Venerabili Fratelli Sacerdoti, la Chiesa sta vivendo una crisi senza precedenti e noi stiamo vivendo la più difficile delle prove: la grande prova della fede

—  Theologica – Meditazione per il Giovedì Santo —

VENERABILI FRATELLI SACERDOTI, LA CHIESA STA VIVENDO UNA CRISI SENZA PRECEDENTI E NOI STIAMO VIVENDO LA PIÙ DIFFICILE DELLE PROVE: LA GRANDE PROVA DELLA FEDE  

Oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa compromettendo qualsiasi ricerca a cammino di fede nei presbiteri e nei fedeli.

 

 

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La severità che spesso uso, unita all’occorrenza a un’ironia affatto casuale ma voluta e soprattutto scientifica, mi porta a ipotizzare che forse non si abbia tempo di pensare ai preti. È probabile che presto giungeremo ad affiggere sulle porte delle nostre chiese l’avviso «saldi di fine stagione», oppure «svendita fallimentare». Nel Nord dell’Europa accade da tempo, quando nel 2010 mi recai a svolgere studi di approfondimento in Germania ho potuto vedere stabili di antiche chiese, sino a pochi decenni prima comunità parrocchiali, vendute e convertite in eleganti negozi, ristoranti, saloni per parrucchieri, alcune persino in night club. Nel mio libro E Satana si fece trino pubblicato a fine 2010 scrissi: «[…] un fiume in piena sta scendendo dal Nord dell’Europa e presto travolgerà anche noi».

Salvador Dali, Ultima cena

La situazione di molte diocesi italiane è drammatica, la penuria di clero sempre più alta e l’età media di certi presbitèri ha superato in molte i 70 anni. Le statistiche delle grandi diocesi sembrano bollettini di guerra, la media è pari ormai a 10 presbiteri defunti a fronte di uno o due nuovi ordinati. In alcune diocesi non si ordinano presbiteri da anni mentre nel corso degli stessi anni ne sono morti diversi. È inevitabile che nel giro di vent’anni, ma anche prima, le attuali 225 diocesi italiane saranno ridotte a 70 o 80 e che nei territori di quelle diocesi finite soppresse, composte oggi da 50 o 60 presbiteri avanti con l’età, ci saranno solo tre o quattro preti a prestare servizio girando per tutto l’intero territorio.

Sotto il pontificato di Benedetto XVI, tra il 2005 e il 2013 ci fu una leggera ripresa delle vocazioni, sotto quello del Sommo Pontefice Francesco, tra il 2014 e il 2022 c’è stato un calo vertiginoso dell’ingresso nei seminari e nei noviziati religiosi. L’anno 2022 ha registrato 1.045 presbiteri del clero secolare e regolare defunti e 392 nuove ordinazioni di presbiteri del clero secolare e regolare. I presbiteri defunti superano del 65% quello dei nuovi ordinati.

Nella stessa Roma sono stati venduti molti stabili ecclesiastici di vari ordini e congregazioni religiose e numerosi altri sono in stato di agonia. Stabili faraonici abitati ormai da quattro o cinque anziani religiosi e religiose che a breve faranno la stessa fine. E se a Roma accade questo, vi lascio immaginare quale grande vendita del patrimonio ecclesiastico è ormai in corso in tutta Italia.

Dinanzi a questo inesorabile e irreversibile declino, stiamo forse seriamente pensando a una adeguata formazione dei sacerdoti, a ripensare i seminari oggi strutturati in modo a dir poco inadeguato e per certi versi anacronistico, o a puntare tutto su una attenta pastorale vocazionale che comporterebbe anzitutto presentare come modelli di vita dei veri sacerdoti di Cristo, non dei preti secolarizzati simili a liberi professionisti del religioso o ad assistenti sociali, ridotti spesso a celebratori compulsivi di Sante Messe in corsa da una parrocchia all’altra, senza che alcun vescovo si domandi quando pregano, quando studiano, quando curano la loro vita sacerdotale? Se non ci sono più sacerdoti per coprire le parrocchie del circondario, in tal caso si dovrebbe procedere con la soppressione canonica lasciando una sola parrocchia e dicendo a chiare note ai fedeli che devono smetterla di pretendere la chiesa sotto casa e fare quattro o cinque chilometri per andare alla Santa Messa, proprio come riescono a farne 40 o 50, anziani in testa a tutti, quando si tratta invece di andare ai grandi centri commerciali. Se le famiglie che compongono la comunità cristiana non sono più in grado di esprimere vocazioni, sarà bene che i Christi fideles si assumano anch’essi le loro responsabilità, anziché pretendere di spremere i preti sino al loro esaurimento. Come però sappiamo viviamo nella Chiesa della mancanza di assunzione di responsabilità, da parte del clero per un verso, dei fedeli spesso egoisti e pigri per altro verso.

Per risolvere questi problemi ormai irreversibili, anziché ricorrere a quelle scelte radicali purtroppo necessarie, si tende invece a escogitare i peggiori espedienti evitando di fare i conti con quei nostri fallimenti che sovente gridano al cielo. Tanti sarebbero gli esempi, prendiamone uno solo: diversi vescovi, con tanto di solenni cerimonie, hanno già provveduto in giro per l’Italia ad affidare delle comunità parrocchiali a delle “accolitesse” istituite, o nella migliore delle ipotesi a dei diaconi permanenti tramite i quali è stata riesumata la antica Missa sicca[1], molto in voga tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, finché dopo la riforma liturgica del Santo Pontefice Pio V scomparve[2]. Però, come capita quando si pensa di fare grandi passi in avanti, non si fa altro che tornare indietro per dare tragica ripetizione alla storia passata, specie a quella più fallimentare. Perché di solito la storia si ripete sempre due volte: prima come tragedia e poi come farsa grottesca[3].

IL SACERDOTE È SUPERIORE AGLI ANGELI DI DIO MA RIMANE UN FRAGILE PECCATORE

Se il Verbo di Dio fatto uomo avesse voluto una Chiesa formata da entità angeliche non l’avrebbe fondata sulla terra, ma in quella Gerusalemme Celeste di cui ci parla il Beato Apostolo Giovanni nel capitolo XXI dell’Apocalisse. Invece l’ha fondata sulla terra, usando uomini corrotti dal peccato originale (cfr. Gn 2,17) ed esposti alla corruzione del peccato.

Durante l’Ultima Cena, istituendo la Santissima Eucaristia come mistero vivo della sua presenza e consacrando gli Apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza, li rese partecipi del sacerdozio ministeriale del Cristo Sommo Sacerdote (cfr. Eb 2,17; 4,14). Consacrandoli sacerdoti li elevò così in dignità al di sopra degli stessi Angeli di Dio[4]. Questa dignità non impedisce all’uomo-sacerdote di cadere nel peccato o di essere in certe occasioni un vero e proprio diffusore del peccato, nei casi più gravi e rari può persino accadere che il sacerdote giunga a mutarsi in un corruttore in grado di creare strutture di peccato all’interno della Chiesa. Basti pensare cosa fu capace di fare Giuda Iscariota, anche lui aveva ricevuto come tutti gli Apostoli prescelti la prima Eucaristia e la consacrazione sacerdotale.

Ci sono vari passi del Santo Vangelo che mettono in luce tutte le fragilità umane degli Apostoli, a partire da Pietro scelto da Cristo come Capo del Collegio Apostolico, che poco dopo avere ricevuto la sua investitura (cfr. Mt 16, 30-20) si dette alla fuga per primo dinanzi al pericolo, rinnegando il Divino Maestro per tre volte, come riportano i racconti dei tre Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni. Nel racconto degli Evangelisti Marco e Matteo si precisa che Pietro, alla terza volta che gli veniva chiesto se conoscesse quell’uomo «cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco quell’uomo!”». Nella cultura giudaica dell’epoca, giurare il falso o tirare in ballo il nome di Dio con un giuramento era considerato un delitto gravissimo che poteva essere punito persino con la morte. Eppure Pietro, il primo Capo del Collegio degli Apostoli, fece questo: imprecò e giurò il falso dicendo di non conoscere il Cristo.

