25 aprile Festa della Liberazione: «Preghiera per L’Italia del Santo Padre Giovanni Paolo II»

 

 

PREGHIERA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
PER L’ITALIA

O Dio, nostro Padre, 
ti lodiamo e ringraziamo. 
Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli 
accompagna i passi della nostra nazione, 
spesso difficili ma colmi di speranza. 
Fa’ che vediamo i segni della tua presenza 
e sperimentiamo la forza del tuo amore, che non viene mai meno. 
Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo
fatto uomo nel seno della Vergine Maria, 
ti confessiamo la nostra fede. 
Il tuo Vangelo sia luce e vigore 
per le nostre scelte personali e sociali. 
La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile 
a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace. 
Spirito Santo, amore del Padre e del figlio 
con fiducia ti invochiamo. 
Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio. 
Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti, 
di conservare l’eredità di santità e civiltà 
propria del nostro popolo, 
di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società. 
Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti. 
Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo. 
Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori. 
Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli. 
Amen.

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IOANNES PAULUS PP. II

15 marzo 1994 

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Che cosa sta accadendo al Sommo Pontefice Francesco? Mai come oggi Satana aveva insidiato il Papato

CHE COSA STA ACCADENDO AL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO? MAI COME OGGI SATANA AVEVA INSIDIATO IL PAPATO

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Non si può escludere, al riguardo, che Papa Francesco attualmente sia tentato dal Demonio, maestro di quella superbia che porta all’eresia. Ciò potrebbe spiegare i frequenti richiami del Papa alla lotta contro il Demonio, cosa inusuale nei Papi, almeno degli ultimi secoli, soprattutto per le istruzioni concrete che il Pontefice impartisce, cosa che fa pensare che egli parli per esperienza diretta. Ciò è particolarmente notevole nell’Esortazione Apostolica Gaudete et exultate.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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Illustrazione da Lucifero. Poema di Mario Rapisardi. IV Edizione illustrata da 40 disegni di Gino De’ Bini. Roma, Edoardo Perino editore, 1887

Se una persona che stimiamo e amiamo comincia a dar segni di infedeltà nei confronti di quei valori per i quali la stimiamo e la amiamo, ovviamente non possiamo non preoccuparci, domandarci da cosa può dipendere questa decadenza e cosa possiamo fare per rimediarvi. Sentimenti simili proviamo noi cattolici nei confronti del Santo Padre, che con un certo crescendo, dà segni preoccupanti di non compiere il proprio dovere di Sommo Pastore della Chiesa.

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Comportamento e idee di Papa Francesco oggi piacciono a grandi folle, pastori e teologi attaccati a questo mondo e ad un cattolicesimo sedicente progressista, ma in realtà modernista, nonché ad ambienti non cattolici.  

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Non che il Papa insegni l’eresia, ma tuttavia egli cammina sul ciglio del burrone. Ma che cosa gli è successo? La risposta è semplice: si è lasciato prendere dal gusto del potere. Tutto il mondo, quindi, sembra dover dipendere dalla sua parola e dalla sua volontà. I suoi fans vorrebbero convincerlo che non c’è dogma, non c’è sacramento, non c’è tradizione, non c’è legge morale, non c’è istituzione della Chiesa e dello Stato, che egli non possa cambiare a sua volontà, ritenendosi sempre sotto l’influsso dello Spirito Santo.

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Un caso mai successo nella storia della Chiesa

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Ma dov’è il Papa custode, interprete e difensore del deposito della fede, supremo annunciatore del Vangelo, Sommo Sacerdote dispensatore dei sacramenti, zelante padre, giudice e medico delle anime, guida nelle vie della santità verso il regno dei cieli, garante dell’ordine, del diritto, della giustizia, della libertà, del progresso e della pace nella Chiesa, luce delle genti e salvezza del mondo?

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Non si può escludere che Papa Francesco sia tentato dal Demonio, maestro di quella superbia che porta all’eresia. Ciò potrebbe spiegare i frequenti richiami del Papa alla lotta contro il Demonio, cosa del tutto inusuale nei Sommi Pontefici, almeno degli ultimi secoli, soprattutto per le istruzioni concrete che il Pontefice impartisce, cosa che fa pensare che egli parli per esperienza diretta. Ciò è particolarmente notevole nell’Esortazione Apostolica Gaudete et exultate [testo QUI].

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In realtà è mia convinzione che mai nella storia Satana abbia sferrato contro il papato un attacco così violento e insidioso, e proprio riguardo l’ufficio più importante del Papa, che è la custodia della dottrina della fede. Tale attacco contro Papa Francesco è il culmine di un’azione che Satana ha istigato nella Chiesa a partire dall’immediato post-concilio, col suscitare un rinnovato modernismo, soprattutto nel rahnerismo, sotto pretesto del rinnovamento conciliare. 

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

E così il potere delle tenebre ha ingannato l’episcopato, instillando in esso la illusoria convinzione che non fosse più necessario vigilare contro le eresie, e che il tempo delle eresie e della loro relativa condanna fosse cessato grazie al clima di dialogo avviato dal Concilio ed alla messa in opera della raccomandazione di San Giovanni XXIII di cercare ciò che unisce e non ciò che divide. Senonché, tale utile avviso, che serve a creare la pace e la concordia, fu inteso come invito a disinteressarsi delle eresie, dalle quali appunto nascono le divisioni. L’esortazione del Santo Pontefice a non dividere fu intesa come incitamento a non tener conto e quindi a non eliminare ciò che divide.

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In tal modo il rinato modernismo, non represso per tempo dai vescovi, in questi cinquant’anni si è accresciuto continuamente, fino a penetrare negli anni Ottanta nelle Facoltà Pontificie e, con Papa Benedetto XVI, nella stessa Santa Sede. In questo periodo di tempo il papato si è visto progressivamente eroso e indebolito nella lotta al modernismo per il mancato appoggio dei vescovi, tra i quali cominciò a penetrare l’astuto rahnerismo, finto sostenitore dell’episcopato, mentre in realtà lo mette contro il Papa e lo asservisce alle voglie del laicato. In tal modo, nonostante il valente Cardinale Josef Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede, critico personalmente di Rahner, questa stessa Congregazione non ebbe mai la forza di condannarlo. Solo San Giovanni Paolo II nel 1993 nell’enciclica Veritatis Splendor [nn. 65-67, testo QUI] riuscì a condannare la sua dottrina morale, ma solo la sua dottrina morale.

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Un Papa peccatore ma non eretico

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Diciamo però con chiarezza: non può verificarsi il caso di un Papa eretico. Qualunque cattolico, dal Segretario di Stato in giù può essere eretico, all’infuori del Papa. L’esistenza, quindi l’essenza della Chiesa, sacramento universale di salvezza, nella sua propria immutabile ed indistruttibile identità e santità voluta e garantita da Cristo, dipende originariamente in ultima istanza dall’insegnamento dogmatico del Papa. Per questo il Concilio di Firenze del 1442 insegna che chi disobbedisce o si ribella al Papa va all’Inferno. Non aveva torto Bonifacio VIII nel dire che l’autorità del Papa è la suprema fra tutte quelle che esistono nella terra, comprese quelle temporali, in forza del detto di Cristo «ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra» [Mt 28,18].

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Al riguardo, però, un Pontefice può peccare di temporalismo o attaccamento al potere in due modi: o con la pretesa di dirigere politicamente dall’alto del suo potere spirituale gli affari temporali, intromettendosi in essi e togliendo ai governanti politici la loro autonomia, oppure impostando l’intero ministero pontificio su di una linea meramente temporale o politica, o al massimo antropologica, lasciando in ombra il ministero apostolico e spirituale. E questo, purtroppo, è il difetto di Papa Francesco.

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Non è mai successo in tal misura nella storia della Chiesa sia la presenza in essa di eretici che restano impuniti, sia la persecuzione dei fedeli da parte di queste correnti ereticali occupanti posti di potere. Certo nella Chiesa gli eretici ci sono sempre stati, ma essi venivano regolarmente espulsi o essi stessi dichiaravano francamente di non considerarsi più cattolici.

Il Papa non dovrebbe offendersi per le critiche a lui rivolte. Volendo rifarsi, sembra, all’esempio di Cristo, che venne criticato dai farisei, egli con troppa facilità si sente in ciò simile a Cristo considerando senz’altro farisei quelli che lo criticano e giunge quasi a vantarsi di esser criticato. Sì, certo, c’è un certo farisaismo nelle critiche che gli fanno alcuni. Tuttavia, egli dovrebbe saper distinguere le critiche malevole basate su ingiusti pregiudizi nei suoi confronti, da quelle giuste e ragionevoli, delle quali invece dovrebbe tener conto, per non mostrarsi orgoglioso e permaloso.

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Ma la grazia, comunque, in questa emergenza drammatica, raggiunge tutti nella Chiesa, vescovi e Papa compresi, per mezzo dei laici, semplici fedeli, giornalisti, intellettuali, uomini politici, scrittori, filosofi, teologi, profeti e mistici. Non mancano presbìteri e religiosi. Tuttavia, la Chiesa è indistruttibile, nonostante le potenze dell’Inferno si accaniscano continuamente contro di essa. Se le cose continuano così, dobbiamo attenderci la conversione del Papa e dei vescovi grazie all’azione ed alla preghiera del Popolo di Dio.

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Tutti i membri della Chiesa terrena, il Papa incluso, finché vivono quaggiù, per quanto santificati nella Chiesa, corrono sempre il rischio di perdersi. Essi, per santificarsi, devono essere in comunione con la Chiesa, compreso il Papa, perché essa è santa e sorgente della santità, animata dallo Spirito Santo. Il Papa fruisce di quella santità della Chiesa che egli stesso amministra nei sacramenti per mandato di Cristo. E il piccolo esercito dei laici profetici, che salverà la Chiesa, dovrà anch’esso ovviamente alimentarsi ai sacramenti, nella amministrazione dei quali il sommo sacerdote è il Papa.

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Comunione con la Chiesa dunque vuol dire comunione col Papa, anche se questi può essere in peccato mortale e come tale interiormente fuori della Chiesa. Eppure il Papa, anche in queste deprecabili condizioni, resta sempre come Capo della Chiesa, principio della comunione ecclesiale, almeno giuridica.

