della pace e della giustizia. Va bene. Tuttavia, ci sono delle verità che toccano Dio o la salvezza, che non piacciono ai fratelli separati. E allora che facciamo? Alcuni, sono dell’idea che è bene tacerle e ammettere solo quelle verità nelle quali tutti concordiamo. Le altre le lasciamo facoltative alle singole confessioni. Ma non è questo il comando di Cristo. E difatti il Concilio ripropone il Vangelo a tutta l’umanità.

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Il Concilio, però, a differenza dei precedenti, consapevoli dell’irrimediabile tendenza umana al peccato, propria della natura decaduta, prevalentemente dedicati quindi alla lotta contro il mondo ed alla condanna degli errori e dei vizi, con i relativi castighi comminati ai disobbedienti, sembra animato dalla fiducia di poter edificare su questa terra la concordia generale dell’umanità attorno a Cristo [cf. Pacem in terris], nella fiducia di poter realizzare la collaborazione della Chiesa col mondo, di poter costruire un’umanità giusta, unita e pacifica, nella quale Chiesa e il mondo vanno d’accordo. Il mondo è visto come sostanzialmente disponibile ad accogliere il Vangelo, e la Chiesa sembra fiduciosa di poter conquistare tutto il mondo, perché tutto il mondo attende Cristo. E così il Concilio sembra minimizzare  la tendenza degli uomini alla malizia e al peccato —  quindi la necessità della coercizione e della disciplina —, conseguenti al peccato originale e ritenere che l’educazione, la testimonianza e la predicazione del Vangelo siano sufficienti a creare quaggiù un’umanità finalmente giusta, felice e  concorde.

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Eppure, l’Apocalisse, prevede che lo scontro della Chiesa col mondo —  la Donna e il Drago —  durerà fino alla Parusia, per cui la conclusione della storia non sarà la simbiosi della Chiesa col mondo e l’unificazione generale dell’umanità nella concordia e nella pace, ma bensì la vittoria di Cristo sulle potenze del male e la separazione finale del grano dalla zizzania, con la salvezza degli eletti e la dannazione di reprobi.

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Un’altra cosa da notare: fino al Vaticano II la Chiesa ha sempre tenuto a precisare la sua identità e ad opporsi al mondo. Da qui la facilità con la quale essa polemizzava col mondo, condannava gli errori del mondo e scomunicava chi cedeva alle seduzioni del mondo, in particolare del mondo moderno. Essa aveva molta cura per i suoi figli, ci teneva che fossero protetti dalle insidie del mondo e dagli errori  delle altre religioni, compresi i cristiani non-cattolici, mentre era severa verso il mondo, nel quale vedeva quasi solamente pericoli e corruzione. Se essa contattava il mondo, lo scopo era quello di convertirlo al Vangelo, secondo il comando di Cristo.

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Il Vaticano II ha indirizzato la Chiesa ad una maggiore apertura ai valori del mondo e delle altre confessioni religiose. Ciò ha portato ad un arricchimento e ad un miglioramento del costume, della teologia e della cultura cattolici, ma nel contempo è diminuita la cura di preservare la Chiesa dalla penetrazione in essa di dottrine erronee  o pericolose. Così è successo che, se da una parte la Chiesa ha assunto un atteggiamento più conciliante nei confronti del mondo, dall’altra sono sorti conflitti e corruzione al suo interno a causa della penetrazione degli errori e dei cattivi costumi del mondo, penetrazione non sufficientemente impedita dai pastori, i quali hanno molto diminuito l’uso della scomunica.

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Ciò che oggi si impone è una maggior cura nei pastori, a cominciare dal Papa, della buona formazione dei fedeli e degli stessi pastori, nel pacificare gli animi aspramente divisi da una sciagurata e incancrenita opposizione tra lefebvriani e modernisti, che si trascina da cinquant’anni, nel difendere la Chiesa dalla penetrazione di idee false o eterodosse e quindi nella ripresa moderata di un saggio e prudente uso dell’istituto della scomunica, senza affatto per questo rinunciare a quanto il Concilio ha prodotto nel rapporto della Chiesa col mondo moderno. È chiaro che occorre portare avanti l’opera dell’evangelizzazione; ma non c’è da illudersi che in un futuro lontano o vicino l’umanità si raccoglierà attorno alla Chiesa. E neppure c’è da sperare in una convivenza pacifica mondiale tra le religioni, come alcuni ipotizzano o auspicano.

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Al cristianesimo, per volere di Cristo, spetta il dominio del mondo. Le religioni devono essere sottomesse alla religione cristiana cattolica. Il cristianesimo non si adatta, per sua natura, ad essere una religione alla pari delle altre, come fosse un partito politico in un parlamento mondiale. Non confondiamo i rapporti civili fra le religioni con l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non sono queste le cose previste dall’escatologia apocalittica. Il cristianesimo continuerà ad espandersi, ma sempre in lotta contro le forze di Satana. Sempre, nella Chiesa, si mescoleranno il grano e la zizzania, sempre essa dovrà purificarsi dal peccato ed espellere dal suo seno gli indegni, sempre sarà contrastata da nemici e sempre sarà perseguitata. Sempre avanzerà e si rinnoverà nella storia, e convertirà a Cristo i cuori, sempre accoglierà nuovi figli, e genererà nuovi santi, fino a che, in un momento noto solo a Dio, la Chiesa apparirà sconfitta ed avverrà la grande apostasia, prevista da San Paolo, che però precederà il Ritorno trionfale di Cristo glorioso.

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Varazze 24 settembre 2018

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NOTE

[1] “votata allo sterminio” (eb. cherem), nella trad. della CEI.

[2] Commento alle Lettere di S.Paolo, c.9, 3, lect.I, n.739, Edizioni Marietti,Torino-Roma 1953, p.134.

[3] Difetto spirituale riconducibile all’opportunismo, alla piaggeria e alla vigliaccheria, oggi diffuso tra i vescovi, per il quale essi, per ignoranza crassa o per rispetto umano o attaccamento al seggio episcopale, non si accorgono neppure di farsi prendere per il naso dagli eretici. Non solo fuggono davanti al lupo entrato nell’ovile, ma non si accorgono neppure della sua presenza affidando importanti uffici ecclesiastici a persone che dovrebbero essere scomunicate.

[4] Summa Theologiae, Suppl., q.21, a.4.

[5] Ibid.

[6] Summa Theologiae, Suppl., q.21, a.4.

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Dalla decadenza alla farsa grottesca: Enzo Bianchi, un laico eretico che con il plauso dei vescovi predica gli esercizi spirituali ai preti sulla tomba del Patrono universale dei sacerdoti

— attualità ecclesiale —

DALLA DECADENZA ALLA FARSA GROTTESCA: ENZO BIANCHI, UN LAICO ERETICO CHE CON IL PLAUSO DEI VESCOVI PREDICA GLI ESERCIZI SPIRITUALI AI PRETI SULLA TOMBA DEL PATRONO UNIVERSALE DEI SACERDOTI

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Chi oggi rimane scandalizzato che Enzo Bianchi possa predicare gli esercizi spirituali mondiali per i sacerdoti, non ha motivo di prendersela né col Pontefice regnante né col Prefetto della congregazione per il clero che sarà presente a questo cosiddetto evento mondiale come un notaio può essere presente in una casa dove in una stanza c’è il cadavere del morto, nell’altra gli eredi che assistono all’apertura di un testamento attraverso il quale, con immane stupore, scopriranno a breve, dalla sua pubblica lettura, che non hanno ereditato un centesimo, ma solo una caterva di debiti da pagare. Esattamente quei debiti presentati infine al Sommo Pontefice Francesco I da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, Enzo Bianchi incluso.

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Autori
Ariel S. Levi di Gualdo
Jorge Facio Lince

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PDF  articolo formato stampa
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Enzo Bianchi, un eretico conclamato in cattedra a predicare gli esercizi spirituali mondiali al clero sulla tomba del Patrono dei Sacerdoti della Chiesa universale, il Santo Curato d’Ars

Quando analizziamo nascita e sviluppo di certi mostri intra-ecclesiali, bisogna sempre cercare di andare all’origine del problema. Spesso, la natura del problema, è costituita proprio dal problema stesso che non è stato preso, analizzato, isolato e risolto per tempo. Sicché, a quanti dinanzi all’eretico indomito e impenitente Enzo Bianchi, falso profeta, cattivo maestro, pernicioso avvelenatore del deposito della fede cattolica, oggi puntano il dito verso il Sommo Pontefice Francesco I, è doveroso ricordare, anzitutto per onestà intellettuale, poi per storico dato di fatto, che i veri responsabili dello sviluppo del cancro bianchiano all’interno della Chiesa sono stati il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Cardinale Joseph Ratzinger Prefetto per un ventennio della Congregazione per la dottrina della fede, in seguito il Sommo Pontefice Benedetto XVI, sotto il cui pontificato Enzo Bianchi, pubblico diffusore di eresie cristologiche, pneumatologiche, ecclesiologiche ed esegetiche, fu invitato al Sinodo sulla nuova evangelizzazione.

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Ci risulta che alla Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta dal Cardinale Joseph Ratzinger, nel corso degli anni giunsero molte denunce, assieme a numerose richieste da parte di diversi vescovi che in modo diplomatico chiedevano pareri al competente dicastero sulla ortodossia dottrinale di libri e pubbliche conferenze tenute da Enzo Bianchi; e ciò sin da fine anni Ottanta inizi anni Novanta del Novecento. A qualcuno, risulta per caso che il Cardinale Joseph Ratzinger abbia preso qualche provvedimento?

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Se la vicenda di Enzo Bianchi — il nome del quale oggi figura tra i Padri del prossimo sinodo sui giovani —, non fosse, come lo è, collocabile nella nostra triste tragedia ecclesiale ed ecclesiastica contemporanea, potrebbe essere elemento per una vera e propria commedia grottesca, perché invitare un eretico al Sinodo per la nuova evangelizzazione sotto il pontificato del Papa Teologo, è paradossale quanto lo sarebbe invitare una celebre porno star a parlare alla Confederazione delle Superiore delle Monache Clarisse, riunite per stabilire il modo migliore per proporre alle giovani aspiranti religiose la virtù della castità nel Terzo Millennio. Eppure, Benedetto XVI, lo ha fatto. E, non potendo egli non sapere chi fosse Enzo Bianchi, possiamo solo concludere dicendo: mentre Francesco I, le proprie contraddizioni le manifesta e, come suol dirsi, te le sbatte in faccia, Benedetto XVI, nel corso del tempo, da buon figlio del romanticismo tedesco ha cercato invece di unire armonicamente acqua e fuoco, opposti e contrarî, come se tutti avessero diritto ad avere voce, incluso Enzo Bianchi. Quindi inclusa l’eresia, chiamata a convivere armonicamente ed in modo pluralistico e conciliante con l’ortodossia teologica.

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Per doloroso dovere di onestà intellettuale bisogna poi aggiungere: se Enzo Bianchi, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, avesse toccato due argomenti chiave, tali erano i preservativi e la famiglia, sarebbe stato fatto fuori all’istante, proprio come furono giustamente frenati e sconfessati i fautori della marxisteggiante Teologia della Liberazione. Purtroppo però, durante questo pontificato così attento e sensibile ai preservativi, alla famiglia e alle derive marxiste, al tempo stesso non si vedeva e non ci si curava che nello stesso Brasile, grande serbatoio della Teologia della Liberazione incubata in quel Paese con il pensiero e soprattutto con i soldi dei tedeschi, stavano prendendo vita sacerdoti che oggi si presentano all’altare vestiti e truccati come fossero delle Drag Queens che salgono sul palcoscenico di una discoteca gay. Il Bianchi ha quindi avuto la scaltrezza, sotto quel lungo pontificato, di dare avvio a tutta la sua semina di eresie, coprendosi però dietro al grande meaculpismo inaugurato da Giovanni Paolo II, senza mai toccare il filo spinato ad alta tensione dei preservativi e della famiglia.

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Con identica scaltrezza agirono pure Kiko Arguello e Carmen Hernandez, fondatori del Cammino Neocatecumenale, che hanno scempiato la liturgia e la Santissima Eucaristia sino a forme di vero e proprio sacrilegio, però, a Giovanni Paolo II, presentavano un movimento composto da coppie regolari che avevano sette otto figli ciascuno e che consideravano la contraccezione uno tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. E, sotto quel pontificato, chi aveva numerosa prole ed era contrario alla contraccezione, poteva anche scrivere catechismi paralleli al Catechismo della Chiesa Cattolica, poteva anche decidere quando i propri adepti potevano recitare il simbolo di fede Niceno-Costantinopolitano, ma soprattutto potevano ridurre il Sacrificio Eucaristico ad una via di mezzo tra un Seder di Pesach [la cena della Pasqua ebraica] celebrato il sabato sera alle ore 21, ed una Cena Calvinista in ricordo di Gesù Cristo. Purché non si toccasse, però, il filo spinato ad alta tensione dei preservativi e della bioetica. Il tutto per ribadire quanto Enzo Bianchi non sia né colpa né responsabilità del Sommo Pontefice Francesco I.

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Chi oggi rimane scandalizzato che Enzo Bianchi possa predicare gli esercizi spirituali mondiali per i sacerdoti ad Ars, dove sono conservate le spoglie del Santo patrono universale dei sacerdoti, non ha motivo di prendersela né col Pontefice regnante né col Prefetto della congregazione per il clero, Sua Eminenza il Cardinale Beniamino Stella, che sarà presente a questo cosiddetto evento mondiale come un notaio può essere presente in una casa dove in una stanza c’è il cadavere del morto, nell’altra gli eredi che assistono all’apertura di un testamento attraverso il quale, con immane stupore, scopriranno a breve, dalla sua pubblica lettura, che non hanno ereditato un centesimo, ma solo una caterva di debiti da pagare. Esattamente quei debiti presentati infine al Sommo Pontefice Francesco I da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, Enzo Bianchi incluso.

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Enzo Bianchi chiamato a predicare ai presbìteri, è forse cosa da prendere sul serio? A questa amara realtà si può solo reagire con la presa di giro, proprio come col grottesco esempio calzante di poc’anzi riguardo l’immagine della porno star e delle monache di clausura che cercano di apprendere da lei il linguaggio giusto per annunciare il valore della verginità alle aspiranti monache del Terzo Millennio. 

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Tra dei Satanisti ed Enzo Bianchi c’è questa tremenda differenza: i Satanisti, proprio in quanto tali, sono degli autentici credenti; pochi come loro credono infatti profondamente — per fare un solo esempio —, alla presenza reale di Cristo Dio vivo e vero, in anima corpo e divinità nelle Sacre Specie Eucaristiche. Enzo Bianchi è invece un ateo, uno che in modo deciso ha ateizzato l’intero Mistero della Rivelazione. Parole indubbiamente pesanti queste nostre, ma testimoniate da ore e ore di pubblici discorsi ufficiali tenuti da questo personaggio, di fatto ateo ed ateizzante.

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Veniamo al nostro lavoro, basato solo e rigorosamente sulle prove; un lavoro portato avanti per oltre un anno dal giovane filosofo e teologo Jorge Facio Lince, collaboratore del Padre Ariel S. Levi di Gualdo. Il lavoro è stato condotto dal solerte ricercatore a questo modo: sono stati raccolti e archiviati un numero davvero elevato di filmati nei quali Enzo Bianchi, ripreso e registrato, teneva i propri sproloqui ereticali, principalmente presso strutture ecclesiali, se non, addirittura, dai pulpiti di numerose chiese cattedrali italiane, con altrettanti numerosi vescovi diocesani seduti in prima fila sorridenti ad abbeverarsi, loro per primi, alle sue immani eresie. E quando un vescovo invita un eretico di tal fatta a proferire pensieri eterodossi dal pulpito della sua chiesa cattedrale colma di fedeli, è presto detto che ci troviamo dinanzi ad un indegno pastore che anziché custodire la porzione di Popolo di Dio ad esso affidato [cf. Gv 21, 15-19], invita direttamente il lupo dentro l’ovile. Il pastore che invita il lupo dentro l’ovile è parecchio peggiore del pastore che dinanzi al lupo fugge per paura, mentre il lupo rapisce e disperde le pecore [cf. Gv 10, 12]. Infatti, la paura è un sentimento umano, inoltre bisogna ricordare anche che nessuno è obbligato a essere eroe. Certo, chi per natura non è dotato di coraggio, dovrebbe evitare di accettare, anche se si tentasse di imporgliela, la nomina episcopale.

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Ci sono stati vescovi diocesani che hanno inviato generazioni di seminaristi presso l’esotico Monastero di Bose a fare i ritiri spirituali prima delle loro sacre ordinazioni. Ci sono stati vescovi diocesani che si sono assicurati la presenza di Enzo Bianchi presso i propri seminari, affinch’egli potesse donare con le sue lezioni perle di saggezza ai futuri preti. E, detto questo, dovrebbe essere inutile, perlomeno in tempi normali, affermare che ad un vescovo che avvelena in tal modo i propri futuri preti, o che invita questo Signor Laico a predicare i ritiri spirituali ai membri del proprio presbiterio, non dovrebbe essere permesso di fare il vescovo. Bisogna infatti chiarire che un vescovo il quale convivesse dentro il palazzo episcopale con un harem di concubine, ma che nell’esercizio del suo sacro ministero fosse — al di là della sua vita privata immorale e di peccato —, un difensore della fede e della integrità dottrinale dei propri presbiteri, commetterebbe un peccato molto meno grave, non altro perché quel genere di peccato di lussuria sarebbe veleno solo per la sua anima. Invece, un vescovo che favorisce la diffusione dell’eresia tra i suoi presbìteri ed i propri fedeli sudditi diocesani, compie il peccato più grave che possa compiere un sommo sacerdote il cui compito è quello di reggere, nella sacramentale pienezza del suo sacerdozio apostolico, tutte le membra vive del Corpo di Cristo che è la Chiesa.

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Il lungo lavoro di ricerca di Jorge Facio Lince ha comportato infine l’accumulo di oltre trecento pagine di materiali, i quali altro non sono che le testuali parole pronunciate nelle più disparate occasioni pubbliche da Enzo Bianchi in lezioni e conferenze, il tutto documentato senza possibile pena di smentita, perché — è bene ripeterlo ancora —, non si tratta di deduzioni, o di interpretazioni, si tratta di questo eretico, di questo ateo che ateizza chi lo ascolta, filmato e registrato mentre parla dinanzi alle platee nel corso di diverse centinaia di ore di registrazioni, non di rado alla presenza di vari vescovi italiani.

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Dunque, delle due cose una esclude l’altra: o i vescovi che lo invitano, che lo ospitano e che lo fanno parlare direttamente dentro le loro chiese cattedrali, sono tali e quali a lui, oppure dobbiamo prendere atto che una consistente fetta dell’episcopato ha proceduto nei concreti fatti a fare pubblica apostasia dalla fede cattolica.

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Sia nell’uno che nell’altro caso — ed entrambi sono casi gravissimi —, questo genere di vescovi hanno ipso facto svincolato i propri presbiteri ed i propri fedeli sudditi diocesani da ogni dovere di filiale rispetto e obbedienza nei riguardi del vescovo. Infatti, a sola eccezione delle persone affette da ignoranza inevitabile e invincibile, quindi non in grado di giungere a simili analisi e conclusioni, il negare la legittima autorità, ma soprattutto l’obbedienza ad un vescovo che presenta un eretico come modello nella propria chiesa cattedrale ai propri presbiteri ed ai propri fedeli sudditi diocesani, è un dovere, perché ad un vescovo del genere non si deve proprio mai obbedire. E non si deve obbedire per imperativo di coscienza, oltre che per dovere di fede cattolica. Diversamente invece, ad un vescovo che mantiene a servizio nel proprio palazzo vescovile una squadra di concubine, ma che malgrado la propria vita privata immorale, difende pubblicamente e tutela il deposito della fides catholica, malgrado certe sue gravi fragilità umane si deve rispetto e obbedienza, anche se potrebbe seriamente rischiare di andare all’Inferno a bruciare in eterno in quello che Dante indica come il girone dei lussuriosi.

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Dalle circa seicento ore di registrazioni filmate in cui Enzo Bianchi offre il meglio del peggio del proprio pensiero ereticale, abbiamo scelto a titolo di esempio alcuni passi nei quali egli nega apertamente alcuni dei principali fondamenti della fede. Per esempio: la corretta figura di Dio Padre ridotta ad analisi improntata su schemi di matrice freudiana; la negazione della processione della Seconda Persona della Santissima Trinità, ossia il fatto che per articolo di fede lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio; per seguire con una cristologia che racchiude in sé i veri e propri connotati della blasfemia, seguita dal più selvaggio relativismo teologico e religioso presentati come ecumenismo e come dialogo interreligioso. Tutte cose che il Bianchi proferisce e semina da decenni, soprattutto nelle chiese cattedrali e nei seminari; tutte cose di cui, il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Prefetto della congregazione per la dottrina della fede Cardinale Joseph Ratzinger, il Sommo Pontefice Benedetto XVI, pare, almeno alla prova dei fatti, che non si siano mai accorti.

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Domanda: ma è mai possibile che da mezzo secolo a questa parte si viva in una Chiesa nella quale diversi poveri e ignari Sommi Pontefici sono stati tutti quanti traditi e ingannati, quindi beatificati e canonizzati? Proprio così. Perché poi, quando certe evidenze non sono più in alcun modo negabili, ed in specie quando appunto si tratta di Beati e di Santi Pontefici, a quel punto è invalso ormai l’uso di annunciare: «Il Sommo Pontefice è stato tradito e ingannato!».

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Qualcuno potrebbe chiederci: perché, tutti questi materiali non li presentate alla Congregazione per la Dottrina della Fede? Semplice la risposta: anzitutto, per sapere che il Bianchi è eretico, non dovevano certo aspettare noi, in questa Chiesa dove l’eresia non è più tale ma è solo considerata una “libera opinione diversa”. E poi, a qual scopo farlo, se quel dicastero, oggi, sarebbe capace solo a condannare come grave eresia il fatto che qualcuno osi mettere in dubbio che il compito ecclesiale ed ecclesiastico di un Cardinale di Santa Romana Chiesa non dovrebbe essere quello, ed in specie di questi tempi, di portare il caffè caldo la sera ai barboni sotto il colonnato di San Pietro? [cronaca: QUI, QUI]. E se anche lo facesse, non sarebbe opportuno farlo senza tirarsi dietro un esercito di giornalisti, fotografi e cameraman? Oggi, compito di un Cardinale, con le fondamenta dottrinali della casa che tremano sotto le scosse sismiche ad alta magnitudo, è quello di portare i gelati agli immigrati a Rocca di Papa, semmai rincorrendoli col gelato in mano mentre questi, appena giunti nel centro di accoglienza messo a loro disposizione per ripicca politica col governo italiano in carica dalla Conferenza Episcopale Italiana, si erano già dati alla fuga? [cronaca, QUI]. E dietro a loro il Cardinale, che li rincorreva col gelato in mano …

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… ecco, affermare queste cose sì, che è vera e propria eresia, mica negare, come fa il Bianchi, l’articolo di fede che recita «Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio»? Oppure che il peccato originale è una invenzione della quale a suo dire «Non c’è traccia sul Libro della Genesi» [citazione e filmato seguono più avanti]. In fondo, queste del Bianchi, sono solo “opinioni diverse”. Invece, per cadere in eresia, oggi bisogna negare l’elemosina ad uno zingaro, non fare la raccolta differenziata dei rifiuti, od inquinare l’ambiente con i condizionatori. Tutte cose che tra poco saranno racchiuse dalla nuova teologia nel peccato di bestemmia contro lo Spirito Santo, per il quale non c’è remissione e perdono [cf. Mc 3, 29].

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Enzo Bianchi, laico non nel senso di Christi fidele ma nel senso di laicista, ha centrato il suo dire e scrivere sull’importanza del dialogo come la miglior via per una «umanizzazione» per l’uomo. Dunque questa raccolta di testi è stata fatta prendendo da una parte il messaggio racchiuso nelle parole dette o scritte in questi ultimi anni da Enzo Bianchi in giro per tutta l’Italia; e il Messaggio di Gesù Cristo, quello affidato alla Chiesa Cattolica, somma mater et magistra. Il messaggio di Enzo Bianchi è impossibile da essere mal interpretato perché sono tutte affermazioni fatte o scritte da lui; mentre dall’altra parte del dialogo, cioè dalla parte del messaggio di Gesù, della Chiesa e della stessa storia, sarà messo in forma semplice e sintetica, cosi che ogni lettore possa trarre le proprie conclusioni.

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DALLA SOCIOLOGIA POLITICA ALLA “SOCIO-TEOLOGIA”: IL RACCONTO  SU DIO

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Partiamo allora dall’inizio, chiarendo anzitutto cosa pensa e che cosa trasmette Enzo Bianchi sul mistero della creazione. Se infatti la Chiesa Cattolica sostiene che:

«La santa Chiesa, nostra madre, sostiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create” [Concilio Vaticano I: Denz. -Schönm., 3004; cf 3026; Conc. Ecum. Vat. II, Dei]. Senza questa capacità, l’uomo non potrebbe accogliere la Rivelazione di Dio. L’uomo ha questa capacità perché è creato “a immagine di Dio” [Cf Gen 1,27]» [1].

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Enzo Bianchi, prendendo spunto dagli scrittori critici verso la religione e la figura di Dio come Padre, nonché palesemente influenzato dal pensiero di Sigmund Freud, ci presenta la figura del Creatore come uno schema o sovrastruttura storico-politico-sociale:

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video integrale, per aprirlo cliccare sopra l’immagine

«[…] noi dobbiamo confessare che Paul Ricœur [2] aveva ragione quando diceva che soprattutto le istituzioni religiose avevano creato il fantasma del padre, modellando Dio Padre sovente sulla esperienza della paternità umana che gli uomini avevano fatto. Guardate, se c’è un errore terribile che ha ripercorso la storia della Chiesa è l’aver pensato di poter dire che Dio è padre a partire della paternità umana. Mentre in realtà avrebbe dovuto essere quella paternità divina narrata da Gesù che doveva ispirare, che doveva plasmare la paternità dei nostri genitori. È avvenuto esattamente il contrario. Ma questo ha fatto si che Dio assumesse davvero quel volto di padre-padrone. Quel volto, permettetemi di dire, di dio perverso […] quell’immagine di Dio che soprattutto negli ultimi secoli, sono stati più causa loro di ateismo di quanto lo siano stati movimenti e ideologie; che noi abbiamo accusato di essere forieri di ateismo. Io ne son convinto e lo dico sovente: ha creato più atei l’immagine paterna regnante nella Chiesa nel secolo scorso e nella prima metà di questo secolo, di quanto abbiano fatto l’ideologia marxista, la società industriale o la secolarizzazione. E noi dobbiamo aver il coraggio di dire questo. Perché veramente l’immagine paterna consegnata di Dio era quella di un padre-patrone, a volte di un padre perverso. Soprattutto nel suo rapporto con Gesù. Quel Padre che aveva voluto il sacrificio del figlio per soddisfare la sua collera e la sua ira perché in nome di una giustizia punitiva, qualcuno doveva scontare il peccato che segnava la storia. Per grazia noi oggi usciamo da questa stagione con molta difficoltà […] anche noi facciamo difficoltà a riconoscere Dio come padre. A un certo punto della nostra vita, noi sentiamo Dio come presenza esigente. Sentiamo la sua volontà come qualcosa che urta contro la nostra. Sentiamo la presenza di Dio come Colui che ci dice: c’è un limite per te, perché ci sono gli altri i tuoi fratelli. Ecco dove Dio si rivela Padre. E poi, attraverso i comandamenti, ci dice anche c’è una legge perché tu possa vivere l’amore con gli altri. E quando Dio ci mostra i limiti e la legge, noi sentiamo che il rapporto con Lui è come una prigione. Tentati dal male, sentiamo Dio come un nemico. Sentiamo la vita cristiana come una prigione. Ascoltare la sua voce è come una oppressione. Ecco il nostro bisogno di allontanamento. Vorrei dire che se ognuno di noi fosse davvero onesto dovrebbe dire che qualche volta ha sentito il bisogno di uccidere Dio. Anche di dimenticare Dio di fare a meno di Lui […] poi, soprattutto, guardate: c’è un pensiero che cresce in noi. soprattutto dall’adolescenza in poi. Noi pensiamo che Dio si Dio è buono, Dio è amore. Ma che questo Dio ci ama se siamo buoni; altrimenti ci castiga, non ci ama più. Preti, suore, mamme devote; tutte pronte a dirci un giorno a fin di bene: “guarda, che se stai buono Gesù ti vuol bene, Dio ti vuol bene. Ma se fai il cattivo non ti ama più”. Quante volte abbiam sentito questa parola. E l’unica, quando sentiamo questa parola, è dire nel cuore: Dio, perdona loro, non sanno quel che dicono. È così che poco a poco deformiamo il suo volto. È cosi che sentiamo Dio come padre-patrone […] ecco la simultaneità: da parte nostra peccato, inimicizia e empietà; da parte di Dio amore riconciliazione, perdono […] amore viscerale in cui non c’è traccia di giustizia retributiva. Dio la giustizia retributiva non la conosce. Questa è venuta dalla filosofia del diritto romano e si è insinuata nella Chiesa, nelle sue istituzioni e nella sua teologia. Ma non è il Dio della Bibbia […]. Quale volto tu riveli di Dio agli uomini, agli altri. Dimmi il volto di Dio che hai e ti dirò che tipo di uomo sei. Diceva Teofilo di Antiochia. Mostrami il tuo Dio e ti dirò che uomo sei; ma vale anche il contrario mostrami che umanità hai e ti dirò il Dio che tu hai»[cf. video QUI[3].

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È presto detto: questo Dio, nella figura del Padre, per Enzo Bianchi è la manifestazione psicoanalitica e socio-linguistica delle prime paure che l’uomo ha vissuto e che ancora oggi ha dentro di se a livello antropologico in quanto manifestazioni dei suoi istinti animali. Per quanto invece riguarda il corretto concetto di «giustizia retributiva», il bosiano non dovrebbe far altro che leggere le principali encicliche sulla dottrina sociale della Chiesa, a partire dalla Rerum Novarum del Sommo Pontefice Leone XIII [testo QUI], sino alla Centesimus Annus del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II [testo, QUI], per trovare adeguati chiarimenti ai propri stati di confusione, come quelli che sotto seguono:

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«La paura di Dio, quella che secondo la Bibbia è stata la prima paura che l’uomo ha esperimentato vi ricordate nel racconto della Genesi? Alla domanda di Dio: uomo dove sei? L’uomo ha risposto confessando ho udito la tua voce nel giardino Dio e ho avuto paura Genesi [3, 10]. Paura di un Dio che abbiamo chiamato nell’antichità; ma non pensate che ciò che abbiam vissuto nell’antichità non sian vissuto sotto altre forme oggi. L’abbiamo chiamato nell’antichità fatto, destino, necessità. La ananké dei greci. Padre padrone, giudice severo, legislatore onnipotente. Tutte proiezioni umane forgiate dal pensare Dio come necessità o come caso. Come destino o incomprensibile gioco di un mondo senza ragione. Disse bene Jacques Monod [4] per la mia generazione quando nel 1969 intitolò il suo libretto Il caso e la necessità. Da biologo, da osservatore aveva posto il problema su cui si gioca davvero la nostra libertà e la nostra capacità d’amore. Paolo VI diceva che la presenza di atei, di non credenti, di quelli che negano Dio in modo militante, dovrebbe innanzitutto non scandalizzare. Non diventare dunque un obiettivo avversario ma dovrebbe interrogare noi cristiani. Dovrebbe spingerci a domandarci: ma quale immagini di Dio abbiamo costruito e trasmettiamo agli altri? Perché la maggior parte degli uomini che dicono di non credere in Dio, non negano Dio, negano il Dio che noi cristiani mostriamo loro, che noi raccontiamo loro. Noi pervertiamo il volto di Dio. Noi stessi siamo presi della paura di Dio e trasmettiamo questa paura agli altri. Faccio solo un piccolo esempio: basta che un cristiano dica, sentite affermazione comune e normale, nello spazio cristiano. Basta che un uomo dica che l’amore di Dio va meritato ed ecco l’immagine di Dio perversa, che non lascia nessuna speranza. Noi cristiani con molta umiltà, ma anche con fierezza dovremmo semplicemente ritornare ad ascoltare le scritture e al cuore il Vangelo che è Gesù Cristo, e Gesù Cristo che è il Vangelo. Il Vangelo, spero comprenderete questa mia affermazione. Testimonia che Gesù ha evangelizzato Dio. Non nel senso che Gesù è andato a predicare a Dio la buona novella. Ma nel senso che Gesù ha saputo rendere Dio evangelo, buon notizia. Perché sovente il Dio che è stato predicato anche delle pagine dell’Antico Testamento può essere recepito dagli uomini come cattiva notizia, non come fonte di speranza e di pienezza di vita. Il Prologo di Giovanni si conclude: Dio nessuno lo ha mai visto, nessuno, ma il figlio Gesù, Exeghésato, parola greca che indica [che Gesù] c’è ne ha fatto l’esegesi la narrazione il racconto autentico. Ecco allora che alla speranza cristiana risuona con quelle parole del grido Pasquale: Non abbiate paura. Non abbiate paura. Perché Gesù di Nazareth il Crocifisso è risorto. È questo l’esito di tutti i vangeli che ci vogliono raccontare Gesù […] e come la si può declinare ai non cristiani fino a intrigarli? Basta dir loro che quando noi cristiani diciamo Risurrezione, vogliamo soprattutto dire in termini non teologici ma umanissimi che ogni uomo può capire, che sia credente o no che l’amore vince la morte. Perché proprio la scrittura che ci annuncia un duello con la morte, che non è duello della vita contra la more; ma duello dell’amore vissuto, non un amore astratto, non una idea; ma un amore vissuto fatto carne e ossa in una persona che è degno di combattere contro la morte e di vincerla. La fede in Gesù uomo come noi ma figlio di Dio ci fa dunque credere e separare con la speranza della speranza. E se l’amore vissuto da Gesù che ha vinto la morte, allora comprendiamo perché al termine del Nuovo Testamento vi sia l’affermazione mai fatta prima in tutte le scritture, affermazione ultima e definitiva dopo la quale non c’è ne sarà un’altra, quando, nella Prima Lettera di Giovanni: Dio è amore. Non il destino ma la libertà. Non il caso ma l’amore possono illuminare la nostra vita darle senso facendo cessare ogni paura del fatto, della necessità, della morte. Paura che ci schiavizzano e ci alienano. Si tratta cogliere Gesù Cristo come l’uomo che ha narrato Dio e come il Dio che da senso alla nostra povera vita umana. Questa vita quotidiana che è un mestiere. Che facciamo tanta fatica a vivere tutti. Ma che se illuminata dalla speranza, la quale nasce sempre dallo sperare insieme, dalla solidarietà, dalla comunione. Può dare ai nostri giorni effettivamente un senso»[cf. video QUI[5].