Nel periodo successivo alla risurrezione di Cristo e dopo avere ricevuto i doni di grazia dello Spirito Santo a Pentecoste (cfr. At 2, 1-41), Pietro fu duramente rimproverato ad Antiochia dall’Apostolo Paolo che lo accusò di ambiguità e ipocrisia (cfr. Gal 2, 11-14). Per inciso: non mi risulta che nessuno abbia mai tacciato il Beato Apostolo di essere arrogante o più semplicemente inopportuno nelle sue espressioni critiche, anzi mi risulta che si debba tributargli tutt’oggi grande merito, perché se fosse stato per la “ipocrisia” e la “ambiguità” di Pietro o per un certo “integralismo” di Giacomo il Maggiore, oggi non saremmo ciò che siamo, ma solo una sètta giudaico-cristiana. Come tali non saremmo sopravvissuti, come non è sopravvissuto l’Ebraismo come religione dopo il 70 d.C. con la caduta del Tempio. Infatti, l’Ebraismo di oggi, è solo una pantomima di quella che fu l’antica religione ebraica, basti solo dire che sono scomparse le caste sacerdotali e i rituali di consacrazione che erano tutti quanti strettamente legati al Tempio. Elementi questi di cui scrissi in un mio corposo saggio del 2006: Erbe amare, il secolo del Sionismo.

C’è un passo drammatico del Vangelo della Passione di Cristo dove si narra l’arresto del Signore, dinanzi al quale risuonano queste parole: «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26, 56). Se ci pensiamo bene quello fu l’unico concilio della Chiesa dove tutti i Padri furono unanimi nella decisione. Per costituire la propria Chiesa, immagine visibile del corpo di cui Egli è capo e noi membra come illustra il Beato Apostolo Paolo (cfr. Col 1, 18), Cristo scelse degli uomini gravati da tutti i loro limiti, debolezze e inadeguatezze, che dinanzi all’arresto del Divino Maestro fuggirono.

I fedeli cattolici, ma anche le persone distanti dalla Chiesa o persino i non credenti, spesso pretendono che il sacerdote abbia quella purezza di vita che loro non hanno e che semmai non vogliono nemmeno avere. Talvolta i fedeli cattolici tendono ad avere del sacerdote un’idea surreale completamente scissa da quella che è la realtà del sacro ministero, rifiutandosi di capire che esercitarlo oggi è molto più difficile di quanto non lo fosse 100 anni fa, ma anche e solo 50 anni fa.

Il sacerdote, per il Sacramento di grazia col quale è stato segnato e per il sacro ministero a cui è chiamato, può finire con l’essere soggetto molto più di altri alle tentazioni del Demonio, perché è dispensatore della grazia attraverso i sacri misteri, per questo si accanirà con i consacrati in modo particolare. E questa fu una delle prime lezioni che imparai quando feci i corsi di formazione per gli esorcisti.

SENZA L’USO DELL’ELEMENTO STORICO NON SI PUÒ FARE TEOLOGIA NÉ SI POSSONO CAPIRE A FONDO CERTE SITUAZIONI RADICATE NEL CLERO, SE PERÒ LO FAI PRESENTE, PRONTA LA RISPOSTA DEL CLERICALE CHE MANIPOLA IL SANTO VANGELO: «CHI SEI TU PER GIUDICARE?» 

 Uno dei miei principali formatori fu il gesuita Peter Gumpel (1923-2022), eminente storico del dogma, che mi trasmise l’importanza fondamentale della storia nello studio della dogmatica, tutt’oggi materia di mio interesse e ricerca. Un teologo dogmatico privo di solidi fondamenti dati da adeguate conoscenze storiche, può seriamente rischiare di non avere una reale percezione dei fondamenti della fede finendo col perdersi nell’iperuranio della metafisica onirica. Dietro ai grandi concili dogmatici, a partire dal Primo niceno per seguire col Primo costantinopolitano che definiscono le verità fondamentali e che elaborano il nostro Simbolo di Fede, c’è una storia complessa e articolata intrecciata con articolate vicende politiche e difficili rapporti che correvano già all’epoca tra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente.

I chierici hanno sempre vissuto momenti ciclici di decadenza dottrinale e morale particolarmente gravi. Se qualcuno non conosce la storia, è inutile se la prenda con me che in scritti o interventi pongo spesso in luce certe odierne derive ecclesiali ed ecclesiastiche. Non posso che sorridere su certe “anime delicate” che giudicano le mie parole come una sorta di attentato di lesa maestà clericale, posto che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo (cfr. Col 1, 18), non un circolo chiuso trasformato in una «struttura di peccato» piena di «sporcizia»[5], da coprire e proteggere in ogni modo con atteggiamenti distruttivi verso chiunque osi esercitare il prezioso dono critico dato dalla libertà dei figli di Dio. Chi agisce con atteggiamenti omertosi clericali dimostra anzitutto in modo inquietante di non conoscere le opere di molti Santi Padri e dottori della Chiesa che usarono forme di severità e durezze di linguaggio ben superiori alle mie. Può essere però che non abbiano mai letto gli scritti in cui San Pier Damiani condanna con toni di fuoco la pratica della sodomia diffusa tra il clero[6], o il testo indirizzato da San Bernardo di Chiaravalle al Sommo Pontefice Eugenio III nel quale gli illustra in che modo sia circondato da prelati ruffiani e simoniaci che guardavano solo ai loro sporchi interessi[7], o Santa Caterina da Siena che invitata ad Avignone rispose al Sommo Pontefice di non avere bisogno di visitare la sua corte perché il fetore che emanava si sentiva sin dalla sua Città[8], sino alle più recenti critiche alla mediocrità e immoralità dell’episcopato e del clero di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori[9] o alle analisi critiche del Beato Antonio Rosmini che lamentava l’ignoranza del clero[10]. Tutto sommato le stesse cose che lamento io a coloro che attaccandosi a forme stilistiche o al fatidico «chi sei tu per giudicare?» ― con il quale vorrebbero tappare la bocca a qualsiasi pensiero critico ― dimostrano di non conoscere ciò che di molto peggio e in tono ben più severo hanno detto e scritto molti Santi Padri e dottori della Chiesa. Basterebbe poi conoscere i canoni disciplinari di certi concili, per esempio il IV Lateranense del 1215, dove si indicano a uno a uno i pessimi costumi del clero disponendone la correzione col ricorso a severe pene. E come mai, il Concilio di Trento, riguardo gli ecclesiastici, vescovi e presbiteri, dispose certe precise e rigide regole? Per comprenderlo basterebbe conoscere ciò che accadeva nel clero all’epoca rinascimentale e la risposta sarebbe presto data. Poi, se vogliamo toccare con mano lo stato di degrado in cui versava il nostro clero negli anni Trenta del Novecento, in tal caso basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii scritta nel 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, attraverso le righe della quale il quadro è presto fatto e fornito. Domanda: non è che quei soggetti che si stracciano le vesti accusando me di usare toni duri e severi, o attaccandosi alla forma espressiva non potendo smentire la sostanza, sono semplicemente e palesemente degli ottusi ignoranti sul piano storico ed ecclesiologico che pretendono di trattare e gestire la Chiesa come se fosse una cosca mafiosa retta su principi di omertà?