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Sbagliano pertanto quelli che parlano di un Papa ”scismatico”. Si vede che non sanno che cos’è uno scisma. Esso è sì il separarsi dalla Chiesa, ma con ciò stesso dal Papa. Ora, il Papa evidentemente non si può separare da se stesso, né può scomunicare se stesso. Il Papa è l’unico cattolico che non può essere scomunicato. Qui però si tratta di un fatto giuridico di foro esterno. Ciò non impedisce che un Papa sia fuori della Chiesa in foro interno, in quanto in stato di peccato mortale. Se la Chiesa è santa, chi non è santo non può appartenere alla Chiesa nell’anima, ma semmai solo col corpo. O semmai per un mero fatto giuridico-funzionale. Può continuare a fare il Papa, ma certo non lo farà come deve.

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È possibile che queste considerazioni abbiano condotto Papa Francesco ad un serio esame di coscienza e ad un inizio di ravvedimento, dal quale sono scaturiti due importanti documenti, quasi programmatici, che sembrano il segno di una risalita. In questi due documenti, il primo della Congregazione per la dottrina della fede, la Lettera Deo placuit, [testo, QUI] il secondo la Costituzione apostolica Gaudete et exultate [testo QUI], sembra di dover rintracciare addirittura una nuova partenza o una nuova impostazione del pontificato di Papa Francesco, più aderente ai suoi doveri specifici ed insostituibili.

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Lucifero, disegni di Gino De’ Bini

Par di cogliere in Francesco I una chiara e decisa presa di coscienza. Si ha l’impressione ch’egli cominci ad afferrare sul serio e con decisione il senso autentico ed originale del suo essere Papa. Si ha come l’impressione di leggere nei due documenti i tradizionali “propositi” al termine di un corso di esercizi spirituali; e qui appare il Gesuita. Come se Francesco dicesse a se stesso: “adesso voglio cominciare a fare sul serio”. Un discorso che Francesco fa più per la sua anima di Successore di Pietro che non per la Chiesa sua Sposa, oggi cosi sofferente per i tradimenti dello Sposo. Un discorso programmatico per il Maestro [Deo placuit] e per il Pastore [Gaudete et exultate].

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Preghiamo per lui, perché, come dice il Papa nella Gaudete et exultate, siamo sempre in tempo a darci completamente a  Dio.

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Varazze, 24 aprile 2018

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“La luce nelle tenebre”, un libro di Aldo Maria Valli su Benedetto XVI

«LA LUCE NELLE TENEBRE», UN LIBRO DI ALDO MARIA VALLI SU BENEDETTO XVI

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Valli sa bene che questo Papa è legittimo e come tale è maestro della verità di fede, ma sa anche che non ogni Papa è maestro, esempio e modello di costumi morali e in particolare nella guida della Chiesa. Nessun Papa ha insegnato alla Chiesa l’eresia. Ma un Papa, per la sua negligenza o per la sua imprudenza, può governare male la Chiesa.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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il vaticanista del TG1 Aldo Maria Valli, autore del libro   Uno sguardo nella notte- Ripensando Benedetto XVI [cf. QUI]

Il noto vaticanista Aldo Maria Valli da tempo sta seguendo con la massima attenzione il comportamento del presente Pontefice, come rientra nel suo lavoro e soprattutto, in riferimento alle sue convinzioni di cattolico, conosce bene e stima altamente la guida che un Papa di per sé, salvo incidenti, esercita e deve esercitare nei confronti della Chiesa, secondo il comando di Cristo  «Pasci i miei agnelli» [Gv 21,16].

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Il suo interesse per questo importante argomento, che oggi appassiona e divide tra di loro tanti cattolici, non si racchiude nei limiti del suo lavoro professionale. Anche Papa Francesco, agli inizi attira l’ammirazione e le speranze di Valli, il quale gli dedicherà alcune pubblicazioni. Sennonché, egli a un certo punto del pontificato di Francesco comincia, con altri cattolici, a restare perplesso nelle sue convinzioni dottrinali e morali di cattolico, davanti a certi atteggiamenti, scelte e discorsi del Papa, che appaiono stridere con quelle convinzioni.

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Non c’è in gioco un certo tradizionalismo che resta attaccato al passato. Valli non ha nulla a che fare con quest’area del cattolicesimo, certo non privo di aspetti positivi, ma è un progressista, che in precedenza aveva espresso pubblicamente ammirazione per il Cardinale Carlo Maria Martini. Per cui le recriminazioni lefebvriane non fanno su di lui alcuna presa. D’altra parte, Valli non parteggia neppure per l’imperante modernismo, che si è auto-nominato ”progressista”, per celare il falso rinnovamento conciliare da lui sbandierato.

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Per Valli è solo questione di veritàE la verità di fede, la Parola di Dio, il dogma non passa. È qui che il progressismo di Valli, del tutto sano e legittimo, si distingue dal falso progressismo modernista, storicista e relativista. Il vero progresso, infatti, è l’esplicitazione e lo sviluppo di ciò che dev’essere conservato immutato e inalterato. Del resto, lo stesso Ratzinger fu notoriamente ai lavori del Concilio tra i teologi progressisti; e tale egli è sempre rimasto. Ma, a un certo punto, egli si accorse del falso progressismo rahneriano, che in realtà era modernismo.

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Per Valli, quindi, essere progressista non vuol dire andare a sorbirsi una sbronza rivoluzionaria sul modello della famosa “contestazione” del 1968 [cf. Massimo Introvigne, L’altro 1968. La nascita del dissenso organizzato nella Chiesa Cattolica, QUI]. Per lui il Papa è Pietro, la salda roccia, della quale ci si può fidare e sulla quale ci si può appoggiare con sicurezza per costruire un solido edificio resistente alle tempeste [cf. Mt 16:13-20]. Valli è un progressista che mantiene la ragione lucida e sa che il progresso è progresso di quei valori assoluti o “non negoziabili”, che vanno conservati, e che il mutamento costruttivo è il perfezionamento dell’immutabile. È un progressista, non un modernista.

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Valli quindi sa che la parola di qualunque Papa può sorprendere per la sua novità; può partecipare della paradossalità del Vangelo; ma non può essere irrazionale; non è un terreno scivoloso o una sabbia mobile, nella quale si sprofonda per essere sepolti dal fango. Pietro ha certo le sue debolezze, è un peccatore come tutti noi, ma è il maestro della verità, il custode del deposito rivelato, il maestro della Parola ”che non passa”.

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Valli sa bene che questo Papa è legittimo e come tale è maestro della verità di fede, ma sa anche che non ogni Papa è maestro, esempio e modello di costumi morali e in particolare nella guida della Chiesa. Nessun Papa ha insegnato alla Chiesa l’eresia. Ma un Papa, per la sua negligenza o per la sua imprudenza, può governare male la Chiesa.

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È successo così a Valli di dover cambiar parere nel passaggio da Papa Benedetto a Papa Francesco. Se fino a Benedetto Valli si sentiva in dovere di appoggiare in pieno la linea di un Papa autenticamente riformatore, mite pastore della Chiesa, nemico coraggioso degli errori modernistici, sapiente maestro di verità, cultore del sacro nella liturgia, oppositore delle forze mondiali che vogliono porre fine alla Chiesa, ossia l’islamismo, il comunismo e la massoneria, innovatore dell’apologetica e quindi dell’attività missionaria, col porre in luce il rapporto fra la ragione la fede, prudente e zelante fautore del dialogo ecumenico, aperto all’ingresso degli acattolici nella Chiesa Romana ― vedi la conversione degli anglicani ― [cf. QUI e QUI], alieno dall’immischiare il Papato nella politica, ma attento ai doveri dei laici cattolici in politica. Adesso che Papa Francesco ha bloccato quasi tutte le sagge iniziative che Benedetto stava portando avanti, Valli giustamente non se la sente di appoggiare in pieno un pastore che sembra dialogare con i lupi anziché con le pecore.

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Che cosa sta facendo Francesco?

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Da quello che Francesco sta facendo, si ha la netta impressione che egli voglia fare il rivoluzionario rispetto a quello che hanno fatto i Papi precedenti. Quanto invece sarebbe utile per Francesco e per la Chiesa, che egli prendesse esempio da loro e proseguisse sulla pista da loro tracciata! L’errore di Papa Francesco, quello che i suoi adulatori gli presentano come titolo di una gloria inaudita, è quello di credersi un Papa più avanzato di quelli che lo hanno preceduto.

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È questa convinzione che gli impedisce di vedere in essi la loro esemplare santità o quanto meno la loro virtù. Il recente documento che ha pubblicato sulla santità, potrà servirgli a vederci più chiaro. Ma poi, un Papa più avanzato verso dove? Considerando agli atti di Francesco, non è difficile rispondere: verso il mondo moderno. È la tentazione del modernismo.

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Francesco sa apprezzare i valori della modernità. Ma si guarda dal rendersi odioso al mondo rimproverandolo del suo peccato o correggendolo dai suoi errori. L’importante, per Francesco, sembra essere l’incontrarsi col mondo, accogliere il mondo e assimilarsi al mondo. Non pare che per Francesco il compito della Chiesa sia elevare il mondo al cielo, ma semplicemente piegarsi sul mondo per sollevarlo dalle sue miserie ed accontentarlo nei suoi bisogni.

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La rievocazione dell’opera di Benedetto fatta da Valli nel suo libro Uno sguardo nella notte. Ripensando Benedetto XVI [1], è allora un chiaro messaggio indirizzato a Papa Francesco ricordandogli un Papa che non ha ceduto davanti al mondo, a costo di essere “azzannato dai lupi” [p.9]. Se dunque nei due precedenti libri: 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P. e Come la Chiesa finì, Valli si rivolge direttamente al Papa, anche in quest’ultimo Valli pensa al Papa attuale, per presentargli in Benedetto un esempio. Al riguardo Valli cita lo splendido ritratto di Benedetto fatto da Vittorio Messori nel 2010:

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«chi lo conosce bene, sa fino a che punto nel Ratzinger professore, poi cardinal prefetto, infine Pontefice, convivano severità e misericordia, rigore e comprensione, rispetto della norma e attenzione alla singola situazione umana. C’è, in lui, l’umanità dei vecchi uomini di Chiesa, che, dal pulpito, denunciavano a voce alta il peccato; ma poi, nel confessionale, a tu per tu col peccatore concreto, interpretavano con larghezza l’invito del Cristo a capire e perdonare […] in questo figlio della vecchia Baviera cattolica, c’è quanto ha contrassegnato, appunto, il cattolicesimo autentico: il rifiuto della disumana ferocia giacobina, il rigetto della condanna senza appello, senza la pietas per la condizione umana. I tentativi attuali di trascinarlo sul banco degli imputati nulla sanno, tra molti altri errori e manipolazioni, di questa sapienza che è quella stessa che marca l’esperienza  bimillenaria della Chiesa» [p. 44].