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Dopo questa esposizione, vediamo cosa insegna la Chiesa attraverso il Catechismo:

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«In molte religioni Dio viene invocato come “Padre”. Spesso la divinità è considerata come “padre degli dèi e degli uomini”. Presso Israele, Dio è chiamato Padre in quanto Creatore del mondo [Dt 32,6; Ml 2,10]. Ancor più Dio è Padre in forza dell’Alleanza e del dono della Legge fatto a Israele, suo “figlio primogenito” [Es 4,22]. È anche chiamato Padre del re d’Israele [2Sam 7,14]. In modo particolarissimo Egli è “il Padre dei poveri”, dell’orfano, della vedova, che sono sotto la sua protezione amorosa [Sal 68,6]. Chiamando Dio con il nome di “Padre”, il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, [Is 66,13; 239; Sal 131,2] che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, [Sal 27,10] pur essendone l’origine e il modello: [Ef 3,14;  Is 49,15] nessuno è padre quanto Dio» [6].

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La figura di Dio-Padre è quindi ridotta nella narrazione di Enzo Bianchi a un prodotto della soggettività, ciò sia nella animalità, sia nella sfera delle paure sia come sovrastruttura storico-sociale. Per un altro verso la narrazione di Enzo Bianchi trasmette in forma chiara e inequivoca che solo nella narrazione di un altro uomo, chiamato questa volta Gesù, si svela il volto, il significato e la fonte di ciò che alla fine potrebbe essere invece definito il Dio “amore”. Discorso bello ma comunque non immune alla critica di una edulcorata forma di agnosticismo o di immanentismo storicista e ateo [7]. Queste enunciazioni risentono inoltre dell’eresia marcionita, ma nel senso più peggiorativo del termine, perché non solo il Bianchi distingue il Dio padre-padrone severo e punitore dell’Antico Testamento dal Dio buono essenza d’amore del Nuovo Testamento, perché contrariamente al vescovo eretico Marcione [Sinope 80 – Roma 160], nel bosiano l’amore e la bontà sono riferite non a Cristo Dio, in modo trascendentale o metafisico, ma solo a Gesù uomo. Pertanto, il Bianchi, accentua e amplia la stessa eresia di Marcione dimostrando con parole documentate, pubblicamente espresse e filmate, quanto il suo pensiero ereticale sia un autentico e pericoloso ammasso di vecchie eresie di ritorno, simili nella sostanza, ma molto peggiorate nella loro forma.

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Prosegue Enzo Bianchi …

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«Dio per avere qualcosa che non fosse divino si è ritirato per lasciare posto al mondo, il mondo nella sua profondità. Il mondo non è divino, il mondo è creatura, il mondo è alterità, il mondo è davvero un partner di fronte a Dio che può dire a Dio no, non è obbligato a dire si. Ecco la grandezza che ci vogliono dire questi racconti di Dio. Dio ha creato un mondo autonomo da Lui. Noi uomini possiamo dire a Dio “tu non ci hai creato, noi non crediamo in te”. Tu per noi sei niente. Noi ti neghiamo. E lui che ci ha creati non può far altro che accettare il nostro rifiuto dell’alterità questo è lo straordinario» [8].

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Enzo Bianchi, con queste affermazioni che definire confuse sarebbe solo eufemismo, confonde in modo pericoloso la libertà ed il libero arbitrio dell’uomo con l’indifferentismo di Dio, sostenendo di fatto le principali tesi degli esponenti della “teologia della morte di Dio”, nascoste però dietro le sue parole. Quasi come se Dio si fosse ritirato indifferente dinanzi al peccato originale, come se nel corso dell’esperienza vetero testamentaria non avesse più volte ristabilita la propria alleanza con il Popolo d’Israele. E dinanzi all’immagine di questo Dio indifferente che si ritira da un «mondo non divino», il Bianchi come intende leggere l’incarnazione del Verbo Divino che diviene l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo [cf. Gv 1, 29-36]? La verità, di fatto, è che Enzo Bianchi, adottando criteri puramente socio-politici post-illuministici, ci presenta la figura di una sorta di dio laico che pare uscito proprio dalla penna di Voltaire.

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UN SAGGIO DI CHI È L’ERETICO BIANCHI “BIBLISTA”, CHE OFFRENDO UNA LETTURA ATEO-MARXISTA-FREUDIANA AFFERMA: «NELLA BIBBIA NON C’È  NESSUN PECCATO ORIGINALE»

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Questo afferma Enzo Bianchi …

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«La Bibbia può interessare tutti. Perché vorrei quasi capovolgere quello che normalmente si pensa: tutti pensano che la Bibbia sia un libro su Dio. No. La Bibbia invece è un libro sull’uomo. ci dice ciò che Dio pensa dell’uomo. Non è tanto un libro su Dio, ma ci vuol dire la visione il pensiero di Dio sull’Uomo e quando uno fa il cammino di cercare Dio quaererae Deum in realtà cerca l’uomo questo deve essere detto con chiarezza perché e in questo senso che la Bibbia serve al credente come una via come un cammino da seguire […] il cammino è quello di una umanizzazione. C’è la sapienza all’interno della Bibbia, una sapienza distillata di mille anni. Pochi se ne rendono conto, ma la Bibbia, soprattutto per noi cristiani, è una biblioteca, perché contiene settantadue libri scritti sull’arco del tempo di mille anni almeno. se non mille cento. E comunque le vicende, i racconti che racconta, sono più di un millennio. È stata scritta in tre lingue: ebraico, aramaico greco. È stata scritta in una zona, in una regione che va da Babilonia, l’attuale Iraq, fino a Roma. Dunque è veramente un crocevia di esperienze di ricerche di genti e questo fa dire che la Bibbia contiene una sapienza umana, queste sono tutte le ragioni per cui vale la pena, secondo me, di leggerla, di scrutarla, di pensarla, di meditarla, perché ne va di mezzo la nostra qualità della vita e la nostra umanizzazione, soprattutto per noi in occidente» [cf. video QUI[9].

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Per lo schema di valutazione di Enzo Bianchi riguardo ciò che è vero e falso, buono e cattivo, giusto e non giusto, si impone la supremazia della cultura o della produzione scritta e parlata dell’uomo, quindi la Bibbia non possiede e non può possedere in sé nessun altro valore che quello della testimonianza di secoli e secoli di tradizioni liturgiche e morali di diverse civiltà vissute nel Medio Oriente. In queste parole del Bianchi risuona il divertente ma pericoloso giro di parole di una storiella della cultura yddish dell’Ottocento: «L’uomo ha creato Dio che ha creato l’uomo, affinché poi, entrambi, fossero felici». Espressione che richiama l’asserto di uno dei diversi autori molto citati dal Bianchi, il tedesco Ludwig Feuerbach, discepolo di Friedrich Hegel, il quale afferma: «non è Dio che ha creato l’uomo, ma l’uomo che ha creato Dio» [10]. In fondo, se ci pensiamo bene, la satanicità del Bianchi consiste proprio in questo: seminare dietro le parole apparentemente paludate e sempre di prassi intrise di amorosità, i pensieri più venefici di questi autori. E questi sono fatti, non sono processi alle intenzioni dell’eretico Enzo Bianchi.

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«La Bibbia contiene, come uno specchio in cui noi possiamo avere dei barlumi di verità ma la verità è oltre lo scritto, è oltre il testo non può mai essere ridotto ne ad una formula ne ad un concetto che per quanto dica la verità è un concetto culturale espresso in parole umane, espresso in linguaggio umano espresso in immagini umane. La verità trascende sempre questo»[cf. video QUI[11].

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… e prosegue:

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«Attenzione nella bibbia non c’è nessun peccato originale. Lo sapete, questo fa parte della teologia, nella Bibbia non c’è nessun peccato originale. Ci sono differenti peccati tra il capitolo terzo e il capitolo decimo. Diversi peccati. Che vogliono risposte a delle domande che gli uomini si facevano e che gli uomini si fanno. La prima domanda voi sapete che ci facciamo quando noi cominciamo ad avere una certa consapevolezza di stare al mondo la prima cosa che vediamo e che i nostri genitori litigano tra di loro, che il padre e la madre litigano tra loro. E cominciamo a capire che c’è un urto che c’è una difficoltà tra uomo e donna e ci chiediamo perché? […] e come è possibile che la vita di un fratello venga fuori attraverso dei dolori e delle urla così della madre? Perché il parto nel dolore? E poi il padre che va a lavorare torna stanco, qualunque lavoro stanca e perché il lavoro è cosi alienante degradante? Ecco erano le prime domande. E per rispondere a le prime domande si comincia a dire che, insomma, gli uomini quando hanno cercato di entrare in relazione con le cose han finito subito per fare delle scelte sbagliate. Tutto è un linguaggio mitico. Attenzione lo capite bene, siamo sui testi di quattro millenni fa forse con delle radice ancora più antiche certamente non c’erano le scienze storiche non c’era neanche le scienze umane tanto meno la possibilità di fare una lettura psicologica delle cose. Anche i greci più tardi non sapevano farla, il problema che ogni ragazzo ha con suo padre e sua madre non sapeva mica dirlo, come dirà Freud; ma anche Freud ha dovuto dire che il complesso di Edipo era ancora eventualmente un mito dei greci, un racconto con cui i greci dicevano quello che non erano capaci a dire a livello scientifico. E allora, vedete, noi abbiamo questo racconto Dio che da tutti gli alberi di questo luogo all’uomo, tutti, tutti da mangiare, pensate milioni di alberi, e gli dice però: guarda. uno no. Cioè pone un limite. Pensateci bene. È una cosa molto semplice: quello che vien chiamato peccato originale, non andate a cercare tante storie come quelli che non vogliono leggere nella sua verità, e che non lo leggono […]. Perché a te Adamo il limite che c’è  vi ci metto una donna. E per te donna il limite è che c’è vicino a te un uomo. E dal giorno che siete due il mondo non è più totalmente vostro. Se Adamo era solo, se la donna era sola tutto il mondo era suo […] Ma l’uomo dentro di sé nella sua ansia di vivere, sopravvivere ad ogni costo vuole tutto e subito. E allora sente questo limite di un albero su milioni come frustrazione e, mettendosi in rapporto semplicemente con il cibo; quel cibo, non andate a pensare che quella mela fosse chi sa cosa. Ci si son divertiti tutti a pensare cosa era quella mela … Semplicemente il rapporto con il cibo, c’è da mangiare, ma se c’è un altro, io non posso mangiar tutto. E invece ecco che a quel momento c’è il turbamento del rapporto tra l’uomo e la donna […] E hanno cominciato a litigare. E da quel momento ecco che poi, sotto forma di decreti di Dio, si dice che Dio ha detto alla donna: ecco tu cercherai di lottare contro tuo marito. ma tuo marito ti sottometterà. perché il risultato d’allora era il patriarcato. Se in quell’epoca ci fosse stato il matriarcato. si sarebbe detto ad Adamo: il tuo istinto è verso tua moglie. ma lei ti sottometterà. Sono i frutti del tempo questi qui, né più né meno. Poi si dice che Dio ha maledetto la terra con sudore […] insomma, tutto male, è la prima risposta. Altro problema al capitolo quattro: ma come è possibile che tra fratelli si arrivi al suicidio? Vedete, il primo rapporto che ognuno di noi ha con i genitore è il primo rapporto che scopriamo. Ma poi, man mano, scopriamo se abbiamo dei fratelli subito e vediamo che litighiamo con loro. Il problema di Abele e Caino. A un certo punto Caino uccide Abele. Si arriva a odiarci tra fratelli […] è chiaro che tutto questo vien letto anche a livello sociale: c’è un Caino che è agricoltore e un Abele ch’è pastore; con ogni probabilità siamo in un momento in cui la classe dei pastori è soppiantata dalla classe degli agricoltori. Voi sapete, poi, gli agricoltori saranno assolutamente soppiantati dagli operai e gli operai sono attualmente soppiantati da quanti sono nel terziario … la cosa continua. nessuna novità: le classi sono sempre l’una declassata dall’altra […]. Dopo di che viene narrato un tentativo anche nei confronti di Dio. Con linguaggio mitico strano si dice che i figli di Dio e i figli degli uomini si sono accoppiati, cioè un tentativo di mettere Dio in mano all’uomo. questi esseri divini, questi riti, con ogni probabilità sessuali, che avvivano nelle antichità, come voi sapete, a forme di prostituzione sacra che abbondava in tutto Medio Oriente e che erano ancora praticate a Roma; erano ancora praticate durante l’impero. Insomma, c’erano degli accoppiamenti all’interno del tempio tra uomini  e donne coi sacerdoti e si dicevano che erano accoppiamenti con Dio […]. Arriva il diluvio. cioè l’uomo ha prodotto il male ha prodotto una condizione mortifera. insomma si vuol dire. certo sotto categorie di un tempo di castigo divino. ma semplicemente che se l’uomo invoca la strada della morte la trova. Chi fabbrica la morte se la trova addosso non si vuol dire altro. Cercate di decodificare questo linguaggio antico un po’ neif un po’ ingenuo. ma che rispecchiava quello che avveniva esistenzialmente nelle famiglia […] E poi ecco a un certo punto quasi un nuovo inizio una nuova umanità. Con noi, dopo il diluvio. E da quel momento allora il dividersi di questa umanità in tante terre, un tentativo di questo umanità di ergersi contro il cielo a Babele, fare una torre che sia una sfida a Dio, darsi un nome, creare un potere totalitario. Una umanità, una sola nazione, un solo potere, un solo re, una sola capitale. Dio, certamente, dice il testo, disperde, perché Dio non vuole il totalitarismo, vuole la differenza. Anche questo mi permetto da dire è difficile capirlo perché noi, invece, soprattutto noi cattolici, abbiamo sempre pensato che quando tutto è uguale, tutto è molto meglio … èh no!  All’interno della Bibbia non c’è unità, se non attraverso la pluralità. L’unità, per essere buona, deve essere plurale, Dio vuole una umanità diversa, con lingue diverse, con culture diverse, con uomini diremmo, di etnie e di razze diverse. Questo è quel che vuol dire, non vuole il sogno totalitario di una unità uniforme perché questo impoverisce l’umanità. »[cf. video QUI[12].

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Proprio così: «Nella Bibbia non c’è nessun peccato originale». In pratica c’è solo un racconto, per così dire: mitico. Un racconto che narra come l’uomo, creato più perfetto degli angeli, si ribella a Dio, usando la propria libertà ed il proprio libero arbitrio, rompendo così l’intera armonia del creato e facendo entrare nel mondo il dolore e la morte. Però, si presti bene attenzione … «Nella Bibbia non c’è nessun peccato originale» (!?). Perché questo peccato originale prenderà vita non da quanto di chiaro narra il Libro della Genesi, ma nascerà, secondo l’eretico Enzo Bianchi, da pure categorie teologiche.

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Sorprende veramente che da quella platea di ascoltatori nessuno si sia levato in piedi per domandare: “E la teologia, da dove tira fuori il peccato originale, posto che «Nella Bibbia non c’è nessun peccato originale»?”. Che cosa fa, la teologia, se lo inventa, lo desume, oppure prende semplicemente atto di ciò che il Libro della Genesi veramente narra?

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E prosegue …

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«Diciamo che il canone del Nuovo testamento, sembra impossibile, ma non ha avuto un sinodo come il sinodo di Javne attorno al novanta fatto dai rabbini dopo la distruzione di Roma da parte dai Romani, i quali hanno fatto una lista. Noi, per dire il vero, per avere una vera lista dei libri del Nuovo Testamento a livello diciamo così magisteriale, dobbiamo addirittura arrivare al Concilio di Trento. Per noi cattolici,  in realtà, noi abbiamo a metà del secondo secolo il canone Muratori che è un documento trovato appunto dal Muratore il quale da una lista che è quella del Nuovo Testamento che noi possediamo, ma non è una lista con autorità, diciamo così, la tradizione l’ha accolta, ma anche con tempi diversi. L’apocalisse di Giovanni, nella Chiesa Cattolica, la grande chiesa di oriente si è dovuta attendere al quarto secolo prima che venisse letta nella liturgia e davvero ritenuta parte del Nuovo Testamento. Quindi c’è stata una certa oscillazione e proprio anche per questo, a un certo punto, la riforma fatta da Lutero non ha messo in discussione il canone, ma quasi è stata tentata di fare un canone nel canone tradizionale, ed è li che il Concilio di Trento ha risposto alla Riforma Protestante facendo la lista dei ventisette libri che noi abbiamo tutt’ora e che oggi tutte le Chiese accettano come Nuovo Testamento»[cf. video QUI[13].

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Benediciamo pertanto Lutero e quella che Enzo Bianchi — e non solo — non chiamano “eresia” e “scisma”, ma “Riforma”. Infatti, senza la grande riforma dell’altrettanto grande riformatore Lutero, la Chiesa Cattolica, che per secoli la Bibbia l’ha tenuta nascosta e che anzi ne ha persino proibita la lettura ai fedeli — come insegnano e affermano Bianchi e affini —, non avrebbe fatto neppure  «la lista dei ventisette libri che noi abbiamo tutt’ora e che oggi tutte le Chiese accettano come Nuovo Testamento». Perché tra l’altro, secondo il lessico del bosiano, anche l’ultima delle sètte eretiche nate negli Stati Uniti d’America sul finire dell’Ottocento dalla scissione della scissione della scissione dall’originario nucleo ereticale luterano, merita a pieno diritto il titolo di “Chiesa”. Oggi infatti, il termine “Chiesa”, non è più collegato alla teologia paolina [cf. Col 1, 12-20] né al giovanneo princìpio unitario [cf. Gv 17, 20-26], è solo è null’altro che un termine puramente tecnico per indicare vie diverse per sentire e per vivere lo stesso messaggio o testo. Da sempre infatti, la decostruzione della fede, parte dallo svuotamento delle parole dal loro vero significato filosofico, teologico ed ecclesiologico. E di questo, il Bianchi, è un diabolico maestro [si rimanda all’articolo di Ariel S. Levi di Gualdo: Babele e la neolingua, testo QUI; ed alla sua conferenza: Il problema del linguaggio dottrinale e la neolinga dei nuovi teologi, QUI].

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LA SOCIO-IDEA DI CRISTIANESIMO IN ENZO BIANCHI

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Nelle sue conferenze e scritti Enzo Bianchi — come “figlio del suo tempo”, ossia come anziano che ha vissuto la sua giovinezza tra le guerre e dopo di esse nella maturità — narra e rivela la malvagità alla quale arrivarono gli stessi uomini; frutto più di una memoria addolorata che urla senza mai stancarsi sulla domanda senza risposta di com’è possibile Dio, se esiste il male? [14].

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«Tutto cambia nel cristianesimo, voi capite che lì, davvero, noi apriamo qualcosa che non appartiene al mondo delle religioni. Io ho grande rispetto per le religioni, ma vi devo dire mi fanno  paura tutti quelli che temono le religioni, che temono la concorrenza del Libro. Sono persone che non hanno fede, se avessero un po’ di fede, non si può temer la concorrenza tra l’unica fede che ci parla dell’uomo e tutte le altre, che se va bene ci parla di un dio trascendente che sta nei cieli e che dobbiamo far degli sforzi per renderlo buona notizia. Non è possibile, non è possibile. Se uno ha fede e c’è l’ha, la fede cristiana, Gesù Cristo è exeghésato, come dico sempre io che amo. È Lui che ci ha narrato Dio, Quel che possiamo sapere di Dio lo sappiamo solo attraverso il Gesù Cristo e ciò che Gesù Cristo non ha vissuto come uomo di Dio noi non lo sappiamo, e se qualcuno dice qualcosa che Gesù non ha detto e non ha fatto, io non son tenuto assolutamente a credere. Questo è il cristianesimo, altrimenti noi siamo in questo mare delle religioni in cui la religione prevale sulla fede» [cf. video QUI[15].

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Per Enzo Bianchi il messaggio del cristianesimo deve perdere la sua forma di tragedia con la sempiterna presenza dominatrice e negativa di qualcosa o qualcuno che era nominato con i concetti o di  dio o di Padre; per trasformarsi in una commedia romantica, o più sinceramente in un monologo che potrebbe recitare anche lo stesso Narciso innamorato di se stesso …

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DIXIT BIANCHI: IL CRISTIANESIMO «NON È UN MONOTEISMO IN PROFONDITÀ, È L’ESPERIENZA DI GESÙ CRISTO CHE HA NARRATO DIO»

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Afferma Enzo Bianchi …

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«La mia convinzione è che un vero cristiano deve parlare meno, molto meno di Dio, è capire che questa parola di Dio è una parola terribilmente ambigua. Nel primo e nel secondo secolo dopo Cristo, quando il cristianesimo si dilatava e non era ancora cristianità, quelli che non erano ancora i Padri della Chiesa ma erano quelli che cercavano di far capire il cristianesimo al mondo pagano greco romano; dicevano e avevano il coraggio di dire queste parole. Attenzione, sono dei Padri, sono Sant’Ippolito per intenderci, i quali dicevano: Dio è una parola ambigua, oppure Dio è una parola che è vuota perché ognuno in Dio fa una proiezione di quello che lui desidera, di quello che lui vuole. Ecco, voi pensate come nel cristianesimo invece, per secoli, con la cristianità il primo posto era dovuto a Dio e anche l’insegnamento la trasmissione della fede era su Dio. Ho il coraggio di dire che ancora io da piccolo ho ricevuto come eredità una fede in Dio assolutamente, non in Gesù Cristo. Il Vangelo non era assolutamente insegnano a qualcuno: gli si permetteva forse di leggere il vangelo? […] Ora, il cristianesimo si è costruito fino a diventare deismo e Pascal … voi lo sapete, ma Pascal non ha mai goduto di buona fama nel cattolicesimo. E Pascal diceva con maggiore probabilità migliori gli atei che non i teisti, cioè quelli che parlano sempre di Dio e pregano in Dio. Ecco, io son convinto che la parola Dio è una parola ambigua, una parola vuota, una parola oggi usata per significare la concorrenza tra i tre monoteismi. Mentre invece il cristianesimo non è un monoteismo, alla fin fine in profondità. E non ha bisogno di nessuna concorrenza, né con l’Ebraismo né con l’Islam. Perché il cristianesimo è nient’altro che Gesù Cristo che ha narrato Dio. Basta exegézaton Giovanni 1, 18. Dio resta come lo abbiamo mai visto. Cristo. Nessuno meglio del Torah. E ognuno di noi, quando pensa a Dio, pensateci bene: fa delle proiezione. Per cui ogni tanto sentiamo dire ma il Dio dell’Islam è mica il Dio Cristiano. Si, nominalmente dice si; perché Maometto si riferiva al Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe. Al Dio di Gesù Cristo. Ma la parola è talmente vuota. Per cui in Dio si può mettere qualunque contenuto e io credo che anche la grande attenzione, la grande battaglia all’ateismo è stata molto sbagliata. I primi cristiani avevano il coraggio, voi lo sapete, di non temere, di non vergognarsi se venivano chiamati atei. I pagani i chiamavano atei. Abbiamo tutta la testimonianza dei padri apologetici e dicevano si. Perché noi siamo senza Dio, siamo senza Ara, l’altare non c’è l’abbiamo e senza tempio. Questo ha una sua verità. Dio è una parola ambigua meno ne parliamo meglio è. E per noi cristiani, credo a livello di fede profonda, dovrebbe valere di più la parola di Gesù: nessuno può andare a Dio se non attraverso di me. Che non è la pretesa folle di un uomo ma è dire: io con la mia umanità, la mia umanità niente altro che la mia umanità. Vi ho dato delle tracce per muovervi sulle tracce di Dio. Non chiedetevi tanto l’identità di Dio non chiedetevi tanto il volto di Dio guardate come ho vissuto. Nel mio vivere che è amore; infatti perché si è arrivato a dire che Dio è agape e lo si è detto solo dopo Gesù Cristo ha avuto il coraggio di dirlo quell’apostolo che non sappiamo se è Giovanni, ma poco importa; ma che è arrivato a questa espressione Dio è agape, ciò che mai nella Bibbia lo trovate prima, ma perché Gesù ha raccontato l’amore fino alla fine, niente altro quello, e ha detto quella è la faccia del divino. Per cui, nel commentare queste quattro parabole effettivamente è un raccontare l’amore di uomini e di donne, è raccontare l’amore di un uomo, Gesù di Nazareth, però per me sono le uniche tracce per andare a Dio. A tal punto che io dico: dopo il comandamento di Gesù che lui ha chiamato nuovo, ma vuoi sapete tutti che in greco nuovo significa ultimo e definito, non significa nuovo rispetto a qualcosa che c’era prima. Il comandamento che riassume tutto è amatevi tra di voi gli uni agli altri […] Gesù invece dice: come io ho amato voi, non dice voi amate. Questo lo fa dire ai suoi ministri. Ma come io ho amato voi, voi amatevi gli uni gli altri. Il comandamento risulta davvero rivolto non all’amante che deve essere riamato, ma tutti ben amati dagli altri. Questo secondo me è davvero una rivoluzione […] tutto questo nasce sì dall’ascolto del Vangelo ma da tutto quello che io ho ascoltato da uomini e donne che mi han detto soltanto quanto è duro il mestiere di vivere, niente altro […] Questa è l’eclissi di Dio che io opero ma non per negarlo, non per dire che è morto, ma per dire che c’è un’altra strada per andare a lui che è la nostra umanità piena, concreta. I nostri sensi, perché tutto quello che viviamo spiritualmente deve passare attraverso i nostri sensi. Toccare, vedere, sentire, gustare, odorare. Se non passano attraverso questi sensi non c’è nessuna spiritualità, non c’è nessuna ricerca di Dio c’è un immaginario fantasioso e alienante» [cf. video QUI[16].

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Enzo Bianchi, appoggiandosi in una lettura contorta dei testi dei Padri della Chiesa, incapace di accettare tutto quello che sia relazionato direttamente o indirettamente con Dio, confondendo la critica del pensatore Blaise Pascal verso la razionalizzazione fatta a Dio dal  teismo e della religione naturale sviluppata nell’Europa post-rinascimentale, vuol trasmettere — e forse far divenire — chi lo legge e lo ascolta, un seguace rivoluzionario di un movimento nato sulla testimonianza di Gesù, un semplice uomo che trascorse la sua vita facendo del bene per gli altri.  Quindi, il cristiano, deve smettere di depositare la sua fiducia ed il suo credere in concetti “vuoti” o non tangibilmente dimostrabili come lo sono Dio, religione, dogmi … per configurare la sua fiducia, il proprio credere, il proprio senso morale e la sua spiritualità, nella narrazione dell’amore fraterno, che è il vero senso della vita, morte e testimonianza lasciata da Gesù.

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L’amore e l’uomo diventano quindi gli elementi fondanti del racconto di Enzo Bianchi. Due concetti che hanno svelato e rivelato la vera essenza dell’enigma che veniva pronunciato e descritto nella figura eminente di Dio. Adesso, nel nostro tempo presente, questa narrazione si fa, si crea e si vive, ed è una “via” — come piace dire a Enzo Bianchi — nella ricerca e nel vissuto della comprensione dell’uomo con se stesso in quella che sarà l’umanizzazione …

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… per alleggerire quindi la tragica e grave pesantezza di questi testi, potremmo citare il film Amici Miei, ormai inserito nella storia del cinema italiano, quando il Conte Mascetti parla della «supercazzola prematurata con scappellamento a destra» [cf. QUI].

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DIALOGARE SULLO SPIRITO SANTO CHE ANZITUTTO NON PROCEDE DAL PADRE E DAL FIGLIO, COME RECITA L’ARTICOLO DI FEDE

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Da un evento passato, tal è stata la vita di uno uomo singolo, esiste un altro evento determinante per comprendere la narrazione fatta da Enzo Bianchi: il Concilio Vaticano II. Il primo evento fu da un uomo solo, Gesù Cristo, questo secondo evento è dell’uomo in comune. In questo evento comunitario sono rinnovati e ripresi concetti e aspetti che prima erano stati dimenticati, come nel caso dello Spirito Santo, sul quale il Bianchi ci dona queste autentiche perle, che necessitano però di una doverosa premessa. Prima di dare voce alla pneumatologia del bosiano, vediamo cosa insegna la Chiesa sullo Spirito Santo:

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«La fede apostolica riguardante lo Spirito è stata confessata dal secondo Concilio Ecumenico nel 381 a Costantinopoli: “Crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita; che procede dal Padre” [Denz.-Schönm., 150]. Così la Chiesa riconosce il Padre come “la fonte e l’origine di tutta la divinità” [Concilio di Toledo VI (638): Denz.-Schönm., 490]. L’origine eterna dello Spirito Santo non è tuttavia senza legame con quella del Figlio: “Lo Spirito Santo, che è la Terza Persona della Trinità, è Dio, uno e uguale al Padre e al Figlio, della stessa sostanza e anche della stessa natura… Tuttavia, non si dice che Egli è soltanto lo Spirito del Padre, ma che è, ad un tempo, lo Spirito del Padre e del Figlio” [Concilio di Toledo XI (675): Denz. -Schönm., 527]. Il Credo del Concilio di Costantinopoli della Chiesa confessa: “Con il Padre e con il Figlio è adorato e glorificato” [Denz.-Schönm., 150] La tradizione latina del Credo confessa che lo Spirito “procede dal Padre e dal Figlio [Filioque] ”. Il Concilio di Firenze, nel 1439, esplicita: “Lo Spirito Santo ha la sua essenza e il suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio e procede eternamente dall’Uno e dall’Altro come da un solo Principio e per una sola spirazione. E poiché tutto quello che è del Padre, lo stesso Padre lo ha donato al suo unico Figlio generandolo, ad eccezione del suo essere Padre, anche questo procedere dello Spirito Santo a partire dal Figlio lo riceve dall’eternità dal suo Padre che ha generato il Figlio stesso” [Concilio di Firenze: Denz.-Schönm., 1300-1301]» [17].