Anche in questo caso la risposta del clericale ottuso è presto data: «Vuoi forse paragonare te stesso a certi Santi Padri e dottori della Chiesa? Ah, che superbia, che arroganza!». Accusa questa tipica di chi reagisce stravolgendo e manipolando sia la realtà sia ciò che hai detto, posto che mai ho paragonato me stesso a certi Santi, ho solo cercato di prendere esempio da loro, per il semplice fatto che anch’io sono chiamato alla santità come tutti i battezzati, posto che la santità non è affatto una meta irraggiungibile, ma una meta che tutti siamo chiamati a raggiungere. Anche Gesù Cristo fu schiaffeggiato nel Sinedrio e rimproverato «Come osi rispondere così al Sommo Sacerdote?» (Gv 18, 22). Ovviamente il clericale manipolatore ha già pronta la risposta: «Vuoi forse paragonare te stesso a Gesù Cristo?». Certo che no, però sono in tutto e per tutto un alter Christus e come tale devo imitarlo e conformarmi a lui, perlomeno fu questo che mi disse il Vescovo consacrandomi presbitero. Per questo rispondo come Gesù Cristo: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18, 23). Pronta la replica del clericale manipolatore: «Il problema non è la sostanza ma la forma, il modo in cui dici le cose». Questo perché per il clericale ottuso e manipolatore a farci liberi non è affatto la verità (cfr. Gv 8,32), ma la forma in cui la verità si dice, perché la forma è sempre e di gran lunga superiore alla sostanza della verità. Non era forse questo che insegnavano Sant’Anselmo d’Aosta, San Tommaso d’Aquino e gli altri Padri della scolastica classica, ossia che gli accidenti sono superiori alle sostanze? Ma che arrogante che fu Tommaso da Kempis che scrisse la celebre opera Imitazione di Cristo. Come si può pensare di essere superbi al punto da presumere di poter imitare Cristo? Ecco perché affermo e non mi stanco di ribadire che il clericalismo è peggiore dell’ateismo. Perché l’ateo nega Dio, il clericale ottuso manipola e falsifica Dio e la sua Parola per imporre come suprema legge le proprie peggiori miserie umane.

Tutto questo si chiama mysterium iniquitatis, ne parla chiaramente il Beato Apostolo Paolo dicendo che «il mistero dell’iniquità è già in atto» (2 Ts 2, 1). Elemento teologico ben preciso dinanzi al quale, il peggio che si possa fare, è di irritarsi dinanzi a chi questo mistero lo affronta, lo analizza e all’occorrenza lo pone in luce per scuotere anche le coscienze sempre più narcotizzate di certi ecclesiastici, sempre pronti a irritarsi se qualcuno osa indicare il male per ciò che è: male.

Un ventennio fa il Santo Pontefice Giovanni Paolo II lanciò l’ennesimo allarme parlando di una «apostasia silenziosa» e scrivendo a tal proposito che «La cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse»[11].

In questa decadenza e in questo rifiuto del sacro e del trascendentale ci siamo immersi anche noi preti, c’è poco da gridare allo scandalo se affermo che oggi, la forma di ateismo peggiore è quella dell’ateismo clericale. Basta solo osservare come certi preti celebrano la Santa Messa, per poi domandarsi in modo a dir poco ragionevole se credono veramente in quel che fanno, oppure se hanno dimenticato del tutto quando il Vescovo gli disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore»[12].

IL PRETE DI IERI ERA PROTETTO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO, OGGI È PRIVO DI PROTEZIONE SIA ESTERNA CHE INTERNA

Sino a mezzo secolo fa il prete viveva in contesti sociali nei quali era protetto come uomo e come figura sacra dalla società e dalle sue stesse strutture. Preti indegni e peccatori che hanno infranto le regole sono sempre esistiti, ma sino a non molti decenni fa vivevano in contesti socio-culturali in cui erano protetti. Pertanto, il prete che aveva comportamenti non adeguati al proprio status sacerdotale violava le regole e commetteva i propri peccati in un clima di totale nascondimento, evitando di dare pubblico scandalo, perché aveva molto chiaro in sé che cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Questo perché anche ai membri della società dei tiepidi verso la fede o anche agli stessi non credenti era chiaro cosa fosse il bene e cosa fosse il male. Se quindi il prete sbagliava, o se commetteva peccati, era consapevole di sbagliare e di peccare e faceva tutto il possibile affinché il suo peccato non desse pubblico scandalo. A questo si aggiunga che in epoche passate, anche recenti, non c’erano i mezzi di comunicazione e di controllo che ci sono oggi, dove nell’era dei social viviamo tutti quanti esposti in vista su una pubblica piazza, mentre le notizie giungono da una parte all’altra del mondo in pochi secondi. Oggi il prete vive inserito all’interno di una società che oltre a non proteggerlo cerca di convincerlo che il male è bene e il bene male, inducendo i deboli a cadere nei peggiori vizi e perversioni.

Una volta il prete era considerato socialmente una autorità morale persino da coloro che rigettavano la dottrina e la morale cattolica, ma che per quanto ostili al Cattolicesimo riconoscevano nel prete una figura ben precisa. Oggi la Chiesa Cattolica, il Romano Pontefice, i vescovi e i preti sono usati per fare non comicità o satira, cosa sempre esistita sin dai tempi del grande Giovanni Boccaccio e di Pietro l’Aretino. Con la scusa delle comicità e della satira che in realtà non sono però tali, si cerca di destituire la Chiesa e il suo clero di qualsiasi autorità, autorevolezza e fondamento spirituale e soprannaturale, in modo spesso subdolo, violento e distruttivo. A questo si aggiungano quei preti che sviliscono i sacri misteri trasformando il Sacrificio Eucaristico che si rinnova durante la celebrazione della Santa Messa in show stravaganti quasi sempre frutto del narcisismo egocentrico del prete e del suo pressoché assente senso del sacro.

Per questo e vari altri motivi dico spesso ai confratelli di cui sono confessore e direttore spirituale che il Demonio è un concentrato di intelligenza allo stato puro che nel corso dei secoli ha capito che le persecuzioni e il sangue dei martiri hanno sempre purificato e rafforzato la Chiesa, dandole forza e linfa vitale. La nuova tecnica che ha adottato ai nostri giorni è invece terribile: farci morire nel ridicolo. E a morire martiri per la fede i preti possono anche essere preparati, ben sapendo che potrebbe essere una possibilità del tutto eventuale, a suo modo scritta nel nostro carattere sacerdotale indelebile ed eterno. Mentre a morire sommersi nel ridicolo nessuno era preparato. Purtroppo è questa la morte che si tenta di riservare alla Chiesa e al suo clero: il ridicolo. E di fronte al rifiuto sociale e alla totale indifferenza che spesso vanifica qualsiasi tentativo di attività pastorale, non pochi sono i preti che finiscono per andare in crisi. Alcuni in modo serio, in particolare quelli con trenta o quarant’anni di sacro ministero che finiscono spesso per domandarsi quale sia la loro utilità, se sono utili a qualche cosa e che cosa? Quelli che si pongono questi quesiti quasi sempre dolorosi e drammatici, per quanto vivano in stato di crisi, sono i buoni preti che hanno sempre creduto e che credono nella loro missione. Poi ci sono gli altri, che vanno a braccetto con il mondo e che fanno di tutto per piacere al mondo e per compiacerlo. Questi secondi sono quasi sempre pessimi preti difficili da aiutare e recuperare, anche perché sono totalmente ripiegati nelle forme peggiori di secolarizzazione e a essere aiutati o recuperati non ci pensano proprio.

LA CRISI DELLA DOTTRINA DELLA FEDE E DELLA MORALE, OLTRE AL PROBLEMA DELL’IGNORANZA DEI PRETI MALFORMATI E DEFORMATI

In diversi miei libri e articoli scritti nel corso degli ultimi 15 anni ho spiegato ― e credo anche dimostrato ― in che modo, animati da ingenue buone intenzioni, dalla metà degli anni Sessanta del Novecento a seguire abbiamo cercato di andare incontro al mondo e di piacere a tutti i costi alla società contemporanea che si era messa in marcia verso la decadenza dei valori umani e morali. Nel fare questo ci siamo dimenticati che lo scopo della Chiesa non è quello di piacere al mondo ma di combattere le sue gravi malattie. E anche questo ci era stato detto:

«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15, 18-19).