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Invece Papa Francesco è purtroppo circondato da un gruppo di collaboratori ed amici, che formano attorno a lui una barriera, chiamata dal Cardinale Gerhard Müller «cerchio magico» [cf. QUI].

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Tuttavia dobbiamo segnalare con piacere la pubblicazione recente di due importanti documenti: la Lettera Deo Placuit della Congregazione per la dottrina della fede sugli errori moderni e la Costituzione Apostolica Gaudete et exultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo [vedere QUI e QUI].

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Papa Francesco, nella Gaudete et exultate, presenta opportunamente tanti modelli di Santi. Quanto sarebbe stato però persuasivo se, pensando con umiltà al proprio cammino di santificazione, egli si fosse fermato sulla figura di San Giovanni Paolo II, anche per fugare certi timori non infondati che Francesco, specialmente con la pubblicazione dell’Amoris laetitia [vedere QUI] non abbia saputo comprendere ed apprezzare appieno l’alta sapienza morale del Santo Pontefice. Resta comunque il fatto che il Papa ha imboccato la strada giusta; speriamo che continui a percorrerla e che non sia di nuovo risucchiato dagli “amici”.

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Il Papa Benedetto di Valli

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Valli raccoglie tutta l’opera di Papa Benedetto sotto il segno della verità. All’inizio del libro lo chiama il «Papa della verità». E non c’è dubbio che è sotto questo segno, che fa pensare al motto domenicano veritas, che Papa Ratzinger ha vissuto il suo pontificato, in linea con i suoi precedenti di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e la sua carriera di teologo, il quale che cosa è, se non il servitore della verità divina? Un «consacrato nella verità» [cf. Gv 17,17].

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Valli mostra molto bene come un aspetto importante dell’azione e del programma di Benedetto sia stato quello di raccogliere e dar risposta all’appello di San Giovanni Paolo II a ritrovare le radici cristiane dell’Europa. Il centro del cattolicesimo è in Europa e per questo è ovvio l’interesse che Benedetto e Giovanni Paolo hanno avuto, proprio come Pontefici, per come il cristianesimo si è diffuso in Europa e di  lì nel mondo.

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Valli si ferma a mostrare la sapienza e lo zelo con i quali Papa Benedetto in più occasioni ha insistito sulla necessità di una rivalorizzazione e di un potenziamento della ragione umana [2] nella sua apertura al trascendente ed alla fede, nell’universalità dei suoi princìpi teoretici e morali, come via per riaffermare il dialogo fra tutti gli uomini di buona volontà, quali che sia la loro religione di appartenenza.

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Non si può negare in Papa Francesco una notevole capacità di contatto umano e di comunicazione. Il suo universalismo, però, sembra dipendere più da un fattore simpatetico-emozionale, che intellettuale.

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La figura e l’opera di Benedetto che escono dal libro di Valli sono quelle di un Papa, come del resto i precedenti, costantemente sotto il tiro del mondo e dei modernisti, si tratti dell’amministrazione della Curia Romana o del problema dei pedofili, o di quello degli islamisti o della massoneria o dell’ecumenismo o del comunismo o della politica o della liturgia o dei lefevriani.

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Nonostante la aperta professione di realismo da parte di Francesco nell’enciclica Evangelii gaudium, per il quale la realtà è superiore all’idea e la recente Lettera della Congregazione per la dottrina della fede Deo placuit, che condanna il soggettivismo e l’egocentrismo dello gnosticismo e del pelagianesimo, Valli, insieme con molti altri osservatori, mette in luce la differenza di impostazione gnoseologica e pratica tra Francesco e quella di Benedetto. Mentre infatti in questi è evidente l’intellettualismo realista biblico, che fa sorgere la verità dall’obbedienza al reale, ossia dalla adaequatio intellectus et rei, fondamento e ragione dell’azione pratica, in Francesco si nota la traccia di un certo volontarismo ignaziano od occamista, per il quale il vero non dipende semplicemente dall’intelletto e dalla ragione, ma da un decisione o tendenza della volontà o un moto dell’affetto.

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Viceversa, Joseph Ratzinger aveva impostato il programma del suo papato in evidente conformità alle diffuse esigenze dei Cardinali che lo elessero quasi subito, al quarto scrutinio, tanto diffusa nel collegio cardinalizio era la preoccupata consapevolezza che il primo problema urgente che bisognava risolvere era come rimediare all’invasione di modernismo, che era ben lungi dall’essere risolto, e che stava facendo brancolare la Chiesa nella notte. Ecco dunque il senso indovinatissimo del titolo del libro di Valli. Su di un fondo nero si vedono soltanto gli occhi intelligenti e dolci di Papa Benedetto emergere dalle tenebre, non la visione del Papa di schiena della copertina del libro-intervista di Peter Seewald, che evoca quella di uno sconfitto, che se ne va mostrandoci le spalle. Niente affatto. Gli occhi di Papa Benedetto vedono nella notte, vedono laddove noi non vediamo e, nella notte, fanno luce e ci mostrano il cammino.

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Mentre dunque è stato chiaro che Papa Benedetto ha inteso far avanzare la Chiesa nella verità e nella vittoria sulla menzogna, Papa Francesco sembra risolvere tutto il progresso nell’esecuzione di consegne pratiche: la misericordia, l’accoglienza, il dialogo, la Chiesa in uscita, il poliedro, l’integrazione, il discernimento, l’accompagnamento; tutti imperativi in se stessi buoni, di facile apprendimento, che hanno già formato il “vocabolario” di Papa Francesco, ma che ne lasciano fuori altri, altrettanto importanti.

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Alla fine del confronto di Valli tra i due Papi risulta che Papa Francesco, “il rivoluzionario”,  non ha fatto avanzare la Chiesa, ma l’ha fatta retrocedere rispetto a quella di Benedetto.

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Occorre allora che Papa Francesco ― questo è il chiaro messaggio e l’appello di Valli al Santo Padre ―, libero dalle sirene moderniste e dalle promesse della massoneria, riprenda l’opera interrotta di Papa Benedetto, perché questa è la vera strada della riforma conciliare e del vero progresso della Chiesa, senza assoggettarsi al mondo, senza confondersi col mondo, senza temere l’ostilità del mondo e senza piaggerie nei confronti del mondo, perché Cristo gli ha dato la forza per salvare il mondo e di vincerlo laddove si ribella a Cristo.

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Varazze, 23 aprile 2018

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NOTE 

[1] Uno sguardo nella notte. Ripensando Benedetto XVI, Chorabooks, Hong Kong 2018.

[2] Cf pp.40-43, 46, 61-63, 72

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Abbiamo riscritto la teologia: «Anche nel Comunismo c’è del buono». È pertanto necessario evidenziare tutti i lati positivi del Marxismo e puntare su ciò che unisce nel bene e non su quello che divide nel male

ABBIAMO RISCRITTO LA TEOLOGIA: «ANCHE NEL COMUNISMO C’È DEL BUONO». È PERTANTO NECESSARIO EVIDENZIARE TUTTI I LATI POSITIVI DEL MARXISMO E PUNTARE SU CIÒ CHE UNISCE NEL BENE E NON SU QUELLO CHE DIVIDE NEL MALE

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A più riprese la Chiesa ha condannato il Comunismo. Alcuni continuano a farlo, forse perché prevenuti e privi della necessaria lucidità. Sarebbe infatti meglio, anziché condannare, cercare e prendere ciò che di buono c’è anche nel Comunismo, perché molti sono i suoi lati positivi che andrebbero messi in luce e seguiti.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Thomas Hobbes, stampa d’epoca

Tra il XVI e il XVII secolo due pensatori britannici indicati come “grandi filosofi”, le speculazioni dei quali costituiscono tutt’oggi le colonne della moderna filosofia del diritto, espressero opinioni diverse sul concetto di natura. In estrema sintesi: Thomas Hobbes [1588-1679] affermava che «l’uomo è un lupo divoratore per ogni altro uomo» [Bellum ominus contra omnes; homo, homini, lupus]. Per Hobbes, quindi, lo «stato di natura» è una guerra di ogni uomo contro tutti, posto che l’uomo ― per riassumerla in breve ―, non è naturalmente buono. Di parere diverso John Locke [1632-1704] per il quale lo stato di natura, inteso come la condizione iniziale dell’uomo, non si manifesta come un «bellum omnium contra omnes», ma come una condizione che può invece portare a una pacifica e positiva convivenza sociale.

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Se per Hobbes l’uomo è malvagio per natura perché ha paura degli altri uomini, quindi attacca per non essere attaccato, per Locke, che ha una visione più ottimistica, l’uomo non nasce corrotto né tendente al male. Se a questi due pensatori vogliamo aggiungere ciò che pensava il calvinista svizzero Jean Jacques Rousseau [1712-1778], da esso emerge che l’uomo non nasce cattivo o malvagio, ma lo diventa a causa delle istituzioni e della società, insomma … per colpa degli altri.

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John Locke, stampa d’epoca

Questi tre pensatori indicati come filosofi, erano dei socio-politologi con non lievi lacune sulla conoscenza del pensiero filosofico, delle sue grandi speculazioni e dei suoi grandi speculatori. Come però i buoni Lettori capiranno, non è questa la sede per avviare un complesso discorso su tre figure altrettanto complesse che nei tempi successivi hanno favorito più lo sviluppo di equivoci e danni che di benefici.

