Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo …

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL SOLE SI OSCURERÀ, LA LUNA NON DARÀ PIÙ LA SUA LUCE, LE STELLE CADRANNO DAL CIELO …

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte sembrano ricorrere tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» [Mc 13, 24-25].

In questa XXXIII domenica del tempo ordinario, attraverso la narrazione del Beato Evangelista Marco il Santo Vangelo ci dona la Parabola del fico [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI].

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L’Evangelista si esprime in uno stile profetico-apocalittico:

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«Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dalle estremità della terra fino all’estremità del cielo» [Mc 13, 27].

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Nei giorni antichi in cui l’Evangelista stilava questo Vangelo, a pochi decenni di distanza dalla morte, risurrezione e ascensione al cielo del Verbo di Dio fatto uomo, si credeva che il ritorno di Cristo Signore nella gloria alla fine dei tempi fosse vicina. Anche il Beato Apostolo Paolo lo credeva, ed inizialmente era convinto di poter essere presente e partecipe su questa terra al ritorno di Cristo Signore alla fine dei tempi.

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Attorno all’anno 52, nella prima delle lettere indirizzata agli abitanti di Tessalonica, il Beato Apostolo parla del ritorno di Cristo Signore; un ritorno indicato col termine greco di παρουσία [parusia], che indica la definitiva e manifesta presenza divina [cf I Ts 4,13-18]. Nell’annunciare ai giudei ed ai pagani il mistero del Verbo di Dio morto, risorto e asceso al cielo, il Beato Apostolo deve fronteggiarsi con le perplessità ed i dubbi di coloro ai quali questo annuncio è rivolto, anche per questo egli scrive:

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«Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti» [I Ts 4,14].

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Dopodiché seguita a spiegare:

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«Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore» [I Ts 4,16-17].

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Per spiegare la verità di fede della parusia, il Beato Apostolo fa uso di immagini allegoriche che, come le parabole attraverso le quali si esprimeva Cristo Dio, sono utili ed efficaci per trasmettere un messaggio molto profondo: il mistero della vita eterna nella piena comunione con Dio.

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Nel testo della seconda lettera agli abitanti di Tessalonica il Beato Apostolo muta la sostanza del proprio messaggio e comincia a parlare di eventi terribili che precederanno quel giorno che segnerà la fine dei tempi, affermando:

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«Non bisogna lasciarsi ingannare come se il giorno del Signore fosse davvero imminente».

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Procedendo poi a spiegare:

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«Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!» [II Ts 2,1-3].

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Segue a questo punto quel terribile e drammatico racconto che da sempre dovrebbe farci riflettere, forse però in modo del tutto particolare nel presente che stiamo vivendo:

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«Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità [II Ts 2, 4-12].

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Quella indicata come «uomo iniquo» è figura universalmente conosciuta come Anticristo, del quale narra l’Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni [Ap 13,13-14] redatta durante il suo esilio nell’Isola di Patmos, nota anche come il luogo dell’ultima rivelazione.

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Il Beato Apostolo, nella sua opera di evangelizzazione, non manca di ricordare che l’attesa della parusia di Cristo Signore non può certo essere vissuta in uno stato di pigra apatia, ma in modo estremamente attivo e operoso, come siamo esortati a fare nella parabola dei talenti, a noi dati per essere messi a frutto, non per essere sotterrati e poi restituiti tal quali al ritorno del Signore [cf. Mt 25, 14-30].

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Ai tempi del Beato Evangelista Marco si pensava che questo glorioso ritorno di Cristo Signore fosse vicino. Una gloria che circa due secoli e mezzo dopo, il primo Concilio di Nicea imprimerà nell’anno 325 nella nostra professione di fede, nota anche come Simbolo Niceno-Costantinopolitano, dove professiamo la fede nella parusia acclamando: «… un giorno tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine».

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Col trascorrer dei secoli l’attesa della imminente parusia si è affievolita, non ultimo per il fatto che l’uomo è condizionato al tempo e dal tempo, spesso dimentico che quello del tempo è solo un problema dell’uomo, non di Dio, che è eterno e a-temporale, ossia senza tempo, perché in Dio regna solamente la dimensione eterna.

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La nostra Santa Fede racchiusa nei Santi Vangeli e nelle Lettere Apostoliche ci ricorda, assieme alla nostra Professione di Fede, che la creazione non è eterna, perché eterno è solo il mistero di Dio Creatore e la Parola del Verbo di Dio Cristo Signore, Suo figlio unigenito.

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Il discorso contenuto in questo Santo Vangelo nasce da una spiegazione catechetica data ai discepoli da Cristo Divino Maestro, che uscendo dal tempio lo invitano ad ammirare le pietre con le quali era stato costruito. La risposta di Cristo Signore fu anzitutto una profezia sulla futura distruzione del tempio:  «In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra» [Mt 24, 2]. Giunti poi sul monte degli Ulivi, Gesù seguitò a rispondere attraverso un discorso interamente incentrato sulla escatologia — termine derivante dal greco ἔσχατον [escaton] che significa “le cose ultime” — ossia la fine del mondo. Il discorso escatologico di Cristo Dio si articola su tre diversi livelli che comprendono la persecuzione dei discepoli fedeli [cf. Mt 13,5-13]; quella grande tribolazione dinanzi alla quale Cristo Dio suggerisce di cercare rifugio sui monti [cf. Mt 13,14-23]; espressione evangelica usata cinque anni fa dal Venerabile Pontefice Benedetto XVI che dopo il proprio atto di rinuncia al sacro soglio affermò che si sarebbe ritirato sul monte a pregare per la Chiesa [cf. discorso all’Angelus del 24.02.2013, testo QUI]. Dopodiché, consumati tutti questi eventi, avverrà la manifestazione nella gloria del Figlio dell’uomo [cf. Mt 13,24-32].

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Cristo Signore, in questa pagina del Beato Evangelista ci rivolge diversi moniti, anzitutto l’invito ad essere sempre vigilanti. E come spesso ripeto nelle mie omelie e catechesi, ed in specie di questi tristi tempi, è bene ricordare che allegorico o metaforico è solo il linguaggio, non sono allegorici e metaforici quei contenuti che costituiscono invece delle certe, innegabili e assolute verità della fede.

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte pare che ricorrano tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra, assieme al quale meditai nel corso di questo lungo colloquio sulla frase: «Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» [Mc 13, 29].

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La grazia di Dio, tramite i doni dello Spirito Santo da noi accolti e fatti fruttare come preziosi talenti, permetterà sempre di mettere in salvo la nostra anima per la vita eterna, basta essere pronti ad andare verso il Divino Sposo, come ci esorta a fare la Parabola delle vergini stolte e delle vergini sagge [cf. Mc 25, 1-13], che si conclude con l’invito a vegliare in attesa dell’arrivo dello sposo « perché non sapete né il giorno né l’ora» [Mt 25, 13].