Un male inteso spirito del Concilio fomentato da parte di coloro che i documenti del Concilio Vaticano II non li hanno mai studiati né bene né a fondo e che si sono creati per questo un concilio personale tutto loro, mai scritto dai Padri della Chiesa, ha finito col generare una crisi della dottrina che ha dato vita a sua volta a una crisi della fede sfociata infine in una devastante crisi morale del clero, buona parte del quale, specie in certi angoli del mondo, versa in condizioni di secolarizzazione che da tempo hanno superato tutti i livelli di guardia.

Il Santo Pontefice Paolo VI, che del Concilio Vaticano II indetto dal Santo Pontefice Giovanni XXIII fu il traghettatore, oltre a colui che ne portò la croce, dinanzi alla innegabile evidenza di certe derive sia dottrinali che secolariste disse:

«Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, d’incertezza»[13].

In quegli anni, uno dei maestri della Scuola Romana, Antonio Piolanti, che al concilio fu perito, dinanzi a certe stravaganze che presero a diffondersi agli inizi degli anni Settanta del Novecento soleva ripetere dalla sua cattedra della Lateranense:

«Questo non è il Concilio, nulla di tutto ciò è stato scritto dal Concilio, mai! Questo è solo il para-concilio dei preti e dei teologi eccentrici, che con il Concilio Vaticano II e i suoi documenti non ha niente da spartire!»

Tutti i giorni tocco con mano delle situazioni di grave immoralità diffuse nel clero, ma in scienza e coscienza posso dire e altrettanto facilmente dimostrare che spesso non è colpa dei sacerdoti ma del modo inadeguato e superficiale con il quale sono stati formati e portati al sacerdozio. Spesso, la colpa, è dei vescovi che hanno dimenticato persino il significato etimologico della parola ἐπίσκοπος e che hanno gravemente omesso di vigilare e accudire il loro clero, evitando di consacrare presbiteri soggetti immaturi privi di requisiti umani, morali e spirituali.

In molte università ecclesiastiche e istituti teologici si insegnano più sociologia e scienze politiche anziché i fondamenti della solida dottrina e della teologia cattolica di base che sono i soli in grado di dare ai preti un fondamento e soprattutto delle forti motivazioni pastorali che non si basano sulle effimere emozioni, ma sulla trascendenza. A quel punto il danno è presto fatto: molti preti oggi non conoscono neppure più il significato di certe parole e per questo le equivocano in modo gravemente sbagliato. Per esempio mi è capitato spesso di udire preti affermare, persino durante le omelie: «Basta con questi assolutismi … oggi non siamo più la Chiesa dell’assoluto che pensa di avere la sola verità in tasca» (!?). Non è però questo che troviamo scritto nel documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes che affronta il delicato tema del rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo. Per seguire con preti che usano termini come «dogmatico» o «tridentino» in accezione negativa se non addirittura offensiva, manifestando a questo modo una spaventosa ignoranza che unita all’arroganza si compiace di sé stessa. Signori Vescovi, ma a questi soggetti chi li ha formati, soprattutto: chi li ha fatti preti? E dico ignoranza perché anche il più umile dei preti divenuto tale solo dopo una semplice ma buona formazione di base, dovrebbe sapere che grazie al Concilio di Trento la Chiesa fu anzitutto purificata da molte corruzioni e soprattutto aprì le porte alla grande evangelizzazione, cessando nei successivi 100 anni di essere un fenomeno principalmente europeo per diffondersi in tutti i continenti del mondo. Il Concilio di Trento segnò anche una gloriosa stagione di grandi Santi e Sante della carità, dei grandi pedagoghi e dottori che crearono straordinari istituti e strutture di formazione, assistenza, educazione della povera infanzia ed evangelizzazione. Questo fu il Concilio di Trento usato oggi in accezione negativa da certi ignoranti che si compiacciono della propria ignoranza sentenziando: «Ah, questi vecchi dogmatismi che puzzano di naftalina … Ah, che spirito tridentino!». Quello di Trento fu un concilio grandioso che i Padri del futuro Concilio Vaticano II apprezzarono e richiamarono in modo sapiente in tutti i loro fondamentali documenti, a partire dalle Costituzioni Lumen gentium e Dei verbum.

Affermazioni del genere sono delle autentiche scempiaggini, ma vediamo come mai alcuni le pronunciano con disinvolta convinzione. Anzitutto perché confondono il termine “assoluto” ― che in tutte le religioni giudeo-cristiane, nella filosofia metafisica, nella teologia dogmatica e nella teologia fondamentale ha un significato ben preciso legato alla assolutezza della fede rivelata[14] ― con quello che invece è “l’assolutismo” di tipo politico. Il Santo Vangelo è pieno di espressioni categoriche e assolute pronunciate da Gesù Cristo, per esempio: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Cristo non fornisce altre opzioni, ma ne offre una sola e assoluta, perché Lui, il Verbo di Dio incarnato è l’Assoluto generato non creato dall’Assoluto, allo stesso modo in cui lo Spirito Santo è l’Assoluto che procede da Dio Padre e da Dio Figlio, essendo a sua volta Dio Spirito Santo. E quando nel Simbolo di Fede noi professiamo di credere la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, enunciamo un assoluto, come in varie altre parti del Credo ne enunciamo altri, posto che Cristo sulla Terra ha fondato una sola Chiesa, non una molteplicità di chiese.

Se la formazione del sacerdote è fatta in modo superficiale senza che siano a lui fornite delle basi molto solide, appena si troverà inserito come prete nel mondo, rischia di fare la fine della canna spezzata dal vento, se non peggio: divenire un vero e proprio corruttore del Popolo di Dio.

CHI NON È IN GRADO DI REGGERE LA SOLITUDINE NON DOVREBBE DIVENTARE PRETE

La solitudine è quella compagna sgradita che spesso segue il prete nel corso della sua esistenza, a meno che non si muti in cristologica solitudine, per questo non si pentirà di averla scelta. Anche Cristo, nelle ore più tragiche della sua vita, restò solo, abbandonato da quegli stessi che Egli aveva scelti a testimoni e compagni della sua esistenza e che aveva amati fino alla fine (cfr. Gv 13, 1), ma dichiarò: «Io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32). Se certi preti, anziché inventarsi un egocentrico concilio mai celebrato dai Padri della Chiesa, studiassero veramente i documenti del Concilio Vaticano II e certi documenti del successivo magistero del Santo Pontefice Paolo VI, molti dei nostri drammatici problemi sarebbero risolti con la sola lettura dell’Enciclica Sacerdotalis Coelibatus pubblicata il 24 giugno 1967.

Per questo i momenti di solitudine sono sempre degli spazi preziosi di vita, che è bene anzi ritagliarsi e vivere, perché favoriscono la preghiera profonda, la riflessione e la meditazione spirituale sul mistero della vita e della morte. Spesso, durante le direzioni spirituali, mi capita di chiedere ai sacerdoti: … ma tu, mediti mai sulla morte? Se a questa domanda il prete mi risponde in modo scherzoso dicendo «Ah, ma per pensare alla morte c’è tempo!», o se peggio mi viene risposto «sono talmente impegnato in tante attività che alla morte non ci penso proprio» … ecco, in quel caso capisco subito che c’è molto da lavorare sulla spiritualità del prete, o forse sulla sua debole o a volte persino assente spiritualità. Troppi sono i preti che purtroppo non si distinguono per niente da quelli che possono essere i liberi volontari di associazioni non governative, troppi e sempre di più. Con alcuni è possibile lavorare, ottenendo anche buoni risultati, con altri purtroppo no, perché è mancata proprio la basilare formazione del prete.