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Il problema della natura dell’uomo io lo analizzo da un punto di vista teologico, per l’esattezza partendo dalla teologia del peccato originale. Affermare pertanto che l’uomo nasce buono o che l’uomo nasce cattivo, è cosa in parte errata e in parte riduttiva, posto che la cattiveria è una manifestazione che nasce come conseguenza di altro. Nella mia ottica cristiana e teologica, l’uomo nasce corrotto; e questo per me è un fatto, perché con buona pace di certi venefici teologi del passato e del presente, il peccato originale non è una metafora né una allegoria, ma un fatto. Sicché, dalla innaturale corruzione dell’uomo generata come conseguenza da quel fatto, nascono tutti i peggiori effetti collaterali, anch’essi innaturali, posto che la innaturalezza, se innescata come meccanismo, produce a sua volta innaturalezza.

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Il Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, la natura l’ha creata perfetta, non imperfetta, ed il cuore di questa perfezione era proprio l’uomo, al quale Dio affidò l’intero creato. Con la propria ribellione a Dio, l’uomo altera questo equilibrio rendendo imperfetto se stesso e l’intero creato. La conseguenza è stata l’entrata sulla scena della malattia, del dolore, del decadimento fisico e della morte. Per la natura, invece, la conseguenza è stata ch’essa è divenuta ostile all’uomo: siccità, carestie, maremoti, terremoti, eruzione di vulcani, malattie infettive, pestilenze …

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Abele e Caino, collezione Zeri

L’uomo, più che cattivo, nasce corrotto. La cattiveria, a suo modo insita nella natura umana, è la conseguenza di questa corruzione di cui è paradigma l’episodio di quei due fratelli che rappresentano lo stato in cui i nostri progenitori hanno fatta precipitare l’umanità: Abele e Caino. Se poi ci pensiamo bene, Caino non è stato soltanto il primo omicida, ma anche il primo traditore, il primo guerrafondaio. Infatti, dopo che Caino ebbe tratto in inganno suo fratello e lo uccise, Dio lo ammonì severamente dicendo: «E ora tu sei più maledetto della terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra» [Gen 4:11-12]. Allora Caino si lamentò: «Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare. Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo e sarò nascosto dalla tua faccia; e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra, e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà» [Gen 4:13-14]. Dio rispose: «Perciò, chiunque ucciderà Caino, egli sarà punito sette volte». E l’Eterno mise un segno su Caino affinché nessuno trovandolo, lo uccidesse. Allora Caino si allontanò dalla presenza dell’Eterno e dimorò nel paese di Nod, ad est di Eden» [Gen 4:15-16]. 

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Propendo a pensare che il marchio col quale fu segnato Caino, è un marchio che Dio ha impresso sull’intera umanità dopo che la corruzione entrata sulla scena del mondo col peccato di Adamo ed Eva, aveva prodotto i propri frutti con questo fratricidio. Certo, viene da domandarsi come mai Dio non abbia punito con la morte Caino, ma dopo averlo marchiato ordina che nessuno lo tocchi. Dinanzi a questo quesito ho sempre trovato interessante la risposta data da Victor Hugo nella sua opera L’Ultimo giorno di un condannato :

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Adamo ed Eva, stampa d’epoca

«Vendicarsi è dell’individuo, punire è di Dio. La società è tra i due. Il castigo è al di sopra di essa, la vendetta è al di sotto. Niente di così grande o di così piccolo gli si attaglia. Essa non deve punire “per vendicarsi”; deve correggere per migliorare».

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Nella disastrata Chiesa visibile odierna, dove Dio è stato ormai mutato in altro, tra buonismo imperante e misericordismo rasente il diabolico, si è sviluppato un deciso rifiuto ad usare dei termini quali «punizione» e «castigo di Dio». Negare questi due elementi equivale a negare il concetto stesso di misericordia di Dio, posto che ― come spiegò alcuni anni fa Giovanni Cavalcoli, O.P ― «Dio castiga e usa misericordia» [cf. QUI e QUI]. È infatti nella punizione e nel castigo inflitto a Caino che è racchiusa ed a suo modo segnata l’intera umanità corrotta dal peccato, ma al tempo stesso è racchiusa anche la grande misericordia di Dio, sia per il primo fratricida che per tutti noi. Assieme alla misericordia, Dio ha manifestata anche profonda tutela, tutta quanta mirata al recupero dell’uomo, di Caino e di tutti noi, ciò proprio perché «Dio castiga e usa misericordia».

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Jean Jacques Rousseau, stampa d’epoca

Nel corso del Novecento, la malvagità crudele dell’uomo si è manifestata a tal punto che per reazione, molti maestri più o meno illuminati di correnti di pensiero altrettanto più o meno illuminate, hanno cominciato a cercare e dare risposte che negano ― o tentano di negare ―, non solo la natura malvagia e crudele manifestata dall’uomo, ma che l’uomo crudele e malvagio possa provare piacere nel recare del male agli altri. In soccorso a questi maestri più o meno illuminati di correnti di pensiero altrettanto più o meno illuminate, sono corse tante nuove pseudo scienze che spaziano dai sociologismi alle varie correnti della psicoanalisi e che giungono sempre a un triste risultato: spiegare e giustificare l’atto crudele ed intrinsecamente malvagio. La mente partoriente di queste varie correnti è Jean Jacques Rousseau, secondo il quale l’uomo non nasce cattivo o malvagio, ma lo diventa a causa delle istituzioni e della società. Ciò rende pertanto necessario spostare l’attenzione sia dal malvagio sia dai suoi atti di crudele malvagità, per cercare cause e colpe altrove. Ecco allora che oggi, a quasi mezzo secolo di distanza dallo sviluppo massimo di certi pensieri pericolosi, dinanzi ad un delinquente pluri-recidivo i pubblici ministeri ed i giudici chiamati a emettere la sentenza di condanna, se ne guardano bene dal parlare di naturale o innata attitudine a delinquere. Infatti, se ai nostri giorni un ladro è colto con due complici in piena notte dentro una casa dal proprietario che detiene regolarmente un’arma da fuoco, mentre sua moglie ed i suoi figlioletti dormono; se costui, temendo le pericolose conseguenze, si difende facendo fuoco, la pubblica opinione buonista capitanata dal giornalismo politicamente corretto sospirerà: «povero ladro!». E una volta innescata questa spirale, sarà parecchio difficile spiegare a quanti credono all’uomo “potenzialmente buono” ed “in fondo buono”, che diverse volte, durante questi furti, delle bande di criminali hanno tramortito di botte il marito, poi si sono dilettati ― in quanto “fondamentalmente buoni” ―, a violentare la madre davanti ai figlioletti. Naturalmente spetterà poi al meglio dei socio-politologi spiegare ai figlioletti che l’uomo malvagio, crudele e volutamente irrecuperabile ― poiché chiuso a qualsiasi forma di umano recupero ―, non esiste.

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Queste distorsioni della realtà che generano poi distorsioni del pensiero, nascono dal rifiuto di quel mistero chiamato peccato originale al quale oggi, all’interno della stessa Chiesa Cattolica, molti teologi tendono a conferire rango di allegoria, confondendo il racconto col fatto, posto che allegorico è il racconto di Genesi, non quanto in esso contenuto, ossia il peccato originale, che, torno a ripetere, è stato un fatto di siffatta e devastante portata da trasmettere a tutta la successiva umanità ― che ovviamente di questo peccato commesso non è colpevole ―, una natura corrotta. In verità, l’uomo naturalmente buono e privo di malizia, esisteva eccome, ma in origine, prima che i nostri progenitori compissero un atto di tale gravità da compromettere la purezza e la stessa natura di quell’uomo creato a immagine e somiglianza del Dio vivente.

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Maometto, stampa d’epoca

Dal concetto d’uomo fondamentalmente buono che in quanto tale non nasce cattivo o malvagio, ma che lo diventa a causa delle istituzioni e della società, vale a dire per colpa degli altri, il passo successivo è l’idea sbagliata e non poco distruttiva del … bisogna cercare di guardare al positivo che c’è in qualsiasi uomo, di scorgere il bene, di far emergere gli elementi positivi, di cercare quello che di valido c’è persino nell’errore e quindi metterlo in luce. Ebbene, sinceramente debbo dire che quando a fare discorsi di questo genere non è un figlio dei fiori fiero del proprio ateismo, pacifista surreale, vegetariano convinto ed ecologista radicale, bensì persone di grande preparazione e alta levatura culturale filosofica e teologica, io comincio a essere veramente spaventato, specie se andiamo poi ad analizzare a che cosa ci ha portato il concetto di “fondamentalmente buono” che c’è in ciascuno, seguito dallo scellerato desiderio di cercare di far emergere il bene anche da persone molto nocive, oppure da pensieri palesemente ereticali. Partiamo dunque dall’alto per poi discendere verso il basso: il “fondamentalmente buono”, ha portato di recente il Pontefice regnante a definire l’Islam una religione di pace [cf. Padre Samir Khalil Samir, S.J, QUI], ignaro che questa decantata religione di pace racchiude al proprio interno, a livello proprio strutturale, tutti quegli elementi di violenza e di odio manifestati non da oggi, ma da sempre, a partire da Maometto, che non è un profeta, tanto meno un grande profeta, ma un falso profeta. Dinanzi a queste affermazioni, che dovrebbero essere teologicamente ovvie, ecco partire in difesa i paladini del “fondamentalmente buono” che giustificano affermando: «Bisogna cercare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide». Detto questo si dovrebbe però spiegare: a me, Sacerdote di Cristo Dio istitutore dell’unico, solo e vero Sacerdozio, il quale ci ha dato un solo e vero Vangelo di salvezza, che cosa mi dovrebbe unire a dei propagatori di menzogne nati da un falso profeta? Ma soprattutto vorrei sapere che cosa c’è di buono in una serie di menzogne come quelle enunciate da Maometto. Dinanzi a queste obiezioni i paladini del “fondamentalmente buono” non esitano a replicare: «Di buono c’è che i musulmani riconoscono la figura di Gesù Cristo». E dinanzi a questa affermazione ho più volte replicato: «I musulmani riconoscono Gesù Cristo come un profeta minore che ha preceduto l’ultimo grande profeta che sarebbe Maometto, che ha perfezionato quel che d’imperfetto e di sbagliato c’era nell’annuncio di Gesù Cristo. E questo, per me che credo in Gesù Cristo come Verbo di Dio incarnato, come Dio fatto uomo, come generato non creato della stessa sostanza del Padre, non è un punto di unione, ma una bestemmia. E da quando, le bestemmie, costituiscono punti di unione? Forse da quando si è deciso di porle come basi del dialogo interreligioso?».