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Quest’ultimo monito, riguardo il giorno e l’ora che non sono conosciuti a nessuno se non al Divino Padre, dovrebbe stimolarci a non indugiare a forme di schizofrenico catastrofismo, spesso purtroppo trasferite dalla letteratura delle frange più esaltate di certi pentecostali ed evangelici all’interno della Chiesa Cattolica, tramite il triste e pernicioso cavallo di Troia degli adepti di certi nostri movimenti laicali cattolici che si atteggiano a veri e propri possessori esclusivi del mistero dello Spirito Santo. Compito degli eletti, è quello di crearsi con la propria vita santamente vissuta su questa terra il supremo premio della propria elezione, per poi essere radunati dai quattro angoli della terra e vedere per sempre la luce del Volto di Dio, le cui parole eterne non passeranno mai: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [Mc 13, 31].

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Laparusia, chiusa quindi nel segreto cuore di Dio Padre, null’altro è che la morte del tempo e la proiezione nell’Eterno Assoluto, dopo che il Divino Giudice, tornato nella gloria, avrà giudicati i vivi e i morti. E questa, ripeto, non è una metafora né un’allegoria poetica — come purtroppo non pochi affermano e insegnano —, ma è una verità assoluta della nostra Santa Fede.

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dall’Isola di Patmos, 18 novembre 2018

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L’obolo della povera vedova che offre le due sole monete che ha, predicato ai preti ed ai loro vescovi, ma anche a certi nostri fedeli avari

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

L’OBOLO DELLA POVERA VEDOVA CHE OFFRE LE DUE SOLO MONETE CHE HA, PREDICATO AI PRETI ED AI LORO VESCOVI, MA ANCHE A CERTI NOSTRI FEDELI AVARI

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Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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dal Santo Vangelo di questa domenica: L’obolo della povera vedova

In questa XXXII domenica del tempo ordinario s’è proclamata l’incisiva pagina del Santo Vangelo narrante l’episodio della Povera Vedova che getta nel tesoro del tempio le due sole monete che possiede [cf. Mc 12, 38-44. Testo della Liturgia della Parola, QUI]. Questo testo ci pone dinanzi una realtà difficile da sfuggire con voli pindarici, perché se la concretezza del gesto della Povera Vedova è disarmante, il monito in esso racchiuso non è poco severo: le due monete rappresentano il senso della totalità. Offrire a Dio tutto il nostro essere senza risparmio e paura, nella certezza di fede del nostro divenire futuro tutto racchiuso nel mistero del Cristo Dio. E noi presbìteri, quando durante il rito della sacra ordinazione abbiamo detto «eccomi!» e poco dopo siamo stati consacrati sacerdoti, a nostro modo ci siamo trasformati nelle due monete della Povera Vedova, gettandoci nel tesoro di Cristo Dio, che ha depositato e impresso in noi il grande tesoro di quel dono che ci ha segnati con un carattere indelebile ed eterno: il sacerdozio ministeriale.

Nella parte finale di questo Santo Vangelo Cristo Signore dice …

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«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» [Mt 12, 44].

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In questo monito è racchiuso il richiamo severo alla nostra profonda responsabilità. Noi uomini chiamati a servire la Chiesa tramite il sacro ordine sacerdotale che ci rende indegni partecipi del sacerdozio ministeriale di Cristo, siamo responsabili di questa duplice ricchezza: della fede della povera vedova e del denaro della povera vedova. Ogni cosa che viene offerta per Dio deve essere infatti impiegata per Dio, a servizio di Dio ed a gloria di Dio. Tutto ciò che in ricchezza di doni abbiamo avuto dalla Chiesa e per la Chiesa, alla nostra morte deve tornare moltiplicato alla Chiesa, come ci insegna la celebre parabola dei talenti [cf. Mt 23, 14-30].

Seguendo le orme della divina scorrettezza di Cristo, senza falsi pudori o penosi nascondimenti, desidero porre un quesito alla mia coscienza di prete: in che modo noi vediamo talvolta amministrare questi due tesori, il patrimonio della fede e i doni materiali che ci vengono dalle membra vive del Popolo di Dio? Oggi che si parla tanto di Misericordia, dovremmo essere più che mai consapevoli in che misura la ricchezza della fede si regga o cada tutta sull’esempio. Dunque ogni giorno dovremmo interrogarci: quale esempio diamo al Popolo di Dio per indurlo a mantenere, a sviluppare ed a diffondere la ricchezza della fede?

A questo primo quesito dovrebbe seguirne un secondo non meno doloroso: in una società dove sempre più famiglie stentano ad arrivare alla fine del mese, come sono ripartite le ricchezze all’interno della Chiesa? Con quale oculata ed equa ripartizione queste sostanze sono usate per il più alto decoro della Casa del Signore, per il decoroso sostentamento dei suoi fedeli ministri, per il sostegno dei poveri e dei bisognosi?

Quante volte, nello svolgimento del mio ministero sacerdotale in varie parti d’Italia, mi è capitato di entrare in sacrestie puzzolenti, di estrarre da armadi tarlati e mezzi marci dei camici ingialliti dallo sporco, dei paramenti sacri maleodoranti, oppure essere costretto a deporre il prezioso sangue di Cristo dentro calici non giovabili corrosi al loro interno? E quante volte mi è accaduto poi di passare da queste sacrestie all’abitazione privata del mio confratello e di vedere al suo interno strumenti elettronici di ultima generazione, maxi schermi televisivi altamente costosi … per non parlare della cura maniacale con la quale il confratello teneva pulita la propria automobile, ricolma di accessori tanto inutili quanto costosi? Anch’io tengo sempre pulita la mia automobile, che non è un’utilitaria ma è un’automobile di media cilindrata sufficientemente costosa, la quale non costituisce né un capriccio né un lusso ma una necessità per i miei lunghi e frequenti viaggi, spesso effettuati anche in stato di maltempo e soprattutto per tragitti di centinaia di chilometri. Però, prima dell’automobile, che va di certo ben conservata, io tengo pulito il Tabernacolo del Santissimo Sacramento. Più volte mi è infatti capitato di trovare dentro qualche tabernacolo della polvere e del grasso incrostato, persino una mosca morta dentro la pisside.

Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

A rendere più grave il tutto, è che mentre costoro accumulavano tesori destinati non alla Chiesa, non alla Casa di Dio, non ai poveri e ai bisognosi del suo Popolo Santo … altri loro confratelli inseriti in contesti ecclesiali e pastorali meno felici — o se preferiamo molto meno redditizi — dovevano battere cassa presso i propri familiari, perché non ce la facevano ad andare avanti, perché non avevano soldi per mettere la benzina dentro il serbatoio dell’automobile per andare a prestare i loro servizi pastorali, perché non avevano soldi per comprarsi un cappotto pesante che li riparasse dal freddo invernale.