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Ciò premesso vediamo adesso come Enzo Bianchi, al di là e al di sopra del Catechismo della Chiesa Cattolica, parla della pneumatologia:

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video integrale, per aprirlo cliccare sopra l’immagine

« … ma dopo il Concilio [Vaticano II] non si può dire che lo Spirito Santo è l’assente o lo sconosciuto nella Chiesa Cattolica. Perché in realtà, credo che la nostra fede abbia preso un’apertura a questo tema grande, che certamente non ha conosciuto nel passato. A livello oserei dire di predicazione di catechesi ormai lo Spirito Santo è una presenza. Nella vita spirituale cristiana, ho l’impressione invece che non ci sia sufficientemente una attenzione a questa operazione che avviene in noi e che è l’essenziale sia nel nostro sforzo di conformità a Cristo, sia nello nostro sforzo di andata verso Dio Padre. È lo Spirito Santo il grande protagonista di tutto questo. E noi non ne siamo sovente molto cosciente. Certamente è per me una grazia non è una critica, il cristianesimo occidentale pone al centro Cristo, con una centralità che per me è davvero straordinaria e vi dico subito perché: perché nella misura in cui pone al centro Cristo, questo Cristo significa il Vangelo. E con una formula che dico e ridico ossessivamente ultimamente. Per me Gesù Cristo è il Vangelo e il Vangelo è Gesù Cristo. Non c’è un altro Cristo […] noi dobbiamo mai disgiungere lo Spirito della Parola. Guardate tutte le patologie della storia della Chiesa, sono avvenute a chi ha separato o ha tolto questo equilibrio di Spirito e la Parola. Che soprattutto l’oriente ha conservato […] Sono una realtà inseparabile. Se voi disgiungete Cristo e lo Spirito voi avete due risultati: solo Cristo è l’integralismo, è veramente a un certo punto il prevalere alla fin fine delle istituzioni, di nient’altro. Se voi mettete l’accento solo sullo Spirito avete la deriva illuminata. Attenzione, non c’entra nulla con l’illuminismo. Sto pensando a tutta la deriva nell’ambito protestante degli illuminati [Ndr. sono citati due nomi incomprensibili nella registrazione video] … e gli altri. Se volete una deriva già accennata in occidente ohimè con Gioacchino da Fiore. Se si finisce per dire ad esempio che lo Spirito è quello che ormai prevale e che questa è l’ora dello Spirito togliendo che l’ora dello Spirito è dello Spirito di Cristo. Non un altro Spirito […] Lo Spirito è lo Spirito di Cristo e in questo senso la Chiesa Cattolica secondo me, ha delle ragioni quando parla che lo Spirito il quale procede dal Padre e dal Figlio. Attenzione quando la Chiesa fece questo nel mille, lo fece senza un concilio. Lo fece sotto pressione degli imperatori tedeschi. E fu una sciagura. Perché non si può cambiare il Credo senza un concilio con la Chiesa di Oriente. E la Chiesa di Oriente anche per questo si distaccò. Certo le ragioni sono sempre politiche, storiche, culturali. Si è separata da noi. Però al di là della processione che poi oggi è distinta, tra quella che è la processione ontologica dalla processione invece economica nella storia. La Chiesa Cattolica comunque aveva una preoccupazione: dicendo che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio. Che era quella da dire: è comunque anche del Figlio. Non è autonoma dal Figlio. È lo Spirito di Cristo. Anche se indubbiamente dobbiamo dire: procede dal Padre. E non è vero che procede dal Figlio. Il Figlio per inviarlo nella storia lo ha chiesto al Padre: Io chiederò al Padre il consolatore il quale verrà. Il Cristo ha fatto epiclesi. Ma era il suo Spirito che dava alla Chiesa. Non uno Spirito autonomo da lui […] lo Spirito Santo ci dice il non rappresentabile di Dio. Noi possiamo immaginarci una figura del Padre e del Figlio come è avvenuto. Dello Spirito Santo, no. Perché lo Spirito Santo non lo si può né trattenere, né afferrare. Non ce l’ha una icona definita»[cf. video QUI] [18].

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In questo sproloquio torrenziale, Enzo Bianchi dimostra di essere, oltre a un non-biblista e a un non-teologo, un soggetto intriso di crassa ignoranza nella storia della Chiesa e della ecclesiologia. Ma soprattutto, ancora una volta, fornisce delle spiegazioni socio-politiche che non sono semplicemente opinabili, ma del tutto false e falsanti.

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Capiamo l’amicizia del Bianchi con alcune Chiese autocefale ortodosse, ma soprattutto capiamo che con tutto lo spirito mistificatore che è suo proprio — come lo è di Andrea Riccardi fondatore della Comunità di Sant’Egidio —, costoro incontrano periodicamente vescovi di Chiese autocefale ortodosse, dopodiché annunciano, o per meglio dire millantano in tutta la Orbe Catholica di portare avanti un proficuo dialogo con gli ortodossi. E da quando, gli ortodossi sono un fenomeno unitario che risponde ad una comune autorità e ad una struttura centrale, posto che sono mille anni che i vescovi ortodossi sono impegnati nell’antico sport di scomunicarsi in continuazione gli uni con gli altri?  [cf. QUI] Dunque, con quali gli dialogano questi mistificatori e millantatori, considerando che i Vescovi della Chiesa Ortodossa sono la quintessenza della litigiosità, a tal punto che in mille anni non sono riusciti a celebrare un concilio pan ortodosso? Infatti, non avendo gli ortodossi una autorità centrale dotata delle prerogative del Romano Pontefice, nulla può deliberare un sacro concilio che sia vincolante in materia di dottrina e di morale per tutta l’ortodossia se manca la totale unanimità [cronaca, QUI].

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Sorvoliamo quindi sul fatto, ovvio e penoso, dei Bianchi e dei Riccardi che alla resa dei conti finiscono per dialogare solo con se stessi facendo poi credere di dialogare con gli ortodossi. Non possiamo invece sorvolare sul fatto che Bianchi nega implicitamente e apertamente che, mentre Roma voleva a tutti i costi l’unità, la Chiesa d’Oriente cercava ogni pretesto di divisione. La storia, al contrario, dimostra che mentre la Chiesa di Roma cercava in ogni modo di non essere assoggettata agli umori e soprattutto alle prepotenti ingerenze dei poteri politici, la Chiesa d’Oriente, presentata in varie forme dal Bianchi come casta vergine illibata, dal potere politico, ed anche dai peggiori poteri politici, voleva invece essere totalmente dipendente. O forse dimentica, il Bianchi, che tutti i primi grandi concili della Chiesa, seppure solo formalmente, furono convocati e presieduti dagli Imperatori d’Oriente, l’ultimo in ordine di tempo dalla imperatrice Irene? O per caso, per il suo monacale amor d’ortodossia e del suo tanto decantato «ritorno alle origini», il Bianchi sarebbe capace ad invocare un nuovo concilio ecumenico convocato, seppur solo formalmente, poi presieduto, seppur solo formalmente, dal Presidente dell’Unione Europea? Perché il «ritorno alle vere origini» ha dei prezzi da pagare, seppure Bianchi, ignorante in storia della Chiesa a livelli di vero e proprio imbarazzo, preferisca ignorarlo e crearsi al passato le fantasiose origini che più lo aggradano, ma che non sono però mai esistite. Perché non tutto ciò che era alle antiche origini era di necessità buono, altrimenti la Chiesa oggi sarebbe solo uno stagno raffermo, non sarebbe certo pellegrina sulla terra.

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Questo discorso che in sé e di per sé sarebbe molto complesso, potrebbe essere chiuso con l’affermazione di negazione fatta pubblicamente dal Bianchi il quale appunto nega il cosiddetto Filioque inserito nella versione latina del simbolo di fede Niceno-Costantinopolitano laddove recita: «Καὶ εἰς τὸ Πνεῦμα τὸ Ἅγιον, τὸ κύριον καὶ τὸ ζῳοποιόν, τὸ ἐκ τοῦ Πατρὸς ἐκπορευόμενον» [Et in Spíritum Sanctum, Dominum et vivificantem:qui ex Patre Filioque procedit].

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Il Bianchi afferma in modo ereticale: «E non è vero che procede dal Figlio. Il Figlio per inviarlo nella storia lo ha chiesto al Padre: ”Io chiederò al Padre il consolatore il quale verrà”». Quindi cita a conferma del proprio sproloquio ereticale la frase di Cristo Signore tratta dal Vangelo di Giovanni [cf. 13, 16]. E qui, Bianchi, non si pone una domanda fondamentale: chi sta parlando, a chi e dove? Ebbene, a parlare è il Divino Maestro che si rivolge ai propri discepoli, mentre si trova con loro su questa terra. E con ciò è dimostrato che Bianchi ha serie difficoltà a distinguere, ovviamente nella stessa persona ipostatica, il Gesù pre-pasquale ed il Cristo post-pasquale risorto e asceso al cielo; a meno che per lui, risurrezione e ascensione, non siano solo due splendide metafore da interpretare con le categorie della teologia.

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Quindi non solo Bianchi è un eretico pericoloso, ma anche un eretico molto ignorante, perché la dottrina che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio non è affatto un colpo di mano politico, come lui afferma, giocato da forze secolari per il gusto di dividere la Chiesa di Occidente da quella di Oriente, fa parte della tradizione latina dagli inizi del III secolo. A tal proposito basterebbe che l’ignorantissimo bosiano leggesse i commenti di Tertulliano [Cartagine 160 – Cartagine 220], Novaziano [Frigia 200 – Roma 258] Ilario di Poitiers [Poitiers 315 – Poitiers 465], Sant’Ambrogio [Treviri 338 – Mediolanum 397], San Girolamo [Stridom 347 – Betlemme 420], Sant’Agostino [Tagaste 354 – Ippona 430]. Perché tutti costoro, ben prima dell’anno 1054, sostengono la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Per tutti loro, che sono autori di varie opere o interventi sul mistero trinitario e sulla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, usiamo l’esauriente commento di Sant’Agostino:

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«colui che può comprendere la generazione intemporale del Figlio dal Padre, intenda la processione intemporale dello Spirito Santo da ambedue. E chi può comprendere da queste parole del Figlio: Come il Padre ha in sé la vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé che il Padre ha dato la vita al Figlio non come a un essere che esistesse già senza avere la vita, ma che lo ha generato al di fuori del tempo in modo che la vita che il Padre ha dato al Figlio generandolo sia coeterna alla vita del Padre che gliel’ha data; questi comprenda, dico, che come il Padre ha in se stesso anche la proprietà di essere principio della processione dello Spirito Santo, ha dato ugualmente al Figlio di essere principio della processione del medesimo Spirito Santo, processione fuori del tempo nell’uno e nell’altro caso, e comprenda che è stato detto che lo Spirito Santo procede dal Padre perché si intenda che l’essere anche il Figlio principio della processione dello Spirito Santo, proviene al Figlio dal Padre. Se infatti tutto ciò che il Figlio ha, lo riceve dal Padre, riceve anche dal Padre di essere  anch’egli principio da cui procede lo Spirito Santo» [cf. De Trinitate, XV, 26,47].

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Per inciso: il Filioque fu inserito a “macchia di leopardo” ben prima dell’anno 1054, per l’esattezza quasi cinquecento anni prima, dal Concilio di Toledo del 587. Ribadiamo quindi che Bianchi è un pericoloso venditore di fumo e di consequenziali pensieri fumosi, una persona che gioca con le parole, celando dietro di esse la sua profonda e crassa ignoranza sulla patrologia, la storia della Chiesa e la dogmatica trinitaria. E pur malgrado, questo crasso ignorante, ha fatto il giro di molte chiese cattedrali d’Italia, dove invitato da numerosi membri della Conferenza Episcopale Italiana ha offerto queste perle di saggezza ai Christi fideles. E dinanzi a tutto questo, viene da domandarsi se siano più dannosi per il Popolo di Dio certi vescovi contemporanei, oppure gli antichi vescovi che seguivano l’eresia di Ario.

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ENZO BIANCHI: LA MADONNA È VERGINE, SI, MA PERÒ …

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Ipazia gatta romana, particolarmente devota alla Beata Vergine Maria Gattara (anche detta Madonna dei Gatti), ha suggerito di riflettere seriamente se praticare l’esorcismo maggiore a Enzo Bianchi

Concludiamo questo estratto di perle, che come abbiamo spiegato costituisce un materiale di conferenze filmate e trascritte in oltre trecento pagine, per vedere non tanto, cosa Enzo Bianchi pensa della Immacolata Concezione, ma il modo subdolo nel quale sul giornale della sinistra radical chic egli presenta la Beata Vergine Maria:

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«[…] il tema della «Madre Vergine» non è presente solo in ambito cristiano: ha echeggiato in tutto il Mediterraneo a tal punto che molti si sono chiesti se la venerazione di Maria, Madre e Vergine, non abbia assorbito il culto di dee pagane madri e vergini. Si pensi ad Astarte, dea assiro-babilonese venerata a Canaan, dea dell’amore e della fecondità che conobbe l’ostilità dei profeti biblici; ad Artemide, la dea eternamente vergine che a Efeso aveva il suo grande santuario, stigmatizzato da Paolo; a Cibele-Rea, Magna Mater, venerata in Frigia e in Grecia; ancora alla fine del IV secolo Agostino testimonia di un culto in onore della Vergine celeste e Madre degli dèi a Cartagine. E vero che l’archetipo del femminile ha nutrito il mondo simbolico delle religioni pagane così come del cristianesimo; si può però affermare con Philippe Borgeaud che, al di là delle analogie e delle reciproche influenze, le figure delle dee vergini e madri e quella della Vergine Maria «restano assolutamente distinte». Nello stesso tempo, non va dimenticato che gli apologisti cristiani del II secolo ebbero la tendenza ad assumere senza complessi l’eco di concezioni mitologiche […]» [testo integrale QUI].

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In che cosa consiste, l’elemento luciferino del bosiano? Attenzione: egli, dissertando dottamente, non mette in dubbio il dogma della Immacolata Concezione. Bisogna infatti capire che in quel caso si andrebbe a toccare, non tanto la teologia dogmatica, faccenda che alla resa dei conti riguarda dei gruppi molto ristretti di teologi; in questo caso si andrebbe a toccare le corde più suscettibili della devozione e della fede popolare. E Bianchi, che il Popolo Cristiano lo deve conquistare al fine di poterlo traviare, non è uno sprovveduto, perché proprio del plauso del popolo, egli ha bisogno. Ecco allora che il Bianchi, senza discutere sul dogma della Immacolata Concezione, offre in ordine storico, cronologico e metaforico, tutte le credenze pre-cristiane legate alle figure delle varie dee vergini o delle varie vergini madri.

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Enzo Bianchi non dice che i bambini devono sparare con le armi da fuoco, si limita solo a spiegargli, a livello puramente tecnico, come funzionano e come si usano le armi da fuoco. E così, quando i bambini si metteranno poi a sparare, Enzo Bianchi ne uscirà fuori, per così dire, del tutto pulito.

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Domani Enzo Bianchi predicherà ad Ars, sulla tomba dell’universale patrono dei sacerdoti, San Giovanni Maria Vianney, venerato come il Santo Curato d’Ars, gli esercizi spirituali mondiali al clero. Ribadiamo che questo eretico in cattedra non ce l’ha messo il Sommo Pontefice Francesco I, ce l’hanno messo e poi mantenuto il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Cardinale Joseph Ratzinger e il Sommo Pontefice Benedetto XVI. E tra tutti costoro, il Sommo Pontefice Francesco I, è stato in verità il più onesto di tutti, perché si è sempre manifestato per ciò che egli è realmente. Infatti, alla provata prova dei fatti, non risulta che mai, il Sommo Pontefice Francesco I, da una parte abbia combattuta le Teologia della Liberazione ed i preservativi, dall’altra abbia permesso a soggetti come Enzo Bianchi di giungere sino a salire in cattedra dinanzi ai sacerdoti presso il santuario nel quale sono conservate le spoglie del Santo Patrono dei Sacerdoti della Orbe Catholica; questo lo hanno permesso i suoi Sommi Predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

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Per quanto superfluo, ricordiamo comunque che gli errori, talvolta anche grossolani, non pregiudicano la eroicità delle virtù, come nel caso del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, né possono portare a un giudizio negativo sulla splendida teologia e sul prezioso pontificato del Venerabile Pontefice Benedetto XVI. Chi poi volesse a tal proposito saperne di più, basta che legga l’ultimo articolo dedicato alla santità da Ariel S. Levi di Gualdo: Dal Bello al Moro: la santità non è il decaduto Premio Nobel, le canonizzazioni sono atti del magistero infallibile dalle quali poi, indietro, non si torna [cf. QUI].

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L’apologia delle eresie di Enzo Bianchi, sarà pubblicata quanto prima in un libro ricco di documentazioni. Questo articolo vuole essere solo una piccola anticipazione fatta in occasione della sua predicazione degli esercizi spirituali mondiali al clero tenuta ad Ars, che suonano appunto, come dicevamo all’inizio, come l’invito di una porno star presso l’assemblea delle superiore delle Monache Clarisse desiderose di sapere con quale miglior linguaggio proporre la virtù della castità alle giovani aspiranti monache del Terzo Millennio.

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dall’Isola di Patmos, 22 settembre 2018

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NOTE

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 36.

[2] Paul Ricœu Filosofo francese (Valence 1913 – Châtenay-Malabry 2005). Tra i maggiori testimoni e protagonisti della coscienza filosofica del Novecento. L’alto valore della sua opera originale e multiforme, frutto di un percorso filosofico che dalla fenomenologia e l’esistenzialismo, si volse verso l’ermeneutica e la psicanalisi è testimoniato dai numerosi premi e riconoscimenti internazionali conferitigli nel corso della sua carriera […] Dall’originario interesse per la fenomenologia e l’esistenzialismo, a cui dedicò i primi studi, i suoi interessi si orientarono poi verso una prospettiva ermeneutica connessa alla riflessione sul concetto di simbolo, impegnandosi in indagini sul linguaggio del mito, della religione e della poesia, in cui ritiene si rivelino le categorie (il sacro, la colpa, la fallibilità) che definiscono la situazione dell’uomo nel mondo e il suo modo di comprendersi ed essere. In questa prospettiva ermeneutica si colloca anche l’interesse di R. per la psicanalisi, che egli vede come uno dei maggiori tentativi di problematizzare la nozione cartesiana di soggetto a favore di un’immagine dell’uomo che si rivela e si comprende soltanto attraverso i simboli. Da ricordare inoltre le sue riflessioni sulla metafora e sulla narrazione, che, pur nella loro dimensione intrinsecamente creativa, rappresentano per R. autentiche forme di comprensione e conoscenza [cf. QUI].

[3] “Enzo Bianchi – Quanto ci manca un padre,” YouTube video 58:30, posted by Alzo gli Occhi 2 maggio 2015. Web, 3 Settembre 2018, [03:24 – 06:25; 22:06 – 25:29; 43:08 – 43:56; 56:38 –  57:10].  Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=Y983sxcSQ2Q 

[4] Jacques Monod:  Biologo francese (Parigi 1910 – Cannes 1976). Assistente nel laboratorio di zoologia della Sorbona, Si recò nel 1936 con B. Ephrussi al California Institute of Technology, ove entrò in contatto con il gruppo del genetista T. H. Morgan. Nel 1941 ricevette il dottorato in scienze alla Sorbona con una tesi sulla crescita delle colture batteriche in cui mostrava che la crescita batterica obbediva a semplici leggi quantitative. Dopo la guerra, durante la quale aveva svolto un’importante funzione nella Resistenza, entrò all’Institut Pasteur (1945), in qualità di capo laboratorio nel servizio diretto da A. Lwoff e nel 1953 fu nominato direttore del nuovo servizio di biochimica cellulare. Pur continuando a svolgere le sue ricerche all’Institut Pasteur, tenne la cattedra di biochimica nella facoltà di scienze (dal 1957) per passare, nel 1967, alla cattedra di biologia molecolare al Collège de France. La lezione inaugurale al Collège fu l’occasione per presentare la sua concezione della scienza e della vita, sviluppata poi nel libro Le hasard et la nécessité: essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne (1970; trad. it. 1970), che ebbe notevole eco suscitando vivaci polemiche e discussioni. Nel 1965, intanto, gli era stato attribuito, insieme a F. Jacob e A. Lwoff, il premio Nobel per la medicina o la fisiologia. Il problema scientifico che interessava M. era la sintesi di enzimi, controllata da geni e indotta da un substrato, come sistema modello per lo studio della sintesi delle proteine e delle relazioni fra genetica e fisiologia cellulare. Nel 1957 M. iniziò la collaborazione con F. Jacob che lavorava sul fenomeno della lisogenia/lisogenia, cioè l’induzione di un virus batterico. La messa in comune dei risultati e delle tecniche di questi due settori di ricerca portò sia alla chiarificazione dei meccanismi riguardanti la regolazione genetica della sintesi proteica, sia alla definizione (1961) del concetto di RNA messaggero e delle nozioni di operone (come unità di espressione coordinata di più geni) e di interazione tra siti distinti di una macromolecola (allosteria). Nel 1971 M. divenne direttore generale dell’Institut Pasteur, carica che tenne sino alla morte.

Cf. http://www.treccani.it/enciclopedia/jacques-monod/.

[5] “120524 Serata inaugurale – La speranza nelle Scritture,” YouTube video 02:01:19, posted by “Telechiara Produzioni” 29 maggio 2012. Web, 3 Settembre 2018, [51:38 – 01:00:45]. Tratto da

https://www.youtube.com/watch?v=12Fv15Lysmg.

[6] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 238-239.

[7] «Non sono l’etica che scuote il mondo di oggi. Non è una dottrina. È qualcosa di esistenziale che deve avvenire nella carne […] nel corpo umano, nella mano. Occhio contro occhio. Volto contro volto. Non nell’astrattismo delle idee. Non solo sono finite le ideologie, è finite ogni architettura che non si verifica nello spessore della vita umana del nostro corpo e della nostra carne». Cf. “PADRE ENZO BIANCHI A NAPOLI,” YouTube video 01:26:42, posted by “AlzogliOcchi” 11 maggio 2013. Web, 3 Settembre 2018, [28:10 – 30:04]. Tratto da:

[8] “Enzo Bianchi ˝La creazione e le origini del mondo˝” YouTube video 01:18: 54, posted by “AlzogliOcchi” 5 giugno 2013. Web, 3 Settembre 2018, [55:00 – 59:25]. Tratto da:

 https://www.youtube.com/watch?v=EBBZynXukfk.

[9]  “Enzo Bianchi – Leggere la Bibbia ˝Introduzione˝,” YouTube video 01:14:40, posted by “AlzogliOcchi” 5 giugno 2014. Web, 3 Settembre 2018, [16:10 – 18:30]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=pDcZCRk1vc0.

[10] In L’essenza del Cristianesimo, 1841.

[11] “Enzo Leggere la Bibbia ˝il conflitto delle interpretazioni˝,” YouTube video 44:00, posted by “AlzogliOcchi” 5 giugno 2014. Web, 3 Settembre 2018, [22:50 – 24:50]. Tratto da:

 https://www.youtube.com/watch?v=P4WpIaXId28.

[12] “Enzo Bianchi – Incontri con Dio: Abramo, Giacobbe, Mosè, Elia, Isaia,” YouTube video 01:03:50, posted by “AlzogliOcchi” 3 luglio 2013. Web, 3 Settembre 2018, [22:40 – 33:37]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=-XrfSAxWOwE.

[13] “Enzo Bianchi – Leggere la Bibbia ˝Dall’Antico al Nuovo: i due Testamenti,” YouTube video 43:24, posted by “AlzogliOcchi” 5 giugno 2014. Web, 3 Settembre 2018, [23:30 – 25:26]. Tratto da :

https://www.youtube.com/watch?v=Tmz9pVeWVvU.

[14] «allora dobbiamo affermare che nella creazione che Dio ha fatto era presente il male, questa è la realtà. La Bibbia ci dice non la ha voluto Dio, non la ha creato Dio ma c’era. E ha indotto l’umanità al male come induce ciascuno di noi».cf. “Enzo Bianchi Mistero e scandalo della sofferenza,” YouTube video 01:29:31, posted by “AlzogliOcchi” 30 ottobre 206. Web, 3 Settembre 2018, [53:15 – 57:15]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=kJlnEeXJ90w.

[15] “Enzo Bianchi la risurrezione di Cristo e la nostra,” YouTube video 59:52, posted by “AlzogliOcchi” 11 marzo 2016. Web, 3 Settembre 2018, [01:13:42 – 01:14:55]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=opwrLaDnqF4.

[16] “Gesù racconta l’amore˝ Enzo Bianchi in dialogo con Umberto Galimberti,” YouTube video 39:00, posted by  “AlzogliOcchi” 23 maggio 2015. Web, 3 Settembre 2018, [11:20 – 20:06]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=OLqkQkWh3B4&feature=youtu.be&t=679.

[17] Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 245-246.

[18] “Enzo Bianchi – Lo Spirito santo Nella rivelazione biblica,” YouTube video 58:50, posted by “AlzogliOcchi” 15 agosto 2017. Web, 3 Settembre 2018, [2:32 – 4:10; 32:26 – 34:00; 36:34 – 38:00; 50:04 – 50:32]. Tratto da:

https://www.youtube.com/watch?v=4yOfOdrzzBI.

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Dal Bello al Moro: la santità non è il decaduto Premio Nobel, le canonizzazioni sono pronunciamenti del magistero solenne dai quali poi indietro non si torna

― Theologica: i saggi di fine estate de L’Isola di Patmos  ―

DAL BELLO AL MORO: LA SANTITÀ NON È IL DECADUTO PREMIO NOBEL, LE CANONIZZAZIONI SONO PRONUNCIAMENTI SOLENNI DAI QUALI POI INDIETRO NON SI TORNA

Indice I. SE LA SANTITÀ È SCISSA DALLA LOTTA CONTRO IL PECCATO, DIVIENE PURA BONTÀ FILANTROPICA ―  II. GLI ASPETTI TEOLOGICI DELLA SANTITÀ ALLA LUCE DEL MISTERO DELLA CREAZIONE E DELLA REDENZIONE ― III. L’AVVENTO DELL’ERA CRISTIANA ED I BEATI MARTIRI ― IV. CHI PROCLAMAVA CERTI SANTI E BEATI IERI, CHI LI PROCLAMA OGGI ― V. LE CAUSE DI BEATIFICAZIONE E CANONIZZAZIONE: LA FIGURA DEL POSTULATORE ― VI. DINANZI AI PRESUNTI MIRACOLI IL POSTULATORE DEVE ESSERE IL PIÙ SCETTICO TRA GLI SCETTICI, SE VUOLE RENDERE DAVVERO UN BUON SERVIZIO ― VII. BEATI E SANTI IN CORSA, BEATI E SANTI IN PRUDENTE ATTESA: IL CASO DI PADRE LÉON DEHON ACCUSATO DI ANTISEMITISMO. IL PROBLEMA DEI SANTI CHE HANNO FAVORITA LA PERSECUZIONE DI ALTRI SANTI: IL CASO DEL SANTO FRATE PIO DA PIETRELCINA E DEL SANTO PONTEFICE GIOVANNI XXIII ― VIII. GAUDETE ET EXULTATE, LA LETTERA APOSTOLICA NELLA QUALE I MARTIRI CRISTIANI MENZIONATI DAL SANTO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II SONO RACCHIUSI SOTTO IL TITOLO FILMICO: «I SANTI DELLA PORTA ACCANTO» ― IX. NOI PECCATORI A SERVIZIO DELLE CAUSE DI BEATI E SANTI.  SAREBBE BENE RICORDARE CHE ALCUNI GRANDI PECCATORI SCRISSERO ALCUNI DEI CANONI PIÙ BELLI ED EFFICACI DEI CONCILÎ DELLA CHIESA ― X. LE BEATIFICAZIONI E LA CANONIZZAZIONI NON SONO IL PREMIO PULITZER ED IL PREMIO NOBEL. ALCUNE LEGITTIME PERPLESSITÀ SU ALCUNI PROCESSI DI BEATIFICAZIONE IN CORSO, SEBBENE NELLA “CHIESA DEL CONFORMISMO” NON SI DISPUTI PIÙ ― XI NELLA FASE PROCESSUALE SI DEVE ASCOLTARE TUTTI, COMPRESI COLORO CHE SI RITIENE SIANO PREVENUTI, PERCHÉ NON ASCOLTANDO SI POSSONO COMPIERE DANNI PEGGIORI, A VOLTE PERSINO IRREPARABILI.

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Sull’andamento della Chiesa terrena: «Non scoraggiamoci, ma non illudiamoci!»

La penna d’oca di Carlo Magno

 

 

 

SULL’ANDAMENTO DELLA CHIESA TERRENA: «NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI!»

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La crisi che drammaticamente si acutizza e aggrava nella Chiesa Cattolica non è una semplice e grottesca commedia di decine di finocchie rapaci e predatrici di adolescenti, nel peggiore dei casi, e di omosessuali ordinati al Santo Servizio di Dio e del Suo Popolo Santo, ma che nel loro dis-ordine esistenziale e comportamentale ben poco e ancor meno meritevole servizio hanno reso, in primis, alla loro anima, a Dio e alla Santa Chiesa […]

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Autore
Carlo Magno *

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«Non scoraggiamoci, ma non illudiamoci!». Fu questo il consolante incoraggiamento e, insieme il drammatico ammonimento che Agostino, Santo Vescovo e Dottore della Chiesa, rivolse in un suo celebre sermone ai cristiani di Ippona: «Non scoraggiamoci, un ladrone fu salvato! Non illudiamoci, un ladrone fu dannato!» [Sermo 232, 16]. Quindi salvezza e dannazione! Tertium non datur!

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In tempi di effimera e oppiacea “misericordia”, che appare sempre più nitidamente  come sinonimo di apostasia dal deposito della fede, dove non ci si affida più penitenti e confidenti all’infinito Amore che solo può il Sommo Amore.

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«Re celeste, Consolatore, Spirito della verità, ovunque presente e che tutto ricolma, scrigno dei beni e dispensatore di vita “, dinnanzi al quale invocare: “Trascura le mie iniquità, o Signore nato da una Vergine, e purifica il mio cuore, facendone un tempio del tuo corpo e del tuo sangue purissimo, non rigettarmi davanti al tuo volto, tu la cui misericordia non ha misura. Come oserò, io indegno, di avvicinarmi a te con coloro che ne sono degni, il mio vestito mi tradirà, perché non è un abito adatto a un convito di nozze, e attirerà una sentenza di condanna alla mia anima molto peccatrice. Signore, purifica la mia anima dalle sue sozzure, e salvami, quale amico degli uomini” [Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, Tropari 5 e 6 del sabato sera].

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Viviamo in tempi nei quali si è confuso «l’avere Misericordia che appartiene propriamente a Dio», e dimentichi  che  Misericordia è il predicato stesso di Dio [cfr. Sant’Ireneo, Epistola 60]. Tempi segnati da un penoso compiacimento per fragilità e peccati, che invece d’essere combattuti e vinti, sono sic et simpliciter derubricati, dal nuovo e auto-proclamato salvator mundi di una presunta nuova chiesa delle periferie esistenziali. Un «ospedale da campo», dove l’Archiatra balbettante non osa neppure davanti a scandali fragorosi e nefasti, pronunciare il nome proprio del peccato, per non turbare il ricettario del politicamente corretto, del religiosamente corretto e dell’eroticamente corretto. Un «ospedale da campo» da cui, però, il vero Medico delle anime e dei corpi [cfr. Luca 5, 31-32] è stato, in realtà, cacciato, avendo Egli il pessimo vizio di diagnosticare il male e, persino, l’ardire d’indicarne la terapia.

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«Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» [Matteo 16, 23]; «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» [Matteo 23, 37-39].

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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La crisi che drammaticamente si acutizza e aggrava nella Chiesa Cattolica non è una semplice e grottesca commedia di decine di finocchie rapaci e predatrici di adolescenti, nel peggiore dei casi, e di omosessuali ordinati al Santo Servizio di Dio e del Suo Popolo Santo, ma che nel loro dis-ordine esistenziale e comportamentale ben poco e ancor meno meritevole servizio hanno reso, in primis, alla loro anima, a Dio e alla Santa Chiesa. Se così fosse, basterebbe al buon e Santo Popolo di Dio munirsi di ramazze, e nei casi più gravi anche di badili, o come invocano ormai a gran voce i sempre più numerosi cattolici statunitensi tenere ben sigillati i portamonete e svuotare le cassette dell’elemosine.

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Ben più grave e lacerante è lo stato attuale della Santa Chiesa di Dio, la cui crisi non si misura col metro dei presenti nelle chiese persino nel Giorno del Signore né coll’ammontare delle offerte. Le vere ragioni della crisi sono in una drammatica apostasia diffusa, propagandata, supinamente subita e non combattuta a ogni livello da troppo tempo; talora, persino mascherata e accettata come nuovo verbo di una nuova chiesa, ma che specialmente negli ultimi cinque anni ha accelerato e intensificato a dismisura la sua corsa, la sua bieca propaganda, il suo nefasto ardire e il suo letale impatto.

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Per impudico auto-compiacimento e malsano masochismo ci si è compiaciuti e beati del nichilismo imperante; si è applaudito al totalitarismo del pensiero debole, con i suoi canoni comportamentali non solo a-cristiani ma, persino, anti-cristiani e, soprattutto, anti-cattolici. Si è fatto a gara a “non giudicare”, non più solo il peccatore, ma anche il peccato; non certo per misericordiosa e sincera attitudine spirituale, ma per puro compiacimento d’auto-realizzazione mondana e per farsi accettare e amare dal mondo, dimentichi che:

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«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» [Giovanni 15,  18-19].