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Martin Lutero, stampa d’epoca

Dal falso profeta Maometto, possiamo passare direttamente a Martin Lutero, sul quale, sempre il Pontefice regnante, ha affermato di tutto e di più, come se mai il Concilio di Trento avesse scritto certi canoni; e se proprio li ha scritti, qualcuno pare avere stabilito di motu proprio che non sono più validi, se non con un chiaro documento pontificio, con una confusa prassi pastorale. E in quei mesi nei quali la povera Chiesa visibile ha deciso di partecipare in modo attivo ai festeggiamenti della falsa riforma luterana ― e dico falsa perché l’eresiarca Lutero non ha fatto alcuna riforma ma originato un drammatico scisma ―, si sono sentite pronunciare, pure dalla stessa Cattedra di Pietro, delle frasi aberranti: Lutero «animato da buone intenzioni», Lutero indicato come «riformatore», per seguire col suo scisma indicato come «riforma» persino in un francobollo commemorativo ufficiale emesso dalle Poste Vaticane in occasione dei Cinquecento anni del suo scisma [cf. QUI]. Non parliamo poi del numero due della Conferenza Episcopale Italiana, S.E. Mons. Nunzio Galantino, che ad un convegno promosso presso la Pontificia Università Lateranense — che per inciso è l’università del Romano Pontefice — indicò con sconcertante impudicizia questo eresiarca teutonico come … «un dono dello Spirito Santo» (!?) [cf. mio precedente articolo, QUI].

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Santa Margherita da Cortona, protettrice delle prostitute pentite, collezione Zeri

Proviamo dunque a chiarire le cose a tutte quante le anime belle, a partire soprattutto da quelle più colte che credono veramente a queste teorie pericolose ed agiscono per altrettanta pericolosa conseguenza, per esempio invitando a cercare il buono ed a mettere in luce quello che c’è di buono, ignari che nel falso non c’è nulla di vero e, se  un barlume di vero c’è, è solo perché il Demonio ne fa uso per affermare e diffondere il falso dopo avere confuso con le sue armi di dissuasione di massa gli sciocchi sapienti. Nella bestemmia non c’è nulla di positivo, c’è solo e sempre l’oltraggio a Dio. Nell’eresia non c’è niente di buono, c’è solo l’oltraggio alla verità, anche se l’eresia oggi non è chiamata più tale ed anche se ormai da mezzo secolo ci si ostina a cercare in essa quello che secondo alcune menti illuminate dovrebbe esserci di buono. Nello scisma, che è la forma più grave di frattura della comunione ecclesiale, non c’è da andare a cercare quello che ci unisce, perché cercare unità nella divisione voluta, mantenuta e, come tale, considerata giusta, equivale ad andare a cercare la verginità nelle puttane, che singolarmente possono essere anche delle donne capaci a racchiudere in sé stesse molte più tenerezze e sensibilità di tante signore dell’alta società, ma che in ogni caso rimarranno sempre delle puttane, almeno fin quando, semmai per intercessione di Santa Margherita da Cortona protettrice delle prostitute pentite [cf. QUI], non si saranno convertite scegliendo di cambiare completamente vita. Purtroppo, nella Chiesa misericordista e buonista, non ci si limita ad affermare che una singola puttana può appartenere a quelle anime elette che come ci ammonisce Cristo «vi precedono nel Regno dei Cieli» [cf. Mt 21, 28-32]; nella Chiesa visibile odierna, dove brulicano personaggi più comprensivi e più misericordiosi di Cristo stesso, ormai si è giunti di fatto ad affermare, se non in modo diretto attraverso esotiche prassi pastorali, che nel puttanesimo, ossia nella prostituzione, ci sono elementi buoni e positivi da cogliere e da valorizzare, semmai pure aggiungendo appresso che le vergini consacrate che ammuffiscono nelle case religiose sono invece delle zitelle acide, tendenti al pelagianesimo, al legalismo e via dicendo a seguire …

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Il Sommo Pontefice Pio VII arrestato e deportato da Napoleone prima a Savona e poi a Fontainebleau, stampa d’epoca

Il “fondamentalmente buono”, il vedere il bene, il cercare l’unione a tutti i costi e costi quel che costi, assieme al dialogo con quanti sono fieri dei propri errori e diffusori indomiti degli stessi all’interno della Chiesa, è una tra le più grandi insidie che ci sta corrodendo al nostro interno. E se qualcuno osa indicare il male come male, l’eresia come eresia, lo scisma come scisma, il peccato come peccato, i gravi disordini morali come gravi disordini morali, rischia di sentirti dare del legalista, del fariseo, del pelagiano, del cristiano triste, del cristiano pipistrello … ma soprattutto di sentirsi dare della persona priva di quella non meglio precisata misericordia oggi in gran voga.

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Il criterio del “fondamentalmente buono”, del “cercare il buono” assieme a “quello che ci unisce e non quello che ci divide”, se è valido deve essere applicato a tutto ed a tutti. È quindi vero che Napoleone portò la guerra in tutta Europa, che osò levare le mani sul Sommo Pontefice Pio VII catturandolo e deportandolo a Fontainebleau, certo e sicuro che avrebbe spazzata via la Chiesa dalla faccia della terra, però, a parte queste cose, noi che ne sappiamo di quanto il Bonaparte fosse di fondo buono? Ma soprattutto, quanti lati buoni c’erano nel Bonaparte? Perché guardare solo al male ed al negativo, anziché cercare in lui tutti i risvolti positivi e metterli in luce?

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Adolf Hitler con il suo amato cane da pastore

E mancavano forse dei risvolti positivi in Adolf Hitler? Molti, sbagliando perché gravati di pregiudizi, pensano solamente ad Hitler come al responsabile dell’invasione della Polonia che dette avvio alla Seconda Guerra Mondiale. Appena si nomina Hitler la mente corre ai campi di concentramento ed allo sterminio degli ebrei, ignorando che il Führer non è stato solo questo, è stato anche un uomo tenerissimo, dotato di una sensibilità profonda. Egli era solito mostrare grande affetto ai figlioletti dei membri delle S.S., vi sono documenti filmici che lo mostrano affettuoso con gli occhi accesi di tenerezza. Perché, ridurre Hitler solo a colui che permise al Dottor Josef Mengele di selezionare circa 3.000 bambini nel lager di Auschwitz-Birkenau, costretti a vivere e morire nel blocco numero 10 di questo campo di concentramento, dal quale a fine guerra ne risultavano sopravvissuti appena duecento? Hitler non è solo questo, è anche colui che verso i propri cani aveva grandi premure; e tutto lo Stato Maggiore delle S.S. lo vide piangere quando morì il suo amato pastore tedesco.

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Stalin con la figlia Svetlana

Vogliamo poi parlare di Iosif Stalin? O qualcuno pensa che Stalin sia stato solo il responsabile della morte di milioni di russi e della deportazione di altrettanti nei gulag? Perché omettere tutto quello che di buono e di positivo c’era in Stalin, che era anzitutto un padre molto amorevole? C’è un’immagine d’archivio del 1935 nella quale egli tiene tra le braccia Svetlana, la sua amata figlia, con una tenerezza che tocca il cuore; e Dio solo sa quante figlie vorrebbero essere tenute tra le braccia da un padre così amorevole.

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A più riprese la Chiesa ha condannato il Comunismo. Alcuni continuano a farlo, forse perché prevenuti e privi della necessaria lucidità. Sarebbe infatti meglio, anziché condannare, cercare e prendere ciò che di buono c’è anche nel Comunismo, perché molti sono i suoi lati positivi che andrebbero messi in luce e seguiti.

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la caduta di Lucifero, stampa d’epoca

La verità è che purtroppo si inizia puntando su ciò che unisce nel bene e non su quello che divide nel male, si prosegue cercando in ogni modo quello che di buono c’è sempre nell’uomo, senza che nessuno ― se non pochi ― si accorga che il male protetto dal buonismo e dal misericordismo ci sta distruggendo. Il problema che oggi affligge la Chiesa e dal quale a volte pare non si riesca a sortire fuori, tant’è difficile scardinare certi meccanismi, è che il bene diventa male ed il male diventa bene, la virtù diventa vizio da scacciare e il vizio virtù da accogliere e da proteggere bene al nostro interno. E questa grande inversione è opera del grande invertitore: il Demonio, giunto persino a servirsi di una non meglio precisata misericordia, in nome della quale oggi, i pastori presi ad accogliere tutto ciò che non è cattolico, accarezzano i lupi e prendono a bastonate le pecore del loro ovile, chiamandole pecore tristi e pelagiane che idolatrano il rigore della dottrina, o che peggio invocano la applicazione delle leggi ecclesiastiche, oggi soppiantate in nome del “no al legalismo!”, affinché la certezza delle leggi canoniche e la loro corretta applicazione fosse sostituita da quel libero arbitrio umorale che da sempre è fonte di ogni peggiore ingiustizia.  

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dall’Isola di Patmos, 23 aprile 2018 

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Una memorabile lettera del Sommo Pontefice ai Vescovi del Cile, meritevole per essa di essere chiamato «Francesco il grande», come grande fu Pietro sulla Via del «Quo vadis, Domine?»

UNA MEMORABILE LETTERA DEL SOMMO PONTEFICE AI VESCOVI DEL CILE, MERITEVOLE PER ESSA DI ESSERE CHIAMATO «FRANCESCO IL GRANDE», COME GRANDE FU PIETRO SULLA VIA DEL «QUO VADIS, DOMINE

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Riguardo la vicenda dei casi di pedofilia avvenuti in Cile, il Sommo Pontefice scrive ai Vescovi di quel Paese: «Per quanto mi riguarda, riconosco, e voglio che lo trasmettiate fedelmente, che sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate. Fin da ora chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane, negli incontri che avrò con rappresentanti delle persone intervistate».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa

 

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TESTO DELLA LETTERA DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO I

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Il Sommo Pontefice Francesco I sulla cattedra del Vescovo di Roma 

Spesso la santità, o la non santità, quando si studiano le eroicità delle virtù di un candidato alla beatificazione si nasconde nelle piccole cose; penso di poterlo dire con un po’ di modesta esperienza, visto che sulle cause dei santi ci lavoro. È infatti dietro le piccole cose, apparentemente insignificanti, che si nasconde il grande bene, ossia la santità, oppure il grande male, ossia il Demonio.