Esiste però anche un altro genere di solitudine, quella che nasce da forme di abbandono o di isolamento. Non pochi sono i sacerdoti lasciati a sé stessi dai loro vescovi impegnati in tutt’altre faccende a loro dire sempre e di rigore più importanti, per potersi occupare dei propri preti. A quel punto nasce per prima cosa la disaffezione tra il prete e il proprio vescovo. Cosa grave e pericolosa, perché il sacerdozio del presbitero è intimamente e inscindibilmente legato alla pienezza del sacerdozio apostolico del vescovo[15]. Appena il prete incomincia a sentirsi abbandonato dal vescovo e dai propri confratelli, anch’essi affaccendati in molte cose sempre e di rigore più importanti della fraternità sacerdotale, a poco a poco incomincia a isolarsi. E da questi due elementi pericolosi che sono “isolamento” e “solitudine” può nascere veramente di tutto e di più.

Vorrei evitare di scendere in certi dettagli, quindi proverò a dare in modo delicato almeno un’idea del mio ministero con i sacerdoti, spiegando a che cosa possa portare quella solitudine che genera abbandono e conseguente senso di isolamento. Ecco allora casi di sacerdoti che cadono in forme più o meno gravi di depressione, che cadono nell’alcolismo, alcuni nell’uso delle droghe, altri nella dipendenza molto dannosa da internet con tutto ciò che questo strumento può comportare e offrire, o in frequentazioni di persone e ambienti per così dire … molto poco raccomandabili. Sacerdoti che si sentono inutili perché vorrebbero dare ma che ritengono di versare o di essere stati messi nella condizione e nella impossibilità di poter dare …

I PRETI SONO QUANTO DI PIÙ DELICATO CON IL QUALE UN PRETE PUÒ RITROVARSI A TRATTARE

Con certi vescovi ho cessato di discutere sin da quando ho capito che se il dono della paternità non l’hai ricevuto, o più semplicemente non lo hai mai sostanzialmente acquisito e sviluppato, non ti viene certo infuso al momento in cui ti mettono un anello alla mano, una mitria sulla testa e incominciano a chiamarti “Eccellenza Reverendissima”.

Come hanno risolto certi problemi alcuni vescovi molto lungimiranti? Presto detto: mettendo a disposizione dei preti degli psicologi, preferibilmente donne, alcune delle quali provenienti persino dalla scuola freudiana e lacaniana. A quel punto perché non dare direttamente cattedra ai corsi filosofici presso gli studi teologici dove si formano i nostri futuri preti a degli ideologi marxisti? Chiariamo: che un prete possa avere bisogno di un bravo medico specialista in psichiatria è cosa del tutto possibile. Io stesso sono in stretto contatto con due bravi ed esperti psichiatri cattolici ai quali varie volte ho indirizzato miei confratelli che avevano evidente bisogno di supporti clinico-psichiatrici, o perché versavano in stati depressivi, o perché affetti da nevrosi ossessive, o perché sofferenti per vari altri disturbi. Ma un direttore spirituale non può, né mai potrà essere sostituito con una “psicologa diocesana”, perché per aiutare un prete e sanare le ferite della sua anima occorre sempre e di necessità un altro prete, nessun altro lo può fare. E su questa moderna mania tutta quanta tedesca di distribuire “quote rosa” dentro la Chiesa in modo puramente politico e ideologico, preferisco veramente soprassedere, tanto sono infastidito da certe invadenti cattoliche impegnate e militanti che se potessero ci caccerebbero fuori per celebrare al posto nostro anche la Santa Messa.

Per i preti, trovare un bravo confessore è sempre più difficile, anche perché confessare un prete è cosa molto delicata. Trovare un bravo direttore spirituale è più difficile che trovare un bravo confessore. Se infatti il confessore è colui che ti assolve dai peccati, il direttore spirituale è colui che dirige i tuoi passi sul cammino della fede e della vita sacerdotale, che ti aiuta nella tua formazione permanente al sacerdozio e a ravvivare il dono che è in te[16]. Colui che all’occorrenza, con quella prudenza e lungimiranza frutto dei doni di grazia dello Spirito Santo, ti dice cosa fare o, in caso di necessità, ti impone proprio quel che è opportuno fare o non fare.

Tra un sociologismo e l’altro ci siamo inventati un nuovo termine che alcuni hanno ritenuto più allettante di “direzione spirituale”, quello di … “accompagnamento spirituale” (!?).  Anche in questo caso è necessario chiarire: dirigere e accompagnare sono due cose totalmente diverse. Purtroppo certi ecclesiastici non hanno imparato niente dai clamorosi fallimenti sociali ed educativi che si sono consumati pochi decenni fa, quando nei poco gloriosi anni Settanta del Novecento la psicologia selvaggia lanciò la moda dei “genitori amici”, in un fiorire di pensierini e di temi scolastici in cui i bimbi spiegavano: “… il mio papà è il mio migliore amico”, mentre le bambine scrivevano che “la mia mamma è la mia migliore amica”. E una volta divenute adolescenti si sono ritrovate con madri diseducative che pretendevano di fare le teenager andando a ballare con le figlie, se non peggio rubando alle figlie i fidanzati.

Il genitore, padre e madre, sono tutt’altra cosa. Non sono degli amici del cuore che accompagnano, sono gli educatori che dirigono i figli, il punto fermo e fondamentale della loro crescita, coloro che all’occorrenza gli alzano la voce e dicono di no, o che se necessario proibiscono di fare una cosa sbagliata e dannosa.

Curare l’anima di un prete è difficile come lo è per un medico curare un altro medico, o come per un chirurgo portare in sala operatoria un altro chirurgo.

NEPPURE IO TI CONDANNO. E ADESSO VAI E NON PECCARE PIÙ!

Quando infine molti sacerdoti hanno preso coraggio e vuotato il sacco narrandomi le peggiori cose e le loro peggiori gesta, a volte a testa basta, spesso e volentieri piangendo, mi hanno chiesto: «Ma tu, non provi disgusto per me?». Con molto affetto ho ricordato loro il brano del Santo Vangelo del Beato Evangelista Giovanni in cui si narra della prostituta che stava per essere lapidata. Prima però, i farisei, posero un quesito provocatorio a Gesù «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Rispose loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Poi disse alla donna: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 7, 53-8,11).

Quella pubblica peccatrice è una persona reale, ma al tempo stesso un paradigma, perché tutti siamo prostitute e nessuno di noi potrebbe lanciare la prima pietra vantando di non avere peccato. Per questo ho sempre risposto al quesito di certi sofferenti dicendo che non provavo disgusto ma senso di amorevolezza per il peccatore pentito cui potevo solo dire in sacerdotale coscienza … neppure io ti condanno, adesso vai in pace con Dio e d’ora in poi non peccare più.

Che un peccatore possa assolvere dal peccato un altro peccatore, o che un peccatore possa guidare un altro peccatore sul giusto cammino, non è cosa illogica, ma costituisce da sempre una delle principali ratio del grande mistero della fede. Il Beato Apostolo Paolo scrive «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5, 20) e nella notte di Pasqua, quando si benedice il cero simbolo della luce del Cristo risorto, sulle parole dell’Aquinate si canta nel Preconio: «O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!»[17].

La cosa peggiore che si può fare con un sofferente afflitto, umiliato e pentito per il proprio peccato, è quella di investirlo con rimproveri e giudizi morali. In pratica come se il medico di un pronto soccorso, anziché chiudere una ferita aperta che sanguina, ci mettesse del sale sopra.