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Fra i Servi di Dio, e proprio a partire dal Servo dei Servi, si è infine giocato e si gioca a scimmiottare le nuove rock-star della società aperta, liquida, afflitta da una bulimia  senza scopo, nella quale tutto è relativo alla coscienza individuale e niente più è percepito come collettiva appartenenza al Mistero e sua essenziale condivisione. Una società, come scriveva Zygmunt Bauman, dove il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza [cfr. Zygmunt Bauman – Leonidas Donskis, Moral Blindness: The Loss of Sensitivity in Liquid Modernity, 2003].

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Che fare, dunque di una Chiesa Cattolica che proclama: «abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» [Giovanni 16, 33], se non liquidarla, una volta e per sempre? Meglio ancora se la sua “liquefazione” avverrà per moto centrifugo e con solenne benedizione della Sua gerarchia! Ancor più, dai Suoi Pastori si gioca a minimizzare e, persino, ridicolizzare due millenni di riflessione filosofica e teologica, fatta non in segreti conciliabili di selezionati cardinali, ma nutrita di contemplazione e preghiera e fortificata dai milioni di martiri che l’hanno irrorata del sangue dai loro patiboli.

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Più che inginocchiarsi a Colui che «è stato esaltato e ha ricevuto un nome che al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» [Filippesi 2, 9-10]; si è preferito e si sta ancora ostinatamente preferendo prostrarsi al politicamente corretto, al religiosamente corretto, all’eroticamente corretto, al sociologicamente corretto e ancor di più a tutto ciò che di irrazionale è, ma che non si può denunciare come tale per non dispiacere i veri padroni del caos, e goderne così la loro protezione mediatica.

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Più che rallegrarsi perché «i nostri nomi sono scritti in cielo» e per questo a chi crede è stato dato il potere «di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico» [Luca 10, 19-20]; si preferisce compiacersi perché qualche Pastore sfonda il video, o frequenta il bel mondo glamour del Metropolitan Museum di New York [Ndr. QUI] o  si affatica in opere di carità o pranza coi poveri, naturalmente sotto l’occhio vigile e attento di cameramen e giornalisti.

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Dietrich Bonhoeffer — senza entrare nel merito del suo complesso pensiero teologico — fu un teologo e pastore protestante che menò fino alla fine un duplice combattimento in nome della Fede. Contro la Comunità Protestante tedesca totalmente plagiata e asservita a quello Zeitgeist del politicamente corretto dominante del suo tempo, che nient’altro era che il Nazionalsocialismo. Persino, come ormai provano con certezza i documenti tedeschi de-secretati della Seconda Guerra Mondiale, contro il Nazismo stesso e contro il suo Fuhrer supremo, Aldolf Hitler, partecipando al complotto del fallito attentato del 20 luglio 1944. Per questo fu impiccato nudo dai nazisti nel campo di concentramento di Flossenburg all’alba del 9 aprile 1945, ed oggi, universalmente celebrato come martire della fede e della libertà contro una delle peggiori tirannidi dell’Europa moderna.

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In un suo celebre scritto del 1937, Bonhoeffer scriveva con profetica precognizione dei rischi mortali che, allora, correva la Comunità Protestante tedesca abbracciando biecamente il politicamente e il religiosamente corretto del suo tempo. Le medesime parole dovrebbero, oggi, servire per far rinsavire una Chiesa Cattolica su cui  incombe al presente un altrettanto Zeitgeist della nostra era non meno infetto,  fetido, pestifero, totalitario e, infine, esiziale che aleggiava nell’aria torbida del Terzo Reich.

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«La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della nostra chie­sa. Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo. Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è santa Cena senza confes­sione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza Croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato» [Dietrich Bonhoeffer, Nachfolge, 2007, p. 24].

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Dovremmo allora domandarci: come mai vescovi e teologi cattolici che amano citare Bonhoeffer, o che cercano di citare questo illustre pensatore protestante ma non cattolico, sempre rigorosamente omettono di cogliere ciò che della sua acuta riflessione dovrebbe, oggi, far riflettere anche la Chiesa Cattolica?

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI!

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L’abbiamo messo nel conto fin dal giorno del nostro Santo Battesimo: «Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» [Giovanni 15, 19].

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Dall’alto dei loro seggi, potranno sempre schernirci come «cani selvaggi» cui opporre «miti silenzi», apparentemente ma viscidamente umili e francescani, invece oltremodo meschini effluvi e rutti di rabbia contro chi non si sottomette «al regno di questo mondo», che sempre presuppone potere e ricchezza! Potere e ricchezza di questo mondo, al quale tutto si svende pur di potere e possedere: i corpi, le anime, i cuori, le angosce, le speranze, e gli stessi frutti di grazia che sempre la Potenza del vero e  unico Salvator Mundi suscita nel Santo Popolo di Dio.

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Nella loro fiammante porpora, di fronte a uno scandalo sempre più montante, potranno sviarci dicendoci che ben altra agenda occupa la nuova pastorale misericordiante: «Il Papa ha un’agenda più vasta: la salvaguardia dell’ambienti, i migranti, …»? [Cfr. Cardinale Blase Cupich, intervista NBCC Chicago, 28 agosto 2018]. Fors’anche per farci dimenticare, ma ce ne guardiamo bene, che anche loro sono proprio fra i tanti nipotini di Uncle Ted: quelli che sono stati i più generosamente beneficati di potere e possesso in questi ultimi cinque anni.

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Per cercare di capire quanto sta avvenendo nella Santa Chiesa di Dio, nella sua dimensione storico-temporale, ancora una volta sarà bene ricorrere a Sant’Agostino. Commentando il Salmo 55, il Vescovo d’Ippona scriveva:

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«Se dovessimo entrare in una casa, osserveremmo la scritta che sta sul frontone per sapere di chi sia e da chi sia abitata. Così facendo, eviteremmo di entrare inopportunamente là dove non avremmo dovuto o di tornare indietro per timidezza quando invece fosse necessario procedere oltre» [Sant’Agostino, Enarratio in Psalmum 55, I,1].

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La casa cui si riferisce Sant’Agostino è nient’altro che la Santa Chiesa di Cristo, il cui titulum risplende sulla sua architrave e dimora indissolubilmente radicato nelle sue stesse mistiche fondamenta:

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«C’è una pietra su cui la casa trova solidità per le sue fondamenta, tanto da non temere la furia della tempesta. I fiumi — dice — si rovesciarono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata sopra la pietra. Orbene questa pietra è Cristo. E sotto il nome di David è raffigurato Cristo, del quale è stato detto: Egli nacque dalla discendenza di David secondo la carne» [Ibidem, I,3-4].

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Se lo stesso Cristo ne è il fondamento perché allora questa Santa Casa, più e più volte nella Storia umana e ai nostri giorni di nuovo, appare scossa al suo interno e diroccata nelle sue colonne portanti? Agostino, pure, sembra porsi questa domanda quando aggiunge:

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«Ma, siccome in un altro salmo sta scritto: Non manomettere l’iscrizione del titolo, Pilato rispose: Ciò che ho scritto, ho scritto. Come se dicesse: Non voglio alterare la verità, anche se voi preferite il falso. Orbene, poiché i giudei si sdegnarono e insistevano nella perversione dicendo: Noi non abbiamo altro re che Cesare, per questo si sono allontanati dai santi: proprio perché trovarono scandalo nel titolo. Si avvicinino ai santi! Si uniscano ai santi che riconoscono come re Cristo e desiderano possederlo. Siano, invece, allontanati dai santi coloro che, contraddicendo al titolo, hanno respinto Dio come re e hanno scelto come re un uomo» [Ibidem, II, 6-7].

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Sradicare il male, nella Santa Chiesa di Dio che  ormai non più «da qualche fessura» entra come «fumo di Satana nel tempio di Dio» [Paolo VI, Omelia, 29 giugno 1972], ma da porte e finestre spalancate da servili e reprobi ostiari richiede ai nostri giorni le stesso coraggio del Beato Antonio Rosmini, che non disdegnò indicare per nome e cognome le Cinque Piaghe della Santa Chiesa, che forse — nel frattempo — sono divenute ben più di cinque.

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Prima Piaga.

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L’arrendevolezza e l’asservimento della gerarchia ecclesiastica allo spirito del tempo e alla neo-ideologia totalitaria imperante. Il clero del Santo Popolo di Dio sembra aver dimenticato che il solo titulum che contraddistingue la Santa Chiesa di Dio è Cristo, pienezza della Rivelazione di Dio Uno e Trino, venuto e che verrà come segno di contraddizione: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione» [Luca 2, 34].

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Il Padrone della Casa è stato costituito da Dio stesso come seméion antilegómenon: come il segno e il titulum di Colui che è antitetico al discorso corrente:

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«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» [Matteo 10, 34-36].

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La Chiesa stessa o è seméion antilegómenon o abiura non tanto se stessa ma Cristo stesso e il suo Mistero di Redenzione e Salvezza!

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L’accettazione supina e subdola del Zeitgeist contemporaneo, cui — non il Santo Popolo di Dio — ma la gerarchia cattolica annuisce, con cui amoreggia compiacente, dal quale vilmente non si distingue, che spesso spudoratamente vezzeggia, le cui perfide menzogne incautamente non solo accoglie ma si prodiga a diffondere, è il vero legómenon contro cui la Santa Chiesa di Dio, anche oggi, è chiamata a essere antilegómenon sulla certezza di quella Pietra Scartata e divenuta testata d’angolo. «Che cos’è dunque ciò che è scritto: La pietra che i costruttori hanno scartata, è diventata testata d’angolo? Chiunque cadrà su quella pietra si sfracellerà e a chi cadrà addosso, lo stritolerà» [Luca 20, 17-18]. Per il Santo Popolo di Dio è venuto il tempo con determinazione di «guardarsi dal lievito» dei contemporanei farisei e con  umile coraggio di gridare dai tetti perché «non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto» [Luca 12, 2].

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Come non ricordare le parole, mai di più grande attualità quanto oggi, del Cardinale Joseph Ratzinger alla vigilia della sua elezione al Soglio di Pietro?

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«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità» [Omelia in Missa pro Eligendo Pontifice, 18 aprile 2005].

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Seconda Piaga. La rinuncia a difendere la Verità antropologica.

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La Santa Chiesa di Dio, in ogni campo, ha cercato — sull’esempio di Cristo il cui giogo è dolce e il cui carico è leggero (cfr. Matteo 11, 30) — di accompagnare ed educare alla luce di una Verità che consacra il mistero dell’uomo e la complessità del mondo: «Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» [Giovanni, 17, 17-19].

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La Verità, prima ancora di essere un principio gnoseologico, ne è uno di carattere ontologico. Di questo principio nei secoli si è nutrita l’antropologia cristiana e cattolica, in particolare. Di fronte, al diffondersi rabbioso e inquietante delle ideologie totalitarie del gender, del nuovo nazi-fascismo LGBTQI+, e dell’impostura neo-dionisiaca del poli-amore, la Santa Chiesa di Dio ha per quieto vivere rinunciato a essere Mater et Magistra.

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Non ha saputo e non vuole vedere che qui in gioco non c’è una semplice eresia, ma l’assoluta comprensione dell’uomo creato da Dio! Qui non è in gioco un semplice scisma, ma l’inizio di un nuovo Totalitarismo pagano e criminale. Qui è in gioco l’umanità stessa e il suo futuro! Altro che ambiente e migranti! C’è ben poco da rallegrarsi! Se, persino, un filosofo della nuova sinistra hegeliana scrive:

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«In ogni caso il nuovo ordine mondiale mira a distruggere tutto ciò che non è affine al mercato. L’amore e la famiglia sono la prima forma di resistenza rispetto al mercato e al capitalismo deregolamentato. L’amore mira a durare in eterno e perché è altruistico e donativo, sottratto a ogni logica del calcolo e della crescita» [cfr. Diego Fusaro, Il nuovo ordine erotico. Elogio dell’amore e della famiglia, 2018, presentazione in: Affari Italiani, 13 settembre 2018].

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E prosegue nel denunciare giustamente:

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«L’eroticamente corretto come: la variante erotica e sentimentale del politicamente corretto. È tutto ciò che in qualche modo garantisce il nuovo ordine erotico e diffama ciò che non gli è affine. Sul piano politico tutto ciò che non è affine al nuovo ordine mondiale viene diffamato come fascista, populista, stalinista. Nell’ambito erotico invece viene diffamato come omofobo, reazionario, premoderno. Nella neolingua [Ndr. QUI], eroticamente corretto è una sorta di catechesi mondialista che impone un adattamento cosmopolita ai costumi del nuovo ordine erotico che dissolve la famiglia e il modello eterosessuale imponendo una specie di gay pride permanente con ridicolizzazione di tutto ciò che è connesso ai valori proletari e borghesi della famiglia etica. Il gay pride non è volto a difendere i diritti, sacrosanti tra l’altro, degli omosessuali ma a distruggere e ridicolizzare il vecchio modello familiare» [Ibidem].

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Ci sfugge, forse, che non uno dei Pastori del Santo Popolo di Dio abbia il coraggioso ardire di osare la verità per non essere tacciato di “giudicante”? Ci sfugge, fors’anche, che al contrario tanti Pastori si divertono a giocare col fuoco sui temi che possono implicare prima di tutto la mera salvezza antropologica delle future generazioni, ben al di là della loro appartenenza religiosa? Ci sfugge, forse e infine, l’ammonimento: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete» [Matteo 7,15-16]? E la messe dei loro frutti ben si vede in una fede resa stupidario dei luoghi comuni!

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Terza Piaga. Il mito e la retorica della Chiesa Povera.

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La tanta declamata Chiesa Povera, forse, mai prima d’oggi è stata tanto avida di denaro e potere. Le vicende che coinvolgono influenti cardinali e vescovi tedeschi e quelle che, infine, coinvolgono il deposto Cardinale Edgar McCarry e dei suoi non-deposti ma promossi “nipotini” molto hanno a che fare, per complicità cercate e immunità concesse, con scabrose vicende di finanziamenti cercati e bramati, concessi o rifiutati. Insieme, molte altre sono facilmente spiegabili con un sapienziale suggerimento: Cherchez l’argent!

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Gli araldi di questa neo-chiesa poverella, non a caso, sono due cardinali tedeschi: Walter Kasper e Reinhard Marx che di povero hanno solo quel che resta della morente Chiesa Cattolica tedesca e di ricco, invece, gli enormi proventi della Kirchensteuer: la tassa del nove per cento che i tedeschi cattolici devono pagare sul reddito lordo per essere ancora considerati tali. Una tassa che alla Chiesa Cattolica di Germania, già ricchissima di proprietà immobiliari e di quote societarie di primarie multinazionali, frutta all’incirca attorno ai dieci miliardi di euro all’anno.

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A Monaco e a Berlino si può prescindere da tutto l’arrugginito armamentario dei dogmi e della morale; si può prescindere dalla stessa fede per essere ammessi all’Eucarestia. Dal pagare no; questo, poi, mai! E per questo, dal 2012, i poverelli vescovi tedeschi hanno comminato la scomunica latæ sentantiæ con l’esclusione dai Sacramenti, dal funerale cattolico e da ogni altra attività ecclesiale a chi non paga. E tutto ciò con misericordiante uso del Diritto Canonico.

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Messe LGBTQI+, invece, sono benvenute; benedizioni di coppie omosessuali pure; Comunione Eucaristica ai protestanti altrettanto. Tutto e discutibile e discusso in nome della misericordiante accoglienza; purché paghi! Quindi dopo i copriletti si alzeranno anche i conti correnti, e scopriremo che certi tipi di attività sessuali hanno sempre come contraltare generose elargizioni finanziarie generosamente largite e vilmente accettate.

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Un giorno, forse, scopriremo quanto certi flussi finanziari hanno e stanno condizionando l’intera Santa Chiesa di Dio e il Papato. E sarà un Dies Iræ Dies Illa!

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Quarta Piaga. La neo-Chiesa dei Poveri.

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La tanto declamata Chiesa dei Poveri è, invece, caduta nella trappola di un tragico neo-temporalismo che sta sostituendo la Suprema Legge della Chiesa di Cristo: la salus animarum. Per quest’ultime — le anime —, tutto si è ridotto a una questione di personale coscienza nel giudizio fra il bene e il male, a una casistica del peggior moralismo ecclesiastico. Nell’ordine temporale, invece, si proclamano certezze indiscutibili, linee guida inflessibili, veri e propri manifesti politici, che se non fatti propri e applicati ciecamente provocano l’ibseniana iattura di essere additati a “Nemico del Popolo”, se non allo stesso Belzebù.

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«I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» [Giovanni 12, 8]; e questo richiamo del Salvatore non a caso era rivolto a Giuda Iscariota, il Traditore, che si premura Giovanni di precisare: «Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» [Giovanni 12, 6]. I poveri sono, in questi anni, diventati quasi un brand pubblicitario che, Pastori e Prelati, usano a piacimento come mezzo di auto-promozione, ovviamente, con discrezione evangelica, a beneficio delle telecamere.

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Nella Santa Chiesa di Dio è tutto un delirante correre a procurarsi poveri, immigrati, e ogni categoria di umana miseria da esibire come biglietto di sollecita appartenenza alla neo-chiesa e da questa, ovviamente, riceverne prebende o onori. Si occulta la Croce del Cristo per esibire come nuovo trofeo le croci del mondo! Ben strano che al lassismo morale corrisponda l’oltranzismo politico, della neo-Chiesa Povera e dei Poveri, dimentica che quella morale, spirituale, intellettuale o addirittura la stessa ignoranza di essere così poveri da non conoscere il Verbo di Dio siano delle povertà assai più misere di quella materiale.

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Quinta Piaga. La neo-papolatria a ricerca di mercato.

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Il Santo Popolo di Dio ha sempre amato e immensamente onorato i suoi Pastori. Non ha, però, mai avuto bisogno di SuperPope, SuperCardinal o SuperBishop. La Santa Chiesa di Dio ha sempre avuto bisogno di conservare salda la fede, nella sua nobile interezza e nella sua obbediente osservanza. «Ubi Petrus, ibi et Ecclesia», esclamava Sant’Ambrogio [Expositio in Psalmos, 40], il quale faceva eco a Sant’Ireno che osservava: «Ubi Christus, ibi et Ecclesia» [Smirnesi, 8, 2].

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Sconcerta osservare come il Successore di quel Pietro, inchiodato anche lui a una croce come il Divino Maestro, ami essere pop e rock al contempo da piegare ogni testo della Scrittura al suo personalissimo messaggio propagandistico; da disprezzare così grandemente il Santo Popolo di Dio e preferirgli di gran lungo un neo-Pueblo mitico; e alla salvezza delle anime optare di gran lunga per un’improbabile salvezza dei corpi. Se qualcuno pretende di sviare sospetti e ragioni parlando di «clericalismo o elitismo» — forse confondendolo con l’etilismo — oggi più che mai è tempo di denunciare una nuova e ancor più pervicace forma di papolatria che inneggia non tanto all’Ufficio Petrino, come costituto da Cristo e della Tradizione, ma l’attuale occupante dell’Ufficio, insieme ai caudatari servili e ai meschini sicofanti di cui si circonda.     

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Sesta Piaga. L’abuso del potere ecclesiastico.

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Il legittimo esercizio del munus gubernandi nella Santa Chiesa di Dio non si è mai ispirato al Fuhrerprinzip né al decalogo de Las Leyes del Jefe. Nella sua Storia la Santa Chiesa di Dio ha sviluppato consuetudini, prassi, norme e procedimenti che, pur assicurando l’indivisibile unitarietà del depositum fidei, fossero in grado di accogliere sensibilità, doni, spiritualità e carismi i più  diversi. Negli ultimi cinque anni, la Legge del Taglione si è abbattuta su chiunque, laico o chierico, non si chinasse plaudente.

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C’è nell’attuale gestione della Santa Chiesa di Dio un tale di tasso di paura e timore, che in gran parte dei Vescovi e del Clero il livello di emulazione del grande capo, più per timore di ritorsioni che per convincimento, ha raggiunto livelli di vero e proprio inquinamento ambientale. Questa sola, forse, la grande catastrofe climatica che affligge la Santa Chiesa di Dio!

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Ormai è impossibile entrare in una Chiesa senza ascoltare Pastori servili scimmiottare il “Capo”, come lo chiamano i suoi confidenti; partecipare a una liturgia, senza dover ascoltare testi liturgici — e in particolare nella Preghiera Universale — veri e propri manifesti sociologici; prender parte alla Santa e Divina Liturgia senza subire l’umiliazione di una sciatteria e banalità, che l’attuale Pontificato ha reso Regula Aurea. L’abuso è quotidiano, sfacciato, prepotente, aggressivo e violento, dalla catechesi alla predicazione, dalla Liturgia alle dichiarazioni pubbliche!

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Settima Piaga. L’attentato al sensus fidei omnium fidelium.

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Si chiede ancora il grande Vescovo d’Ippona e Dottore della Chiesa Universale:

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«Che voti farete? che voti adempirete? Offrirete, forse, quegli animali che venivano offerti una volta sugli altari? Nulla di tutto questo! Devi trovare in te stesso la materia del voto che pronunzi e manterrai. Dallo scrigno del cuore offri l’incenso della lode; dal segreto della buona coscienza offri il sacrificio della fede. Ciò che offri, brucialo con la fiamma della carità. Non manchino in te i sacrifici di lode, che tu prometti e mantieni a Dio» [Ibidem, XIX, 52].

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Nel debordante chiacchiericcio ecclesiastico dei nostri tempi abbondano le categorie sociologiche e sono scomparse quelle di un’educazione umile ma fervente alla vita di preghiera, alla pratica sacramentale di una Liturgia fervente e degna, di una vera pietà popolare, di un costante accrescimento di quel sensus fidei communis che è il vero e imprescindibile tesoro, custodito nei millenni dal Santo Popolo di Dio. Eppure questo sentire comune della fede è stato nei secoli la vera e sola grande difesa, anche i tempi bui e tumultuosi, nel preservare la Fede, nel nutrire la Speranza e nell’alimentare la Carità.

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Ora, proprio questo sensus fidei communis si vuole ingannare, confondere e indebolire, senza comprendere che con esso anche la Carità e l’amore per il prossimo, che la Santa Chiesa di Dio ha sempre praticato nei secoli e che l’ha sempre vista artefice d’imprese mirabili per i poveri di ogni povertà, spariranno come una città sotto il monte e una lucerna posta sotto il moggio [cfr. Matteo 5, 14-15].

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NON SCORAGGIAMOCI, MA NON ILLUDIAMOCI !

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Benché il suo corpo nudo sia stato appeso al cappio di un lurido patibolo del totalitarismo del secolo scorso, di fronte all’avanzare del nuovo totalitarismo ideologizzante e spudoratamente anti-cattolico, un martire protestante può forse ancora ammonirci e rincuorarci:

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«Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo. Grazia a caro prezzo è l’evangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo pic­chiare. È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara perché condanna il peccato, è grazia perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo […]. È soprattutto grazia, perché Dio non ha ritenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la no­stra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio» [Dietrich Bonhoeffer, o.c., p. 25].

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Questo è il vero Bonhoeffer, un protestante, che però i teologi cattolici amanti dell’ecumenismo e del Protestantesimo, o non hanno letto o volutamente hanno dimenticato.

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da Aquisgrana a L’Isola di Patmos, 18 Settembre 2018

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* Sotto lo pseudonimo di Carlo Magno si cela un battezzato cattolico, giurista, politologo, filosofo, esperto di relazioni internazionali e diplomatiche che per lunghi anni ha ricoperto numerosi alti uffici in importanti organizzazioni internazionali inter-governative.  

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

Conservazione e progresso

— attualità ecclesiale —

CONSERVAZIONE E PROGRESSO

Per risolvere l’attuale conflitto intra-ecclesiale fra modernisti e lefebvriani bisogna accordare fra di loro questi due fattori essenziali del dinamismo ecclesiale: conservazione e progresso.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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Rileggendo alcuni testi delle meditazioni mattutine del Santo Padre nella cappella della Domus Sanctae Marthae, il 31 ottobre 2017 — come riferì l’articolista de L’Osservatore Romano del 1 novembre seguente —, il Papa si domanda, tra l’altro: I cristiani «credono davvero nella forza dello Spirito Santo» che è in loro? E hanno il coraggio di «gettare il seme», di mettersi in gioco, o si rifugiano in una «pastorale di conservazione», che non lascia che «il Regno di Dio cresca»? E risponde: «Tante volte noi vediamo che si preferisce una pastorale di conservazione» piuttosto che «lasciare che il Regno cresca».

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Ci permettiamo alcune osservazioni. Occorre distinguere conservazione da conservatorismo. Conservare diligentemente e, gelosamente e il sacro deposito della divina Rivelazione, senza accomodamenti, senza aggiungere e senza togliere [cf Gal 3,15; Ap 22,19] ed essergli fedele a costo della vita è dovere assoluto di ogni cattolico,  in primis dei vescovi e del Papa.

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Il conservatorismo, invece, al quale allude probabilmente il Papa, è una stolta ed inutile conservazione. È il conservare ciò che non serve più, è il restare attaccati o per miopia o per pigrizia o per paura o per interesse a idee, costumi, usanze, abitudini, tradizioni superati o abbandonati dalla Chiesa, è lo scambiare per modernismo il giusto progresso, il restare bloccati ad una data fase storica del cammino della Chiesa verso il Regno, è il chiudere l’occhio ai campi che già biondeggiano per la mietitura» [Gv 4,35]; è chiudere l’orecchio alla voce dello Spirito, che «rinnova la faccia della terra», che «rinnova la nostra mente» [Rm 12,2] e di giorno in giorno rinnova il nostro uomo interiore [cf II Cor 4,16]. Lo Spirito Santo spinge sì la Chiesa al progresso, ma nel senso indicato da quelle parole del Signore, che Egli ha la funzione di farci ricordare [Gv 14,26]e quindi di stimolarci a far fruttare.

Ammesso — lo vogliamo credere — che il Papa parli di conservatorismo e non di legittima conservazione, non sembra corrispondere a verità, come pare Papa Francesco voglia insinuare, che esista una vasta diffusione del conservatorismo, che pur esiste nei lefebvriani; ma  ciò che oggi maggiormente affligge e turba la Chiesa sono una ben più vasta diffusione del modernismo o di un falso progresso e o di un falsa interpretazione del rinnovamento promosso dal Concilio. E di questi mali il Papa non parla mai, tutto preso da un’esagerata e faziosa polemica contro il tradizionalismo, dove rischia di fare di tutte le erbe un fascio, prendendosela anche con quel sano tradizionalismo che, insieme con una sana conservazione, sono fattori essenziali della struttura e del progresso della Chiesa.

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Se Francesco vuol essere un riformatore della Santa Sede cominci dunque con l’allontanare o il fermare quei falsi collaboratori che sono infetti di modernismo e di rahnerismo, ed assuma collaboratori veramente leali e fedeli al Magistero pontificio e nemici non solo del lefebvrismo, ma anche del modernismo, sia pur aperti ai lati buoni degli uni e degli altri.

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Esiste comunque un certo ostinato, miope e presuntuoso conservatorismo che, sotto il pretesto della fedeltà alla Sacra Tradizione, accusa i Papi del post-concilio di disattenderla, e vorrebbe tornare al clima dottrinale e pastorale pre-conciliari, come se il Concilio Vaticano II non fosse avvenuto, dimenticando che, quando un Concilio compie un progresso dottrinale, come quasi sempre avviene, la Chiesa, maggiormente illuminata dal Vangelo e vinti certi errori, data l’infallibilità della sua dottrina, non torna più indietro, mentre può capitare che un nuovo Concilio corregga una prassi pastorale difettosa avviata da un Concilio precedente, o ripristini o recuperi certe pratiche pastorali abbandonate da quel Concilio, perché su questo piano, per il mutare delle contingenze storiche o per la fallibilità degli stessi uomini di Chiesa, essa può mutare o sbagliare e quindi può correggersi, dopo aver sperimentato le conseguenze dannose provocate dall’errore commesso.

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Così il Concilio, andando incontro ad un’esigenza del tempo nel quale fu celebrato, insiste molto sul rinnovamento della pastorale e dà in merito molte direttive, che toccano tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Ma dopo cinquant’anni di applicazione di queste direttive, molti osservatori e pastori imparziali ed amanti della Chiesa ci hanno condotto ormai da anni a renderci chiaramente conto del fatto che la pastorale conciliare, per certi aspetti, ha bisogno di una correzione di rotta, che forse solo un nuovo Concilio o un grande Papa riformatore potranno attuare.

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Ciò non significa assolutamente che si debba tornare in toto alla pastorale del pre-concilio, ma significa mantenere le conquiste pastorali del post-concilio — per esempio un sano ecumenismo o il dialogo interreligioso —, purificandole da certi eccessi buonistici e troppo ottimistici nei confronti del mondo moderno, tanto che oggi, per la mancata vigilanza dei vescovi, assistiamo ad un impressionante ritorno di modernismo, molto peggiore e più insidioso di quello dei tempi di San Pio X, anche perché, mentre questo aveva attecchito soltanto nel basso clero e fra i teologi ed esegeti, quello infetta lo stesso corpo episcopale soprattutto nella sottile ad astuta forma del rahnerismo.  

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Tutti i buoni cattolici, fedeli e pastori, si sono ormai accorti di questa enorme truffa, tranne, chissà perché, gli stessi modernisti, i quali o cadono dalle nuvole o fanno finta di non sapere o restano sordi a richiami ed avvertimenti o ignorano sprezzantemente le accuse loro rivolte o le respingono sdegnati o, povere vittime calunniate, da ipocriti sopraffini, perseguitano i pochi coraggiosi che scoprono le loro trame.

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Il grande problema pastorale oggi, non è più quello che si imponeva cinquant’anni fa, come comandava il Concilio, di abbandonare una pastorale troppo conservatrice, anacronistica, statica, ripetitiva, troppo difensiva, sospettosa, timorosa, diffidente ed aggressiva nei confronti del mondo moderno, del resto mal conosciuto e a volte anche frainteso, per un rinnovato accostamento alla modernità benevolo, aperto, leale, sanamente critico, certo prudente come il serpente, ma anche semplice come la colomba, sapendo che il mondo riserva insidie, ma anche che il mondo creato da Dio offre molti valori da riconoscere, da salvare e da condurre a Cristo.

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Sulla via del rinnovamento, del divenire, del cambiamento, dello svecchiamento, dello sviluppo  e del progresso si è molto insistito e si è andati molto avanti in questi cinquant’anni, e certamente il vero progresso non ha mai termine; ma non sempre si è avanzati nella maniera giusta, e più che avanzare, in tanti casi, si è deviato o ci si è allontanati dal retto cammino e dalla fedeltà ai veri insegnamenti del Concilio; non sempre ci si à mossi con la dovuta intraprendenza, moderazione, cautela e saggezza, in obbedienza alla guida dei Pontefici o alla dottrina del Catechismo della Chiesa Cattolica, anzi cadendo molto spesso nella rete del  modernismo, che è un approccio ingannevole alla modernità, nella quale occorre distinguere il grano dal loglio, e invece  i modernisti hanno confuso l’uno con l’altro.

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Quello che allora oggi bisogna soprattutto fare per promuovere una sana, efficace ed equilibrata pastorale, adatta alle necessità dell’ora presente, diverse e per certi aspetti opposte alla situazione storica, che dovette affrontare e risolvere il Concilio, non è più tanto redarguire il conservatorismo, benché poi esso esista tuttora, ma è che il Papa si decida, alla buon ora, con franchezza e coraggio, incurante dell’eventuale starnazzare dei modernisti, a denunciare il modernismo dilagante, ben più pericoloso e dannoso del lefebvrismo o del conservatorismo, considerando gli immensi danni che il modernismo ha fatto in questi 50 anni. e sta facendo, sotto pretesto del rinnovamento conciliare, nella Chiesa e nella società. E qui faccio notare che fin dal 1966 il Maritain denunciò il grave pericolo del modernismo. E non è che il Maritain fosse precisamente un conservatore. Non si deve insistere in modo unilaterale sullo sviluppo lasciando in sordina la conservazione del deposito della fede. È l’inverso che bisogna fare, dopo cinquant’anni di retorica progressista, che ha finito per degenerare nel modernismo e in polemiche faziose contro la conservazione.

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Il vero futuro della Chiesa e dell’umanità

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Occorre piantarla una volta per tutte con un relativismo e storicismo di origine hegeliana, denunciati più volte da Papa Benedetto XVI sulla scia della condanna dell’evoluzionismo modernista fatta da San Pio X. Il divenire suppone l’essere. Il relativo ha senso solo in rapporto all’Assoluto e la storia ha un fine solo in rapporto all’Eterno. Occorre invece ritrovare i princìpi e i valori assoluti della ragione e della fede, oggi largamente dimenticati, trascurati, fraintesi, incompresi, disprezzati e derisi, tra coloro stessi che dovrebbero custodirli ed insegnarceli, vescovi compresi. Valori che invece sono sempre stati insegnati e sempre saranno insegnati per la salvezza dell’umanità, dalla sana filosofia, in quanto razionali, e dalla Chiesa, in quanto valori di fede. Occorre sapere con certezza quali sono questi valori di ragione e di fede, occorre sapere perchè sono questi e non altri, occorre distinguerli dalle opinioni soggettive e caduche. Occorre distinguere il dogmatismo e il fondamentalismo dalla certezza di fede e dalla certezza razionale.