A conclusione di questo penoso discorso che ritengo però abbia una sua precisa utilità nell’economia della salvezza, vorrei invitarvi alla lettura di un’Enciclica scritta nell’anno 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, Ad Chatolici Sacerdotii, nella quale il Santo Padre non esita a puntare il dito su certi malcostumi del clero di ieri e di oggi, andando alla radice dei potenziali problemi che bisognerebbe sempre evitati a monte, ma soprattutto offrendo soluzioni. A tal scopo, egli invita i formatori dei candidati al sacerdozio a capire e percepire anzitutto che cos’è la vera misericordia e come essa opera. Scrive in quell’enciclica Pio XI al paragrafo dedicato alla scelta dei candidati al sacerdozio:

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«Correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina  […]. Per ottenere che gli altri abbraccino il Vangelo, l’argomento più accessibile e più persuasivo è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne predica l’osservanza» [testo integrale, QUI].

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Questo il messaggio, ed in parte l’amorevole dramma che si cela dietro alle due monete della povera vedova. Sulle quali può nascere o sulle quali può morire la fede del Popolo di Dio e la credibilità verso i suoi sacerdoti chiamati a servire la Chiesa, non certo a servirsi della Chiesa. Questo è l’imbarazzo e la provocazione con la quale Gesù Cristo Figlio di Dio e Dio fatto uomo sfida la nostra indifferenza e il nostro torpore, chiedendoci oggi più che mai di annunciare ciò che è stato detto sulle righe e oltre le righe del suo Santo Vangelo, non ciò che di comodo e di de-responsabilizzante spesso noi interpretiamo, al triste e nefasto fine di eluderne la verità, sino ad omettere di guidare gli uomini a conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32].

I due soldi della povera vedova hanno una profonda valenza teologica: rappresentano e manifestano il mistero della fede e l’azione di grazia di Dio sull’uomo che, accolta liberamente la grazia, risponde donando tutto se stesso senza alcun risparmio, affinché gli uomini possano entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Non ci si serve della Chiesa di Dio e tanto meno dell’ obolo della povera vedova per arricchire noi stessi o le nostre fameliche consorterie. La Chiesa si serve per arricchire l’umanità intera, dopo essersi fatti poveri in spirito [cf. Mt 5, 3] per divenire beati e per guadagnare la ricchezza eterna del Regno dei Cieli, consapevoli che Cristo ci ha chiamati a sé e istituiti per sacramento di grazia «Pescatori di uomini» [cf. Mt 4, 19], forniti di tutti i migliori mezzi affinché la nostra, come la sua, possa essere una pesca miracolosa.

Detto questo resti però chiaro il fatto che allo stesso tempo non è ammissibile neppure la mancanza di sensibilità e di generosità da parte di molti nostri fedeli, perché l’esempio della Povera Vedova applicato ai preti, lo dobbiamo applicare anche a quei numerosi fedeli che fin quando hanno da chiedere e da pretendere per tutti i loro bisogni umani, morali e spirituali, non esitano a gettare il prete giù dal letto anche alle due della notte, ma quando poi il prete deve pagare il riscaldamento o la bolletta della luce della chiesa parrocchiale e dei locali destinati alle attività pastorali e caritative, ecco che cadendo dal settimo cielo non pochi replicano: «Ma come, voi non avete il Vaticano … la Banca Vaticana?». E poi c’è lo Stato, c’è la Regione, c’è il Comune … insomma, ci sono tanti, ci sono tutti, fuorché lui, il fedele avaro, che fin quando ha da prendere, allora prende, però, se deve dare, allora indica l’esistenza di altri, ma soprattutto i portafogli altrui …

Questo per dire che le monete della Povera Vedova hanno un diritto e un rovescio: uno per certi preti — di cui noi per primi riconosciamo senza alcun problema limiti, debolezze, avidità e avarizie —, l’altro per quei nostri fedeli che hanno solo le mani per prendere, mai per dare, scaricando su altri la responsabilità per il mantenimento del decoro della Casa del Signore e delle strutture sociali, giovanili, caritative, assistenziali e via dicendo.

Uno dei miei formatori, con la saggezza tutta quanta tipica degli anziani mi disse un giorno: è vero, certi sacerdoti possono dare l’impressione di essere avari, o attaccati ai soldi, ma dietro quell’apparente attaccamento, che in realtà non è poi tale, si celano in verità tutt’altre paure: la paura di rimanere soli e abbandonati nella vecchiaia. Spesso, molti di questi sacerdoti, sono rimasti molto toccati — quando ancora non erano anziani — da casi di sacerdoti morti soli e ammalati. Detto questo, sempre il mio anziano formatore, seguitando a parlare delle paure dei preti anziani, aggiunse: «… e specie in certe zone, dove spesso i fedeli arrivano solo a mani tese per chiedere con lo spirito di coloro ai quali tutto è dovuto, è capitato che certi preti, divenuti vecchi, malati e non più sfruttabili, trovandosi senza soldi si sono trovati privi di qualcuno che portasse loro un bicchiere d’acqua».

Questo il motivo per il quale spesso insisto, coi giovani confratelli, sulla importanza della vicinanza che specie i giovani devono avere verso i presbiteri anziani. E vi dirò: ogni volta che io sono stato vicino ai presbìteri anziani, ne ho tratto un bene profondo, perché poca cosa è stata la compagnia che io ho fatto a loro, o l’aiuto che ho dato a presbìteri semi infermi, a confronto di ciò che costoro hanno dato a me, trasmettendomi il loro bagaglio di prudenza, sapienza, conoscenza …

I presbìteri anziani non andrebbero messi a riposo, ma tutt’altro messi a lavoro. Sarebbe bene che i vescovi, specie quelli giovani, se li tenessero vicini come consiglieri, anziché circondarsi di gruppi di giovani preti — mossi non di rado da interessi personali o da condizionanti aspettative di carriera —, perché certi anziani sono la memoria storica viva delle loro diocesi. Che i vescovi li mettano a fare i rettori, i confessori, od i padri spirituali dei seminari, perché per poter sviluppare la prudenza, la sapienza, la conoscenza, non occorrono i giovani rettori mandati a fare i corsi di socio-psicologia nelle università laiche, bensì anziani capaci ad insegnare ai giovani non solo per mezzo delle loro virtù, ma anche attraverso i loro stessi difetti, che sono propri dell’umanità di ciascuno di noi, presbiteri inclusi.

Per dare sul finire un’altra lettura al racconto evangelico della povera vedova: la povera vedova è la Chiesa che dona la propria totalità; le due monete preziose che lei depone nel pubblico tesoro del tempio — che è pubblico e visibile a tutti —, sono la prudenza e la sapienza degli anziani.