PER FARE LO STUDIOSO NON È NECESSARIO DIVENTARE PRETE

La teologia non può essere una semplice speculazione intellettuale fine a sé stessa, ma una orante e incessante ricerca della verità, cosa questa che si realizza soltanto pregando e studiando, ma soprattutto tenendo sempre fisso all’orizzonte il monito: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31), vale a dire quella verità di cui siamo servitori e non certo padroni. O come diceva San Tommaso d’Aquino: «Non sei tu che possiedi la verità, ma la verità che possiede te». Ritengo inaccettabile, anzi aberrante che siano tutt’oggi tollerati preti-teologi che non hanno alcun concreto rapporto con la reale vita pastorale, che da anni non entrano in un confessionale, che tengono lezioni accademiche ma che non predicano nelle chiese o che non saprebbero neppure da che parte incominciare nel dare il Sacramento dell’unzione degli infermi. È inaccettabile che l’attività di questi soggetti si limiti alla celebrazione della Santa Messa al mattino in una cappella di anziane religiose per poi dedicarsi a tutt’altre faccende. Questo genere di preti non sono teologi, ma veri e propri mostri. Personalmente non sono mai riuscito a concepire la teologia scissa dalla concreta vita ecclesiale, pastorale e sacramentale. Il sacerdote, quello che svolge il ministero di parroco in modo particolare, ha delle precise responsabilità verso il Popolo di Dio, basate sul principio di priorità. Esempio: non si spediscono le pie donne a portare la Santa Comunione agli ammalati perché a loro dire impegnati in inderogabili … attività pastorali (!?) Fossi il vescovo di certi preti non esiterei a richiamarli severamente precisando che se da una parte c’è il consiglio parrocchiale o una serata con i giovani e dall’altra un infermo da visitare, il prete lascia il consiglio e i giovani e si reca dall’infermo, anziché spedirvi la pia donna. Sorvoliamo poi su quei parroci che a tutti danno la chiave del tabernacolo ma a nessuno darebbero mai la chiave della cassa dove tengono i soldi o della loro automobile personale. Sorvoliamo, posto che noi siamo i custodi della Santissima Eucaristia e non certo dei quattrini, oltre al fatto che se i vescovi devono richiamare i preti, spesso lo fanno per cose talmente risibili e ridicole che riportano alla mente il moscerino filtrato e il cammello ingoiato (cfr. Mt 23, 24).

NON INTERESSANO LE TUE OPERE, CONTA LA FORMA. QUEL SOGGETTO VOLGARE E INOPPORTUNO DI GESÙ CRISTO CHE NELLA FORMA DIFETTAVA GRAVEMENTE

È necessario fare ricorso a un esempio personale che se potessi eviterei, ma purtroppo è utile per rendere chiaramente l’idea. Uno dei vari preti che ho assistito e che dopo alcuni anni è uscito da una brutta depressione, a vari suoi intimi e confratelli ha affermato: «Se quella sera, dopo un lungo colloquio telefonico, Ariel non fosse partito alle 17 del pomeriggio da dove si trovava, per fare 500 chilometri e giungere da me poco prima di mezzanotte, forse, al mattino, mi avrebbero trovato a penzolare con una corda attaccata al collo». Pur malgrado, a fronte di questo mio lavoro pastorale, è accaduto che ci si sia rivolti a me più volte con delle lettere unicamente per sollevare rimproveri basati sul «… mi hanno detto che … alcuni si sono lamentati per certi tuoi scritti … per i toni che usi…». I miei scritti contengono forse elementi o espressioni in contrasto con la dottrina della fede e la morale cattolica? Ovvio che no, la dottrina della fede e la morale cattolica le difendo e le diffondo. Dunque? Presto detto: la forma. Evidentemente, chi si attacca alla forma, non ha mai letto le invettive di Gesù Cristo contro gli scribi e i farisei, o se le ha lette, forse non ne ha proprio colto sia la forma che la sostanza (cfr. Mt 23, 1-39). Per comprenderne la portata e la gravità offensiva basterebbe accantonare il surreale Vangelo fatto di danze al ritmo dei bonghi di certi Neocatecumenali, o quello delle stelline e dei cuoricini palpitanti e degli svenimenti emozionali di certi carismatici e focolarini per imparare un po’ di esegesi novo testamentaria. Per esempio, vediamo che cosa voleva dire rivolgersi in questi toni a degli alti notabili e a dei membri della casta sacerdotale:

«sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume».

Chiariamo: la Legge, ossia la הלכה e il תַּלְמוּד consideravano il cadavere la quintessenza della impurità. Ai כּוהנים membri della casta sacerdotale in particolare era proibito non solo avere contatti con i cadaveri, ma non potevano avvicinarsi neppure a distanza ai luoghi di sepoltura, perché sarebbero caduti in stato di impurità (טָמְאָה). Per tornare puri (טָהוֹר) avrebbero dovuto sottoporsi a lunghi e meticolosi rituali di purificazione per la durata di 30 giorni.  Presto detto: se Gesù Cristo si fosse rivolto a loro dicendo וזה חרא טוטאלי (siete dei pezzi di merda), per la cultura giudaica dell’epoca e dinanzi alla Legge sarebbe stato molto meno offensivo. Per non parlare dell’epiteto «razza di vipere», una offesa di una gravità inaudita, non solo perché il serpente era l’animale più impuro (טָמְאָה), ma perché era il simbolo biblico per antonomasia del male. Non solo Gesù Cristo paragona questi “ecclesiastici” a dei serpenti, perché fa molto di peggio: li chiama «razza». Cosa terribile, perché non solo offende loro, ma addirittura l’intera ascendenza dei loro antenati. Presto detto: la nota espressione romanesca «li mortacci tua» a confronto è davvero niente. Ecco, avrei gradito che coloro che una tantum mi hanno mandato la letterina di rito per informarmi «mi hanno detto che … hanno protestato perché …», avessero invitato certi clericali suscettibili a studiare il vero significato di certe espressioni del Nuovo Testamento, perché delle due cose l’una esclude l’altra: o sono ignoranti loro, oppure leggiamo e predichiamo proprio due Vangeli diversi. Il Vangelo che mi fu messo in mano e consegnato prima quando fui ordinato diacono e poi quando fui consacrato sacerdote è il Vangelo di Gesù Cristo, non quello prodotto dalla industria Perugina che dentro i suoi baci al cioccolato mette delle cartine con dei teneri pensierini struggenti. A me il Vescovo disse «conformati alla croce di Cristo», in ossequio al comando del Divino Maestro che ci invita a prendere la nostra croce e seguirlo (Lc 9, 23). Nessuno mi ha mai detto di conformarmi alla Perugina e di lanciare manciate di bacetti al cioccolato ai Christi fideles, o di annunciare un Vangelo annacquato quanto basta per non irritare e offendere nessun cuoricino emozionale. E la croce è molto “brutta” sia nella forma che nella sostanza, è uno strumento di tortura a tal punto infame che i cittadini romani non potevano essere condannati a questo supplicium more maiorum, neppure i peggiori criminali[18]. Per questo Pietro, giudeo, fu condannato alla crocifissione, Paolo, civis romanus, fu invece decapitato, perché in quanto cittadino romano non poteva essere crocifisso.

Ovviamente su certe proteste rido, perché non ritengo meritino lacrime, se infatti si deve proprio soffrire, è bene farlo per delle cose serie, non per dei permali clericali che umiliano chi li esprime e non certo chi ne è reso oggetto, sempre sulla base del principio di quanto taluni sono in parte bravi e in parte irrazionali quando decidono di scansare il moscerino e ingoiare poi un intero cammello (cfr. Mt 23, 24).

 «TU HAI CRITICATO IL SOMMO PONTEFICE»

Desidero chiarire questa falsa accusa che più volte mi è stata rivolta: chi estrapola da miei scritti o libri una frase, la manipola e poi mi accusa di avere criticato il Sommo Pontefice, mente e dice il falso. Nella mia vita sacerdotale ho sempre applicato il principio del Santo Padre e Dottore della Chiesa Ambrogio Vescovo di Milano che disse:

«Dite al Papa che dopo Gesù Cristo per noi viene solo lui e che lo amiamo e veneriamo, ma ditegli anche che la testa che Dio ci ha dato non intendiamo solo usarla per metterci un cappello sopra».