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Occorre saper distinguere i valori immutabili, immortali ed incorruttibili da quelli che mutano e si corrompono. Occorre distinguere le verità immutabili e sovra-temporali da quelle mutabili e temporali, ciò che è vero oggi, è vero da sempre e sarà sempre vero — le verità filosofiche, morali teologiche — da ciò che è vero oggi e potrà non esserlo domani certe condizioni o realtà storiche o istituzioni giuridiche o politiche o ecclesiali.

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È con la ragione e con la fede che sappiamo cosa è di ragione e cosa è di fede. A questo punto abbiamo sotto i piedi non le sabbie mobili, ma la roccia sulla quale costruire la casa, il saldo terreno su cui poggiare  e camminare. Sappiamo quali sono i valori che non verranno mai meno. Sappiamo qual è il senso dell’esistenza e della vita. Sappiamo chi siamo, da dove veniamo e dove possiamo, vogliamo e dobbiamo andare. Sappiamo che Dio esiste. Sappiamo di chi fidarci. Sappiamo il perché del bene e del male. Sappiamo che non c’è via di mezzo tra il sì e il no. Conosciamo la nostra vocazione e il nostro dovere. Vediamo il nostro destino eterno e possiamo perseguirlo con speranza, costanza e coraggio, sapendo di non essere delusi. Sappiamo che potremo farcela. Sappiamo quali sono i valori e i beni, per i quali val la pena di sacrificare la nostra vita, sappiamo quali sono i valori sui quali non possiamo cedere, anche a costo della vita. Sappiamo cosa è il martirio. Sappiamo che possiamo vendere tutto, negoziare su tutto, trafficare tutto, all’infuori della nostra anima. Così compreremo Tutto. Sappiamo che è impossibile la salvezza senza questi valori, per cui sono questi i valori che garantiscono la salvezza. Se noi abbandoniamo la consegna che ci è stata data da Cristo, ritenendola superata o invecchiata o non più valida o non più attuale, per un futuro inventato da noi nell’idea che venga dallo Spirito Santo, non siamo degli innovatori, non  facciamo nessun vero progresso, ma siamo dei traditori, dei disertori e dei fedifraghi; non siamo più sotto la guida dello Spirito Santo, ma del demonio.

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Invece occorre che teniamo sempre davanti agli occhi del’intelletto e del cuore i valori  e i beni assoluti, perenni ed immutabili, la Parola di Dio che non passa — Verbum Domini manet in Aeternum — che illumina il nostro cammino, ci indica i nostri doveri, ci fa gustare la legge divina, infiamma il cuore, ci spinge alla santità — caritas Christi urget nos —, corregge i nostri errori, perdona i nostri peccati, conduce al vero progresso, fondato sulla verità divina conosciuta sempre meglio eodem sensu eademque sententia.

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Quanto all’appello alla ”Tradizione” per sapere cosa è di fede e cosa non lo è, di per sé non basta, ed è addirittura illecito ed empio, se si pretende di appellarsi direttamente e soggettivamente alla Tradizione, per contestare o contraddire o ”correggere” l’insegnamento dottrinale di un Papa o di un Concilio, dato che sono proprio loro i  custodi ed interpreti supremi e definitivi della Tradizione.  

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L’errore poi si aggrava, se tra i contenuti della Tradizione non si sa discernere quali sono quelli veramente permanenti, inviolabili ed insuperabili, e quali invece sono i contenuti vecchi e superati. La Tradizione non è questione di durata temporale, ma di valore intrinseco di verità, al di sopra del tempo, del contenuto della Tradizione. Occorre saper distinguere nella Tradizione ciò che è legato al tempo e alle contingenze storiche passeggere, da ciò che attiene essenzialmente l’Eterno e l’Assoluto, ossia alla volontà istituzionale di Cristo (“diritto divino”) — per esempio i sacramenti — che non può mai essere, né sarà mai mutato o abbandonato dalla Chiesa.

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Così non è sufficiente in ogni caso dire: «da 2000 anni» — ammesso che lo si sappia con certezza — «si è sempre pensato o fatto così», perché invece non è detto che si debba continuare a fare sempre così. Esiste un passato che è ormai passato morto e sepolto. Non avrebbe senso estrarre una salma dalla tomba come fosse il ripristino dei valori del passato. Ciò che è giustamente passato, è bene che resti passato, altrimenti sarebbe come voler far tornare quelle «cose passate» [II Cor 5,19], delle quali parla San Paolo. Meglio comunque una verità antica che un errore nuovo.

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Esistono del resto rispetto alla Tradizione novità assolute, mai prima esistite. Se però la Chiesa istituisce cose nuove ignote alla Tradizione precedente, come per esempio i ministeri femminili o il novus ordo Missae, questa non è una rottura con la Tradizione, ma vuol dire semplicemente che quelle cose erano contenute implicitamente nella Tradizione.

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Queste sono le linee della vera “svolta profetica”, della vera riforma che ci attendiamo da Papa Francesco. Certo egli non deve ascoltare i laudatores temporis acti, e fa bene ad arguirli, ma soprattutto non ascolti gli adulatori e i falsi amici, ma chi gli vuole veramente bene, chi lo esorta a congiungere dottrina e pastorale, conservazione e sviluppo, continuità e progresso, fedeltà e inventiva, anche se il vero amico può avere il tono del richiamo o rimprovero. Le ”rivoluzioni” populiste, scriteriate e a basso prezzo le lasci ai dittatorelli ambiziosi, panciuti e demagoghi  dell’Africa e dell’America Latina, senza abbassare la sua sacra dignità di Vicario di Cristo.

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Se il Papa vuole essere padre dei poveri, come appare chiaro dalle sue intenzioni, imiti il suo Signore Gesù Cristo e gli innumerevoli Santi padri dei poveri e lasci stare i Don Lorenzo Milani, i Fidel Castro o gli Helder Câmara. Di oppressi non ci sono solo gli immigrati. Invitiamo il Santo Padre ad esercitare la sua misericordia anche con gli oppressi dai modernisti, non abbia troppa confidenza con gli oppressori modernisti.

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È vero che i lefevriani parlano anche loro di ”modernisti”, ma essi stravolgono il senso del concetto, quando accusano di  ”modernismo” il Papato post-conciliare e le dottrine del Concilio, confondono il progresso col modernismo o Maritain con Rahner o confondono la Messa novus ordo con la Cena luterana. Prosegue più sotto il  giornalista: «La realtà, infatti, è che “il grano” — parole del Papa — “ha la potenza dentro, il lievito ha la potenza dentro”, e anche “la potenza del Regno di Dio viene da dentro; la forza viene da dentro, il crescere viene da dentro”».

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Non c’è dubbio circa la verità di quanto qui dice il Papa. Solo che l’immagine evangelica del chicco di grano non è l’unica immagine che Cristo propone della sua Parola. Non c’è dubbio che essa nel corso della storia, vien sempre meglio conosciuta dalla Chiesa in eodem sensu eademque sententia, come dice San Vincenzo di Lerino, con lo sviluppo della dogmatica ecclesiale.

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Per chiarire la questione della funzione conservatrice della pastorale ed evitare il conservatorismo, occorre rifarsi alle affermazioni o ai paragoni di Cristo, nei quali emerge la perennità, la stabilità, l’immutabilità, l’incorruttibilità, l’eternità della Parola di Dio, come quando, per esempio, essa viene paragonata a un .«tesoro» [cf.   ], a una «perla preziosa» [cf.  ], a una «dracma» [cf.  ] o a una «roccia» [cf.  ]. È una parola che «non passa» [cf.  ]. È una parola di «vita eterna» [cf.   ]. Le cose preziose vanno conservate con cura e gelosamente. È un principio di buon senso, che tutti capiscono. E quanto più allora va conservato intatto ed integro, ad ogni costo, senza cambiamenti, senza correzioni, senza aggiungere e senza togliere, anche se con continue spiegazioni, quel messaggio divino di salvezza, che ci assicura e ci promette la vita eterna.

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Certo, il messaggio evangelico non è come un cibo deperibile, che si corrompe, se non è ben custodito e conservato. Esso infatti non teme l’usura del tempo o gli agenti corrosivi. Non è fatto di materia corruttibile, ma è puro spirito immortale. È un tesoro che, se ben custodito «il ladro non può rubare e la tignola non può sfondare». Chi può corrompersi è il suo possessore, che è infedele, negligente e trascurato nel conservarlo e custodirlo e quindi può anche perderlo. Ecco l’apostasia. Può male concepirlo e può travisarlo. Ecco le eresie. Può male amministrarlo. Ecco il rispetto umano, l’accidia e le trascuratezze dei pastori.

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Prosegue l’articolista: «Allo stesso modo, ha spiegato Francesco, “se noi vogliamo conservare per noi il grano, sarà un grano solo. Se noi non mescoliamo con la vita, con la farina della vita, il lievito, rimarrà solo il lievito”». Qui il Papa tocca un aspetto del conservatorismo. Egli ovviamente non nega che bisogni conservare il grano: altrimenti, come si fa a donarlo? Possiamo donare ciò che abbiamo conservato con cura.  Ma, se sono valori da donare, e questo è proprio il caso della Parola di Dio, bisognerà pur donarli. Sono le stesse parole di Gesù: «Se il chicco di grano non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» [Lc 12,24].

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Come accordare conservazione e progresso

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Può progredire il vivente che ha una propria stabile identità. Infatti il vero progresso è il miglioramento delle condizioni e dell’attività del soggetto. Il che suppone ovviamente la conservazione del soggetto. È vero che la vita è movimento, è divenire, è mutamento. Ma perché sia vera vita dev’essere sviluppo o esplicazione nella giusta direzione del soggetto preesistente. Il progresso il movimento dev’essere sano, ossia ordinato e ben guidato e non patologico, disordinato o sconclusionato. Anche un pazzo furioso è pieno di movimento, ma nessuno gli invidia la sua condizione.

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Il soggetto che divide o muta negando la propria identità ossia cessando di conservare se stesso, avvia un movimento che non comporta progresso, ma dissoluzione o disintegrazione. È il processo che conduce alla morte. È vero che il morto non esercita più le attività vitali. Tuttavia la rigidità della morte non esclude affatto nel cadavere un divenire che è la sua dissoluzione. Dunque il puro e semplice divenire, il semplice cambiare o mutare non è un bene in se stesso. Ogni divenire ha una direzione.

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Non c’è da fidarsi di un divenire confuso e contraddittorio. Per verificare se si tratta di progresso e non di corruzione, bisogna vedere dove tende. Se tende al meglio è progresso; se tende al peggio è regresso. Occorre insomma sia il divenire, lo sviluppo o l’accrescimento o il miglioramento di un soggetto che si suppone mantiene in essere nella sua propria identità. Altrimenti, il divenire non è vita, ma morte, non è progresso, ma regresso, non evoluzione ma involuzione, non avanzamento ma retrocessione, non decadimento.

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La preoccupazione di conservare la propria identità supposta sana, è una preoccupazione più che legittima e doverosa, che nulla ha a che fare col conservatorismo e non so quale «chiusura all’altro». Essa manca in soggetti masochisti e d Essa corrisponde a quello che nel regno animale è l’istinto di conservazione, senza del quale quell’animale sarebbe presto distrutto dagli agenti contrari.

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Occorre che il Papa, quale sommo custode, fautore, garante e moderatore dell’unità, della concordia e della pace nella Chiesa, si assuma le proprie responsabilità. Deve porsi nella posizione di giudice imparziale che gli spetta, facendo capo ai princìpi universali della Chiesa, così che entrambe le parti  conflitto — lefevriani e modernisti — possano riconoscersi come cattoliche.

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Occorre, in secondo luogo, che riconosca la parte di verità e di giustizia — accennata in questo articolo —, presente e portata avanti da entrambe le parti. Le due parti, accostate l’una all’altra, combaciano perfettamente, come le due metà di una sfera spezzata, perché Dio le ha create appunto perché, unite, facciano una cosa sola, che è la stessa realtà della Chiesa.

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Il Papa deve fare ogni sforzo perché le due parti si avvicino e s’incontrino, superando vecchi rancori, odî. e diffidenze. Deve abbandonare la sua attuale propensione per i modernisti, altrimenti non può pretendere di suscitare la fiducia dei lefebvriani e i modernisti resteranno confermati nei loro errori e assumeranno un atteggiamento arrogante, il che non porterà a nessun risultato. Il Papa deve fare in modo che i lefebvriani si sentano compresi e apprezzati nelle loro buone ragioni, cosa che il Papa finora non ha fatto, cadendo anzi nel disprezzo e nell’insulto. Essi, però, da parte loro, devono sforzarsi di accogliere fiduciosamente tutte le dottrine del Concilio, come li ha esortati più volte Papa Benedetto XVI e, per conseguenza, il magistero pontificio seguente fino a Papa Francesco.

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Per quanto riguarda i modernisti, il Papa deve seguire lo stesso metodo applicato per i lefebvriani: riconoscere i lati buoni e correggere i difetti. Lato buono dei modernisti, che è sfuggito ai lefebvriani, che lo hanno frainteso, è l’attenzione al pensiero moderno e la volontà di ammodernamento e di progresso della Chiesa. Ma se per la Chiesa è relativamente facile rimediare agli errori dei lefebvriani, tutto sommato pochi di numero e abbastanza compatti un fatto di dottrine e di costumi, impresa gigantesca e al di sopra delle forze della Chiesa appare l’opera di correzione degli errori dei modernisti, sia perché essi sono sparsi per tutta la Chiesa, tra i pastori e tra i fedeli, e sia perché gli errori sono svariatissimi e toccano tutti i dogmi della fede. Volendo fare un paragone tratto dalla nettezza urbana, il far pulizia in campo lefebvriano sta al far  pulizia in campo modernisti, così come il far pulizia in una città svizzera sta al curare la nettezza urbana di Napoli.

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Tuttavia un punto di accordo tra il Papa, i lefebvriani e i modernisti si potrebbe trovare attorno al problema Rahner. Infatti, mentre i modernisti considerano Rahner il loro più grande teologo, i lefebvriani hanno acutamente individuato in Rahner il pericolo maggiore per la Chiesa di oggi. A questo punto il Papa — sarebbe ormai ora — dovrebbe decidersi con coraggio, succeda quel che succeda,  a condannare gli errori di Rahner, dando una giusta soddisfazione ai lefebvriani e a tutti gli amanti della verità e della Chiesa. Tuttavia le cose non sono così semplici, perché in realtà Rahner dette un contributo alle dottrine del Concilio. È a questo punto che i lefebvriani passano dalla parte del torto e quindi bisogna che il Papa li corregga, perché essi considerano come modernista il contributo rahneriano al Concilio. Da qui il loro rifiuto di tali dottrine considerate come moderniste, il che è falso, perché i lefebvriani interpretano quelle dottrine nel senso del modernismo rahneriano; e invece lì Rahner dette un contributo positivo, altrimenti esso non sarebbe stato approvato dal Concilio. Se il Papa riuscirà a mostrare ai lefebvriani e ai modernisti i punti sui quali s’incontrano tra di loro e se gli uni egli altri accetteranno le correzioni pontificie, la pace sarà fatta.

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Lo Spirito Santo e la Madonna sostengano il Papa nella sua missione di guida della Chiesa nella verità, nell’unità, nella santità, in un sano pluralismo e nella concordia, in una rinnovata evangelizzazione, che allarghi i confini della Chiesa visibile, vinca le forze ad essa ostili, converta le religioni a Cristo, riconduca i fratelli separati alla Santa Madre Chiesa, mostrando al mondo il volto di Dio giusto vindice degli umiliati, misericordioso consolatore degli afflitti, liberatore degli oppressi, vincitore del peccato e della morte.

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Varazze, 14 settembre  2018

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Dalle donne cardinale all’apertura del processo di beatificazione della Serva di Dio Moana Pozzi. Colloqui in Borgo tra Ipazia e Brivido Cosmico

— il cogitatorio di Ipazia —

DALLE DONNE CARDINALE ALL’APERTURA DEL PROCESSO DI BEATIFICAZIONE DELLA SERVA DI DIO MOANA POZZI. COLLOQUI IN BORGO TRA IPAZIA E BRIVIDO COSMICO

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Alla compianta Moana Pozzi dobbiamo assegnare anche un patronato, affinché pure i gruppi esigui delle minoranze perseguitate abbiano dei propri Santi e Sante Protettrici. Bisogna proporre la ormai Serva di Dio Moana Pozzi come co-patrona dei Sacerdoti assieme a San Giovanni Maria Vianney, affidando ad essa il patronato della minoranza dei sacerdoti eterosessuali.

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Autore
Ipazia gatta romana

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Dinanzi ad una Chiesa visibile affetta da una decadenza dottrinale e morale irreversibile, è necessario aprire quanto prima la banca del seme

— attualità ecclesiale —

DINANZI AD UNA CHIESA VISIBILE AFFETTA DA UNA DECADENZA DOTTRINALE E MORALE IRREVERSIBILE, È NECESSARIO APRIRE QUANTO PRIMA LA BANCA DEL SEME

In questo momento dovremmo far tesoro delle parole del Cardinale Charles Journet [1891-1975] che nella sua opera Eglise du Verbe Incarné  spiega: «L’assioma “dov’è il Papa lì è la Chiesa”, vale quando il Papa si comporta come Papa e Capo della Chiesa; in caso contrario, né la Chiesa è in lui, né lui è nella Chiesa» .

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Rembrandt, Cristo con gli Apostoli sulla barca in tempesta

Il problema è disastroso, partiamo stemperando l’aria con un po’ di umorismo …

… rispondendo a un Cardinale che voleva rincuorarlo ricordandogli che secondo la promessa di Gesù Cristo la barca di Pietro non sarebbe stata preda della tempesta e che alla fine sarebbe giunta in porto, il Beato Pontefice Pio IX rispose: «È vero, ma il Signore ha parlato e dato garanzia per quanto riguarda la barca, non per quanto riguarda l’equipaggio» [cf. G. Cionchi, Il Pio IX nascosto, Ed. Shalom, 2000. QUI]. E con questa battuta del Beato Pontefice Pio IX, che in privato era dotato di uno spirito di umorismo a tratti esilarante, passiamo all’aspetto sia mistagogico che tragico. È sì vero che Cristo stesso ha promesso che la Chiesa sopravvivrà sino al suo ritorno alla fine dei tempi, ma il Verbo di Dio ci lascia anche un chiaro quesito su cui riflettere:

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Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? [cf. Lc 18, 8]

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Con estrema chiarezza il Beato Apostolo Paolo scrive agli abitanti di Tessalonica facendo uso di linguaggi e immagini drammatiche:

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Vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e della nostra comunione con lui di non lasciarvi così facilmente confondere nel pensiero e turbare né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente, affinché nessuno v’inganni in qualche modo. Prima infatti dovrà venire l’apostata e dovrà essere rivelato l’uomo iniquo, il figlio della rovina, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto fino a sedere nel tempio di Dio, ostentandosi come Dio. Non ricordate che, mentre ero ancora tra voi, venivano dette queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione affinché avvenga a suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto. Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga, finché esca di mezzo e allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con la luce della sua venuta, perché la presenza dell’empio avverrà nella potenza di Satana con ogni specie di portenti, di segni e prodigi di menzogna e con ogni sorta d’empio inganno per quelli che si perdono, perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. Perciò Dio invierà loro una giustificazione dell’errore affinché credano alla menzogna e così siano giudicati tutti coloro che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità  [2Ts 2,1-3.13-17]

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Rivolgendosi poi al discepolo Timoteo, il Beato Apostolo seguita a scrivere:

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Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero [II Tm 4,1-8].

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Quando il Beato Apostolo Giovanni scrisse il testo dell’Apocalisse nell’Isola di Patmos, nel versetto in cui egli narra …

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«È caduta, è caduta Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione» [Ap 13, 8].

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… facendo uso di un’immagine vetero testamentaria si rivolge all’Impero Romano, quindi a Roma celata dietro «Babilonia la grande», il tutto per motivi che chiunque può capire. Motivi legati in parte alla sicurezza e in parte alla diffusione del testo, onde evitare la loro distruzione da parte dei romani che all’epoca nutrivano forti sospetti verso il movimento gesuano e la relativa diffusione del suo messaggio.

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Trascorsi ormai duemila anni, viene da affermare che mai come oggi quel riferimento all’antica Roma celata dietro l’immagine di Babilonia sia attuale, posto che da tempo Roma «ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione» [rimandiamo agli ultimi articoli: QUI, QUI, QUI, QUI, QUI].

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Non intendo neppure sfiorare il mondo delle rivelazioni private, quelle riconosciute dalla Chiesa, nelle quali si parla da diversi secoli della grande apostasia. Con tutto il rispetto per le rivelazioni private riconosciute dalla Chiesa, ricordo che queste non sono racchiuse nel deposito della fides catholica, dove invece sono racchiusi i Santi Vangeli, le Lettere Apostoliche ed il Libro dell’Apocalisse che ci parlano del Principe di questo mondo [cf. Gv Giovanni 12, 31; 14, 30; 16, 11], dell’anticristo [I Gv 2, 18; 2, 22; 4,3; Ap 1, 13-18] e della grande apostasia [cf. II Ts 2, 1-12]. Già nell’Antico Testamento il Profeta Zaccaria preannuncia la venuta del pastore stolto:

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«Io susciterò nel paese un pastore che non si curerà delle pecore che periscono, non cercherà le disperse, non guarirà le ferite, non nutrirà quelle che stanno in piedi, ma mangerà la carne delle grasse e strapperà loro persino le unghie» [Zc 11,16].      

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Ma soprattutto è il Verbo di Dio stesso a porci il tragico quesito: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? [cf. Lc 18, 8]». Questo il motivo per il quale da anni, sebbene inutilmente, vado ripetendo che il giorno del proprio ritorno: «Quanto tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti», Cristo potrebbe anche trovare il guscio di una Chiesa completamente svuotata del Divino Verbo e riempita di altro. E questo processo di svuotamento e riempimento è in atto da oltre mezzo secolo ed oggi si trova in fase ormai avanzata, ma soprattutto irreversibile.

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I CUGINI DI CAMPAGNA

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il quartetto pop de I Cugini di Campagna

Provo tenero affetto per tutti i teologi ed i laici che erigendosi a difesa della purezza della dottrina dinanzi a questo immane sfacelo, seguitano a battagliare inutilmente contro il Modernismo e la teologia di Karl Rahner, quasi come se facendolo ormai da quarant’anni fossero rimasti fossilizzati su questo, senza rendersi conto che l’uno, il Modernismo, l’altro, il cosiddetto rahnerismo, oggi non sono più il problema. A volte mi sembra d’aver a che fare col complesso pop de I Cugini di Campagna, che seppure invecchiati, ma sempre vestiti con gli stessi abiti di moda a inizi degli anni Settanta del Novecento e con le zeppe da venti centimetri ai piedi, seguitano a cantare: «Anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura» [cf. QUI, QUI]. Sono certo che infine la canteranno per l’ultima volta dentro un reparto di geriatria e poi dentro un centro oncologico per malati terminali, perché per tutta la vita hanno cantato quel motivo e fino alla fine della vita seguiteranno a cantarlo vestendo abiti della moda di fine anni Settanta e con le zeppe da venti centimetri ai piedi; abiti coi quali saranno infine deposti dentro la bara, mentre fuori da essa i membri del loro fans club canteranno in coro: «Anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura».

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Forse, i Cugini di Campagna di certa nostra teologia, pensano che se un giorno un Sommo Pontefice ordinasse alla Congregazione per la Dottrina della Fede di sconfessare di nuovo il Modernismo e di dichiarare eterodossa la teologia di Karl Rahner, il problema sarebbe davvero risolto? Pensare o sperare in questo vuol dire essere non solo al di là della ragione, ma proprio oltre i confini della realtà. E chi non riesce a percepire la realtà perché impegnato a vivere fossilizzato nelle realtà che si è creato, non dico faccia del male alla Chiesa, ma certo non concorre a risolvere i suoi problemi ed a farle del bene.

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Con buona pace di chi seguita a perdere tempo sia con i Modernisti sia con la teologia di Karl Rahner — perché questo hanno fatto tutta la vita e questo devono seguitare a fare —, ciò di cui bisogna invece prendere atto è che i primi ed i secondi erano anzitutto dei credenti. Proprio così: i Modernisti e Karl Rahner erano dei credenti come lo erano i grandi eresiarchi della storia Ario e Pelagio. Sappiamo bene quanto la loro fede fosse corrotta dall’errore, ma nessuno di loro ha mai agito per recare del male alla Chiesa, tutt’altro: erano convinti di fare il bene della Chiesa e soprattutto di essere nel giusto e quindi sentivano il dovere di coscienza di salvarla. O risulta a qualcuno che il Concilio di Nicea verso Ario, in seguito Sant’Agostino dibattendo contro Pelagio, abbiano rivolto loro accuse di essere persone senza fede? Basti poi citare il caso di Gioacchino da Fiore il cui pensiero eretico fu condannato nel 1215 dal IV Concilio Lateranense, che però non mise mai in dubbio né la sua fede né la sua personale santità di vita. Gioacchino da Fiore, che pure era uomo di profonda pietà e santità di vita, non fu mai beatificato perché speculando sul mistero trinitario era caduto — in modo sicuramente involontario —, in una precisa forma di eresia che prenderà poi nome di gioachimismo o millenarismo. Ma si trattava di altri tempi, oggi che infatti i tempi sono cambiati, ci si sta invece accingendo a beatificare il vescovo pugliese Tonino Bello, le cui eroiche virtù sono costituite dal fatto che era un grande impegnato nel sociale, senza tenere in alcun conto che questo suo impegno era costruito sulla demagogia, sul populismo ed il pauperismo, oltre che su di un pacifismo acritico e sentimentale totalmente scisso dalla morale e dalla dottrina cattolica. In verità il Bello è un autentico ricettacolo di eresie per la gran parte scritte, pubblicate, filmate e registrate, ossia documentate; nonché diffusore di una cristologia che parte da Cristo per giungere all’uomo e incentrarsi sull’uomo, di una ecclesiologia che in modo eufemistico potremmo definire ardìta e di una mariologia da lui confusa con la romantica poesie. Però parlava di poveri e di povertà ed era un grande impegnato nel sociale; e ciò fa forse di lui un autentico beato? E Gioacchino da Fiore, allora, quando lo beatifichiamo?

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Volendo c’è di più e di peggio: se per la prima volta nel corso della sua storia la Chiesa procedesse alla beatificazione e poi alla successiva canonizzazione del primo vescovo eterodosso, i grandi soloni della logica aristotelica e della metafisica, a quali ingegnosi artifici interpretativi pensano di ricorrere, considerando che una canonizzazione, diversamente da una beatificazione, implica un pronunciamento del magistero infallibile? Perché queste, purtroppo, sono le domande alle quali per la prima volta nella storia della Chiesa siamo oggi costretti a rispondere; e trovare certe risposte non è facile e  per nulla agevole da un punto di vista strettamente teologico e dogmatico. Eppure, prima o poi, si dovrà rispondere a questo come ad altri quesiti, sebbene io mi aspetti che qualcuno non esiterà ad affermare, in nome di quella logica capace a spingersi al di là di ogni logica, che se subentra un pronunciamento del magistero infallibile — mi riferisco alla ipotetica canonizzazione di Tonino Bello —, questo pronunciamento annullerà e cancellerà in modo retroattivo ogni eresia palese e manifesta del canonizzato, perché chi si sarà pronunciato non può errare, è infallibile, quindi gode di una assistenza del tutto speciale dello Spirito Santo … forse sino ad essere al di sopra dell’ordine stabilito da Dio e quindi di Dio stesso?

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La domanda è pertanto a dir poco logica: dinanzi a una realtà del genere, a che cosa servirebbe fare battaglia contro gli errori di Gioacchino da Fiore, nato e vissuto tra il XII e il XIII secolo? Servirebbe esattamente tanto e quanto oggi può servire far battaglia contro i Modernisti e Karl Rahner. Perché per certi teologi e pensatori, il problema di fondo non è quanto Karl Rahner avesse torto da un punto di vista dottrinale. Il problema, ma soprattutto il traguardo da raggiungere, è altro: io ho ragione e sono nel giusto a dire da una vita che Karl Rahner è nell’errore ed ha torto. Insomma: ho ragione io che ormai da quarantaquattro anni seguito a cantare in tutte le salse: «Anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura».

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Detto questo proseguo dicendo: gli anziani teologi sono liberi di seguitare a tuonare contro i Modernisti e contro Karl Rahner. E siccome, di certi soggetti, io conosco sia la testardaggine sia la misura in cui hanno finito con l’innamorarsi sia delle loro buone battaglie sia della loro idea di verità, evito di perdere tempo inutile a spiegar loro che il problema odierno della Chiesa non sono né le eresie dei Modernisti né le pericolose eterodossie di Karl Rahner, perché ben altro è il problema che loro non vogliono individuare e vedere.

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Oggi, all’interno della Chiesa viviamo la tragedia auto-distruttiva di una disgregazione del deposito della fede e del dogma derivanti dal pullulare di un numero molto elevato di vescovi e di presbiteri che sono di fatto dei perfetti atei, dei non credenti. Dinanzi al dato oggettivo e incontrovertibile di questo ateismo, non sarò certo io a perdere il mio tempo prezioso dimenandomi tra modernismo e rahnerismo, paralizzato in dispute che oggi non servono a niente, considerando che la vita Dio me l’ha data per impiegarla e non per sprecarla in modo acritico e testardo sino alla fine. Certo, i diretti interessati potrebbero dire che a questo siamo giunti anche grazie al modernismo ed al rahnerismo. Bene, ma seguitare a ripetere questo, a quale realistica e logica soluzione oggettiva può portare, se non a … «Anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura» ?

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IL SUPERAMENTO DEL PUNTO DI NON RITORNO GENERA LA IRREVERSIBILITÀ

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nelle grandi decadenze c’è sempre una soglia che delimita il punto di non ritorno

Questi lottatori contro il Modernismo e Karl Rahner che cosa vogliono: la sconfessione di quel Modernismo già sconfessato dal Santo Pontefice Pio X e dai suoi due Successori, quindi la sconfessione di Karl Rahner, o più semplicemente che sia riconosciuta la giustezza delle loro posizioni teologiche in contrapposizione critica a quelle di Karl Rahner? Possibile che certi soloni della logica e della metafisica, persi nel loro mondo onirico e convinti di vivere in esso la massima aderenza con il reale umano ed ecclesiale, non riescano a capire che cosa comporti una situazione incancrenita e irreversibile come quella che stiamo vivendo? Possibile non giungano a capire che quando la decadenza che investe periodicamente le società civili e religiose ha superato il cosiddetto limite di guardia, indietro non si torna, perché a quel punto il processo irreversibile e inarrestabile procede a prescindere dalla volontà più o meno buona delle persone stesse o del poco che di buono resta all’interno di una Chiesa ridotta a struttura di peccato, che produce al proprio interno il peccato e che poi lo diffonde all’esterno? Qualcuno si è mai posto il problema di quanto oggi la Chiesa visibile possa avere perduta la grazia santificante a causa di un meccanismo di diabolico rifiuto sviluppato al suo interno? E non mi si venga a narrare in modo improprio che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo, di cui egli è capo e noi membra vive [cf. Col 1, 18], perché lo so. E siccome lo so, colgo l’occasione per ricordare che  Il Corpo Mistico è l’unione di fedeli, costituita sulla pietra angolare che è il Verbo di Dio, guidata attraverso i secoli dal Romano Pontefice, che è bene ricordare trattasi del successore del Beato Apostolo Pietro, non del successore di Cristo, di cui è Vicario sulla terra, non successore sulla terra. Il Corpo Mistico non è solo una unione morale costituita dal comune proposito, come in una società terrena potrebbe esserlo quella che in linguaggio giuridico è indicata come “persona giuridica”, ma è un insieme di anime, unite da un vincolo vivo e vitale che è la vita di Dio, partecipata a ciascuna di esse per mezzo dei Sacramenti. Non si tratta quindi di unione acefala, oppure guidata dalla gerarchia, che sono i vescovi uniti al Romano Pontefice, bensì di una realtà che sovrasta ogni nostra aspettativa umana, di cui Gesù Cristo stesso è Capo di questo Corpo, mentre i fedeli uniti a Lui nel vincolo della divina grazia, sono le membra. È così un corpo reale, spirituale, che ha la sua base in Gesù Cristo e nella grazia santificante, le cui membra o sono già unite nella gloria della Gerusalemme celeste oppure lo sono nella certezza di fede del Paradiso. Se però dal capo di questo corpo visibile è escluso Cristo e se dal corpo visibile viene meno la grazia santificante, qualcuno intende per caso chiedersi che cosa ne sarà di questo corpo visibile? E vi prego, non venitemi a dire che la Chiesa visibile non può perdere la grazia santificante perché è di Cristo ed è assistita dallo Spirito Santo, perché con tutto rispetto mi troverei costretto a rispondere che io sono un presbìtero ed un teologo e che come tale e in quanto tale non posso ragionare con la illogicità dei maghi che leggono i fondi delle tazzine di caffè. O non è forse per caso già accaduto che Adamo ed Eva abbiano alterata dopo la creazione la perfetta armonia dell’intero creato, dopo avere negata e rifiutata l’azione di grazia santificante di Dio su di loro? [cf. Gen 3, 15]. Detto questo, qualcuno pensa per davvero, in nome della propria dogmatica surreale, che la Chiesa visibile non possa rigettare ed escludere la grazia santificante perché essendo la Chiesa di Cristo ed essendo governata dallo Spirito Santo, Dio Padre non lo permetterebbe mai? Pensare, rassicurarsi e rassicurare il Popolo di Dio trasmettendo cose del genere è veramente aberrante, nel senso etimologico del termine aberratio. Come si può solo ipotizzare che la Chiesa visibile non sarebbe mai lasciata libera da Dio di rifiutare la sua grazia santificante, se Adamo ed Eva furono lasciati liberi di ribellarsi al Creatore? E se neghiamo questo, allora possiamo tranquillamente passare per davvero dalla teologia dogmatica alla magica lettura dei fondi delle tazzine di caffè!