Pertanto, a quei vescovi che dicono «bisogna ripartire dalla formazione», io ho sempre risposto: allora dovere ripartire dagli anziani, visto che nessun giovane, per quanto dotato, può avere la sapienza dei vecchi. Né può avere lo slancio della povera vedova, che ha dato tutta se stessa attraverso il poco che aveva, ma quel poco era la sua totalità. E per dare veramente tutto occorre tempo, occorre una vita. E questo i vecchi lo hanno fatto, mentre i giovani devono imparare a farlo. E per imparare a farlo hanno bisogno dell’esperienza dei vecchi, specie di quelli che nel corso di tutta la loro di vita cristiana e sacerdotale hanno cercato di trasformarsi — per Cristo con Cristo e in Cristo — nella Povera Vedova.

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dall’Isola di Patmos, 11 novembre 2018

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«Ama il prossimo tuo come te stesso»? Impossibile a farsi, se prima non si sa chi sei tu e chi è il tuo prossimo

 

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

«AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO»? IMPOSSIBILE A FARSI, SE PRIMA NON SI SA CHI SEI TU E CHI È IL TUO PROSSIMO

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In questa stagione di clerical piaggeria senza più contegno e ritegno, possiamo purtroppo accingerci a udire dai pulpiti delle nostre chiese che il prossimo da amare come noi stessi è il profugo, il migrante ed il povero. I predicatori più arditi aggiungeranno “il diverso” e “le diversità” …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Convento di San Gregorio a Roma, mosaico recante il motto greco γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso)

Questa XXXI Domenica del Tempo Ordinario ci dona una pagina del Beato Evangelista Marco nella quale Cristo Signore ci indica il comandamento più grande: «[…] “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi» [testi della liturgia della parola, QUI].

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Sul frontone dell’antico Tempio di Apollo a Delfi è incisa la massima γνῶθι σαυτόν, in latino nosce te ipsum, tradotto in italiano: conosci te stesso. Questa frase è ripresa nell’opera Prometeo incatenato di Eschilo, nella quale Oceano consiglia Prometeo: 

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«Vedo sì, Prometeo, sicché voglio darti il miglior consiglio, sebbene tu sia già scaltro. Devi sempre sapere chi sei, ed adattarti alle regole nuove, perché nuovo è questo tiranno che oggi governa tra gli dèi. Se invece tu scagli parole così arroganti e pungenti, anche se il suo trono sta molto più in alto, Zeus le può sentire ugualmente, allora la quantità di pene che adesso subisci ti parrà un gioco da bambini».

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Il testo originale greco della mia traduzione testé riportata è il seguente:

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«ὁρῶ, Προμηθεῦ, καὶ παραινέσαι γέ σοι θέλω τὰ λῷστα, καίπερ ὄντι ποικίλῳ. γίγνωσκε σαυτὸν καὶ μεθάρμοσαι τρόπους νέους: νέος γὰρ καὶ τύραννος ἐν θεοῖς. εἰ δ᾽ ὧδε τραχεῖς καὶ τεθηγμένους λόγους ῥίψεις, τάχ᾽ ἄν σου καὶ μακρὰν ἀνωτέρω θακῶν κλύοι Ζεύς, ὥστε σοι τὸν νῦν ὄχλον παρόντα μόχθων παιδιὰν εἶναι δοκεῖν».

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Ci si potrebbe domandare: quale collegamento c’è, tra un’espressione tratta da un passo della più nobile paganitas greca ed uno del tutto diverso della Christianitas tratto dalla parola viva del Verbo di Dio fatto uomo? Ebbene, in comune c’è che sia il «conosci te stesso» che sta al centro di questo passo del commediografo Eschilo, sia il «ama il prossimo tuo come te stesso» che sta al centro del passo del Santo Vangelo di questa domenica, costituiscono due espressioni mal comprese, di conseguenza mal presentate, quindi peggio infine abusate.

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Il conosci te stesso, non è affatto un semplice invito del creatore di Prometeo a conoscersi più o meno a fondo, bensì un preciso invito rivolto a questa creatura, finita incatenata ad una rupe a testa all’ingiù, ad avere la consapevolezza di essere inferiore al dio Zeus. L’uomo, per conoscere veramente se stesso, per gestire se stesso e dare poi il meglio di se stesso, deve essere anzitutto consapevole dei propri limiti oggettivi, non certo inebriarsi nelle proprie reali o presunte grandezze. Basti a tal proposito ricordare che l’uomo, si tratti della bestia politica, della bestia bellica, della bestia scientifica o della bestia ecclesiastica, il peggio della propria disumanità e dell’odio verso il prossimo, da sempre lo esprime e lo manifesta quando cade nel delirio di onnipotenza.

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In questa stagione di clerical piaggeria senza più contegno e ritegno, possiamo purtroppo accingerci a udire dai pulpiti delle nostre chiese che il prossimo da amare come noi stessi è il profugo, il migrante ed il povero. I predicatori più arditi aggiungeranno “il diverso” e “le diversità”, facendo sfoggio dei lemmi tratti dal Nuovo Vocabolario Clericalese che nell’ultima edizione aggiornata ha aggiunto vari altri vocaboli: dalla includenza ad una non meglio precisata accoglienza. L’espressione che da un po’ di giorni va poi per la maggiore è: «accompagnare con empatia» [cf. QUI]. A volte pare di essere tornati ai collettivi degli anni Settanta del Novecento, quando i capelloni contestatori in vena di intellettualismi a basso mercato se ne uscivano fuori con espressioni del tipo: «… la sintesi dialettica dell’alternanza ideologica». Cosa ciò volesse dire non si sa, ma certe espressioni facevano colpo, soprattutto ciascuno poteva cavar fuori dal loro non-senso quel che meglio preferiva, dando così senso a quel senso che non c’è.

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Per amare il prossimo come se stesso, l’uomo deve conoscere se stesso e sapere chi è, da chi è stato generato e per cosa. Deve sapere perché mai, i nostri progenitori, abbiano permesso al peccato — e col peccato alla morte — di entrare nella scena del mondo, quindi da chi l’uomo è stato salvato e redento: da Cristo che si è fatto nuovo Adamo, mentre la Beata Vergine Maria assurgeva a nuova Eva. In questo processo di conoscenza, ecco che sante grandezze e diaboliche limitatezze si alternano; e questa alternanza è generata dal peccato originale che ci ha rubati alla nostra primigenia santità, alla quale possiamo però tornare attraverso il sacrificio di Cristo Signore sulla croce, «l’agnello di Dio […] colui che toglie il peccato del mondo!» [cf. Gv 1, 29].

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Per amare il prossimo come noi stessi, prima bisogna anzitutto amare noi stessi come creature create a immagine e somiglianza del Dio vivente, poi è necessario specchiare questa immagine nell’altro, nel quale contemplare impressa l’immagine stessa di Dio che un giorno disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» [Gen 1, 26].