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Nel corso della Settimana Santa che ha preceduto da pochi giorni la Pasqua di Risurrezione, dalle cronache dei Santi Vangeli abbiamo udito il racconto del rinnegamento di Pietro [cf. Mc 14, 66-72], ed abbiamo udito risuonare la frase drammatica: «E tutti i discepoli, abbandonatolo fuggirono» [cf. Mt 26, 56].

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Il Beato Apostolo Pietro stava per fuggire anche una seconda volta, nella propria vecchiaia, questa volta a Roma, ce lo narra lo stupendo racconto noto come il Quo vadis? Questo episodio, contenuto negli Atti di Pietro, narra del Beato Apostolo sulla strada della fuga da Roma, nel tentativo di poter sfuggire alle persecuzioni di Nerone. Sulla via della fuga, avrebbe incontrato in visione Cristo Signore. Secondo questo racconto Pietro pose a Gesù la domanda: «Domine, quo vadis ?» [«Signore, dove vai?»].  Il Signore Gesù rispose: «Eo Romam iterum crucifigi » [«Vengo a Roma a farmi crocifiggere di nuovo»]. A quel punto Pietro comprese che non poteva fuggire nuovamente, ma doveva tornare indietro, per affrontare il martirio.

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Per diversi secoli i Sommi Pontefici avevano tra i loro vari capi di vestiario delle scarpette color rosso vermiglio, il significato delle quali era profondo e preciso, con buona pace di certi illetterati de La Repubblica che scrissero trionfalmente: «Il Successore di Benedetto XVI rinuncia anche alle scarpe di Prada» (!?). 

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Prada … ma stiamo scherzando? O come invece suol meglio dirsi: possibile che l’ignoranza di chi presume di sapere non abbia proprio limiti, men che mai senso della umana decenza!

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Quelle scarpette rosse, che poi erano in verità delle pantofole chiuse, rappresentavano il martirio di Pietro che, retrocedendo sulla strada del Quo vadis, andò incontro al martirio, trascinato in catene sul colle Vaticano dove giunse coi piedi sanguinanti, per essere infine crocifisso. E, giunto al patibolo, non sentendosi degno di assurgere al supplizio nella stessa posizione del Verbo di Dio morto e risorto, domandò di essere crocifisso a testa all’ingiù. Così, alla fine della sua vita, all’eroismo che lo portò ad accettare la grazia del martirio, si unisce anche la suprema virtù dell’umiltà.

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Dalle cose apparentemente piccole si riconosce quindi anche il Sommo Pontefice Francesco I, il quale ha ammesso pubblicamente d’aver sbagliato nel valutare i dolorosi casi di pedofilia che hanno scosso la Chiesa Cattolica del Cile, sino a giungere ad affermare :

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«Per quanto mi riguarda, riconosco, e voglio che lo trasmettiate fedelmente, che sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate. Fin da ora chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane, negli incontri che avrò con rappresentanti delle persone intervistate» [vi invitiamo a leggere il testo integrale della lettera, QUI]

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Della storia della Chiesa si dovrebbe prendere tutto, non solo ciò che interessa per esaltare l’uomo Jorge Mario Bergoglio, o per abbattere in modo impietoso l’uomo Jorge Mario Bergoglio. Pertanto mi domando e domando: certi storici particolarmente attenti, ma anche giustamente critici verso questo pontificato che merita la sua buona dose di critiche, intendono forse presentare urbi et orbi anche l’elenco dettagliato dei Sommi Pontefici che hanno pubblicamente ammesso di avere commesso un grave errore? Perché a voler essere onesti e realisti, andrebbe detto quanti sono i fedeli servitori che seppur totalmente innocenti sono stati sacrificati affinché su di loro ricadessero le colpe del Re, che in quanto Re non può sbagliare, mai! E la lista di questi innocenti sacrificati alla pubblica gogna, sarebbe una lista lunga quanto l’Autostrada del Sole, al contrario, invece, la lista dei Re in errore, esiste?

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Per esempio: il Santo Pontefice Giovanni Paolo II ha più volte ammesso che “la Chiesa ha sbagliato”, ne ha chiesto anche più volte scusa, persino quando certe scuse non erano necessarie e opportune. Detto questo mi domando e domando: risulta forse a qualcuno che costui, in ventisei lunghi anni di pontificato, abbia pubblicamente affermato una sola volta, per esempio riguardo il vergognoso caso del fondatore dei Legionari di Cristo: «… sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate»? Non mi risulta. Però, agli atti, risulta che egli abbia affermato che la Chiesa ha sbagliato, chiedendo per i suoi errori anche perdono, sia quando era opportuno sia quando non era opportuno. Ora però si presti attenzione: la Chiesa ha sbagliato, ma non ha sbagliato lui, perché non solo il Re non sbaglia mai, ma se proprio sbaglia, allora si sacrifica la testa di qualche altro per far ricadere su dei poveri terzi la colpa, la vergogna e la rabbia del popolo. E si presti attenzione al fatto che stiamo a parlare di santi, che benedicendo Dio sono e restano modelli di eroiche virtù, pur non essendo mai stati, né mai potranno esserlo, dei modelli di perfezione.

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Vi invito a meditare su questa lettera del Sommo Pontefice Francesco, che ha compiuto con essa qualche cosa di grandioso, specie se consideriamo che indurre un gesuita e un argentino ad ammettere di avere sbagliato, non è di certo la cosa più semplice del mondo. A maggior ragione vi dico: in molte altre cose il Sommo Pontefice può essere stato indotto da terze persone, o da veri e proprio delinquenti che lo circondando e che tentano di circuirlo, a lanciarsi in espressioni infelici e sbagliate, ma nessuno, ad un gesuita e ad un argentino, può convincerlo ad ammettere pubblicamente d’aver sbagliato. Pertanto, questo lodevole atto di umiltà, è tutta quanta scelta del Sommo Pontefice Francesco I, da ascrivere come tale a suo totale onore e merito.

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Questo fa di lui, per il caso in questione, un autentico grande; molto più grande in questo di molti suoi Sommi Predecessori, inclusi anche Beati e Santi Pontefici, che hanno riconosciuto davanti al mondo tutti gli errori storici, veri o presunti, della Chiesa visibile, mai però hanno ammesso in alcun modo gli errori propri; e quando hanno commesso errori gravi, a volte anche grossolani, hanno sempre lasciato che la colpa ricadesse addosso agli innocenti, ed oggi sono venerati Beati e Santi. Si, hanno chiesto perdono per errori veri o presunti commessi dalla Chiesa visibile secoli prima, però, mentre sotto i loro occhi veniva fatto scempio immane di numerose vite umane di giovani, molti dei quali destinati a rimanere segnati per tutta la vita — sempre in riferimento al discorso senza storici precedenti dei Legionari di Cristo —, il loro silenzio e la loro indifferenza è stata totale, sino a rasentare il vero e proprio cinismo. Quando poi nei loro processi di beatificazione e canonizzazione sono state sollevate serie e pertinenti questioni su certi loro errori, i richiedenti risposta sono stati spesso tacitati ed il discorso chiuso con la frase perentoria: «Il Sommo Pontefice fu ingannato!». Il problema, purtroppo, non è stato però risolto, perché per esserlo, a questa affermazione avrebbero dovuto seguire spiegazioni molto dettagliate: da chi fu ingannato, quando, come e per quali scopi. E, detto questo, forse è bene non andare oltre, perché quando l’emotività ed i sentimentalismi effimeri del momento presente e del «Santo subito!» si saranno spenti, la storia rischierà di essere molto severa con certe figure, anzi … terribilmente severa, ed a quel punto, non sarà possibile metterci in alcun modo una pezza sopra, perché ci andava messa prima.

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Amen!

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Dall’Isola di Patmos, 12 aprile 2018

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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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Sensazionale coming-out: «il Padre Ariel S. Levi di Gualdo e Monica Bellucci si amano», con la benedizione degli editorialisti di Avvenire

continua la saga dei buffoni, della serie … famose male da soli [cliccare sull’immagine per aprire l’articolo]

SENSAZIONALE COMING-OUT : «IL PADRE ARIEL S. LEVI di GUALDO E MONICA BELLUCCI SI AMANO», CON LA BENEDIZIONE DEGLI EDITORIALISTI DI AVVENIRE

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«… mi sono innamorato di Monica Bellucci, come lei si è innamorata di me: siamo due innamorati. Pertanto, se per esempio Monica mi dicesse che “il celibato e la castità sono una grande fesseria, a me va bene così e non la correggerei. E se infatti Monica credesse che io, come lei, penso che il celibato e la castità sono una fesseria, a me andrebbe bene così, non la correggerei. Perché essere amici non è fare proselitismo, ma trovare spazi comuni”»

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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la Signora Monica Bellucci

Mi chiama questa mattina il Padre Ariel S. Levi di Gualdo per sfogare il meglio del suo spirito tosco-romano:

«Buondì fratello carissimo! Tu che sei un pio domenicano di settantasei anni, non leggi la stampa erotica che giunge tutti i giorni per abbonamento al tuo convento?».

Sono rimasto ammutolito e poi replico:

«Ma dimmi un po’, il mattino, nel caffè, tu ci metti lo zucchero o le droghe allucinogene?».

Ribatte lui:

«Macché, sono stato giorni e giorni nel tuo convento e ho visto che avete un famoso giornale erotico che vi arriva per abbonamento. Altroché, l’ho visto io con i miei occhi! Se fosse vivo quel pio uomo di Dio di Cornelio Fabro mi darebbe mille volte ragione, sulla porno-natura di quel giornale che è tutto un brulicare di porno-teologi» [cf. QUI].

Ribatto:

«E tu che invece sei un Sacerdote altrettanto pio, a quale categoria di porno-teologi staresti alludendo?».

Detto fatto:

«Ah, io che pio lo so’ pe’ davero, alludo a quelli che ce pijanoperculo. Però essi nun sanno che pianoperculo, pecché so’  convinti d’esse piie sti c ….! ».