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E ADESSO CHE SIA DATA RISPOSTA AL MIO PARADIGMA DEL PARACADUTISTA

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se ci si lancia senza paracadute è fisicamente impossibile arrestarsi, risalire sull’aereo, indossare il paracadute e lanciarsi di nuovo …

Certi soggetti non esiterebbero a rivoluzionare le leggi della fisica in nome della loro soggettiva verità e della loro altrettanto soggettiva logica, ma il quesito che costoro dovrebbero porsi è in fondo molto pratico e anche molto semplice: per uno spaventoso errore al quale possono avere anche concorso sia i modernisti sia i rahneriani, oppure per una negligenza a dir poco assurda, è accaduto che un paracadutista si sia lanciato dall’aereo senza avere indossato il paracadute. E questa è la situazione attuale della Chiesa: un lancio dall’aereo senza paracadute. Ebbene, i grandi maestri della logica aristotelica, della scolastica e della metafisica, a questo punto dovrebbero portare le migliori argomentazioni per spiegare che questo paracadutista, precipitando verso il suolo da duemila metri di altezza, può comunque arrestarsi, risalire, provvedere a indossare il paracaduto e lanciarsi di nuovo. Se poi questi soloni della metafisica risponderanno che egli si è lanciato senza paracadute per colpa dei Modernisti e di Karl Rahner, io replicherò che ciò, fosse anche vero, ormai è cosa del tutto irrilevante, perché la causa andava individuata e annientata prima che costui si lanciasse. Se poi, peggio ancora, dinanzi al paracadutista che precipita senza paracadute, coloro che non possono mai essere privi di una risposta “logica” per tutto, si attaccassero a dire che c’è lo Spirito Santo, a quel punto io replicherò che lo Spirito Santo non è Mago Merlino, quindi li inviterò a spiegare in che modo la Terza Persona della Santissima Trinità, dinanzi ad un libero atto singolo o collettivo della volontà dell’uomo che comporta delle precise conseguenze, annullerà la sua libertà ed il suo libero arbitrio per riportarlo sull’aereo, fargli indossare il paracadute e poi lasciarlo di nuovo lanciare, dopo avere nel mentre sconfessato i modernisti ed i rahneriani, per causa dei quali egli si è lanciato senza paracadute. O detta in altri termini: sarebbe come se Dio Padre avesse annullato in Adamo ed Eva la libertà e il libero arbitrio per impedire loro di ribellarsi al Creatore e commettere così il peccato originale. Perché Dio non l’ha fatto? Tutto sommato avrebbe evitato che costoro trasmettessero poi a tutto il genere umano una natura corrotta a causa di un peccato che i loro discendenti non hanno commesso, ma che a causa loro hanno però contratto. Cosa sarebbe costato a Dio intervenire, sospendere per pochi minuti la loro libertà ed il loro libero arbitrio? Ebbene, domandiamoci perché Dio non l’ha fatto, se davvero vogliamo essere uomini di fede e di logica, anziché uomini di fideismo e di illogicità ammantati dietro le più alte speculazioni della scolastica e della metafisica. 

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Se da una parte conosciamo bene i problemi generati dal Modernismo e da Karl Rahner, al di là dei quali siamo oramai andati da tempo, conosciamo però anche bene la miopia di certe persone che presumono di avere sempre pronta una risposta logica per tutto, sino ad annegare dentro al bicchiere d’acqua della illogicità, costasse pure attaccarsi a veri e propri colpi di magia dello Spirito Santo, quindi ignorando i due fondamenti che stanno a supporto del mistero stesso della creazione dell’uomo: la libertà ed il libero arbitrio.

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LA SIFILIDE E L’AIDS SONO DUE MALATTIE DISTINTE: L’UNA NON È AFFATTO LA CONSEGUENZA DELL’ALTRA

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tra la sifilide e l’AIDS non c’è alcuna connessione, sono due malattie separate e distinte l’una dall’altra

Andiamoci poi cauti, benché io stesso lo abbia in parte fatto, nell’affermare che il Modernismo e Karl Rahner sono la conseguenza del lancio del paracadutista senza paracadute, perché la cosa non è per niente logico-consequenziale. O per dirla con un altro esempio: poniamo che negli Stati Uniti d’America scoppi una vera e propria epidemia di AIDS. In tal caso, mentre le persone infette moriranno senza possibilità di cure e di vaccini efficaci contro questo morbo, a che cosa gioverebbe ostinarsi a parlare delle prostitute spagnole che nel XVI secolo hanno infettato con la sifilide i marinai di Cristoforo Colombo, che poi la diffusero nelle Nuove Americhe tra popolazioni che non ebbero mai a conoscere certe malattie prima del loro arrivo? Eppure posso garantire che a nulla serve spiegare a questi soggetti che il problema oggettivo della modernità non è la sifilide ma l’AIDS. Ancora meno servirà spiegar loro che tra la sifilide e l’AIDS non c’è alcun legame clinico scientifico, non c’è alcuna connessione, perché quest’ultima malattia non nasce come conseguenza degenerativa della precedente, ma si sviluppa in modo del tutto autonomo. Tempo perso! Costoro seguiteranno imperterriti a citare i casi dei marinai di Cristoforo Colombo che nel XVI secolo diffusero la sifilide nelle Nuove Americhe, perché quello hanno studiato, scritto e spiegato per tutta la vita, quindi questo intendono seguitare imperterriti a scrivere e spiegare: la Sifilide. O se meglio preferiamo: «Anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura». E se proprio devono prendere atto che oggi, il problema vero e serio, non è la sifilide ma le persone che muoiono di AIDS, a quel punto, senza curarsi di cadere nella illogicità scientifica, pur di seguitare a parlare delle loro amate e irrinunciabili teorie sulla sifilide, affermeranno senza pena di ridicolo che l’AIDS è la logica conseguenza della sifilide. Se poi qualcuno, dinanzi a certe espressioni illogiche gli riderà dietro, loro si sentiranno confermati più che mai nelle loro idee e per tutta risposta replicheranno: per forza costui ride, perché è un pericoloso sifilitico e come tale si è sentito scoperto e punto nel vivo.

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RIPARTIRE OGGI DALLA LOGICA ARISTOTELICA, DALLA SCOLASTICA E DA SAN TOMMASO D’AQUINO? PENSARLO È IRRAZIONALITÀ ALLO STATO PURO

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benvenuti nel mondo dell’irrazionale …

In una Chiesa visibile nella quale l’umorale e l’emotivo hanno preso il posto dell’oggettivo e del razionale, dove la legge è disprezzata con conseguenti accuse di “legalismo farisaico” rivolte a quanti invocano la applicazione delle norme canoniche, dove si ride dichiarandosi affetti da orticaria dinanzi ai rigori della “vecchia dottrina”, dove persino vescovi e presbiteri hanno preso il vezzo di usare le parole “dogma” e “dogmatico” in accezione negativa per indicare con questi lemmi persone chiuse ed ottuse, io faccio i miei migliori auguri a tutti coloro che oggi, dinanzi ad una Chiesa visibile nella quale l’arroganza è stata eletta a legge in un clima di anarchia totale, presumono di poter applicare la logica aristotelica ed i criteri della vecchia e gloriosa scolastica. Credo che queste persone meritino i migliori complimenti, come li meriterebbe chiunque presuma con certezza e seria convinzione di poter leggere i testi originali in ebraico del Libro della Genesi ed  testi dei Santi Vangeli nell’originale greco ad un arrogante analfabeta posto in un ruolo di governo, che lungi dall’essere consapevole del proprio analfabetismo si sente al contrario persona di alta cultura e come tale autorizzato a disprezzare la conoscenza altrui, esercitando al peggio della coercizione tutta l’autorità di cui è rivestito. Ma come si può pensare solo per scherzo di ripartire da Aristotele, dalla scolastica e dall’Aquinate, quando ad imporre il loro studio dovrebbero essere degli sprezzanti ed arroganti analfabeti che non conoscono il Catechismo della Chiesa Cattolica e che oggi occupano tutti i massimi ruoli-chiave del potere ecclesiale ed ecclesiastico?

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Perdendo quindi deliberato e inutile tempo, certi teologi si ostinano a spiegare che bisogna ripartire dalla logica aristotelica e da San Tommaso d’Aquino, come hanno raccomandato taluni Sommi Pontefici e taluni documenti del magistero, ignorando che le raccomandazioni di quei Sommi Pontefici sono cadute nel vuoto e che quei documenti di magistero sono stati completamente accantonati. E di perdere tempo inutilmente io non me la sento, specie considerando che dell’impiego della vita che mi è stata data dovrò risponderne a Dio, che non mi risulta ami particolarmente le inutili perdite di tempo o lo spreco dei talenti da Lui elargiti [cf. Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27]. Così lascio di buon grado questi soggetti onirici dibattere ad una platea di arroganti analfabeti sotto le rovine della casa che cade a pezzi affermando con assoluta certezza che bisogna ripartire dalla logica aristotelica, dalla scolastica e da San Tommaso d’Aquino, come diversi Pontefici vissuti decenni e decenni fa hanno raccomandato attraverso vari documenti del loro magistero. E qui domando: questi sapienti scolastici e tomisti, non si sono forse accorti che per meglio accantonare e distruggere questi documenti di magistero, si è escogitato persino l’insolito e originale escamotage di beatificare e canonizzare i Sommi Pontefici loro autori, distruggendo però al tempo stesso il loro magistero? E se non è diabolico questo, sinceramente non so proprio che cosa lo sia. A chi poi nutrisse dubbi a tal proposito, basterebbe chiedere di riflettere su che cosa oggi rimane della Enciclica Fides et Ratio o della Esortazione Apostolica Familiaris Consortio del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, che veniva canonizzato proprio mentre dall’altra parte si facevano letteralmente in pezzi questi documenti a lui particolarmente cari. Per seguire con l’imminente Santo Pontefice Paolo VI, che da una parte sarà canonizzato e dall’altra sarà data a breve nuova lettura e interpretazione della sua Enciclica Humanae Vitae, il tutto avvalendosi di gente come S.E. Mons. Vincenzo Paglia …

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… comunque, in questo clima di irreversibile sfacelo basterà ripartire dalla logica aristotelica, dalla scolastica e da San Tommaso d’Aquino, aggiungendo al tutto la Santa Messa celebrata col Messale di San Pio V, affinché la caduta libera senza paracadute sia finalmente interrotta, il paracadutista che sta precipitando verso il suolo possa essere arrestato nell’aria, riportato sull’aereo dallo Spirito Santo calato nel ruolo di Mago Merlino, quindi indossare il paracadute e poi lanciarsi di nuovo recitando: « introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam ». Quando poi dopo questa operazione sarà infine giunto sano e salvo a terra, prima gli offriremo un caffè, poi, dopo che avrà bevuto, potremo anche passare ad una lettura metafisica del fondo della tazzina.

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QUEL SUPER CONCILIO VATICANO II NATO CON LA SINDROME DI PROGERIE SUL QUALE PERÒ NON SI PUÒ DISCUTERE, IN UNA CHIESA NELLA QUALE SI DISCUTE DA TEMPO PERSINO SUI DOGMI DELLA FEDE

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nella foto l’adolescente americano Samuel Berns, affetto dalla sindrome di Progerie [malattia dei “nati vecchi”], in una foto scattata all’età di 17 anni, poco prima che morisse [tratta da Il Corriere della Sera, QUI]

Dopo un processo di incubazione che prende avvio a partire da fine Ottocento inizi Novecento, sul finire degli anni Cinquanta del Novecento ha preso vita una mutazione radicale della Chiesa, nascosta inizialmente sotto pretesti di riforma e di aggiornamento. E qui sorge un altro problema: la incapacità da parte di diversi studiosi cattolici di distingue il Concilio Vaticano II dal post-concilio, senza con ciò voler negare che certi documenti di impianto molto ottimistico, espressi per di più con un linguaggio del tutto nuovo che risente molto dello stile del romanticismo tedesco decadente, abbiano poi favorita la confusione che si è sviluppata nel post-concilio [vedere mio precedente articolo, QUI]. Se poi vogliamo guardare a quelli che sono certi limiti oggettivi del Concilio Vaticano II, possiamo limitarci a dire che i suoi documenti sono nati affetti dalla sindrome di Progerie, la cosiddetta malattia dei “nati vecchi”. E tali sono perché non parlano al futuro, ma all’uomo di un presente che stava già morendo. Del tutto diverso fu invece il Concilio di Trento, scritto nel XVI secolo, fautore di riforme e non di rivoluzioni, che ha avuto la capacità di parlare un linguaggio chiaro agli uomini dei successivi cinque secoli di storia della Chiesa. E chi questo pensa di poterlo negare, che lo neghi pure, ma lo faccia a rigore logico, non a rigore soggettivo-emotivo-ideologico, in questa miseranda e devastata Chiesa visibile nella quale il termine tridentino — riferito al Concilio di Trento — è ormai comunemente usato da vescovi, presbìteri e teologi in accezione altamente negativa, principalmente per indicare persone retrograde e ottuse.

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Anche quest’ultimo discorso è del tutto inutile al presente, perché da tempo siamo ormai parecchio al di là degli stessi problemi del post-concilio, come da tempo siamo ormai parecchio al di là di gran parte dei documenti stessi del Concilio Vaticano II, che essendo stati ammantati di ideologia spacciata per ecclesiologia, rendono impossibile a chicchessia l’apertura di sereni dibattiti scientifici mirati a dimostrare e chiarire quanto ormai certi documenti, scritti per un uomo di cinquant’anni fa che già stava morendo all’epoca in cui essi venivano redatti, oggi sono null’altro che dei testi vecchi, privi di attualità e scarsamente efficaci per parlare all’uomo del terzo millennio. E dopo questo concilio dei concili la Chiesa è stata infine imbalsamata nelle ideologie soggettive basate sull’idea di un super concilio che scuole teologiche, gruppi di persone o singoli, si sono infine ritagliati secondo i propri interessi e piaceri, dando vita ciascuno al proprio personale concilio egomenico.

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Per caso, c’è stato qualche cosa che non ha funzionato? Sicuramente. E il tutto proprio a partire dallo stile del linguaggio adottato dal Concilio Vaticano II, i documenti del quale, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, danno direttive ma non indicazioni precise, indicando semmai anche le pene per i trasgressori, quindi aprono le porte alle postume interpretazioni per la attuazione delle riforme. E quantunque per molti tutto vada bene e tutto sia andato bene, se noi prendiamo invece la prima delle riforme, che fu quella liturgica, alla prova dei fatti la realtà odierna è questa: se oggi entriamo in una delle nostre chiese, al presente sempre più vuote, troveremo dieci preti che celebrano il Sacrificio Eucaristico in dieci modi diversi. A questo si aggiungano anche i movimenti laicali che si sono creati delle liturgie proprie che sono un brulicare di abusi liturgici di ogni genere. Se poi nel 2004, a  quarant’anni di distanza dalla grande riforma liturgica, la Chiesta ha emanata la Istruzione Redemptionis Sacramentum [cf. QUI] nella quale si ricordano i fondamenti della Santissima Eucaristia, è evidente che qualche cosa, o forse molte cose, non sono andate poi così bene per il verso giusto.

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Questo qualche cosa che non ha funzionato bene e per il verso giusto, tra i vari nomi ne ha uno in particolare che racchiude in sé il grave e devastante problema: ermeneutica della discontinuità o della rottura, di cui come sappiamo sono potenti fautori i teologi della Scuola di Bologna, oggi grandi piazzatori di vescovi e di cardinali sotto questo Augusto Pontificato, dall’Europa sino alle Filippine. E quali sono le conseguenze di questa discontinuità o rottura? Molto semplice: tra pochi giorni un eretico conclamato, tale Enzo Bianchi, predicherà un ritiro spirituale mondiale al clero presso il Santuario di Ars, dove sono conservate le spoglie del Santo Patrono dei Sacerdoti, presente al grande evento anche il Prefetto della Congregazione per il Clero. E quando dei sacerdoti assieme al Prefetto della Congregazione per il Clero accorrono ad udire le perle di saggezza di un soggetto che semina da cinque decenni clamorose eresie, ben poco c’è da aggiungere, se non che presto risuoni la frase: «Tutto è compiuto» [Gv 19, 30].

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NOI CATTOLICI SUPERBI CHE NON ABBIAMO VOLUTO IMPARARE DALLE LEZIONI DELLA STORIA

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quei segni che ormai non siamo più capaci a leggere e interpretare: nel giorno in cui il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha fatto atto di rinuncia al sacro soglio, tre fulmini hanno colpito in successione la croce posta sulla palla della cupola dell’Arcibasilica di San Pietro, il terzo dei quali è stato fotografato e ripreso in video [cliccare sull’immagine per aprire il video]

Il problema reale è che da una struttura piramidale qualcuno ha smosso le pietre della base, causando il progressivo crollo della piramide dalle base sino alla punta. E mentre questo crollo è in atto, qualcuno sta seriamente dibattendo sulla urgente necessità di dichiarare quanto sia falsa la divinità di Anubi i cui affreschi realizzati in onore del suo culto si trovano in una delle sale interne della piramide. Insomma: sconfessiamo i Modernisti e Karl Rahner mentre tutta la piramide sta crollando, perché poi, con la loro condanna, a quel punto la piramide si rimonterà da se stessa dalla base sino alla punta estrema, perché la piramide è di Cristo ed è retta dallo Spirito Santo, quindi il Figlio e lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, provvederanno a quest’opera. E, come capite, dinanzi a chi la pensa a questo modo e dinanzi a chi ha degli approcci simili con la pneumatologia, siamo davvero alla metafisica trasformata in magia.

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Con una superbia che alla fine sarebbe stata inevitabilmente punita, noi cattolici ci siamo rifiutati di imparare dalle solenni lezioni della storia. Tutte le grandi civiltà antiche, dai sumeri agli assiro-babilonesi, dagli egizi ai greci sino alla caduta del grande impero romano, hanno innescato a un certo punto dei processi di decadenza irreversibili. E come ho spiegato col paradigma del paracadute, la decadenza è irreversibile quando supera il punto di non ritorno, quando ci si lancia dall’aereo senza paracadute; un fatto nato da un atto di più o meno libera scelta dinanzi al quale nessuno, neppure lo Spirito Santo, può intervenire sovvertendo tutte le leggi della fisica in soccorso dell’uomo libero e dotato di libero arbitrio.

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Tra non molto tempo, entro un ventennio al massimo, la Chiesa Cattolica come noi l’abbiamo conosciuta non esisterà più. Esisteranno piccoli nuclei sparsi per il mondo che avranno salvato i fondamenti del deposito della fede. Le grandi strutture ecclesiastiche saranno convertite in stabili destinati a tutt’altri usi, le gloriose e antiche chiese monumentali saranno musei, sale da concerto, centri di esposizione d’arte, o adibite a vari generi di attività profane. Se al Pontefice Regnante ne succedessero altri due o tre di simile o peggiore impostazione, presso la attuale Santa Sede troverà infine naturale dimora l’Unione Spirituale delle Chiese Socio Cristiane, scopo delle quali sarà di portare avanti attività mondane sociali, benefiche e filantropiche, il tutto con la benedizione della Società delle Nazioni Unite. I bambini delle scuole riceveranno qualche scarna notizia su un certo Gesù Cristo come oggi ricevono notizie sui faraoni egizi o sui primi re di Roma, con il discorso interamente incentrato sulla sua umanità e non sulla sua divinità. Ma soprattutto, di quella che fu la Chiesa Cattolica, sarà tramandato ai posteri il meglio del peggio delle leggende nere che la renderanno simile ad una delle più grandi associazioni di criminali esistite nel corso degli ultimi duemila anni di storia, fintanto che ella non si purificò da tutte le sue antiche brutture uniformandosi al mondo e seguendo le regole del mondo, divenendo la Chiesa dell’uomo per l’uomo che ha messo finalmente l’uomo al proprio centro.

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Qualcuno potrebbe dire che oggi occorrerebbe un nuove Gregorio o un nuovo Leone Magno. Chi però pensa questo, per usare l’immagine del cosiddetto transfert freudiano, trasferisce l’immagine di Mago Merlino al quale è stato ridotto spesso lo Spirito Santo, con l’immagine di un Sommo Pontefice che sia egli stesso un Mago Merlino. Infatti, in una situazione di totale e inarrestabile decadenza ecclesiale, morale, spirituale e dottrinale, che cosa mai potrebbe fare un Gregorio o un Leone Magno redivivo? Forse potrebbe governare la Chiesa con gli squallidi e immorali personaggi che brulicano numerosi tra i presbìteri, tra i vescovi e tra i cardinali? O forse potrebbe governarla e purificarla con un esercito di vescovi e presbiteri che per alto e inquietante numero sono omosessuali praticanti, come dimostrano inconfutabilmente i fatti, non certo le malevole supposizioni? È presto detto: nell’ipotesi migliore, un potenziale Gregorio o Leone Magno farebbero in breve la fine del Sommo Pontefice Celestino V.

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Ma per la santa carità: ci vogliamo rendere conto che tutta l’intera struttura ecclesiastica e gerarchia è ormai totalmente infetta dalla coda sino al capo?

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Bisogna quindi dare ragione a tutti coloro che sulla scia del nuovo corso urlano eccitati «indietro non si torna!». Hanno ragione, purtroppo. Io stesso debbo essere d’accordo con loro: «Indietro non si torna». Ma se però un coraggioso Sommo Pontefice che non so proprio dal cilindro di quale prestigiatore potrebbe essere tirato fuori, condannasse il Modernismo e Karl Rahner, ripristinasse gli studi della buona scolastica, della metafisica e del tomismo, tutto si risolverebbe per magico incanto. Sempre per tornare al paradigma del paracadute …

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LA BANCA DEL SEME

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quei segni che nessuno legge e interpreta più: Angelus il Piazza San Pietro, il Sommo Pontefice fa lanciare da due bimbi due colombe, che pochi istanti dopo vengono attaccate ed uccise da un corvo e da un gabbiano, mentre il Santo Padre congedava la folla augurando «buon pranzo» anziché congedarci con un «Sia lodato Gesù Cristo» [cliccare sull’immagine per aprire il video]

Mentre questo si sta realizzando, mentre dinanzi alla concretizzazione del disastro c’è chi non trova di meglio da fare che invocare condanne dei Modernisti e di Karl Rahner, in attesa che lo Spirito Santo, non più sotto forma di colomba o di lingue di fuoco ma appunto sotto forma di Mago Merlino, sistemi tutto con un colpo di magia, io penso sempre di più all’isola della Norvegia dove si trova l’istituto che conserva 84.000 campioni appartenenti a più di 60 generi e 600 specie di piante coltivate e specie selvatiche minacciate da “erosione genetica” o estinzione.

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Questo è il nostro compito: salvare i semi del Vangelo di Gesù Cristo Verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo. Se infatti lo stabile di una chiesa prendesse a fuoco, il presbìtero che cosa deve fare immediatamente? Togliere il Santissimo Sacramento dal tabernacolo e mettersi in salvo col tesoro più prezioso. E se in una biblioteca di testi sacri scoppiasse un incendio e quei testi fossero destinati ad andare perduti per sempre, qual è il primo testo che si corre a salvare: il Santo Vangelo, oppure l’Etica nicomachea di Aristotele e la Summa Teologica di San Tommaso d’Aquino? Che cosa ce ne facciamo di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino senza il Santo Vangelo?

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La Chiesa, anche se ridotta ai minimi termini e ad una sparuta minoranza di persone silenziose disseminate per il mondo, torni a germogliare in tutta la sua purezza, chissà mai tra quanti secoli. E forse sarà allora, che Cristo tornerà nella gloria per giudicare i vivi ed i morti: al momento della rinascita. Invece, se Cristo tornasse nella gloria per giudicare i vivi e i morti in questo momento di totale e decadente disgregazione, il suo giudizio sarebbe veramente terribile, proprio come Egli stesso ci ha detto:

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«In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città» [Mt 10, 15]. «Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? No, fino agli inferi sarai precipitata!» [Lc 10, 13-15].

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La misericordia di Dio si manifesta a questo modo, ed è una misericordia diversa dalla misericordia dei giorni nostri, svuotata di Dio e riempita dei peggiori capricci mondani dell’uomo. Proprio come il Vangelo, al quale facciamo dire di tutto, pur di nascondere ciò che dice, grazie ad una Chiesa visibile che ormai mostra al mondo di vergognarsi dei veri contenuti del Santo Vangelo, implorando perdono al mondo per i contenuti chiari, precisi e severi racchiusi nel Santo Vangelo e nelle Lettere Apostoliche. Bisogna pertanto puntare alla banca del seme, per la Chiesa che poi un giorno verrà, forse poco prima del ritorno di Cristo Signore alla fine dei tempi. E se noi salveremo i semi del Santo Vangelo, allora un giorno, forse tra alcuni secoli, rifiorirà anche la grande letteratura dei Santi Padri e Dottori della Chiesa.

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PUÒ UN ROMANO PONTEFICE LEGITTIMAMENTE ELETTO E SUCCESSORE LEGITTIMO DEL BEATO APOSTOLO PIETRO ESSERE PRIVO DELLA GRAZIA DI STATO ?

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In questo momento dovremmo far tesoro delle parole del Cardinale Charles Journet [1891-1975] che nella sua opera Eglise du Verbe Incarné  spiega: «L’assioma “dov’è il Papa lì è la Chiesa”, vale quando il Papa si comporta come Papa e Capo della Chiesa; in caso contrario, né La Chiesa è in lui, né lui è nella Chiesa» .

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Anche in questo caso sono stanco di dibattere inutilmente con coloro che in modo deciso e assoluto negano di prendere solo in vaga considerazione l’ipotesi che un Sommo Pontefice possa essere chiuso alle azioni di grazia dello Spirito Santo, su di lui riversate con indubbia abbondanza, ma che in lui ed attraverso di lui possono operare solo se egli accetta i doni di grazia e li mette a frutto. Ecco allora che questi soggetti si arrampicano sugli specchi del loro totale rifiuto, ed a questo problema reagiscono confermando e sostenendo come dei juke box a gettone la cantilena … «Si, però il Sommo Pontefice non può mai errare quando si pronuncia in materia di dottrina e di fede, è dogma, dogma, dogma!».

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Domanda rivolta ai grandi soloni della metafisica e della dogmatica: ma è la grazia di Dio che parla e agisce attraverso di lui, od è invece lui che agisce a prescindere dalla grazia, giacché essendo magicamente non defettibile in materia di dottrina e di fede, può esprimersi infallibilmente anche se chiuso alla grazia e fuori dalla grazia santificante di Dio? Perché in tal caso non siamo né dinanzi alla metafisica né dinanzi alla dogmatica, ma dinanzi alla magia. È infatti la magia che in sé e di per sé è totalmente irrazionale, mentre la dogmatica ed il dogma non sono affatto irrazionali, si edificano su principi razionali, per quant’è vero che il Verbo s’è fatto carne, non s’è fatto pensiero vaporoso.

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Dinanzi a queste forme di chiusura al ragionamento che sono la conseguenza della fuga dalla realtà da parte di tutti coloro che presumono di avere sempre una decisa risposta logica per tutto, salvo rinchiudersi in quattro formule protettive quando di risposte da dare al momento non ve ne sono, torno a ripetere che non siamo nell’ambito né della metafisica né in quello della dogmatica, ma nell’ambito della magia, se non peggio dello gnosticismo. Come può infatti lo Spirito Santo, attraverso le sue azioni di grazia, annullare la volontà o la non volontà dell’uomo, vale a dire la sua libertà ed il suo libero arbitrio, per sdoppiarlo a proprio piacimento e renderlo così all’occorrenza totalmente indefettibile, qualora la sua natura non fosse liberamente aperta alla grazia di Dio? Perché se ciò avvenisse, in tal caso Dio entrerebbe in contraddizione con il mistero della creazione e quindi con sé stesso per opera dello Spirito Santo, ed in tal caso il nostro Dio sarebbe un dio magico, un dio gnostico. Il tutto sempre per tornare alle grandi menti speculative che di fronte a problemi sino a pochi anni prima inimmaginabili, ma purtroppo oggi reali, anziché speculare veramente si rinchiudono dentro la gabbia delle loro quattro formule dogmatiche ribadendo decisi e inamovibili dinanzi alla tragica evidenza dei fatti: «… è indefettibile, non può errare, è dogma, dogma, dogma!». E qui merita ricordare che i dogmi non sono gabbie per uomini che rivendicano a un certo punto il diritto a non ragionare, ma sono il cuore più profondamente ragionato del mistero della fede, perlomeno stando ad un grande maestro della scolastica, Sant’Anselmo d’Aosta, che afferma in che misura «la fede richieda l’intelletto e l’intelletto la fede» [Fides quaerens intellectum. In Prosl., Proemio], ed ancora: «Credo per comprendere, comprendo per credere» [credo ut intelligam, intelligo ut credam]. E questi due sono i fondamenti portanti della filosofia scolastica, la quale mai, a proprio fondamento, ha posta la magia.

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Ebbene vi confesso che di questa gente sono stanco. Sono stanco di coloro che dinanzi ad un incendio in una biblioteca di testi sacri destinati ad andare perduti per sempre, si precipiterebbero a salvare il testo Iota Unum di Romano Amerio mentre il Santo Vangelo brucia. Come del resto sono un po’ stanco in generale, tanto da chiedermi con una certa frequenza: merita seguitare a speculare, analizzare e scrivere, oppure sarebbe più opportuno rinchiudersi per tutta la vita che mi resta in una certosa con voto di assoluto silenzio, dedicandomi alla preghiera e alla penitenza sino alla morte? Nel mese di agosto, pochi giorni dopo il compimento del mio 55° compleanno, mentre il tempo scorre mi sono proposto più che mai di lavorare ad impiegare bene tutto il tempo di questa vita che mi separa dalla morte, né intendo sprecarlo per difendere l’indifendibile o per salvare l’insalvabile, meno che mai per esporre la mia dignità umana e sacerdotale al pubblico ridicolo pur di cercare nei documenti del Sommo Pontefice Francesco I ciò che egli non ha mai detto e scritto, tirando fuori a tutti i costi da essi il buono che proprio non c’è, attraverso artifici interpretativi che hanno invero del patetico, perché non gli si può mettere sulla bocca quel che di buono non ha detto dopo avere fatto il processo alle sue più profonde intenzioni. Dinanzi all’indifendibile le soluzioni sono tre: i rimproveri e le denunce di San Giovanni Battista, il quale come sappiamo perse la testa; la analisi speculativa della situazione per ciò che è, non invece per ciò che vorremmo che fosse; il completo ritiro dal mondo e il voto di totale silenzio per tutta la vita. Sono tre modi diversi ma tutti efficaci per operare al meglio in questa situazione disastrosa e irreversibile. Per adesso io ho scelto la prima soluzione, il modello Giovanni Battista, ma potrei anche decidere di scegliere la terza, con efficacia forse persino maggiore.

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Il problema, non è infatti lieve: come possiamo, noi, interpretare colui che dovrebbe essere il custode e l’autentico interprete della fede? O duole proprio molto a certe menti dover accettare ed ammettere che il custode della “magica infallibilità”, da cinque anni a questa parte ha dimostrato con le sue deliberate e per nulla involontarie ambiguità, di aver fatto esplodere nella Chiesa il relativismo teologico e morale, assieme allo sconcerto e alla divisione, come mai prima s’era visto nella Chiesa visibile? Possibile che tra i soloni della grande teologia, non ce ne sia uno solo che si ponga un quesito, semmai destinato a rimanere senza risposta, vale a dire questo: potrebbe verificarsi un caso nel quale un Sommo Pontefice, chiuso alle azioni della grazia santificante dello Spirito Santo, finisca col risultare privo della grazia di stato che è propria del suo alto ufficio, semmai con tutte le conseguenze che oggi abbiamo sotto gli occhi, il tutto a prescindere dalla sua legittima elezione e dal ruolo da egli altrettanto legittimamente occupato?