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Amare il prossimo implica amare l’immagine di Dio impressa in noi e poi rispecchiarla nell’altro, nel prossimo, leggendo in esso quelle parole pronunciate agli inizi dei tempi: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza». Se non conosciamo noi stessi e non cogliamo in noi stessi l’immagine di Dio, se non trattiamo noi stessi come tempio vivo dello Spirito Santo, non potremmo mai rispecchiare questa immagine nell’altro, nel prossimo, amando in lui questa immagine di Dio impressa ed eterna, riconoscendo in esso un tempio vivo dello Spirito Santo. In mancanza di questo si corre il serio rischio di cadere nelle emotività empatiche, riducendo noi stessi, da Christi fideles, a dei filantropi mondani, che cercano di fare del bene nel modo in cui piace al mondo. E nel giorno del nostro giudizio, dinanzi al Divino Giudice scopriremo che non abbiamo mai amato, perché non sapevano chi eravamo, da dove venivano e verso quale meta dovevamo camminare. Mentre su di noi risuonerà la frase «quale merito ne avete? Non fanno così anche i pagani?» [Mt 5, 46]. E infine: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il Diavolo e per i suoi Angeli» [Mt 25, 41].

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E conosceremo così il vero e profondo amore di Dio, che castiga ed usa misericordia [cf. Tb 13, 1-18].

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dall’Isola di Patmos, 3 novembre 2018

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“Porgere l’altra guancia” vuol dire essere persone umanamente e spiritualmente superiori, non vuol certo dire essere codardi

 – Omelie al Vangelo –

PORGERE L’ALTRA GUANCIA VUOL DIRE ESSERE PERSONE UMANAMENTE E SPIRITUALMENTE SUPERIORI, NON VUOL CERTO DIRE ESSERE CODARDI

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Come leggere la frase del porgere l’altra guancia, posto che il Santo Vangelo non ci offre delle strade impossibili da seguire, ma delle strade possibili, scopo delle quali è di guidarci alla salvezza eterna? Il Catechismo della Chiesa Cattolica, affermando che esiste anche la guerra giusta e che «La legittima difesa è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune», è forse in contrasto con i precetti del Santo Vangelo?

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra tu pórgigli anche l’altra […]»

Mt 5, 38-48

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snoopy porgi l'alotra guancia

la saggezza di Snoopy

Questa pagina del Santo Vangelo del Beato Evangelista Matteo va compresa nella sua profondità, perché penetrando a fondo la Parola del Signore capiamo quel che il Verbo di Dio fatto uomo ha inteso trasmetterci. E ciò che Cristo trasmette non è un messaggio rivolto venti secoli fa a un gruppo di discepoli, o alle genti di quella terra e di quel periodo storico; Egli ci trasmette un messaggio vivo. Questo il motivo per il quale noi ci riferiamo al Santo Vangelo indicandolo come “parola viva”. E più che meramente formale, la differenza che corre tra il Santo Vangelo e la parola di Omero e di Virgilio, tra le rime dell’antica corte di Palermo di Federico II di Svevia, la parola e le rime dei toschi Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca, è una differenza tutta quanta sostanziale. Quelle di molti antichi autori sono parole morte che noi rendiamo vive attraverso il loro studio e la loro diffusione. Ma siamo noi a rendere vive queste parole finite che narrano di storie, vicende, società e uomini che appartengono a un passato morto e sepolto che rivive attraverso queste opere. Il Vangelo non ci parla del finito, ma dell’infinito, non è una parola chiusa che vive nella storia, ma una parola aperta che apre alla storia il nostro essere presente e il nostro divenire futuro. Questo perché il Santo Vangelo non è parola resa viva da noi, ma una parola che rende vivi noi. Ecco perché al termine della proclamazione del Santo Vangelo durante la celebrazione del Sacrificio Eucaristico della Messa, il presbìtero o il diacono concludono dicendo: «Parola del Signore».

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Come forse ricorderete, nel Santo Vangelo di poche settimane fa, Cristo Signore ci ricordava: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?» [cf. Mt 5, 13-16]. E il sale è Cristo che dà sapore e senso alla nostra vita. E se noi perdiamo il sapore di Cristo, nessuno potrà più rendere questo sale salato. La Parola di Dio che dà vita a noi ci rende sale che dà sapore e che ci rende sale della terra.

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Cristo Signore, verso il finire del Vangelo del Beato Evangelista Marco, per chiarire l’essenza stessa della sua parola viva, afferma: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [cf. Mc 24,35]. Questo per ricordarci che Egli è la parola viva che ci dà vita, è il sale che ci dà sapore e che per nostro tramite dà sapore al nostro essere ed esistere, accompagnandoci sino al giorno che Cristo Signore: «Tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine». E se noi non capiamo e non entriamo in quest’ordine di idee, ecco che quando dopo la proclamazione del Santo Vangelo recitiamo il Credo, corriamo il rischio di recitare una filastrocca imparata a memoria, anziché la nostra Professione di Fede; una filastrocca di cui rischiamo di non capire neppure il senso.

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In questo passo del Santo Vangelo, sono contenute delle espressioni che da una parte ci sorprendono, dall’altra tendiamo a interpretare come qualche cosa di non praticabile. Partiamo allora dalla frase che risulta difficile intendere: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra».

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Se noi entriamo nel falso ordine di idee che il Santo Vangelo ci propone strade e stili di vita non praticabili, a quel punto corriamo il serio rischio di ridurlo ad un insieme di racconti pieni di verità storiche e di alti valori etici, ma alla pari dell’Odissea e dell’Iliade, rendendolo in tal modo una “morta parola finita” e non una “viva parola infinita”.

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Con questa frase, Cristo Signore ci dice forse che dinanzi a un esercito che ci invade mettendo a rischio le nostre vite, dobbiamo correre incontro agli aggressori cantando pace e amore ? E come si concilia, l’invito a porgere l’altra guancia, col fatto che lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ammette da sempre il ricorso alla guerra difensiva, se non v’è altro mezzo di difesa dalle ingiuste aggressioni? Vi ricordo infatti che nel testo del Catechismo, laddove si elencano le condizioni di una «legittima difesa con la forza militare», è chiaramente precisato: «Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della “guerra giusta”. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune» [cf. n. 2309]. Prosegue il testo del Catechismo: «La legittima difesa è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune» [cf. n. 2321]. E qui vi prego di notare che la legittima difesa attraverso la guerra è indicata come «un dovere grave» da parte di chi «ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune».

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Come leggere la frase del porgere l’altra guancia, posto che il Santo Vangelo non ci offre delle strade impossibili da seguire, bensì delle strade possibili, scopo delle quali è di guidarci alla salvezza eterna? La dottrina, il magistero e il Catechismo della Chiesa Cattolica, sono forse in palese contrasto con i precetti del Santo Vangelo, incluso l’invito a porgere l’altra guancia ?