Ora, sapendo quanto il Padre Ariel si diverta con i paradossi, spesso, se non quasi sempre, assurdo-grotteschi, cerco di dargli corda e domando:

«E quale sarebbe questo giornale erotico che a tuo dire giungerebbe al mio convento a spese del mio Ordine, scritto da gente pia che, sempre come come tu dici, ce pijaperculo ?».

Ribatte lui:

«Play Boy futurity». Faccio mente locale e tra di me traduco: allora … Play Boy vuol dire alla lettera gioca ragazzo … futurity vuol dire futuro, avvenire …

Al ché domando:

«Ma che per caso ce l’hai con Avvenire?».

Risponde lui:

«Oh, yes! The newspaper published by the Italian Episcopal Conference ».

la Signora Monica Bellucci

Beh, che il Padre Ariel, scherzando in privato tiri fuori dei frasari coloriti, questo noi suoi intimi lo sappiamo, però, che quelli di Avvenire, come lui dice, ce pijno perculo, dobbiamo ammettere che purtroppo è un fatto. E capito a che cosa mirava la sua manfrina dico:

«Adesso vado in sala di lettura a leggere».

Prontamente però mi ferma:

«Aspetta, prima di andare a leggere devo rivelare a te per primo una cosa: sappi che io sono innamorato di Monica, perché di fatto, Monica ed io siamo due innamorati. Era giusto che tu lo sapessi per primo».

Io ci casco come una pera e rispondo:

«Capisco, Santa Monica, madre di Sant’Agostino, è un modello di interessanti ed eroiche virtù. Adesso, posso andare in sala di lettura a vedere questo benedetto giornale?».

E ancora lui ribatte:

«No. Perché non hai capito nulla. E non hai capito perché tu sei un elemento destinato a rivoluzionare l’intero mistero della rivelazione, infatti, oltre al Verbo di Dio e alla Beata Vergine Maria, devo prendere atto che tu sei il terzo nato senza macchia di peccato originale …».

A quel punto taccio, perché capisco che si sta preparando a spararla davvero grossa, infatti prosegue:

« … io che sono nato col peccato originale e poi con tutti gli annessi e connessi, non pensavo affatto a quella Santa Donna di Monica, madre di Aurelio di Tagaste, poi Agostino, io pensavo a Monica Bellucci».

A quel punto cerco di raccapezzarmi e domando:

«Monica Bellucci .. e chi è?».

L’avessi mai detto! Ecco che riparte:

«Te l’ho appena detto: tu sei nato senza peccato originale, per causa tua bisognerà rivedere e poi riscrivere interi capitoli della teologia, capisci?».

Mentre lui sproloquia sempre più divertito, io mi affretto a digitare sul motore di ricerca google il nome Monica Bellucci, ed ecco spuntarmi subito fuori le foto di una donna veramente molto bella. Riprendo il filo del discorso e ribatto:

«Cosa vuoi che ti dica: complimenti, è veramente una donna molto bella questa Monica Bellucci, come avrai capito io non la conoscevo».

E subito riparte il buon Padre Ariel:

la Signora Monica Bellucci

«Bene. Adesso dimmi ― sempre ammesso che tu fossi nato col peccato originale come me ―, di chi t’innamoreresti, del Santo Padre, di Eugenio Scalfari oppure di Monica Bellucci? Io mi sono innamorato di Monica Bellucci, come lei si è innamorata di me: siamo due innamorati. Pertanto, se per esempio Monica mi dicesse che “il celibato e la castità sono una grande fesseria, a me va bene così e non la correggerei. E se infatti Monica credesse che io, come lei, penso che il celibato e la castità sono una fesseria, a me andrebbe bene così, non la correggerei. Perché essere amici non è fare proselitismo, ma trovare spazi comuni”».

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Giungo ridente ma anche curioso nella sala di lettura del convento e leggo incredulo, riga dietro riga, l’articolo del povero Don Mauro Leonardi intitolato: «Perché un’amicizia non è un’intervista» [cf. QUI], dove si commenta in modo assurdo gli echi e il significato del recente colloquio fra il Papa e Scalfari, nel quale Scalfari ha riferito che il Papa avrebbe negato l’esistenza dell’inferno ed affermato la scomparsa finale delle anime malvagie, parole che paiono in qualche modo essere state smentite da un successivo comunicato della sala Stampa del Vaticano. A parte il fatto che l’Inferno è una verità di fede, il Santo Padre in altre occasioni ci ha ricordato questa verità. Il vaticanista Andrea Tornielli si è preso cura di fare un sunto su Vatican Insider ricordando alcune delle numerose menzioni fatte in tal senso dal Sommo Pontefice all’Inferno [«Le parole di Francesco sull’Inferno, eterno abisso di solitudine», vedere articolo QUI].

In questo trafiletto Leonardi si arrampica sugli specchi, anzi vuol menarci per il naso ― o come direbbe il Padre Ariel: vo’ pijacce perculo ―, per sostenere sfrontatamente una tesi assolutamente indifendibile, e cioè che tra il Papa e Scalfari ci sarebbe un’alta, intima, gratuita e libera amicizia, alla presenza dello Spirito Santo, un vero e proprio innamoramento.

Vediamo adesso punto per punto.

«Scalfari – dice Leonardi – è un innamorato di Papa Francesco». E calca la mano su questo aggettivo, già qui di per sé di dubbio gusto, paragonando «Jorge Mario ed Eugenio» a «due innamorati». Ma poi, la cosa ributtante, è la sfrontatezza con la quale Leonardi parla di «innamoramento» – anche intendendo opportunamente il senso di questa parola ―, quando è sotto gli occhi di tutti lo sconcio annoso comportamento di Scalfari nei confronti del Santo Padre, col suo disonesto abituale tentativo di strumentalizzarlo per demolire la Chiesa e distruggere il Cristianesimo. Ma ancor più meraviglia e amareggia l’ingenuità o la negligenza del Pontefice regnante nel lasciarsi strumentalizzare in questa vana amicizia per Scalfari.

la Signora Monica Bellucci

Partendo dall’ovvia constatazione che un’amicizia non è un’intervista, Leonardi, forse imbarazzato circa il problema di come interpretare plausibilmente lo sconcertante racconto di Scalfari, cerca di scansare l’ostacolo facendo deviare l’attenzione del lettore dalle dichiarazioni di Scalfari, verso il fatto «commovente» dell’amicizia tra il Papa e Scalfari, affermando che è «un’amicizia che riguarda solo loro due».

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Ma non si accorge, il povero Leonardi, di aver messo una toppa che è peggiore del buco, giacché subito il lettore di buon senso si pone due domande. Prima: se si tratta di un rapporto a due, intimo e riservato, perché mai allora Scalfari sbandiera ai quattro venti le sue favole sul Papa? Seconda: che tipo di amicizia sarebbe, quella del Papa con Scalfari, che  al Papa procura così tanti guai?

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Leonardi si sforza comunque di dare all’accaduto una qualche nobile giustificazione, presentandolo come «relazione libera e alta». In che consisterebbe l’elevatezza di tale relazione? Leonardi mette in scena addirittura lo Spirito Santo: «Il Papa con Scalfari ci parla come fa lo Spirito Santo: il Papa parla e l’amico Scalfari lo comprende nella propria lingua, con i suoi codici». Ma qui, il povero Leonardi, scambia veramente la pneumatologia con i pneumatici delle automobili, dimenticando e non tenendo in alcun conto il fatto che un colloquio nel quale si indulge all’eresia non pare essere però particolarmente elevato.

Inoltre dove sarebbe la «libertà» di questa amicizia? Cristo ci insegna che la libertà si fonda sulla verità. Il che vuol dire, per contrasto, che laddove c’è l’equivoco, la truffa, la menzogna, il rispetto umano e  la slealtà non ci può essere amicizia. E non pago Leonardi aggiunge: «E al Papa va bene così, non lo corregge. Se Eugenio crede che Jorge Mario pensi come lui che l’inferno non esiste, a Jorge Mario va bene, non lo corregge. Perché essere amici non è fare proselitismo, ma trovare spazi comuni».

A questo punto capisco come mai il Padre Ariel, amando ed essendo amato da Monica Bellucci, applicando lo stesso principio non la smentisce affatto, se questa bella donna gli dice che il celibato e la castità sono una gran fesseria.

Ma io mi domando: che amicizia è quella che non corregge l’errore dell’amico? E soprattutto in un campo così importate e delicato come l’esistenza dell’Inferno? Il correggere l’amico che sbaglia, non è forse amore? Non è forse amicizia? Inoltre, è vera amicizia da parte di Francesco permettere a Scalfari di pensare che lui, Francesco, ritenga con Scalfari che l’Inferno non esiste, quando Francesco cattolico ritiene invece l’esistenza dell’inferno verità di fede, necessaria alla sua salvezza eterna? 

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È chiaro che l’amicizia è un «trovare spazi comuni» è una «cercare l’unità», sapendo accettare inevitabili «distorsioni e contaminazioni» o cattive interpretazioni.  Ma è chiaro anche che quando ciò accade, occorre rimediare. Ed è ancora chiaro che questi spazi comuni e questa unità, per caratterizzare una vera e salutare amicizia, non possono basarsi su errate dottrine, come la negazione dell’esistenza dell’inferno, ma devono fondarsi sulla verità, ossia sulla sua affermazione.

Verificandosi allora questa incresciosa circostanza, questa «distorsione» o «contaminazione», per usare l’espressione di Leonardi, per la quale Scalfari si fa l’idea che il Papa non crede nell’Inferno, e il Papa si accorge ― al dire di Leonardi ― della eresia, lasciando però senza batter ciglio che Scalfari concepisca tale idea blasfema … ebbene mi domando: con quale faccia Leonardi fa le lodi dell’amicizia fra Francesco ed Eugenio, paragonandola a quella che corre tra gli innamorati ― come ad esempio tra il Padre Ariel S. Levi di Gualdo e Monica Belucci ― giacche «agli innamorati par di capire che quanto hanno nel cuore è l’esatto ricalco di quanto hanno nel cuore coloro che hanno dinanzi»? Insomma, questo Sacerdote, incardinato nella prelatura dell’Opus Dei, all’interno della quale non sono mai mancati ottimi Sacerdoti e valenti teologi ― si pensi solo alla qualità della Pontificia Università della Santa Croce ―, non si rende proprio conto che i misteri della fede e la teologia non sono poesia, sentimentalismi ed emotività? Non pare, al buon Leonardi, che in un caso del genere l’amicizia necessiti di essere purificata e liberata da «distorsioni e contaminazioni» o cattive interpretazioni? E non gli pare che i due «amici» non abbiano fatto nulla per rimediare a tali «distorsioni e contaminazioni» o cattive interpretazioni? Dunque, che amici sono?