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E con questo è presto detto, cari e numerosi Lettori, che su questo quesito si potrebbe giocare anche la sopravvivenza stessa de L’Isola di Patmos, posto che io non vi prenderò mai in giro, perché «Dio vi ha affidati a me», ed un padre non può né mai deve prendere in giro i figli che domandano conforto, aiuto e sostegno nella prova, pur di non affrontare gli spettri dei Dèmoni che ci volteggiano attorno e che ci spaventano moltissimo in questa notte buia.

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In questo momento la nostra salvezza è racchiusa nella virtù teologale della speranza, sulla quale scrissi abbondantemente nel 2014 [vedere QUI]. La speranza è la grande virtù mediana che lega assieme fede e carità. E siccome io sono stato istituito a servizio del Popolo di Dio ed immesso col sacerdozio nella paternità universale, a questo Santo Popolo intendo offrire la via della speranza, mai però la via dell’illusione, proprio perché sono un sacerdote di Cristo, non uno spacciatore di acidi allucinogeni, ma soprattutto perché considero quello di Dio un Popolo Santo, non un popolo bue al quale dare una carezza e un’aspirina mentre un cancro in fase terminale corrode da tempo il nostro corpo ecclesiale ed ecclesiastico, mentre la Chiesa visibile è già nell’anticamera di un obitorio ridotto per l’occasione ad un circo equestre di pagliacci, nani e ballerine.

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dal’Isola di Patmos, 9 settembre 2018

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

L’umiltà come principio del realismo gnoseologico

― I saggi estivi de L’Isola di Patmos  ―

L’UMILTÀ COME PRINCIPIO DEL REALISMO GNOSEOLOGICO

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L’umiltà è radicalmente virtù dell’intelligenza, con la quale essa, riconoscendosi dipendente dall’essere, ordinata all’essere e al di sotto dell’essere, si apre al reale, sta soggetta al reale e in ascolto dei suoi impulsi, si lascia formare dal reale e si adegua al reale: adaequatio intellectus et rei. Questa adaequatio è atto dell’intelletto, ma la volontà vuole che l’intelletto si adegui. La prima, fondamentale umiltà è obbedire alla realtà, ossia alla verità.

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PDF  saggio formato stampa
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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

È curioso come nel secolare confronto fra realismo e idealismo ci si sia sempre fermati da parte di ambo i contendenti, su considerazioni e confutazioni di mero ordine teoretico, peraltro spesso interessanti e profonde; ma non ci si sia mai preoccupati da ambo le parti di chiarire il rapporto esistente fra realismo e idealismo da una parte e, corrispettivamente, dall’altra, il rapporto fra umiltà e superbia, approfondendo e motivando il fatto che mentre l’umiltà dà luogo al realismo, l’idealismo, soprattutto nel suo sbocco panteista, è frutto della superbia. Per la verità, la dialettica umiltà – superbia è tradizionale nell’etica cristiana; ma non così nell’etica idealista, che preferisce contrapporre servitù a libertà. È chiaro che ciò che per il realismo è superbia, per l’idealista è l’audacia del pensiero, che si erge oltre ogni limite e per la sua forza incontenibile si eleva fino all’orizzonte infinito dell’Assoluto, anzi, che rivela la propria assolutezza celata sotto l’apparenza dell’empirico.

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Così per l’idealista, il realista è ingenuo, schiavo del pregiudizio dell’esistenza di un mondo esterno, di leggi naturali che coartano la libertà dello spirito e di un Dio trascendete, ultra-mondano, punitore e premiatore di una condotta meschinamente interessata e servile. Ammettere una trascendenza dell’essere nei confronti del pensiero, per l’idealista vorrebbe dire rendersi schiavi di questo essere; mentre per lui l’essere dev’essere liberamente posto dal pensiero e regolato dal pensiero.

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Come non c’è via di mezzo o mediazione fra umiltà e superbia, così non esiste una posizione intermedia o mediatrice fra realismo e idealismo, così come non esiste mediazione tra il sì e il no, tra l’essere e il non – essere. Alcuni, come Leibnitz, Wolff, Schelling, Husserl e Bontadini, hanno pensato che si tratti di due opposti estremismi, per cui si sono ritenuti in dovere di stabilire una posizione mediana; ma senza alcun risultato, se non quello di giustapporre delle tesi in contraddizione fra di loro.

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In tal modo, nella storia della gnoseologia, ossia delle dottrine della conoscenza, troviamo sostanzialmente due scelte o orientamenti di fondo: o il realismo o l’idealismo. E questo perché? Perché il conoscere comporta il rapporto fra l’idea e la realtà. L’alternativa si pone quando ci chiediamo qual è l’oggetto della conoscenza. L’oggetto può essere o l’idea o la realtà. Se poniamo che l’oggetto è l’idea, abbiamo l’idealismo. Se poniamo che è la realtà, abbiamo il realismo. Qual è la concezione giusta? È il realismo, perché l’idea è mezzo e non fine od oggetto del conoscere. Infatti, ci serviamo delle idee per raggiungere o cogliere il reale, il quale dunque è l’oggetto del conoscere. L’idea può essere oggetto del conoscere, ma in seconda battuta, successivamente, dopo che abbiamo conosciuto il reale o la cosa o l’ente, riflettendo sul mezzo interiore, del quale ci siamo serviti o che abbiamo formato per conoscere l’oggetto.

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La via alla verità del conoscere è l’umiltà, la quale consiste nel sottomettere l’intelletto alle cose, all’essere, al reale. E questo è appunto il realismo. Ma l’umiltà conduce all’obbedienza, perché l’umiltà è quella virtù che ci rende consapevoli di essere dipendenti da un superiore. L’anima ― dice Santa Caterina da Siena ― «tanto è obbediente, quanto umile e tanto umile quanto obbediente» [1] [c. 154]. Noi siamo in basso [humus] ed egli è in alto. Ma è in alto non per opprimerci, ma al contrario, perché ci vuol beneficare, ci vuole innalzare a sé, donare a noi ciò che ha lui. L’umile è così aperto e disponibile a ricevere, ad accogliere il bene che il superiore vuol donargli, a conformarsi alle sue direttive, attento ai suoi comandi o ai suoi incitamenti.

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L’umile, che riconosce questa sua soggezione, è pronto ad obbedire, ossia a fare ciò che il superiore gli comanda. L’umiltà conduce alla grandezza, ossia a partecipare di ciò in cui il superiore è superiore, accogliendo quel bene che è proprio del superiore e che ora, obbedendo, diventa suo. In tal senso San Paolo dichiara di «rendere ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo» [II Cor 10,5].

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L’umiltà è radicalmente virtù dell’intelligenza, con la quale essa, riconoscendosi dipendente dall’essere, ordinata all’essere e al di sotto dell’essere, si apre al reale, sta soggetta al reale e in ascolto dei suoi impulsi, si lascia formare dal reale e si adegua al reale: adaequatio intellectus et rei. Questa adaequatio è atto dell’intelletto, ma la volontà vuole che l’intelletto si adegui. La prima, fondamentale umiltà è obbedire alla realtà, ossia alla verità. Umiltà, poi, di conseguenza, sarà l’atto del volontà col quale essa mette in pratica il bene conosciuto dall’intelletto. L’umiltà sfocia nella carità. Viceversa, il rifiuto cartesiano di fondare il sapere e la certezza sull’ adaequatio alle cose esterne, è una forma di disobbedienza al reale, che è segno di superbia. È inoltre una posizione auto-contraddittoria, perché la sua conclamata volontà di trovare la verità lo obbliga a praticare l’ adaequatio; ma nel momento in cui pratica l’ adaequatio per negare l’ adaequatio, dimostra che quella volontà è insincera.

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L’idealismo introduce così nel pensiero, con la negazione del principio di non-contraddizione, al di là della retorica hegeliana della «riconciliazione», un’intima, voluta ed insanabile lacerazione interiore, e introduce quindi un principio di disonestà e di doppiezza nel pensare e nel parlare. Del resto, Cartesio irrideva al principio di identità, considerandolo cosa vuota e inutile. L’idealismo, sotto l’apparenza della «scienza» ed anzi spacciandosi per il «sapere assoluto», che non è altro che la gnosi, è così aperto a tutti i trucchi della sofistica ed all’arte del più raffinato inganno.

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La volontà umile e leale, invece, obbedisce al reale per mezzo dell’intelletto. Così si esprime l’amore per la verità. Esso comporta umiltà e obbedienza. La volontà lascia che il reale agisca sull’intelletto, che lo attui, che lo fecondi, che lo determini. Così l’intelletto si innalza, si eleva: da vuoto diventa pieno, pieno dell’oggetto conosciuto.

 

L’ATTEGGIAMENTO DELL’IDEALISTA

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Nell’idealismo l’intelletto non si assoggetta, ma comanda. Non si ritiene al di sotto dell’essere, ma al di sopra. L’essere dipende da lui perché l’essere è l’essere pensato da lui. Questo è l’atteggiamento della superbia, la quale comporta il moto esattamente opposto a quello dell’umiltà: mentre nell’umiltà l’intelletto si assoggetta all’essere, nella superbia l’intelletto vuol assoggettare a sé l’essere. L’inferiore vuol stare al posto del superiore.

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Come Adamo, vuol decidere lui, al posto di Dio, ciò che è bene e ciò che è male [cf. Gen 3,5]. Non più dunque l’adeguamento al comando divino, ma la disobbedienza, la quale appunto, come insegna Santa Caterina, «viene dalla superbia, che esce dall’amore proprio di sé, privandosi dell’umiltà» [2] [c. 154]. Occorre peraltro distinguere, con Santa Caterina, un duplice rivolgersi dell’io su se stesso: quello che lei chiama «conoscimento di sé», e da questo nasce l’umiltà: «L’umiltà esce dal conoscimento di sé» [3]; «nel conoscimento di te ti umilierai, vedendo te per te non essere e l’essere tuo cognoscerai da Me» [c. 4]. In questa autocoscienza il mio pensiero si subordina al mio essere, il quale è prova dell’esistenza di Dio. Il cognoscimento di sé fonda un’autocoscienza realistica, perché l’io appare come reale, indipendente dall’atto di pensarlo e non come semplice pensato. Santa Caterina inoltre parla anche di un’altra autocoscienza, che è «l’amor proprio di sé», che dà origine alla superbia [c. 38]. E la superbia, dal canto suo, toglie il «cognoscimento di sé», che è la sana autocoscienza del realismo, fondata sulla conoscenza delle cose, e guidata dall’umiltà. Infatti, il sé posto dall’amor proprio di sé non è oggettivo, indipendente dall’atto di pensarlo, ma è il sé assolutizzato dell’idealista.

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Invece la sana autocoscienza realistica conduce alla scoperta di Dio [c. 128]. Il realismo, che comporta l’aderenza, l ’adaequatio, l’obbedienza alle cose, dà la certezza iniziale del sapere, ed apre, nell’umiltà, l’occhio dell’intelletto alla verità sull’io, sul mondo e su Dio. Viceversa, «L’amore proprio offusca l’occhio dell’intelletto» [c. 136], perché l’io, ritenendosi autosufficiente e principio primo del sapere della certezza, diventa autoreferenziale, non sta aperto alla realtà oggettiva, ma si chiude superbamente in se stesso e nelle proprie idee. Al posto dell’ontologia nasce l’ideologia. Ma con ciò stesso, se l’idealista crede di vedere, ma in realtà si acceca. Si priva di quella che Santa Caterina chiama la «santa discrezione», che si può chiamare anche “discernimento”, ossia quella virtù intellettuale, eventualmente arricchita dai doni spirituali dell’intelletto e della sapienza, per la quale l’intelletto o la ragione, nutriti di esperienza, e prudenti nella riflessione, sulla base dei valori oggettivi, distinguono, nelle situazioni concrete, il vero dal falso e il bene dal male. Per converso, l’«indiscrezione» è effetto dell’amor proprio [cf. c. 121].

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Con l’amor proprio mi attacco al mio io come fosse Dio. Non mi riconosco come creatura, ma assolutizzo il mio io come se non dipendesse da nulla. Non conosco la verità, ma “sono” la verità. Il mio io, il mio pensiero non sono fondati, ma fondanti. Il mio pensiero non presuppone più il mio essere, ma lo fonda, perché identifico il mio essere col mio esser pensato da me.

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Per l’idealista la realtà è l’idea che io ho della realtà. Sono infallibile, perché il mio pensiero coincide con l’essere. L’essere, infatti, è l’essere pensato da me, è la mia idea, è l’essere pensante che sono io. Io non sono un io che può pensare, ma un io pensante. Essendo il pensante identico all’essere, perché l’essere è idea, è essere pensato, io divento pensiero sussistente e con ciò stesso essere sussistente che pensa se stesso. Autocoscienza assoluta. Per l’idealista io esisto da me stesso, non da altro. Non dipendo da nessuno, ma solo da me stesso. Penso da me stesso, non perché ho attinto a una realtà esterna. L’idealista non tiene conto del fatto che, se nell’atto di pensare me stesso, mi colgo pensante, è perché penso una realtà esterna. Essa — quella che San Tommaso chiama quidditas rei materialis — infatti è l’oggetto iniziale del sapere. Dunque nel sapere parto da essa e non da me stesso pensante. Essa e non me stesso è la prima certezza.

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IL DUBBIO TOMISTA E IL DUBBIO CARTESIANO

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È vero che la certezza spirituale è più forte di quella sensibile delle cose fuori di me. Tuttavia, questa certezza più nobile la otteniamo partendo dalle umili ma inoppugnabili certezze sensibili, che sono invalidate solo dalla patologia psichica, per cui non c’è assolutamente alcuna ragione di metterle in dubbio. Per questo, il dubbio cartesiano è un dubbio irragionevole, assurdo e ipocrita, dato che non sorge dall’umiltà realistica di accogliere le cose come sono e il valore delle idee che le rappresentano, ma dalla superbia di non volersi abbassare ad accettare quelle umili benché saldissime certezze. Eppure è Dio stesso Che ci offre lo spettacolo meraviglioso della natura e di tutte le creature sensibili, dalle quali soltanto [cf. Rm 1, 20] possiamo arrivare, per analogia, alla scoperta dello spirito, dell’io pensante e di Dio stesso. Dunque il mettere deliberatamente in dubbio e scartare quelle certezze, scambiarle per illusioni o falsi punti di partenza, è stato in Cartesio un atto di folle superbia e di stoltezza, mascherato dal pretesto di fondare e far partire il sapere dalla certezza dello spirito e non da quella dei sensi. Ma così Cartesio si è gettato nell’abisso ― quello che Kant chiamerà il «baratro della ragione» [4] ― pretendendo poi di essere soccorso da Dio.

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Lo dimostra la storia del pensiero che nasce da lui, fino a Fichte, Schelling, Hegel, Husserl, Nietzsche ed Heidegger. Il rifiuto della certezza iniziale del senso, la pretesa di darsi presuntuosamente da sé la certezza, anziché riceverla umilmente dalle creature e quindi da Dio, è pagata alla fine al caro prezzo dello scetticismo totale e del nichilismo della modernità. Anche San Tommaso sostiene la legittimità ed anzi la necessità di una universalis dubitatio de veritate [5] per dar inizio alla filosofia; ma la avanza come semplice ipotesi, del tutto assurda, da non prendere sul serio e da non esercitare come invece ha fatto Cartesio. Per questo, per l’Aquinate vi è certezza di esistere perché si pensa e non perché si dubita; e tale certezza peraltro è basata sulla certezza originaria del senso comune. Invece, anche la soluzione agostiniana del dubbio scettico accademico, similmente alla soluzione cartesiana, non è esente da un vizio di fondo. Sant’Agostino, infatti, come farà Cartesio, fonda il principio della certezza nella coscienza che, se dubito, esisto [«si fallor, sum»[6], senza badare al fatto che il dubitare non è un vero pensare, ma un semplice oscillare inceppato del pensiero, per cui il dedurre la propria esistenza da questo dubitare insensato, non può costituire un atto veramente fondante della certezza. Sant’Agostino peraltro salva la certezza con l’argomento a posteriori, dato che ammette la veracità dei sensi, mentre Cartesio, che non l’ammette, sbaglia ancor più gravemente, restando chiuso nel suo cogito.

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Osserviamo inoltre che, anche ammesso e non concesso che il dubitare sia un pensare, è vero che nel momento in cui io rifletto sul mio pensare, mi colgo come pensante; ma ciò non mi autorizza ad affermare che io penso per essenza. Il mio essere non è fondato o posto dal mio pensare; ma, al contrario, il mio essere è fondamento e presupposto del mio pensare. Non sono o esisto perché penso, ma penso perché sono. Il mio pensare dipende da me, ma non il mio essere. È vero che se penso, sono; ma sono anche se non penso. Solo Dio è Pensiero sussistente, perché è Essere sussistente. Solo Lui può dire in modo assoluto: “Io Sono”. Dunque, come insegna Santa Caterina, l’amor proprio di sé è un disordinato amore di sé, che priva dell’amore di Dio:

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«Chi ama sé di disordinato amore è privato dell’amore di Me» [c.128]. Tale amore genera la superbia, la quale a sua volta genera la disobbedienza: «La disobbedienza viene dalla superbia, che esce dall’amore proprio di sé, privandosi dell’ umilità»[c. 154].

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REALISMO E IDEALISMO

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Noi ci accorgiamo di conoscere le cose. Quando le conosciamo, ci identifichiamo intenzionalmente con loro. Esse entrano in noi, nel nostro spirito o nella nostra mente evidentemente non nel loro essere o nella loro materialità, ma smaterializzate, mediante un’immagine o un’idea o in un concetto. Ne cogliamo la verità o realtà in un giudizio o in un’intuizione. Ma come è possibile che quella stessa cosa o realtà, materiale o spirituale, che è fuori di noi, indipendente da noi, diventi ad un tempo presente alla nostra mente, intima ad essa? Appunto mediante l’idea o rappresentazione, che ci formiamo dell’essenza di quella cosa, partendo dall’esperienza sensibile, se è materiale, o per analogia con le cose materiali, se è spirituale.

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Invece, la concezione sbagliata della conoscenza è l’idealismo, per la quale l’oggetto sarebbe l’idea, ossia l’essere pensato. Per cui o si parte dall’idea e si raggiungono le cose esterne [7]; oppure la cosa stessa o la realtà o l’ente si risolve nell’idea o nel pensiero o nel pensato o nel pensante [8]. L’essere è l’essere pensato. L’essere si identifica col pensiero. L’essere si identifica con la coscienza di pensare se stessi. L’essere è interno al pensiero, non fuori del pensiero. Ma perché questa concezione è sbagliata? Per due motivi. Primo, perché se noi abbiamo in noi le idee delle cose e del nostro io, non è perché il nostro conoscere parta dalle idee delle cose o del nostro io che le pensa, ma perché, avendo in precedenza contattato coi sensi le cose, ci siamo formati le idee delle cose che abbiamo contattato. E riflettendo su queste idee che abbiamo prodotto, prendiamo coscienza del nostro io, che produce le idee e pensa le cose. Quindi, il nostro conoscere non parte dalle idee delle cose o dalla coscienza del nostro io, ma parte dalle cose. In secondo luogo, l’essere è pensato una volta che è pensato, ma non prima di essere pensato. L’essere, quindi, è distinto dal mio pensiero. È vero che, pensando l’essere, l’essere diventa intenzionalmente in me pensiero, essere pensato. Ma in stesso resta distinto dal mio pensiero; è davanti al mio pensiero [ob— iectum], fuori e indipendente dal mio pensiero. L’essere è regola di verità del mio pensiero, il quale sarà vero se è adeguato o conforme all’essere, alla realtà, alle cose, se li rappresenta fedelmente come sono in se stessi.

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La verità nel realismo è conformità del soggetto all’oggetto; mentre nell’idealismo avviene il contrario: è l’oggetto che si conforma al soggetto, è dedotto dal soggetto e dipende dal soggetto. Per questo, la Chiesa lo qualifica come «soggettivismo» [9]. Ma soggettivismo è anche lo gnosticismo, che non è altro che la gnoseologia dell’idealismo. Infatti, lo gnosticismo, come l’idealismo, è quella gnoseologia secondo la quale la mente umana, divina per natura, s’innalza da sé alla scienza divina. Dice pertanto la Lettera Gaudete et exultate:

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«Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [n. 36, testo QUI].

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E ciò per il fatto che abbiamo visto che l’oggetto del pensiero, per l’idealismo, è lo stesso pensiero, è l’idea, che è coincidenza di essere e pensiero, di ideale e di reale. L’essere è l’essere pensato. Essere è pensare. E, per conseguenza, pensare equivale ad essere. Ma questo è lo stesso essere divino e l’oggetto stesso del sapere divino. E dunque nello gnosticismo idealista il sapere umano eleva se stesso al sapere divino.

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L’IDEALISMO È UNO GNOSTICISMO

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Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?

Dillo, se hai tanta intelligenza!

Gb 38,4

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Giustamente il Maritain ha parlato di «gnosi hegeliana» [10]. Ed ha rilevato come

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«il razionalismo inaugurato da Cartesio è giunto con Hegel al termine delle sue conquiste. Tutto è sottoposto all’impero della Ragione che è, nel senso più decisamente univoco, l’Essenza [Wesen] dello Spirito divino, come dello spirito umano».

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Hegel espresse in maniera trionfale, nella Conclusione delle sue Lezioni sulla storia della filosofia [11], questo esito finale dell’impresa cartesiana, esito finale che egli stesso aveva determinato con la sua opera filosofica. Egli lo rappresenta come il «discoprimento di Dio, quale Egli si sa» [p. 412]. In questa sintesi finale, Hegel riassume il cammino della filosofia fatto da Cartesio ai suoi tempi, ossia all’elaborazione del suo sistema. Oggetto della filosofia, per Hegel, è «il pensiero della Totalità, il mondo intellegibile, è l’Idea concreta» [p. 413], «l’idealità di tutta la realtà»[ibid.]. Con Cartesio, continua Hegel, «penetrò in essa» [nell’idealità] «il principio della soggettività, dell’individualità e Dio come Spirito divenne reale a Se stesso nell’autocoscienza» [ibid.]. Per questo

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«l’opera dell’età moderna è comprendere questa Idea come Spirito» [ibid.]. Ma «per procedere dall’Idea che sa al proprio saperSi dell’Idea, occorre l’opposizione infinita» [ibid.]. «In tal modo lo Spirito produsse questo mondo spirituale, come una natura, la prima creazione dello Spirito. L’opera dello Spirito consiste ora nel ricondurre quell’al di là nella realtà e nell’autocoscienza; il che vien fatto in quanto l’autocoscienza pensa se stessa e conosce l’Essenza assoluta che pensa se stessa. Il pensiero puro si è sollevato in Cartesio sopra questo sdoppiamento» [p. 414]. Così «l’idea è quieta nella sua irrequietezza» [pagg. 415— 416]; «gli opposti sono in sé identici, poiché la vita eterna consiste appunto nel produrre eternamente l’opposizione e nell’eternamente risolverla. Sapere nell’unità l’opposizione e nell’opposizione l’unità. Ecco il sapere assoluto» [ibid.]. «L’autocoscienza finita» [umana] «ha cessato di essere finita; e in tal modo d’altra parte l’Autocoscienza assoluta» [divina] «ha conseguito quella realtà, che prima le mancava. Tutta la storia universale in genere e la storia della filosofia in particolare, rappresentano solo questa lotta», ossia del soggetto che nega se stesso e si riconcilia con sé, «e sembrano esser pervenute alla loro meta nel punto in cui l’Autocoscienza assoluta, di cui esse hanno la rappresentazione, ha cessato di essere alcunché di estraneo, in cui dunque lo Spirito è reale come Spirito. Infatti tale è esso in quanto sa se stesso come Spirito assoluto, e questo lo sa nella Scienza» [p. 416]. Ecco appunto la Gnosi.

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Hegel vuol dire che con l’idealismo l’uomo si infinitizza e Dio si finitizza, sicché si ha quella che Hegel chiamerà «l’identità della natura umana e della natura divina», ossia il panteismo. Non più la cosa in sé esterna al soggetto, non più un Dio trascendente e astratto, ma il Dio concreto e storico, che è la stessa autocoscienza del soggetto umano. Infatti, la ragione cartesiana, che si esprime nel cogito, non è la facoltà di un soggetto, che si aggiunge al soggetto, attuandone le capacità o le forze; ma è lo stesso soggetto, inteso come originariamente [«aprioricamente»] ed essenzialmente pensante e ragionante. In pratica, come ragione sussistente. Ma questa è già la ragione divina.

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Troviamo nel concetto cartesiano della ragione, del sapere e del pensiero un’impronta evidentemente gnostica. Egli infatti, nel Discorso sul Metodo [12], esprime la volontà di «aggiustare tutte le sue opinioni al livello della ragione»; progetta di fondare una «scienza universale, che possa elevare la nostra natura al massimo della sua perfezione» [13]; un pensiero, che non prende nulla dal di fuori, ma tutto, persino le sensazioni, da se stesso [14].

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Cartesio è indubbiamente realista nel considerare il mondo dei corpi come esterno allo spirito umano, oggettivamente conoscibile ed esistente in se stesso come creato da Dio, anche se il sapere non è fondato sui sensi, ma è garantito dal veridicità di un Dio conosciuto a-priori come intimo alla mente. In Cartesio, quindi, la distinzione fra l’io umano e l’Io divino comincia a diventare sfumata e si annebbia, perché l’io umano, il cogito, non incontra più un Tu divino davanti a sé, come ob—iectum, oggettivo, scoperto come causa creatrice dell’io e del mondo contattato dai sensi, ma come idea di Dio trovata dal cogito nell’orizzonte della coscienza. Quindi in Cartesio non è che io ho l’idea di Dio perché Egli esiste, ma Dio esiste perché Ne ho l’idea. È già il Dio dell’idealismo, che giungerà fino ad Hegel. Per contro, in Cartesio, la ragione non accetta per vero altro che ciò che essa concepisce chiaramente e distintamente. L’interesse della ragione si sposta dall’attenzione al reale al suo modo di concepire il reale. È reale solo ciò che è alla sua misura, solo ciò che è razionale, concepibile chiaramente e distintamente. Ciò che le appare oscuro e indistinto viene quindi respinto come inesistente.

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Abbiamo qui un altro colpo contro la teologia, nella quale la ragione si trova davanti all’oscurità e in-distinzione della natura divina, benché essa sia chiara e distinta in se stessa. Ancora una volta Dio è identico al concetto di Dio. Ma se il concetto lo produco io, come non finirò per identificare Dio col mio io? È questo il cammino che conduce a Kant, Fichte, Schelling ed Hegel. Quindi, già in Cartesio la ragione umana si considera implicitamente divina o quanto meno capace di divinizzarsi. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la ragione, così concepita, è capace di elevarsi o auto-trascendersi, così da raggiungere il livello della “gnosi”, ossia del sapere divino o del pensiero divino sussistente e creatore dell’uomo, per cui l’uomo, come diceva Gentile, ha il potere di creare se stesso [«autoctisi»].

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IL SORGERE DELLO GNOSTICISMO

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Così il soggetto non invoca più la salvezza da Dio, ed essa non è più un dono della sua grazia, ma si salva da sé, perché già da sé possiede una forza divina. La Deo placuit rileva così nello gnosticismo l’«inconsistenza delle pretese di auto salvezza, che contano sulle sole forze umane» [n. 13 testo QUI]. L’uomo non ha bisogno della grazia, perché già l’io umano, fondato sul cogito, ha in se stesso il principio della propria auto elevazione all’Assoluto. Nulla viene dall’alto sull’uomo a sollevarlo; ma egli stesso si innalza a Dio col potere del pensiero e della volontà. È un tema anche pelagiano.

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In Kant resta un residuo di realismo nella cosa in sé esterna all’intelletto. Ma qui l’idealismo fa un passo avanti rispetto a Cartesio. Mentre infatti, rispetto a Cartesio, la cosa in sé perde valore, ma continua ad esistere, in Kant diventa inconoscibile in se stessa e l’intelletto acquista troppo potere, perché Kant gli attribuisce addirittura il potere di dar forma all’oggetto della conoscenza sperimentale, che, come è noto, non è più la cosa in sé, ma il fenomeno. Restano però il sapere morale, la critica della ragione e l’idea di Dio.

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Ma con Fichte, ecco che l’idealismo fa un altro passo, nella risoluzione dell’essere nel pensiero. Cartesio aveva dedotto il sum dal cogito. Ma si trattava di semplice atto di pensiero, di una deduzione logica, per la quale io so di esistere. Ma questo mio esistere è creato da Dio, è indipendente da me. Invece l’io fichtiano «pone» [setzt] il non-io non solo logicamente, ma anche ontologicamente, quindi produce se stesso. Dunque non occorre più che l’io sia creato da Dio. Da qui si comprende come Fichte fu accusato di ateismo. Egli si difese citando Dio come Io assoluto, ma non si vede come questo Io, che è il fondamento dell’io empirico, possa esserne il creatore. Che un io sia profondo o superficiale, è pur sempre lo stesso io. Dunque, l’io empirico, come insegnerà Fichte, non ha che da prendere coscienza di essere una manifestazione contingente del suo Io assoluto e svolgere le potenzialità divine insite in esso. In tal senso la Lettera della CDF Deo Placuit nota che «il riduzionismo individualista di tendenza neo-gnostica promette una liberazione meramente interiore» [n. 11 testo QUI]Ma l’Io di Fichte, come è noto, aggiunge all’Io penso kantiano [Ich denke überhaupt] il fattore dialettico dell’auto-negazione, come affermazione e posizione del non-Io, opposto all’Io. Fichte esplicita l’ auto-contraddizione già presente, come abbiamo visto, nel cogito cartesiano e nella dialettica teologica kantiana:

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«Se nell’Io è posta l’assoluta totalità della realtà, dev’esser posta necessariamente nel non-Io l’assoluta totalità della negazione; e la negazione stessa dev’esser posta come assoluta totalità. L’una e l’altra, l’assoluta totalità della realtà nell’Io e dell’assoluta negazione della totalità nel non-Io, debbono essere unificate mediante la determinazione. Perciò l’Io in parte determina e in parte è determinato» [15].

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Schelling innalza ancor più l’Io di Fichte aggiungendo alla negazione del non-Io da parte dell’Io l’identità di essere e pensiero, di essere e divenire, di soggetto e oggetto, di ideale e reale, di Spirito e natura, di teoria e prassi. Tuttavia, come riferisce Hegel, «Schelling chiama concetto la comune categoria dell’intelletto, mentre invece concetto è il pensiero concreto, in se stesso infinito». E cita lo stesso Schelling: «Non resta dunque altro, se non rappresentarlo» [l’Assoluto] «in un’intuizione immediata» [16]. Ma Hegel dubita dell’oggettività e dell’universalità di tale intuizione. Per questo egli compie il passo definitivo e conclusivo della prometeica scalata all’Assoluto, iniziata, senza piena consapevolezza da Cartesio, convinto invece di dare prove migliori dell’esistenza di Dio di quanto aveva fatto San Tommaso. E questo passo consiste nel sostenere che l’essenza di Dio non si può cogliere in una vaga ed indeterminata intuizione, dove tutto è indifferente a tutto e si confonde con tutto, ma solo nel concetto logico e razionale come autocoscienza dell’Idea.

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Hegel supera il precedente gradino stabilito da Schelling rispetto a Fichte. Questi aveva aggiunto rispetto a Kant l’eliminazione della cosa in sé, d’ora innanzi prodotta dall’Io nell’Io. Con Hegel giungiamo così al termine della parabola cartesiana: quel cogito che arrogantemente sin dall’inizio oltrepassa i giusti e naturali limiti dell’io ed umilia la realtà delle cose create da Dio, abbassando Dio ed innalzando se stesso, proseguirà la sua opera di trasferimento all’uomo degli attributi divini, sicché alla fine l’uomo è diventato Dio e Dio è sparito. Hegel è colui che conduce il principio cartesiano del cogito alle sue estreme conseguenze; egli ha l’audacia di esplicitare chiaramente e coscientemente il punto di arrivo della scalata al cielo intrapresa dal cogito cartesiano, col famoso principio dell’«identità della natura umana e della natura divina» [17] sulla base del divenire di Dio, che si oppone frontalmente all’«atreptos» del dogma calcedonese.