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Vediamo qual è la successione delle parole del Signore Gesù che prima di invitare a porgere l’altra guancia afferma: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente». E dicendo «avete inteso», Cristo Signore si richiama a quella che era nota come la Legge del taglione racchiusa nel Libro dell’Esodo [21, 24]. Una legge che quando fu creata era utile poiché mirata a frenare la vendetta e ad evitare che le vendette tra le diverse tribù andassero avanti per generazioni, con un odio sanguinario trasmesso di padre in figlio. E dinanzi alla Legge del taglione, che mirava a questa azione positiva di contenimento, il Signore Gesù afferma: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra».

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Se in epoca primitiva la Legge del taglione cercava di porre freno al male, Gesù ci richiede invece uno spirito teso a superare rancori e conflitti. Non ci chiede di soggiacere impotenti al male, ma di lasciarlo cadere, facendo capire, a colui che compie il male, quanto il suo gesto sia inutile e non possa produrre niente.

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Certi avversari resi ciechi dalla cattiveria, attraverso i loro gesti violenti sfidano ed esigono ricevere reazioni, affinché il male produca male e la violenza altra violenza. Il credente non risponde piegando la testa dinanzi al prepotente e mostrando timorosa debolezza; agisce in modo superiore e sapiente, offrendo al malvagio un modo del tutto diverso di vedere le cose.

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E qui vi invito anche a riflettere sul fatto che Cristo Signore non parla di gravi percosse a suon di cazzotti sferrati a tutta forza, o di colpi di bastone o di aggressioni con le armi in uso all’epoca. Egli parla di uno schiaffo sulla guancia destra. E lo schiaffo, più che un gesto di violenza, era considerato ― all’epoca come tutt’oggi ― un gesto di offesa, un affronto. Sino ad epoche affatto remote, colpire con un guanto sul viso, o lanciare un guanto sul viso, era un gesto di attentato alla altrui dignità e onorabilità. Nell’epoca di Cristo Signore i guanti non erano in uso, ma il gesto dello schiaffo sulla guancia equivaleva alla sfida del guanto, alla quale si può rispondere in due modi: con un duello dal quale ne uscirà fuori un morto, o facendo un sorriso e voltando le spalle al provocatore con l’aria di chi lascia intendere: «Ma tu, pensi veramente che io sia davvero disposto a mettere a rischio la vita tua e la vita mia, a generare un grave lutto in una famiglia ed un sentimento di odio tra due diverse famiglie, quella dell’ucciso verso quella dell’uccisore, per un gesto al quale non conferisco affatto quella portata che vorrebbe mirare a privarmi del mio onore?». Il porgere la guancia sinistra a questa antica sfida del guanto, è una lezione e una intelligente risposta provocatoria per far capire all’aggressore che io, in quanto persona prudente e sapiente, sono consapevole che il male non porta mai ad alcun risultato, mentre la mancanza di controllo dell’orgoglio ferito, può invece portare a reazioni e azioni del tutto sproporzionate.

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Capita non di rado che persone distanti e ostili al mondo cristiano ci aggrediscano nel peggiore dei modi, attraverso violenza verbale, falsità diffuse sulla stampa, calunnie studiate ad arte e diffuse poi con diabolica malizia … e se qualcuno di noi osa reagire ― ad esempio anche con una semplice e legittima querela per diffamazione ―, con prontezza replicano citando una delle poche frasi evangeliche che conoscono male e che di conseguenza citano peggio: «Ah, ma voi dovete porgere l’altra guancia, come dice il Vangelo!».

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Vedete, esistono molti altri passi del Vangelo che a coloro che in vario modo ci aggrediscono fa comodo non conoscere o ignorare, per esempio il fatto che Cristo Signore stesso ricorre alla violenza fisica prendendo a colpi di frusta i mercanti nel cortile del Tempio di Gerusalemme [cf. Mc 11,15-19; Mt 21,12-17; Lc 19,45-48]. E che dire del linguaggio aggressivo e insultante che Cristo Signore rivolge a scribi, farisei e dottori della Legge? O devo forse spiegarvi quale offensiva portata abbia definire degli alti notabili come «razza di vipere»? [cf. Mt 23, 33]. Dire infatti a una persona «sei una vipera», è una offesa diretta a lui personalmente, ma dire a una persona che essa appartiene a una razza di vipere, vuol dire colpire non solo lui, ma il suo intero ceppo di appartenenza, familiare o religioso che sia. Come vedete, esistono anche questi passi nel Santo Vangelo, come altri nei quali il Signore Gesù ci ricorda: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» [cf. Mt 10, 32], indicandoci in modo chiaro che la sequela Christi, il cammino dietro al Signore verso la salvezza, è anche una lotta sia con noi stessi sia con gli altri. Quella lotta alla quale il Beato Apostolo Paolo ci invita con precise parole: «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo» [cf. Ef 6, 10-20].

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Dinanzi a uno schiaffo, dinanzi alla sfida del guanto, si agisce come ci insegna Cristo Signore, usando maggiore sapienza rispetto alla stoltezza dell’attaccabrighe che cerca violenza a tutti i costi. Ma davanti al mistero del male che mira a distruggerci, lì si deve non solo lottare, ma muovere proprio guerra. E se il pericoloso aggressore dice «… ma sul Vangelo è scritto che io ti posso aggredire e distruggere e che tu devi porgere l’altra guancia, mentre io esercito il mio “sacrosanto” diritto mirato a far prevalere il male», in tal caso bisogna rispondere: «Mi dispiace, ma tu il Vangelo non lo conosci, o forse lo hai letto male e, dopo averlo letto male, lo hai capito peggio».

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Il porgere l’altra guancia vuol dire mostrare superiorità umana e morale, sapienza e senso della misura; vuol dire dare una meritata lezione a chi, in cambio di una provocazione, esigerebbe ricevere come risposta una reazione sproporzionata. Il porgere l’altra guancia non vuol dire però cedere in alcun modo al male che intende sopraffare, perché Cristo, sulla croce, non è morto per essersi rifiutato di combattere contro il male, ma proprio perché “colpevole” di avere combattuto il male e lanciato l’invito a combattere il male, sino a divenire, proprio per questo, l’Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo [cf Gv 1,29].

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Dall’Isola di Patmos, 19 febbraio 2017

VII Domenica del Tempo Ordinario

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Per vivere la risurrezione di Cristo è necessario abbandonare sogni, favole e idoli, penetrare il reale nell’obbedienza della fede e fare la volontà del Padre

PER VIVERE LA RISURREZIONE DI CRISTO È NECESSARIO ABBANDONARE SOGNI, FAVOLE E IDOLI, PENETRARE IL REALE NELL’OBBEDIENZA DELLA FEDE E FARE LA VOLONTÀ DEL PADRE

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Sulla pietra rovesciata del Cristo risorto che ha vinto la morte, a tutti noi spetta un grande compito: scegliere tra i sogni e le favole sotto le quali tutto quanto crolla, oppure mettersi in cammino lungo la Via di Emmaus. Perché solo in questo secondo caso Dio ci verrà incontro come compagno di viaggio, ci chiamerà «amici», visiterà la nostra vigna e la trasformerà veramente in un’opera sua, dopo che l’uomo sarà riuscito a rinunciare al proprio omocentrismo per entrare nella dimensione del cristocentrismo.