È vero che ho criticato nel corso degli anni certi discorsi e scelte pastorali del Sommo Pontefice Francesco; è vero che mi sono sentito profondamente ferito vedendo il Sommo Pontefice lavare i piedi alla Missa in Coena Domini a carcerati e prostitute nel giorno in cui si festeggia la istituzione della Santissima Eucaristia e del Sacerdozio; è vero che sono rimasto imbarazzato nel vederlo a Lund accanto a una “arcivescova” dichiaratamente lesbica e convivente con la sua compagna rivestita delle insegne episcopali; è vero che ho pubblicato un libro nel quale esprimo le mie perplessità sullo stile espressivo sociologico e la mancanza di chiarezza che serpeggia in alcune pagine di Amoris Laetitia, ma non ho mai criticato i suoi contenuti magisteriali. Ci sono decine di miei articoli che testimoniano con quale fedeltà, all’occorrenza con quale durezza ho richiamato certi sacerdoti e fedeli all’obbedienza che siamo tenuti a prestare al Romano Pontefice, che può essere oggetto di critiche, anzi deve esserlo, per il bene suo e del suo ministero petrino. Sempre chiarendo che un conto è avanzare critiche a discorsi fatti a braccio in modo colloquiale, oppure durante le fasi di studio di certi problemi, quando si può e si deve disputare di tutto, però, se il Sommo Pontefice pubblica un atto di magistero o dà una disposizione in forma di motu proprio, in quel caso si ubbidisce, si esegue e si ricorda a certi fedeli che sono capaci a porsi come giudici al di sopra della Cattedra di Pietro, che se il Successore del Beato Apostolo Pietro stabilisce e dispone, ogni discorso è chiuso, si deve solo prestargli ossequio nell’obbedienza della fede.

Qualcuno vuol forse negare che nel corso degli anni ho sollevato questioni e proposto soluzioni che tempo dopo sono divenute atti del magistero dati in forma di motu proprio? Ne cito uno tra i tanti: Traditionis Custodes. Due anni prima dell’uscita di questo documento pubblicai un articolo critico dove spiegai che sarebbe stato opportuno revocare, o perlomeno correggere il motu proprio del Sommo Pontefice Benedetto XVI, che nel 2007 concesse l’uso del Messale di San Pio V, presto trasformato in pretesto da molti circoli di cosiddetti “tradizionalisti” che lo hanno usato come una mazza ferrata per attaccare il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica del Santo Pontefice Paolo VI. Nella Chiesa possono esistere e convivere assieme opinioni diverse, che sono sempre di importante e prezioso stimolo, non però due partiti in lotta su una materia delicata come la sacra liturgia, perché l’Eucaristia è il cuore dell’unità della Chiesa e nessuno può usarla per creare divisioni ideologiche.

Ho sempre detto e affermato che il Sommo Pontefice Francesco è un uomo gravato come tutti noi dai propri limiti e difetti, ma ho sempre aggiunto e ripetuto: il Beato Apostolo Pietro rinnegò il Divino Maestro per tre volte, imprecando, giurando il falso e dandosi alla fuga. Nulla di questo ha mai fatto il Santo Padre Francesco eletto da un Conclave di Cardinali, al contrario di Pietro che fu scelto invece da Cristo in persona, chissà, forse proprio perché incarnava tutte le nostre fragilità umane?

Permettetemi comunque di sorridere all’idea che queste critiche mi siano rivolte da certi clericali velenosi, quelli che non esitano a rifiutare ― per dirne solo una ― la nuova versione del Pater Noster. A chi mi ha domandato se la nuova versione mi piaceva non ho esitato a rispondere di no, ma ho subito chiarito: che a me piaccia o no è cosa irrilevante, perché come pregare e insegnare a pregare al Popolo di Dio me lo dice e me lo comanda la Chiesa, mio obbligo e dovere è seguire gli insegnamenti della Chiesa mater et magistra. E quante volte, durante i colloqui e le direzioni spirituali ho ripetuto a molti sacerdoti: «Meglio fare la cosa sbagliata in obbedienza al Sommo Pontefice e al proprio Vescovo, piuttosto che fare la cosa giusta in disobbedienza a quanto il Sommo Pontefice o il Vescovo hanno stabilito e richiesto».

Detto questo torno a ribadire: oggi, se la malattia è presa in tempo, si può guarire da molte forme di cancro, ma il clericalismo, in particolare quello dei falsi e degli ipocriti viscidi, è una malattia che rischia di essere incurabile, oltre a essere da sempre la peggiore metastasi che può diffondersi nel corpo della Chiesa.

QUEI VESCOVI CHE NON ESITANO A SACRIFICARE I PROPRI PRETI PUR DI PIACERE A TUTTI I COSTI A UN ESERCITO DI LAICI INSOLENTI E ARROGANTI

 Quei vescovi che per loro quieto vivere non esiterebbero a sacrificare i propri preti sono dei pastori indegni e pericolosi. I presbiteri devono costituire il primario interesse del vescovo, perché è grazie ad essi che può esercitare la pienezza del proprio sacerdozio apostolico, allo stesso modo in cui i presbiteri esercitano il proprio sacerdozio in virtù del sacerdozio apostolico del vescovo. Il buon vescovo non è colui che dinanzi a un prete afflitto e smarrito lo mette subito in guardia dicendogli «non voglio problemi!», ma colui che lo accoglie dicendogli l’esatto contrario: «Il mio compito primario di padre e pastore è quello di aiutarti a risolvere i tuoi problemi e restituirti serenità». Il buon vescovo non è quello che passa sopra a tutto, a partire dai peggiori capricci dei fedeli, nel tentativo di piacere a tutti e di non scontentare nessuno, ma colui che all’occorrenza cerca proprio di non piacere, perché chi piace a tutti rischia alla fine di non piacere a Dio.

Due le figure degli Apostoli che venero particolarmente, ai quali mi ispiro e coi quali in un certo senso mi identifico caratterialmente: Giovanni e Paolo. Spesso mi chiedo: in quanti conoscono veramente il Beato Apostolo Paolo? Se analizziamo in profondità le Lettere Apostoliche e gli Atti degli Apostoli non emerge un carattere facile, bensì un soggetto che non ne lasciava passare una. Lo provano i suoi disaccordi con il Beato Evangelista Marco (cfr. At 13,13; At 15,37-38), verso il quale in seguito si tranquillizza (cfr. Col 4,10). Ebbe accesi disaccordi con il suo discepolo Barnaba (At 15,39-40; Gal 2,13). Per non parlare dell’accesa disputa con il Beato Apostolo Pietro (Gal 2,11-16), con il Beato Apostolo Giacomo che capeggiava la corrente giudaico-cristiana (cfr. At 15; Gal 2). Quando si afferma che alla partenza di Paolo «la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (cfr. At 9,30-31) temo proprio che molti non riescano a cogliere quanto questa frase suoni ironica, perché tradotta in altri termini equivale a dire … «Meno male che si è tolto di torno!». Come però già detto in precedenza, queste sfumature sfuggono agli ideatori e diffusori del Vangelo surreale e sentimentale dei pensierini impressi sulle carte dei Baci Perugina.

