Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL CIELO E LA TERRA PASSERANNO, MA LE MIE PAROLE NON PASSERANNO

In questa condizione il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. Essa non sarà angosciosa o foriera di ansie, piuttosto colma di fiducia, poiché poggia sull’assicurazione del Signore: «Io vengo presto»

 

 

 

 

 

 

 

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Un evento certo, ma di cui non si sa quando accadrà, esige che lo si attenda. È ciò che emerge dalla pagina evangelica di questa domenica. Tratta dal discorso escatologico di Marco (Cap. 13), essa annuncia come sicura la venuta del Signore, ma afferma che la sua data e il suo momento sono incerti. Leggiamola:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”» (Mc 13,24-32).

Il Cap. 13 del Vangelo di Marco prende avvio da due domande dei discepoli rivolte a Gesù all’uscita dal Tempio e sul Monte degli Ulivi:

«Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta” (vv.1.2). «Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?”» (vv. 3.4).

Gesù non risponde subito alla domanda dei quattro discepoli, ma nel frattempo ha l’occasione per parlare delle ultime cose. Le parole di Gesù che descrivono l’arrivare di codeste «cose ultime», in «quei giorni», sono una ripresa di testi profetici di Isaia, Gioele e Daniele. Chi le udiva sulla bocca di Gesù, probabilmente ne comprendeva il senso meglio di noi, che dopo tanti anni di distanza facciamo fatica ad orientarci. In realtà il linguaggio apocalittico non è lontano dalla nostra cultura, anzi essa ne è fortemente permeata. Bisogna tener presente, però, che detto linguaggio è un «genere letterario», quindi non un racconto storico o un trattato di scienza. Purtroppo molti credenti lo interpretano proprio così, leggendo eventi presenti come realizzazione delle parole di Gesù. Il linguaggio escatologico ha una sua propria chiave e come tale va interpretato. È un genere che nasce dalla confluenza della corrente sapienziale e profetica. Soprattutto quando quest’ultima finisce si attenderà in Israele un profeta che avrebbe sistemato le cose: «Riposero le pietre sul monte del tempio in luogo conveniente, finché fosse comparso un profeta a decidere di esse» (1Mac 4, 46). Del resto non possiamo pensare che Gesù volesse dire che la fine del mondo accadrà proprio come l’ha descritta. E poi, siamo sicuri che Egli stesse parlando della «fine del mondo», e non, invece, di un nuovo inizio? Perché dice che «questa generazione» vedrà quanto da lui annunciato.

La figura centrale del Vangelo odierno è quella del Figlio dell’Uomo. Mentre precedentemente il Signore aveva parlato del suo destino sofferente, stavolta dà ragione a ciò che si pensava di questo personaggio all’epoca e quindi fra i discepoli. Il Figlio dell’Uomo è una figura potente, quasi un’ipostasi divina come la descrive il profeta Daniele (7, 13-14), il cui compito principale sembra essere quello del giudice (Libro dei Giubilei). Gesù si descrive in tale modo, quando risponde al Sommo Sacerdote che gli domanda se è lui il Messia: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62); e queste parole diventeranno una delle ragioni della sua condanna. Ma oggi Egli parla del Figlio dell’Uomo legandolo ad un tema caro al giudaismo, ovvero il raduno dei dispersi. Sorprendentemente, infatti, per le tradizioni evangeliche esso non avverrà soltanto alla «fine del mondo», ma si è già realizzato in un momento particolare e cioè alla morte del Messia Gesù. Ciò è particolarmente chiaro nel Quarto Vangelo quando San Giovanni riporta le parole di Gesù: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il raduno delle genti operato dal Figlio dell’Uomo è preceduto da sconvolgimenti celesti. Così se andiamo a vedere il modo in cui l’Evangelista Marco descrive la morte del Messia, troviamo che alcuni segni che erano stati annunciati nel brano evangelico di oggi si compiono. Gesù aveva detto che il sole si sarebbe oscurato (Mc 13,24), ed ecco che dopo la crocifissione di Gesù, «venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio» (Mc 15,33). Matteo, amplificando il racconto marciano, aggiunge poi che anche «la terra tremò e le rocce si spaccarono» (Mt 27,51), un richiamo alla frase di Gesù per cui «gli astri si metteranno a cadere dal cielo» (Mc 13,25). Siamo quindi di fronte non solo ad un annuncio di fine del mondo e del tempo. che per altro si era già intravisto nelle parole iniziali del Vangelo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Ma con la venuta del Messia e con la morte del Signore Gesù inizia il tempo escatologico, il tempo della fine, per cui passa la scena di questo mondo: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve… passa infatti la figura di questo mondo!» (1Cor 7, 29-31).

In questa condizione il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. Essa non sarà angosciosa o foriera di ansie, piuttosto colma di fiducia, poiché poggia sull’assicurazione del Signore: «Io vengo presto» (Ap 22,7). È un atto di fede l’attesa cristiana della seconda venuta del Signore. Essa si diramerà nelle diverse direzioni della pazienza, della resistenza, della perseveranza e soprattutto della speranza. Dice l’Apostolo Paolo: «Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (per patientiam exspectamus, cfr. Rm 8,25). L’attesa paziente diviene persino motivo di beatitudine secondo il libro di Daniele: «Beato chi attenderà con pazienza» (Dn 12,12).

Va sottolineato che il brano evangelico di questa domenica è inquadrato fra due avvertimenti quasi identici: blépete, «guardate», «state attenti»; e agrupneite, «tenete gli occhi ben aperti e abbiate cura» (Mc 13,23.33). Il testo è incastonato all’interno di un’esortazione alla vigilanza e al discernimento. Il tempo della storia è abitato da tribolazioni di cui Marco ha parlato nei versetti precedenti (Mc 13,19-20), tribolazioni che precedono l’evento centrale dell’annuncio escatologico, che porrà fine alla storia accordandole un fine: la venuta del Figlio dell’Uomo. Lo sconvolgimento delle realtà celesti (Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, un evento di cui è protagonista il Dio creatore. Ma il sole e la luna, gli astri e le potenze celesti erano anche parte del pantheon degli antichi romani, entità divinizzate ed idoli; e sappiamo che Marco scrive a cristiani di Roma. Perciò qui non è annunciata solo la fine del mondo, ma anche la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’Uomo. E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può rappresentare un segno del regnare di Dio; grazie alla vigilanza, per non far regnare su di sé gli idoli. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione dagli idoli e dalle potenze mondane. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione. Ma la conversione ha come premessa necessaria la vigilanza.

Ecco allora l’immagine dolcissima del fico che germoglia, in tutti i sensi, poiché fa quasi pregustare l’esito finale quando spunterà il frutto maturo. Questa è una parabola del Signore che ci insegna come lo sguardo verso i segni celesti e l’osservazione di quelli terrestri non sono in alternativa. Il futuro si prepara nell’oggi che si vive, sulla terra dove siamo piantati e dove possiamo scorgere molti segnali della venuta gloriosa del Signore. Solo chi sa ben osservare sa anche scorgerli: «Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina» (Mc 13,28).

Dall’Eremo, 17 novembre 2024

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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