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Pasqua 2016, Veglia di Pasqua [Lc 24, 1-12] Mattino di Pasqua [Gv 20, 1-9], omelia alla Santa Messa del giorno di Ariel S. Levi di Gualdo

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LA RESURREZIONE - TEMPERA 1996 - CM.50 X 35

la risurrezione del Cristo, opere di Quirino de Ieso, anno 1996, tempera su tela 50×35

Sulla scena della risurrezione le donne sono testimoni e protagoniste, come narra il Vangelo del Beato Apostolo Luca letto durante la veglia pasquale e nel Vangelo del Beato Apostolo Giovanni proclamato in questo giorno di Pasqua. Lapidarie sono le parole dette dell’Angelo alle donne nel vangelo lucano: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Sono parole dalle quali si edifica sulla roccia del sepolcro una verità eterna, quella che i profeti hanno trasmesso ad un popolo che cercava il Signore nei luoghi e negli spazi in cui lo aveva lasciato ieri, mentre l’Onnipotente Creatore è sempre avanti e sempre ci precede, invitandoci ad un cammino incessante, come recita le splendida lode Victimae pascali: «Surrexit Christus spes mea/ præcedet suos in Galilaeam», Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Galilea.

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Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

Nella storia religiosa l’uomo tende spesso ad avanzare all’indietro ed a guardare a ritroso. Mentre invece Dio vuole che l’uomo guardi sempre in avanti, perché a partire dall’incontro del Signore risorto con i discepoli lungo la via di Emmaus [cf. Lc 24, 13-53], noi siamo stati proiettati in avanti verso l’eterno. Chi infatti ha paura del presente e del divenire futuro, finisce col vivere imprigionato tra un passato che non deve passare ed un presente immobile fatto spesso di sogni e di fantasie.

In certe situazioni di immobilismo si tende a vivere paralizzati nei propri piccoli possessi mascherati dietro fantasiosi castelli di intoccabili tradizioni, ignari del monito dato del Signore Gesù che ammonisce: «Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» [cf. Mt 15, 7-9].

Cristo Gesù non è chiuso dentro la tomba della verità di ieri, perché la verità è viva e vive in Gesù Cristo Risorto che porta sempre impressi su di sé i segni indelebili della passione. Cristo è colui che sempre risorge, che sempre rinnova il mistero del suo corpo e del suo sangue vivo attraverso il mistero eucaristico.

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Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

Lo Spirito Santo, ch’è dono divino dato dal Risorto nella Pentecoste, ci spinge in avanti, basta solo non confondere lo Spirito Santo con lo spirito proprio; basta non crearsi un fantasioso Gesù a nostra misura che guarda caso dice e comanda a certi uomini esattamente ciò che essi vogliono sentirsi dire, dando vita in tal modo ad uno dei peccati più terribili: la chiusura alla grazia di Dio. Ora voi capite bene che chiudersi e indurre il prossimo a chiudersi alla grazia di Dio in nome di Dio, è terribile empietà.

Cristo risorto colma di grazie e benedizioni le proprie opere, quelle da lui volute e ispirate, mentre le opere nate da mano d’uomo per la gloria dell’uomo – come dice il salmista – muoiono con l’uomo, proprio come gli idoli, ce lo insegna il salmo 114 che recita: «Gli idoli delle genti sono argento e oro, Opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida». E le opere di Dio – come enuncia il Vangelo – sono alberi che non si riconoscono né dalle fantasie né dalle illusioni nelle quali si è vissuto; le opere di Dio si riconoscono dalla vita e dai frutti della vita.

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Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di pasqua

E se un albero secca e non dà frutti, c’è poco da chiedersi dove hanno sbagliato gli altri, ma piuttosto c’è da chiedersi: dov’è che abbiamo sbagliato noi? Soprattutto c’è da chiedersi in che misura ci si è chiusi alla grazia di Dio ed al mistero delle sue opere per seguire le opere dell’uomo; opere che alla fine, anche dopo molti anni, si riveleranno fallimentari proprio per i frutti che non danno, o per i frutti malati che producono, consegnandoci in tal modo alla morte e non a quella vita che è adorazione e comunione perenne con il risorto. Una comunione che passa sempre attraverso la devota obbedienza alla Chiesa universale, alla Chiesa particolare ed ai propri pastori, i vescovi; soprattutto quando non è facile prestare loro obbedienza. Ma proprio quando l’obbedienza non è facile, semmai perché i Pastori possono essere deboli, distanti, o semplicemente incapaci ad assumersi le loro responsabilità, essa va’ più che mai prestata, perché in caso contrario si rischia di ubbidire solo ai capricci di noi stessi, alle nostre ragioni ed ai nostri rancori. E chi non istruisce a questa docilità ed a questa obbedienza verso la Chiesa ed i propri Pastori, che di questi tempi può risultare anche molto difficile e dolorosa da mettere in pratica; chi si crea il proprio mondo nel mondo, la propria chiesa nella Chiesa, non è un pastore d’anime e non è un maestro, ma una guida cieca. E come c’insegna il Vangelo: «Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso» [cf. Mt 15,14].

5. Veglia Pasquale 2014

Ariel S. levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

Il mistero sul quale la nostra fede si edifica, come ci spiega il Beato Apostolo Paolo, non è certo la pietra sigillata del sepolcro di Cristo, perché «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» [cf. I Cor 15, 14]. Il mistero della nostra fede è quindi la pietra rovesciata da colui che non è più tra i morti ma tra i vivi e che ci viene incontro lungo la Via di Emmaus facendosi riconoscere dallo spezzare del pane [cf. Lc 24,13-35], invitandoci al cammino perenne e non certo alla paralisi dinanzi agli idoli che sono frutto delle mani dell’uomo.

Invitando l’uomo a compiacersi «della legge del Signore» ed a «meditarla giorno e notte», il salmista, nel Salmo n. 1, è molto chiaro nell’ammonirci con precise parole e ad indicarci che l’uomo giusto, colui che fa veramente la volontà di Dio: «Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere». E riusciranno, le sue opere, perché in verità sono opere del Signore, di cui l’uomo è stato ed è solo un fedele strumento.

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9. Veglia Pasquale 2014

Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

Nella notte di Pasqua è avvenuta la risurrezione del corpo del Verbo di Dio Incarnato, di quella sua carne che fu infamata sul legno della croce e che adesso è adorata nei cieli e sulla terra. E non è certo un caso che Cristo Dio sia risorto di notte, perché con la sua risurrezione ha rischiarato le nostre tenebre, come canta il salmista: «Illuminerai la mia lampada, Signore; mio Dio, illuminerai le mie tenebre» [Sal 17, 29].