Il Beato Apostolo Paolo scrive al proprio discepolo Timoteo: «Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro» (I Tm 3,1). Non ho mai aspirato all’episcopato e non intendo aspirarci, ma nei termini paolini e in un contesto storico analogo vi aspirerei anch’io. Ma vediamo cosa intende il Beato Apostolo con questa frase scritta in un’epoca nella quale i vescovi e i presbiteri rischiavano seriamente la vita, perché durante le prime grandi persecuzioni erano considerati i principali sobillatori di un gruppo di fuorilegge noto come cristiani o come seguaci del Nazareno. Non a caso gli Apostoli, primi vescovi creati da Cristo Signore, fecero questa fine: Giacomo ucciso con la spada per ordine di Erode Agrippa in Giudea. Pietro crocifisso a Roma durante le persecuzioni di Nerone. Matteo ucciso a colpi di ascia. Bartolomeo detto Natanaele ucciso in Armenia a colpi di frusta. Andrea crocifisso in Grecia su una croce a forma di “X”. Mattia, che sostituì Giuda nel Collegio Apostolico, si presume sia morto martire. Tommaso ucciso a colpi di frecce nell’attuale Kerala. Luca impiccato a un albero dai sacerdoti greci. Giuda Taddeo ucciso a Odessa. Simone lo Zelota crocifisso in Britannia. Giacomo il Minore lapidato nella Giudea. Filippo morì nella Frigia inchiodato a un albero. Giovanni, morto secondo la tradizione quasi centenario, fu l’unico degli apostoli a non essere martirizzato. Questo ciò che comportava all’epoca in rischi l’episcopato indicato come meritevole aspirazione dall’Apostolo Paolo, anch’esso martirizzato alle Acque Salvie in Roma. Il giorno in cui torneremo a situazione diverse, ma comunque analoghe, vedrete bene con quale fretta ci libereremo all’istante dalla piaga dei carrieristi!

Il Santo Vangelo che da sempre lascia un segno indelebile nella storia non è tanto quello predicato, ma quello praticato, per quant’è vero che siamo chiamati a essere testimoni viventi del Cristo verbo di Dio incarnato, morto, risorto e asceso al cielo (cfr. Lc 24,48). Come infatti sta scritto: «Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2, 18). E oggi, la nostra fede, quella di noi sacerdoti avanti a tutti, è messa seriamente alla prova, perché non siamo più protetti e tutelati all’esterno dalla società, ma soprattutto all’interno della Chiesa, ridotta oggi a una struttura che cade a pezzi in stato di decadenza avanzata. Non ci resta dunque che cercare di passare dalla porta stretta, perché, come sta scritto: «[…] molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno» (Lc 13, 24). E riuscirci oggi è meno facile di quanto lo fosse ieri. Ecco, la nostra grande prova da superare: la prova della fede.

 

dall’Isola di Patmos, 7 aprile 2023 

Giovedì Santo – Istituzione della SS. Eucaristia e del Sacerdozio Ministeriale

 

NOTE

[1] Cfr. Guillaume Durand, Rationale, IV, i, 23.

La cd. Missa Sicca era solitamente celebrata nel pomeriggio, in occasione di funerali o matrimoni, dopo che il sacerdote aveva già celebrato nel corso della mattina e non poteva celebrare altre Sante Messe dopo le ore 12. Consisteva nella celebrazione di una Santa Messa in cui erano omessi i riti di offertorio, la Preghiera Eucaristica (consacrazione delle sacre specie) e la Santa Comunione.

[2] Cfr. Giovanni Bona, Rerum liturgicarum, libr. duo, I, xv.

[3] Cfr. Karl Marx nell’opera Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, edito nel 1869. La frase completa è: «Hegel fa notare che tutti i grandi personaggi e i grandi fatti della storia tendono a ripetersi due volte. Si è solo dimenticato di precisare: la prima volta come tragedia la seconda come farsa».

[4] Cfr. Sant’Ambrogio, De dignitate Sacerdotis; Sant’Agostino, in Ps. 37; San Bernardo di Chiaravalle, Sermo ad Pastor. In Syn; San Gregorio Nazanzieno, Sermo 26 de Sanct. Petr.; San Girolamo, Sermo de Corpore Christi; San Pier Damiani, Sermo 28; S.S. Innocenzo III, Nova quaedam de Poen. Rem.; San Bernardino da Siena, om. I, Sermo 20, art. 2, c.7; San Bernardino da Siena, Tom.I, Sermo 20, art. 2, c. 7.

[5] Cfr. Joseph Ratzinger, meditazione alla IX stazione della Via Crucis del Venerdì Santo 2005: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il Sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore».

[6] Cfr. San Pier Damiani, Liber Gomorrhianus.

[7] Cfr. Bernardo di Chiaravalle, Trattato buono per ogni Papa, adattato a Eugenio III, anno 1145.

[8] Cfr. Caterina Benincasa, Lettera al Sommo Pontefice Urbano VI ad Avignone (1378-1389).

[9] Cfr. Alfonso Maria de’ Liguori, Homo apostolicus, anno 1759.

[10] Cfr. Antonio Rosmini, Sulle cinque piaghe della Chiesa, trattato dedicato al clero cattolico, anno 1848.

[11] S.S. Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 2003.

[12] Cfr. Messale Romano, Sacro rito della ordinazione dei presbiteri.

[13] Cfr. S.S. Paolo VI, omelia pronunciata il 29 giugno 1972 per la festa dei Santi Pietro e Paolo.

[14] Dichiarazione Dominus Jesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000.

[15] S.S. Paolo VI, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum Ordinis, 7 dicembre 1965.

[16] S.S. Giovanni paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, 25 marzo 1992.

[17] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 1, a. 3, ad 3.

[18] Leges Regiae, maximae poenae, in pars Supplicium more maiorum: crucifixio.

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2 commenti
  1. brunoortenzi
    brunoortenzi dice:

    Caro Padre Ariel,
    lei ha scritto:
    “[…] se il Sommo Pontefice pubblica un atto di magistero o dà una disposizione in forma di motu proprio, in quel caso si ubbidisce […] se il Successore del Beato Apostolo Pietro stabilisce e dispone, ogni discorso è chiuso, si deve solo prestargli ossequio nell’obbedienza della fede.”
    Più avanti prosegue:
    “[…] pubblicai un articolo critico dove spiegai che sarebbe stato opportuno revocare, o perlomeno correggere il motu proprio del Sommo Pontefice Benedetto XVI”.
    Ora se quando il Papa promulga un motu proprio, si ubbidisce, si deve solo prestargli, ciò dovrebbe valere per “tutti” i moti propri. Ne consegue che l’aver criticato il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, chiedendo che fosse revocato o corretto, dovrebbe essere ricordato da lei con rammarico, mentre invece lei se ne fa, in qualche modo, un vanto.
    A meno che lei, invece, non ritenga che “alcuni” motu propri possano essere criticati per il bene della Chiesa, ma allora non si capisce perché, teoricamente, sarebbe illecito criticare Traditionis Custodes, se chi lo fa, in coscienza, lo ritenga poco rispettoso per quei cattolici che amano il Vetus Ordo Missae.
    In altre parole:
    1) O è sbagliato criticare qualsiasi motu proprio del Papa, e quindi lei deve riconoscere di aver sbagliato a criticare il Summorum Pontificum;
    2) o, in taluni casi, può essere lecito criticare anche un motu proprio del Papa, e allora occorrerebbe spiegare perché il Summorum Pontificum sia criticabile e il Traditionis Custodes no.

    • Padre Ariel
      Padre Ariel dice:

      O non ha capito bene, o non ha voluto capire bene.
      Io ho detto che sarebbe stato opportuno “ritirare” quel motu proprio, non ho mai messo in discussione i suoi contenuti, le sue concessioni e disposizioni.
      O se preferisce un altro esempio: un teologo moralista ha tutto il diritto a esprimere (è solo un esempio) che la disciplina circa la contraccezione potrebbe essere ripresa in esame dalla Chiesa ed eventualmente rivista e modificata, ciò che però non può dire, salvo creare in caso contrario scandalo tra i fedeli, è che la disciplina sulla contraccezione può essere disattesa dai fedeli che si dicono cattolici.

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