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Invece, la Placuit Deo ci avverte che la via della salvezza che ci offre Cristo, «non è un percorso meramente interiore, al margine dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo creato» [n. 11, testo QUI]. Non si tratta di partire dall’io e chiudere tutto nell’io. «La grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo-gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto. La Chiesa è una comunità visibile» [n. 12]. Si tratta di aprirsi alla realtà, al mondo, agli altri, a Dio, alla società. Lo gnostico invece, chiuso nel suo io, si edifica un’area sociale, una claque per conto proprio, separandosi dall’effettiva comunione ecclesiale, che solo il realista può percepire e vivere, crea una setta per avere a suo servizio una massa di ingenui plagiati, miopi fanatici o furbi adulatori. Lo gnosticismo è un’esaltazione esagerata dell’io, del sapere e del pensiero umano, come dice la Gaudete et exultate:

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«Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca» [n. 40].

 

Lo gnostico cade in questo inganno perché specula sul pensiero astrattamente preso, nella sua assolutezza, senza considerare le condizioni e i limiti, nei quali esso viene esercitato dall’uomo. Inoltre, la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Deo Placuit fa notare ancora la caratteristica dello gnosticismo: il suo interiorismo assoluto, che si risolve in un assoluto individualismo, per cui tutto è nell’io, dall’io e per l’io:

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«il riduzionismo individualista di tendenza neo— gnostica promette una liberazione meramente interiore» [n. 11]. La libertà non comporta nessun legame con una legge morale oggettiva, ma si risolve in un puro atto della propria volontà. Per questo, la Lettera avverte che la via della salvezza che ci offre Cristo, «non è un percorso meramente interiore, al margine dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo creato» [n. 11]. «La grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo— gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto. La Chiesa è una comunità visibile» [n. 12].

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Inoltre, la Gaudete et exultate fa notare come lo gnosticismo

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«a volte diventa particolarmente ingannevole, quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo ‘per sua propria natura vuole addomesticare il mistero’, sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri» [n. 40]. «Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo» [n. 37].

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Lo gnosticismo è una spiritualità disincarnata perché risolve l’essere nel pensiero e la materia nello spirito. Lo stesso metodo cartesiano, con la sua diffidenza per l’esperienza sensibile e quindi per l’ intellegibilità della sostanza materiale, dimostra la sua ascendenza, forse inconsapevole, dal dualismo gnostico manicheo di spirito buono— materia cattiva, citato sia dalla Placuit Deo che dalla GaudeteMa proprio questa operazione ultra spiritualista si volge nel suo contrario, come appare dal materialismo di Marx, il quale dice di averlo ricavato da Hegel semplicemente «mettendo al posto della testa quella testa che prima era al posto dei piedi e mettendo al loro posto i piedi, che prima erano al posto della testa», vale dire che, se Hegel fa derivare la materia dallo spirito, Marx fa derivare lo spirito dalla materia. Non sono le idee che guidano il mondo materiale – economico, ma è questo a guidare le idee.

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Inoltre, come nota la Gaudete et exultate, lo gnostico si ritiene in possesso della scienza assoluta, ossia onnicomprensiva come Scienza dell’Assoluto. Lo gnostico è onnisciente, non certo nel senso di conoscere i dettagli di tutte le cose — si rende conto infatti anche lui che pensare ciò sarebbe pura follia — , e tuttavia in un senso, che non per questo non denota una smisurata superbia. Lo gnostico si ritiene onnisciente nel senso che è convinto di possedere la Scienza della Totalità. Se nulla è fuori dell’essere e l’essere è l’essere pensato da lui, ne viene che non esiste nulla che non sia oggetto del pensiero dello gnostico. L’essere coincide con l’essere pensato da lui; quindi non può darsi un essere che egli ignori o che trascenda il suo pensiero, compreso Dio. In tal senso la Gaudete ed exultate dice che

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«Gli “gnostici” giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine» [n. 37]. «Tipico degli gnostici è credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo» [n. 39]. «L’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto» [n. 38].

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Un esempio di questo ideale gnostico lo troviamo in Schelling, laddove afferma:

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«il mio punto di vista è in generale il cristianesimo nella totalità del suo sviluppo storico, il mio fine è quella sola Chiesa veramente universale [se ‘Chiesa’ può esser qui la parola esatta], che solo nello spirito va costruita, e che può consistere soltanto nella perfetta comprensione del cristianesimo, della sua effettiva fusione con la scienza e la conoscenza in generale» [18].

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Hegel elogia lo gnosticismo, sebbene con riserva, con queste parole:

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«Tutte queste forme vanno a finire nel torbido, ma in complesso hanno come principio le medesime determinazioni e nascono dal bisogno generale e profondo della ragione di determinare e intendere come concreto ciò che è in sé e per sé» [19].

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Tuttavia, lo sbocco finale nefasto del razionalismo cartesiano non fu immediatamente avvertito dallo stesso Cartesio e dai suoi stessi contemporanei, i quali viceversa ne rimasero ammirati, come fossero stati davanti a un genio filosofico di grandezza inaudita, e così bevvero allegramente il veleno senza accorgersene.

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Lungimirante, come sempre, fu la Chiesa, che nel 1663 mise all’Indice le opere di Cartesio. Ma purtroppo, tale era il successo del filosofo messianico, che rivoluzionava tutto il pensiero filosofico elaborato nei millenni precedenti, che quasi nessuno, nemmeno tra i teologi, tenne conto del saggio avvertimento della Chiesa, tranne i tomisti, che, per la loro prudenza critica, è assai difficile trarre in inganno, anche da parte dei più astuti impostori. Chi restava fedele alla verità era considerato un sorpassato, un arido scolastico, un cocciuto conservatore e via di questo passo.

 

Per l’idealista, cioè per lo gnostico, anche ciò che ai sensi appare esterno, è interno all’io, alla coscienza e al pensiero, in quanto pensato. Infatti l’idealista non si rende conto o non vuol riconoscere che la cosa in sé, benché nell’atto del conoscere entri, in quanto rappresentata, nell’orizzonte della coscienza, in se stessa, nella sua realtà, è fuori del nostro pensiero o della nostra mente; è extra animam, come dice San Tommaso. «Non è la pietra che è nell’anima — dice Aristotele — , ma l’immagine della pietra». E’ evidente che le nostre idee non sono esterne alla nostra mente; ma ciò non ci autorizza a credere, con gli idealisti, che la realtà coincida con le nostre idee, se non intenzionalmente ed accidentalmente nell’atto di conoscere il vero.

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CARATTERI DELL’IDEALISMO

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È assioma idealista che non si dà essere fuori dal pensiero, ma che l’essere è sempre nel pensiero. L’essere è sempre pensato. Non si pensa l’essere, ma l’essere pensato, perché essere ed essere pensato coincidono. Si pensa il pensiero, perché l’essere è pensiero [20]. Tutto è ad un tempo essere e pensiero. Ora, però, solo in Dio l’essere coincide col pensiero, perché Dio è Essere sussistente e Pensiero Sussistente. Dice San Tommaso:

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«In Dio [21] il sapere è la sua sostanza». In Dio «l’intelletto, l’oggetto del pensare [id quod intelligitur], l’idea [species intellegibilis] e il pensare sono la stessa cosa» [22].

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Invece nell’uomo c’è distinzione tra il suo essere e il suo pensare. L’uomo non è, come credeva Cartesio, un soggetto pensante — solo Dio, nel quale essere e pensare s’identificano, può essere questo — , ma è un soggetto che può pensare. E se non pensa, non per questo non è un uomo, essere atto a pensare. Dio è per essenza pensiero, è per essenza pensante. Nell’uomo invece il pensare è una semplice facoltà, per quanto essenziale, ma che può restare allo stato di semplice facoltà, senza passare all’atto. Per l’intelletto umano l’essere o l’ente, creato da Dio, è indipendente dal pensiero, trascende il pensiero ed è regola della verità del pensiero. Per essere nel vero, la mente umana deve umilmente adeguarsi all’essere, deve obbedire alle leggi dell’essere. Dio, invece, ideatore e creatore dell’essere, non ha l’essere come oggetto davanti a Sé e indipendente da Sé. Così Egli conosce Se stesso e il mondo non come essere distinto dal suo pensare, ma come essere immanente al suo Io. È evidente che anche per noi il pensato in quanto pensato è all’interno del nostro pensiero. Ma prima di essere pensato non può che essere fuori, nella realtà esterna: quello che San Tommaso chiama res extra animam. L’essere entra spiritualmente o intenzionalmente, come concetto o idea o rappresentazione, nel nostro pensiero, una volta che lo pensiamo o conosciamo.

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Se invece tutto è essere e pensiero, tutto è idea, come credono gli idealisti, e non esiste un essere distinto dal pensiero; se l’ente come tale, compreso quello divino, è immanente al nostro pensiero; se è vero quel che dice Rahner, che «la natura dell’essere è conoscere ed essere conosciuto» [23]; se l’essere è «essere cosciente» [24]; se l’essere «è sempre anche conosciuto» [25]; se l’essere «è lo stesso soggetto conoscente» [26], l’essere come tale e non solo l’essere divino s’identifica col pensiero, allora abbiamo il panteismo. Secondo l’idealista, noi, pensando l’essere, pensiamo Dio, perché l’essere è Dio. Ma d’altra parte, poiché l’essere s’identifica con l’essere pensato, e il nostro essere è essere pensato, il nostro essere si identica con l’essere divino, che è appunto l’essere pensato.

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Per l’idealista, anche l’essere non pensato è comunque pensato. E quindi non esiste un essere non pensato. È chiaro del resto che se io penso l’essere, questo essere è pensato. Ma prima che lo pensi o se non lo penso, lo ignoro e non è pensato da me. Invece nell’idealismo, siccome il punto di partenza e l’oggetto del sapere sono l’idea e la coscienza che l’io ha di sé come pensante, la verità del sapere è la conformità del reale o dell’essere all’idea o all’autocoscienza. Ora invece l’identità del pensiero con l’essere è il sapere assoluto, perché è un sapere che non ha nulla che sia al di fuori o al di là di questo sapere. È il sapere divino. E così per converso l’identità dell’essere col pensiero è l’essere assoluto, perché questo essere è in atto tutto ciò che il pensiero può pensare. E dunque è l’essere divino. E dunque la gnoseologia idealista comporta il panteismo, ossia l’identificazione del pensiero umano col pensiero divino, il che è quello che nella Gaudete et exultate è definito come «gnosticismo», la divinizzazione del sapere umano, della quale abbiamo il più cospicuo esempio in quella che Hegel, chiama «Scienza assoluta» o «Idea assoluta».

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Dobbiamo dire, invece, che l’oggetto della metafisica non è l’io, non è il soggetto pensante o auto-cosciente, ma è l’ente, che sta davanti [ob— iectum] all’io. La certezza fondante iniziale da cui parte la metafisica e sulla base della quale la ragione costruisce tutto il suo sapere, non è quella del proprio pensare o dubitare, come credeva Cartesio; e non è neppure Dio, come credeva Hegel; ma è la certezza dell’esistenza e della conoscibilità delle cose sensibili esterne, come ha stabilito Aristotele. Certamente la certezza spirituale che nasce dalla scoperta del nostro io pensante, si rivelerà più solida di quella sensibile, dato il maggior valore ontologico delle cose spirituali rispetto a quelle materiali. E ancor maggiore sarà la certezza di fede. Ma la certezza suprema della fede sarebbe nulla, se non fosse la maturazione suprema di una certezza assoluta, benché umile, che inizia già con la percezione delle cose sensibili. La certezza dell’esistenza del proprio io consegue alla certezza dell’esistenza e della conoscenza delle cose, perché è solo riflettendo sulla nostra capacità di raggiungere questa certezza originaria, che noi scopriamo il nostro io, come soggetto dotato di una mente che le ha conosciute. Noi non ricaviamo o deduciamo la conoscenza delle cose da quella del nostro io, come credeva Cartesio, ma al contrario, come ha stabilito Aristotele, noi ci accorgiamo di possedere una facoltà conoscitiva che attinge alle cose, dopo che le abbiamo raggiunte; e dalla coscienza del nostro saperle conoscere giungiamo all’affermazione del nostro io come soggetto conoscente.

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IL REALISMO LUTERANO

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La gnoseologia luterana è realista, perché Lutero sa che esiste un mondo esterno, esiste l’io ed esiste Dio, rivelatosi nella Scrittura e oggetto di conoscenza di fede. Questa, per Lutero, è la realtà, per cui egli riconosce che per essere nella verità, bisogna che la mente si adegui a questa realtà. Eppure Lutero disprezzava la metafisica. Come mai? Perché il suo realismo è difettoso e alla fine si volge in soggettivismo. Perché? In che senso? Perché Lutero è convinto che la certezza e la verità non sono date dalla ragione, ma dalla fede. Egli crede alla realtà in sé, creata da Dio, indipendente da lui; non riduce il reale alla sua idea, come farà Hegel; si ritiene une creatura di Dio e non soggetto assoluto, come faranno Fichte e Schelling; per lui Dio esiste in sé, incarnato in Cristo, Giudice e Signore del mondo, e non come una semplice sua idea, come in Kant.

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Solo che Lutero intende il suo realismo come un salto immediato del cuore dall’esperienza sensibile all’esperienza emotiva o intuizione interiore della Parola di Dio e del mistero di Cristo — ciò che Kierkegaard chiamerà «il salto della fede» — senza passare dalla mediazione della ragione e quindi della metafisica. E quindi senza passare dalla mediazione sociale della Chiesa, che può essere accettata solo sulla base di un realismo razionale, per il quale il cattolico, illuminato dalla fede e convinto dall’apologetica, riconosce dai segni di credibilità la divinità della Chiesa [27]Infatti, la metafisica dà fondamento all’antropologia ed alla morale. E ciò consente a sua volta di riconoscere la Chiesa come comunità umana, che dà storicamente prova di godere di un’assistenza divina infallibile nella conservazione del Vangelo. Invece, l’ente come tale non interessa a Lutero, perché la sua mente non si cura di applicare il principio di causalità al livello della realtà o degli enti, per passare, come insegna San Paolo [Rm 1, 19 – 20], dalla considerazione degli effetti creati [visibilia] a quella del Creatore [invisibilia], summum EnsNon che egli non creda nell’universalità del pensiero. Percepisce perfettamente l’universalità della Parola di Dio e del messaggio evangelico e sapeva cogliere i bisogni universali dell’uomo. Altrimenti il suo messaggio non avrebbe avuto tanto successo. Nel contempo sentiva un grande bisogno di concretezza.

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Lutero crede in Dio creatore e salvatore. Affetta di ascoltarne la Parola e vuole predicarla. Tuttavia, egli crede in Dio non perché sa dimostrativamente, con la ragione, che Dio esiste, ma perché lo sente nel cuore, con quel sentimento che i Tedeschi chiamano «Gemüth» [28], una certezza oscura originaria, della quale non si sa render ragione e non occorre render ragione. Questo irrazionale sentire sarà ancora presente nel «Gefühl» di Schleiermacher. Lutero, col termine «fede», quindi, non intende l’accoglienza della Parola di Dio, sul presupposto che sa con la ragione che Dio esiste, ma intende precisamente questo «sentimento». Ciò è collegato col fatto che, benché Lutero senta Dio come altro da sé e trascendente a sé, e con ciò egli resti nel realismo ed eviti il panteismo, nel quale invece cadrà Hegel, Lo sente così intimamente ed abitualmente in lui, che non ipotizza neppure l’eventualità di perdere tale unione a causa del peccato, e ciò proprio in base alla sua convinzione, che egli reputa «fede», che sempre e comunque Dio è in lui e con lui.

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È ciò che la Chiesa da tempo chiama «immanentismo», che non è ― si badi bene ― la pura presenza di Dio nell’intimo dell’anima; di ciò infatti parla anche Sant’Agostino, il quale non per questo è un immanentista. Ma si tratta di ciò di cui parla la Pascendi Dominici gregis [nn. 10, 33, 35, 39, 62, 65,73, 80 testo QUI]Occorre dunque distinguere accuratamente immanentismo e panteismo, benché possano assomigliarsi. L’immanentismo non nega la trascendenza divina. È l’errore di Lutero. Invece nel panteismo si ha l’identificazione della natura umana con quella divina e del sapere umano con quello divino, ossia lo gnosticismo, sul presupposto dell’identificazione del pensiero con l’essere, della quale abbiamo già parlato. È questo l’errore dell’idealismo tedesco [29]È chiaro allora che con Lutero il realismo viene meno per essere sostituito da una vaga emozione soggettiva non concettuale, che richiama da vicino l’«esperienza trascendentale» di Rahner. E ricorda anche quella «esperienza» [n. 21, 22, 25, 39, 78, 79 testo QUI] o quel «sentimento» senza fondamento oggettivo, che sono smentiti dalla Pascendi di San Pio X [nn. 10 – 12, 14, 16, 18, 19, 21, 23, 38, testo QUI]. Qui il realismo è sostituito dal soggettivismo.

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UN CONFRONTO FRA IL DIO DI SAN TOMMASO E IL DIO DI HEGEL

Esaltavit umile

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Il frutto più alto dell’umiltà nell’esercizio dell’intelletto è dato dalla concezione che la mente si fa di Dio, perché, quanto più la mente si rende disponibile ad accogliere la realtà, tanto più la forza dell’intelletto, fecondato dal reale, adeguato al reale e proteso al reale, che è il fine e il bene dell’intelletto, ha la possibilità di attuarsi e realizzare il massimo delle sue possibilità, sorretto anche dalla grazia, fino a cogliere la verità più sublime e raggiungere il sapere più elevato, che riguardano l’essenza e gli attributi di Dio. L’umiltà, come soggezione o adaequatio della mente al reale, obbedienza al reale ed accoglienza del reale, conduce la mente a sapere che essa da sé non è nulla e che tutto ciò che è e che ha, a cominciare dal suo stesso esistere, lo ha da Dio, che l’ha creata. Essa si accorge del fatto che essa ha l’essere, ma non è l’essere. Non è da sé, ma da altro, cioè da Dio. Senza questo Altro, essa sarebbe nulla. Invece la superbia, effetto e lascito del peccato originale, spinge l’io a ritenersi auto-fondato ed autosufficiente nell’essere. Anzi, Fichte arriverà ad interpretare il sum cartesiano come «Io sono l’essere» e «pongo il mio essere». L’io non si chiede: perché esisto? Ci sono e basta. Oppure dà delle risposte del tutto insufficienti, come quella del darwinismo.

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L’umiltà, che si esprime nel realismo, estingue la febbre e il tumore della superbia e conduce il soggetto alla realtà ed alle dimensioni reali della sua esistenza, limitata, debole e peccatrice. Così purificato, il soggetto si trova nelle migliori condizioni per operare il massimo e per essere innalzato dalla grazia, che gli rivela i misteri della divinità. Invece all’io cartesiano non viene in mente di essere stato creato da Dio, ma come fosse un Io assoluto, all’origine del reale e del pensiero, pretende di dimostrare l’esistenza di Dio deducendola da una supposta inesistente idea innata di Dio, dimenticando che, se io posso produrre l’idea di Dio, non per questo posso produrre Dio.

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È interessante allora confrontare quale idea di Dio scaturisce dai due metodi opposti del realismo e dell’idealismo, scegliendo due casi emblematici, come quello di San Tommaso ed Hegel e considerando il concetto di Dio sotto tre angolature: Dio come Essere e Spirito; Dio come Idea assoluta; e Dio come Sapere assoluto. Sia per San Tommaso che per Hegel Dio si pone sul piano dell’essere. Sia per l’uno che per l’altro Dio è l’Io o Soggetto assoluto. Sia per l’uno che per l’altro è Idea assoluta, Scienza assoluta, Spirito assoluto. Sennonché però, mentre per San Tommaso l’essere è distinto dal divenire, per Hegel coincide col divenire [30], il che implica già un’identificazione di Dio col mondo e quindi dell’io umano con l’Io divino. Per San Tommaso, Dio, Essere assoluto, identico a Se stesso, crea il mondo dal nulla. Per Hegel, Dio, sintesi di essere e nulla, diviene mondo negando se stesso e si determina come mondo, il quale, negando se stesso, diviene Dio.

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Mentre per San Tommaso allora l’io umano è distinto dall’Io divino, per cui Dio è un Tu rispetto all’io umano, per Hegel Dio è la sostanza ed essenza ultima dell’io umano, che è solo un «momento» passeggero e contingente dell’Io assoluto. L’io sono del cogito tomista conduce alla scoperta dell’Io Sono divino come il Tu assoluto che mi ha creato. L’io sono del cogito cartesiano mi conduce in Hegel alla coscienza che Io sono assolutamente in senso divino e che i tu che ho davanti a me li pongo io col mio pensiero e per i miei interessi. Mentre per Tommaso Dio è purissimo Spirito [31], semplice [32], identico a se stesso, bontà infinita, immutabile [33], immortale, trascendente, indipendente dal mondo, per Hegel Dio è essenzialmente mutevole, diveniente, contraddittorio, dialettico, mondano, materiale, mescolato al male e mortale.

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Dice infatti Hegel:

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«Il sé» [il cogito cartesiano] «attua la vita dello Spirito assoluto. Questa figura è quel concetto semplice, che peraltro abbandona la sua essenza eterna» [Dio si aliena] «ed è là» [nella concretezza] «o agisce. Esso ha nella purezza del concetto lo scindere o il sorgere, perché la purezza è l’assoluta astrazione o la negatività» [il divenire]; «similmente esso ha l’elemento della sua effettualità» [il mondo] «o dell’essere in lui nello stesso puro sapere, perché il sapere puro è l’immediatezza semplice, la quale è tanto essere che esserci» [il concreto], quanto essenza; l’un momento è il pensiero negativo, l’altro è lo stesso pensiero positivo. Tale esserci è infine e altrettanto l’esser da lui – sia come esserci che come dovere» [il buono] «riflesso in se stesso, ossia l’esser— cattivo» [34].

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Sia nell’uno che nell’altro caso Dio è l’Idea assoluta.

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«L’Idea assoluta — dice Hegel[35], e in ciò Tommaso potrebbe essere d’accodo — è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità». In tal modo, sia per Tommaso che per Hegel Dio, è Verità assoluta, in quanto, come dice l’Aquinate, «l’Essere divino non solo è conforme al suo intelletto, ma è il suo stesso intelligere»[36], identità di essere e pensiero.

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Sia per San Tommaso che per Hegel l’Idea divina è l’«idea logica» [p.936], il Concetto che Dio ha di Stesso e delle cose. È l’idea che Dio ha di Se stesso e delle cose. È l’Idea razionale della Ragione divina [37].

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«L’Idea divina — dice Hegel [38] — è l’unico oggetto e contenuto della filosofia. Contenendo in sé ogni determinatezza, ed essendo sua essenza di tornare a sé attraverso il suo determinarsi o particolarizzarsi, essa ha diverse configurazioni, e il compito della filosofia è di conoscerla in queste».

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In Hegel l’idea umana è un momento dell’Idea divina; Dio pensa Se stesso nell’uomo come uomo; in San Tommaso l’idea umana è una partecipazione analogica dell’Idea divina e l’uomo pensa se stesso in Dio come Dio.  L’Idea divina hegeliana, però, a differenza di quella tomista, che distingue in Dio l’Idea unica ― ossia l’Idea che Dio ha di Sé o il Logos [Verbum[39] ― dalle molte idee, corrispondenti alle cose create, non trascende le idee delle cose come l’increato trascende il creato, ma come l’universale si concretizza nel particolare, o come l’indeterminato si determina nel determinato, o come la sostanza si determina nel modo d’essere. Per questo, in Hegel l’Idea divina è sillogistica e dialettica, è il metodo del sapere [cf. p. 937], è il

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«movimento del concetto»[p. 937]; «è afferrata nel concetto» [p. 936], il quale «è tutto e il suo movimento è l’attività assoluta universale, … è la forza assolutamente infinita, cui nessun oggetto, per quanto si presenti come esteriore, lontano dalla ragione e da lei indipendente, potrebbe opporre resistenza, esser rispetto ad essa di una natura particolare e rifiutarsi ad esser da lei penetrato» [pp. 937— 938].

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Qui si vede come Hegel dia alla ragione umana un potere che in realtà è del tutto al di sopra delle sue reali possibilità e funzioni, fosse anche perfettamente sana come lo era prima del peccato originale. Figuriamoci nello stato presente, afflitta, indebolita ed offuscata com’è da tanti mali, difetti e cattive inclinazioni, per rimediare ai quali occorre, oltre ad una severa disciplina della ragione, un’intensa vita di grazia. Vediamo come in Hegel il pelagianesimo si congiunge allo gnosticismo.

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Viceversa, in San Tommaso l’Idea divina è l’idea che Dio ha delle cose che crea. Ciò non significa che nella mente divina vi sia una pluralità di idee, come avviene nella mente umana. Con una sola Idea, che è Dio pensato da Sé, Dio concepisce tutte le cose [«Deus Uno intelligit multa» [40]]. Le idee sono molte, in quanto cose pensate da Dio in quanto pensate prima di esistere nella realtà esterna a Dio. E in tal senso esistono più idee nella mente divina [41]; ed è l’Idea che Dio Padre ha di Se stesso, ossia il Logos o Verbo divino, la persona del Figli[42]Nell’uno e nell’altro caso Dio è Scienza assoluta. Per San Tommaso, «dato che l’Essenza divina è la sua stessa Idea» [species intellegiblis], «segue necessariamente che il suo sapere» [intelligere] «sia la sua essenza e il suo essere» [43]Per Hegel il sapere assoluto è la filosofia. Essa è il sapere che Dio ha di Stesso come uomo. Ciò che la filosofia sa di Dio è ciò che Dio sa di Se stesso. Quindi la ragione umana sa ciò che di Sé sa la Ragione divina, perché in fondo, come dice Hegel, la ragione è una sola: essa è divina. Pertanto l’uomo, in quanto ragiona, è Dio, sa ciò che Dio stesso sa. La ragione cartesiana è giunta al culmine delle sue aspirazioni. Da qui lo gnosticismo di Hegel. Dice infatti Hegel che la filosofia

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«è l’Idea che pensa se stessa, la verità che sa» [ossia la verità sussistente, fatta persona, l’«io sono un io pensante» di Cartesio], «la logicità col significato che essa è l’universalità convalidata dal contenuto concreto come dalla sua realtà. La scienza è, per tal guisa, tornata» [dialetticamente] «al suo cominciamento» [il puro essere]; «e la logicità è il suo risultato come spiritualità: dal giudizio presupponente, in cui il concetto era solo in sè» [l’essere astratto] «e il cominciamento, alcunché di immediato, e quindi dall’apparenza, che aveva colà», [il dato empirico] «la spiritualità» [ossia l’io cartesiano] «si è elevata al suo proprio principio» [ossia all’Io assoluto] «come a suo elemento»[44].

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CONCLUSIONE

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L’uomo ha un bisogno innato di grandezza. Tuttavia questo bisogno va incanalato e moderato, per non divenire eccessivo e fonte di tragiche illusioni. Aspirazione ragionevole, non è quella di essere infinito, dettata dalla superbia, ma di contemplare l’Infinito, dettata dall’umiltà. Infatti, tra la finitezza umana e l’infinità divina esiste un dislivello invalicabile. Pretendere di superarlo è folle superbia, è quella che i Greci chiamano hybris.

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Come insegna il Concilio Lateranense IV, «tra il creatore e la creatura non si può notare una somiglianza tale, che non si debba notare una maggiore dissomiglianza» [45]. L’uomo, benché creato ad immagine e somiglianza di Dio, mediante la fede e la grazia, può superare bensì le forze della ragione ed essere ammesso a partecipare alla vita divina, ma solo fino ad un certo punto concessogli da Dio e non oltre.

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Se bastasse la ragione per comprendere perfettamente nel concetto l’essenza divina, non sarebbero state necessarie la divina rivelazione e la fede per aggiungere alla ragione contenuti che essa da sé non riesce a cogliere. E anche con tutto ciò la mente umana, anche nella gloria celeste, resta fondamentalmente al di sotto della comprensione che Dio ha di Se stesso. La ragione da sé può certamente conoscere Dio per analogia e mediante le creature. Ma da sola non può conoscere l’essenza divina per essenza o quidditativamente, come diceva Tommaso de Vio detto il Cardinale Caetano. Può conoscere l’Infinito solo finitamente, non infinitamente, come solo Lui può conoscere Se stesso.

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Esiste, è vero, un’esaltazione irrazionalistica e fideistica della fede, che si pretende costruire sulle rovine della ragione, come se la ragione fosse contro la fede e questa dovesse sostituire la ragione nella conoscenza di Dio. Quello che accade in questi casi, allora, è che la mente non viene effettivamente illuminata dalla Parola di Dio, ma viene illusa da umani ritrovati vanamente spacciati per «scienza assoluta». S. Paolo ci mette in guardia contro questa truffa: «Guardate che nessuno v’inganni con la filosofia ed una vana fallacia, secondo la tradizione degli uomini e secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» [Col 2,8].

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Varazze, 24 luglio 2018.

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NOTE

[1] Dialogo, c. 154.

[2] Ibid., c. 154.

[3] Ibid., c. 9.

[4] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p. 491.

[5] In XII libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, a cura di R. Spiazzi, l.III, lect.I, n. 343, Edizioni Marietti, Torino 1964, p. 97.

[6] cf. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, p. 55.

[7] Questa è la forma cartesiana.

[8] Questa è la forma hegeliana.

[9] cf. la recente Lettera Apostlica Gaudete et exultate, di Papa Francesco, n. 36.

[10] La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, pagg. 215— 220.

[11] III, 1, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1981, pagg. 410— 418.

[12] Parte II, n. 2.

[13] cf. J.Maritain, Le songe de Descartes, Buchet— Chastel,Paris 1932, p. 17.

[14] cf. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, op.cit., p. 321. Gilson sbaglia, tuttavia, nell’attribuire la stessa cosa a Sant’Agostino, che al contrario ammette che la cosa esterna influisce nei sensi e quindi nell’anima: «Omnis res, quamcumque cognoscimus, congenerat in nobis notitiam sui» [De Trin., IX, 12, 18]. «Nemo de illo corpore utrum sit intelligere potest, nisi cui sensus quidquam de illo nuntiarit» [De Trin., XI, 5, 9].

[15] La dottrina della scienza, Editori Laterza, Bari 1971, p. 104.

[16] Lezioni sulla filosofia della storia, III,1, Editrice La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 387.

[17] Lezioni sulla filosofia della religione, Zanichelli Editore, Bologna 1974, vol.II, p. 366. G. Cavalcoli, LA DIALETTICA NELLA CRISTOLOGIA DI HEGEL, Sacra Doctrina, 6, 1997, pagg. 87— 140.

[18] Filosofia della Rivelazione, Editrice Bompani, Milano 2002, p. 1413.

[19] Lezioni sulla storia della filosofia, 3,I, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1985, p. 27.

[20] cf. i miei due studi: PENSARE IL PENSIERO. CONSIDERAZIONI SULLA DIGNITÀ, LE FUNZIONI E I LIMITI DEL PENSIERO, I, Divinitas, 2001, 3, pp. 279— 300 PENSARE IL PENSIERO. CONSIDERAZIONI SULLA DIGNITÀ, LE FUNZIONI E I LIMITI DEL PENSIERO, II, Divinitas, 1, 2001, pagg. 43— 72.

[21] Summa Theologiae, I, q 14, a. 4.

[22] Ibid. Questa tesi dell’Aquinate è stata dogmatizzta dal Concilio di Firenze del 1442: «in Deo omnia sunt unum» [Denz. 1330].

[23] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p. 66.

[24] Ibid.

[25] Ibid., p. 67.

[26] Ibid., p. 68.

[27] J.V. de Groot, O.P, Summa apologetica de Ecclesia Catholica ad mentem Sanctae Thomae Aquinatis, Ratisbonae 1906; R.— M. Schultes, O.P, De Ecclesia caholica. Praelectiones apologeticae, Lethielleux, Paris 1931; R. Garrigou— Lagrange, OP, De Revelatione per Ecclesiam catholicam proposita, Edizioni Ferrari, Roma 1932; A. Beni – S. Cipriani, La vera Chiesa. Le font della Rivelazione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953.

[28] cf. G. Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, pagg. 192— 194; 201; 296; 298 ss.

[29] N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, Mursia Editore, Milano 1983.

[30] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p. 93; Scienza della logica, Edizioni Laterza, Bari 1984, p.71.

[31] Summa Theologiae, I, q. 36, a. 1, ad 1m.

[32] Ibid., I, q.III.

[33] Ibid., q.IX.

[34] Fenomenologia dello Spirito, Edizioni Nuova Italia, Firenze 1988, vol. II, pagg. 293— 294.

[35] Scienza della Logica, Op. Cit., p.935.

[36] Summa Theologiae, I, q.16, a. 5.

[37] Ibid., I— II, q. 93, a. 1.

[38] Scienza della logica, op. cit., p. 935.

[39] Summa Theologiae, I, q.34.

[40] Ibid., q.15, a.3, ad 2m.

[41] Ibid., I, q.15, a.2.

[42] Ibid., q.34, aa.1— 2.

[43] Ibid., q.14, a.4.

[44] Enciclopedia, op.cit., pagg.527— 528.

[45] Denz. 806.

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