Cristo Risorto ci chiama alla vita e ci rende partecipi della vita, invitandoci a fuggire dalla morte; ci chiama a compiere le opere del Signore ed a benedire le sue opere dinanzi al Signore della vita: «Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere, suoi ministri, che fate il suo volere. Benedite il Signore, voi tutte opere sue, in ogni luogo del suo dominio. Benedici il Signore, anima mia» [Sal 102].

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12. Veglia Pasquale 2014

Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

È su questo che possiamo accogliere e costruire la nostra intima partecipazione alla risurrezione del Cristo, col quale l’umanità è morta al peccato e rinata alla vita, oppure consegnarci invece alla morte nel modo peggiore: dopo avere imposto le nostre opere umane in nome di Dio, ma dando i frutti inevitabili: un albero secco, la desolazione, infine una morte che giungerà triste dopo avere trascorso la propria esistenza in una dimensione di possesso e di chiusura sino all’ultimo arrabbiato respiro di vita. E tutto questo in nome del proprio “io” fatto passare per “volontà di Dio”, mentre attorno a noi tutto crolla. E tutto crolla per colpa nostra che non vogliamo vedere, non per colpa degli altri. Attorno tutto crolla perché noi, rinchiusi nelle nostre illusorie e inamovibili convinzioni, pur avendo udito tutti i giorni la Parola di Dio, in verità non l’abbiamo ascoltata, perché eravamo troppo impegnati ad ascoltare le ragioni del nostro “io” anziché le ragioni di Dio che attraverso la voce del Beato Apostolo Paolo ci mette in guardia dicendo: «Verrà giorno, infatti, in cui […] per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm  4,3].

E agendo in questo modo, o seminando favole che poi, alla fine, cadranno a pezzi assieme agli idoli costruiti da mano d’uomo, non si giunge certo alla comunione dei Santi per godere della visione beatifica del mistero di Dio Creatore, del Verbo Incarnato Cristo Signore, dello Spirito Santo Consolatore.

13. Veglia Pasquale 2014

Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

«Cristo risorto ci ha liberati» ― ci ammonisce il Beato Apostolo Paolo [Gal, 1] ― «perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù». Mai e da nessuno, dobbiamo lasciarci imporre la schiavitù, specie da quegli uomini che vorrebbero rendere gli altri schiavi dei propri capricci e delle proprie fantasie in nome di Dio, dopo essersi impudentemente proclamati messaggeri e voce di Dio.

Sin dal Giardino di Eden, a noi spetta la scelta: consegnarci alla morte perenne o seguire la nostra naturale chiamata: partecipare alla risurrezione di Cristo Dio che siede oggi alla destra del padre e che un giorno – non dimentichiamolo mai – «tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». E Cristo, posto che «ogni albero si riconosce dal suo frutto» [cf. Lc 6,44], con coloro che non hanno mai rinunciato neppure per un istante della propria esistenza a se stessi per essere veramente suoi, che non hanno veramente servito Cristo e la sua Chiesa ma che si sono serviti invece di Cristo e della sua Chiesa, sarà molto severo: li lascerà in pasto alla morte. Basti solo ricordare la parabola del fico sterile: Gesù, vedendo lungo la strada un fico, ricercò in esso dei frutti, ma, avendolo trovato ricco solo di foglie, pronunziò la condanna di quell’albero [cf. Lc 13, 6-9]. Il signore Gesù non disse affatto: poverino, non dà frutti per colpa degli altri. Tutt’altro, il divino Maestro affermò che la mancanza di frutti era tutta quanta colpa del fico sterile.

Se Cristo, dinanzi a un atto di pentimento perfetto, ha salvato il buon ladrone aprendo a lui le porte del Paradiso [cf. Lc 23, 38-43], altrettanto può fare con noi; altrettanto può fare con
coloro che si trovano in una vigna resa sterile dal fatto che in verità il Signore, quella vigna, non l’ha voluta, essendo opera di mano d’uomo e non opera di Dio. In tal caso è necessario e urgente prendere atto della realtà, seguire il sapiente monito del Beato Apostolo Paolo, abbandonare le favole e le fantasie [cf. II Tm  4,3]  aprirsi ad una verità ― che spesso è amara e per questo non facile da accettare ― e pregare il Signore con le parole del Salmo 79 che recita: «Signore, Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna». E il Signore ci visiterà, ma prima bisogna essere consapevoli del nostro errore e soprattutto dell’assenza di Dio nella vigna voluta dall’uomo per la pura ricerca di gloria dell’uomo, quindi pregare affinché, malgrado il nostro errore, la grazia ci soccorra e trasformi quel terreno nella vigna di Dio. In caso contrario si rischia di morire incattiviti come uno dei due ladroni, che anziché chiedere grazia e perdono, pur essendo martoriato e addolorato in tutto il suo corpo affisso sul palo della croce, manifestò invece chiusura, rifiuto, rabbia e spirito aggressivo sino all’ultimo respiro di vita. Proprio come fanno coloro che, dinanzi al fallimento delle proprie opere, non ritornano sui propri passi neppure dinanzi alla distruzione, al dolore, alla malattia e alla morte.

Nel Vangelo giovanneo c’è la bella immagine di Maria sofferente e smarrita dinanzi al sepolcro, che dice: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» [cf Gv 20,2].

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Ariel S. Levi di Gualdo, Veglia di Pasqua

Nel Vangelo lucano, alle donne paralizzate dal dolore dinanzi alla pietra vuota del sepolcro, due angeli in sfolgoranti vesti dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» [Lc 24, 5].  Con queste parole gli angeli invitano le donne a guardare oltre la dimensione tutta quanta provvisoria di quel sepolcro che segna solo un momento di passaggio. Gesù infatti non è più nel passato, Gesù non è un insieme di ricordi resi tutti quanti immobili e legati ai giorni passati; Gesù vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’ «oggi» eterno di Dio che ci invita al cammino, è la alpha e la omega che «ricapitola in sé tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» [Cf. Ef 1,10], colui che il santo vescovo e padre della Chiesa Agostino chiamava il Christus totus, che è inizio, centro e fine ultimo del nostro intero umanesimo.

Sulla pietra rovesciata del Cristo risorto che ha vinto la morte, a tutti noi spetta un grande compito: scegliere tra i sogni e le favole sotto le quali tutto quanto crolla, oppure mettersi in cammino lungo la Via di Emmaus. Perché solo in questo secondo caso Dio ci verrà incontro come compagno di viaggio, ci chiamerà «amici», visiterà la nostra vigna e la trasformerà veramente in un’opera sua, dopo che l’uomo sarà riuscito a rinunciare al proprio omocentrismo per entrare nella dimensione del cristocentrismo, perché in caso contrario, si può fare tranquillamente a meno di recitare: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra», perché si tratterebbe solo di parole senza alcun senso umano e cristiano. 

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Sequenza pasquale

Maitrise Notre Dame de París – Francia.
Gran Órgano: Philippe Lefebvre

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