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Il comunicato diramato della Sala Stampa della Santa Sede [cf. QUI], chiarisce a sufficienza che il Papa non ha negato l’esistenza dell’Inferno? Rivela che Scalfari ha mentito? Il Papa non ha nulla da dire ai modernisti ed atei che lo glorificano in tutto il mondo brindando al Papa, che finalmente, dopo duemila anni di cosiddetto terrorismo teologico, ha avuto la franchezza di accogliere la moderna esegesi biblica, come per esempio quella del Cardinale Carlo Maria Martini, dicendo che l’inferno non esiste? Eppure, con tutto ciò, è meglio credere che sia stato Scalfari a mentire nel riferire che cosa gli ha detto il Papa, piuttosto che credere che il Papa potrebbe avere mentito nella fede. Tuttavia ci chiediamo: perché il Papa, al quale certo non manca la parola, non ha chiarito personalmente che cosa ha detto a Scalfari riguardo all’esistenza dell’inferno? [vedere nostri precedenti articoli QUI e QUI].

E se, come sostiene Leonardi, «Scalfari è innamorato di Papa Francesco», starebbe in questo orribile imbroglio  «l’amicizia libera, gratuita, senza secondi fini», tra Scalfari e il Papa?  Essa, come dice Leonardi, «ci turba proprio per la libertà che sottintende» o ci turba piuttosto, mi domando io, per il torbido e la sporca astuzia che manifesta? Ma non si accorge il buon Leonardi, imbonitore degli allocchi e avvocato di chi è in mala fede, del secondo fine di Scalfari di prendersi gioco del Papa e della stessa fede cattolica? È forse vero amico lo schernitore ed è vero amico quello che permette di essere schernito?

Dove sarebbe poi la decantata «libertà»? è quella di dire bestemmie in faccia al Papa? E la «amicizia» con la quale Scalfari aumenta le vendite di Repubblica per mezzo della menzogna sacrilega calunniando l’amico Jorge Mario, sarebbe una «amicizia gratuita»?

Leonardi si rende conto di quello che sta dicendo o getta fuori le parole come quando si svuota il sacchetto della tombola, per non dire quello dell’immondizia? Le sue parole, a giudicarle con benevolenza, mi fanno venire in mente il famoso manifesto dei futuristi di Marinetti Parole in libertà, solo che il buon Marinetti non intendeva bestemmiare, ma solo far poesia.

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Leonardi vorrebbe inoltre farci credere che questa supposta sottintesa «libertà» sarebbe «la vera ragione dello scandalo di alcuni personaggi catholically correct», come se si trattasse dello scandalo farisaico di qualche arretrato bacchettone, mentre non si accorge, il povero sprovveduto, che questo incidente gravissimo ha mosso a sdegno tutta la Chiesa. E quando dico Chiesa intendo i cattolici fedeli al magistero petrino, non i modernisti che credono all’Inferno come io potrei credere al lupo mannaro, o come potrei credere al fatto che il Maestro Generale dell’Ordine Domenicano è fuggito ai Caraibi con Gina Lollobrigida vestita da fatina turchina, mentre Pinocchio piangeva disperato perché prima di partire, la fatina, lo aveva trasformato in Walter Kasper. Insomma: Leonardi confonde la libertà dei figli di Dio con la libertà degli irresponsabili.

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Un’altra enorme sciocchezza in quanto dice Leonardi sulla «amicizia» Papa-Scalfari è la seguente: «L’amicizia tra Scalfari e il Papa solleva critiche e turbamenti perché non è di parte. Non è laica e non è cattolica. È amicizia e basta». Come se l’amicizia cristiana che si suppone il Papa, come credente, abbia per Scalfari, dovesse essere un atteggiamento di «parte» o fazioso.

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Che amicizia è quella che offende la fede? Non si potrebbe oltraggiare di più la nobiltà della vera amicizia, mentre non c’è da dubitare che l’amicizia dell’ateo Scalfari sarà ben lontana da quell’apertura di cuore, che solo la fede in Dio assicura all’animo umano.

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la Signora Monica Bellucci

Non si tratta inoltre di fare proselitismo, che è un cattivo modo di annunciare il Vangelo. Ma tra l’evitare il proselitismo e il lasciare tranquillamente che l’amico Scalfari neghi l’esistenza dell’Inferno ― se è vero quanto racconta Leonardi ―, senza fare la minima obiezione, non sarebbe certo segno di autentica amicizia da parte del Papa, ma semplicemente di meschino rispetto umano, per non contrariare l’interlocutore, anche se possiamo credere che Papa Francesco non abbia voluto mettere in quell’occasione in gioco il suo ministero petrino.

Vorrei infine domandare all’arguto Don Mauro Leonardi: che razza di amicizia è questa tra il Papa e Scalfari, che ogni volta che si incontrano, Scalfari fa poi una relazione dell’incontro infangando la dignità pontificia ed obbligando la Santa Sede a smentire, mentre egli, gongolante e commosso per l’amicizia che lo lega al Papa, dà corda ai modernisti ed ai nemici della Chiesa, facendo ridere tutti gli atei del mondo? E tutto ciò proprio a poche settimane di distanza dalla solenne condanna papale delle fake-news !

E un’altra domanda me la pongo io, insieme con tutti i cattolici e gli uomini di buon senso: come mai il Papa si presta a un gioco così sporco? Che prudenza è la sua ad insistere nell’incontrare questo personaggio, che non si propone altro che di distruggere la fede cristiana e di bestemmiare il nome di Dio?

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Perlomeno, il Padre Ariel S. Levi di Gualdo, essendo un uomo con tutte le debolezze e le tentazioni che possono assalire un uomo, si è innamorato ed è amato da Monica Bellucci. E da questo loro amore non sono state mai lanciate sulla stampa internazionale delle clamorose eresie attribuite poi al Sommo Pontefice. Per questo, quello tra il Padre Ariel e la bella Monica, è un amore sul quale volendo si potrebbe discutere, visto lo stato ecclesiastico di questo presbitero innamorato che ha scelto e promesso solennemente di rimanere celibe e casto, ma di sicuro non è un «innamoramento» pericoloso come quello tra il Regnante pontefice ed Eugenio Scalfari.

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 Varazze, 8 aprile 2018 – Festa della Divina Misericordia

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L’Inferno esiste e non è mai stato abolito, perché neppure modernisti e buonisti possono abolire il libero arbitrio donato da Dio all’uomo

Le imprudenze dell’uomo Jorge Mario Bergoglio e il nostro servizio vigili del fuoco

L’INFERNO ESISTE E NON È  MAI STATO ABOLITO, PERCHÉ NEPPURE MODERNISTI E BUONISTI POSSONO ABOLIRE IL LIBERO ARBITRIO DONATO DA DIO ALL’UOMO

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Per il buonista, la visione apocalittica di una Chiesa combattiva, assediata dal mondo è una favola fondamentalista e medioevale da scartare. Ma l’ipocrisia di queste loro belle parole si rivela nella reazione feroce con la quale lo stesso  buonista, che in realtà è un prepotente, assale chi gli smaschera l’ipocrisia del suo discorso e denuncia l’incoerenza della sua condotta. Per il buonista l’Inferno non esiste perché lui si crede salvo e promette salvezza a chi la pensa come lui, ma sarebbe capace a creare un Inferno su questa terra per rinchiudervi chi lo avverte che Dio lo punirà per la sua finta misericordia e la sua reale crudeltà.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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Sandro Botticelli, La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Eugenio Scalfari, secondo il quale il Santo Padre Francesco gli avrebbe detto che il castigo infernale non esiste e che i malvagi sono annullati da Dio, è stato smentito dalla Sala Stampa della Santa Sede che ha precisato trattarsi di una ricostruzione del colloquio con l’Augusto Pontefice. Se infatti questi avesse davvero pronunciate quelle parole sarebbe caduto in una doppia eresia: la negazione dell’esistenza dei dannati e della immortalità dell’anima. E siffatte tesi ereticali sono di Edward Schillebeeckx, come accennerò più avanti.

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Sul livello di prudenza dell’uomo Jorge Mario Bergoglio e la conseguente opportunità di seguitare a dialogare con questo genere di interlocutore, ha già scritto il Padre Ariel S. Levi di Gualdo rifacendosi sia al fondamentale concetto dottrinale di prudenza sia, sempre in tal senso, alla teologia di San Tommaso d’Aquino [cf. articolo QUI]. Pertanto, oltre a non ripetere certe analisi già fatte dal mio confratello Sacerdote, mi limiterò dal canto mio ad un discorso improntato su altra angolatura, visto che ormai da anni, per svolgere al meglio il nostro servizio apostolico attraverso la nostra Isola di Patmos, cerchiamo sovente di offrire ai Lettori analisi diverse su uno stesso argomento.

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Non è pensabile che un Romano Pontefice cada in eresia formale, in modo volontario e cosciente, perché a lui ed a lui solo Cristo ha conferito il mandato di supremo annunciatore, definitore, chiarificatore, custode e difensore della verità del Vangelo, garantendogli l’assistenza dello Spirito Santo, che lo rende infallibile nel suo magistero. Ho pensato allora che questo increscioso episodio, nel quale ancora una volta le forze delle tenebre tentano perfidamente di usare il Successore di Pietro, potesse offrirci l’occasione di ripensare il dogma dell’Inferno per comprenderne meglio il valore salvifico, in quanto deterrente, che stimola per contrasto a compiere le opere della salvezza, come dice saggiamente ad Abramo il ricco epulone nell’Inferno: «li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento» [Lc 16,28].

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Punto centrale per capire che cosa è l’Inferno e il perché della sua esistenza è – come vedremo – il legame che esiste fra Inferno e peccato. L’Inferno non è altro che la maturazione finale e definitiva del peccato come atto del volere umano perverso, irrevocabilmente ribelle a Dio. È un no detto per sempre a Dio, a quel Dio di misericordia che vuol tutti salvi, ma che nel contempo non si impone a nessuno, non forza nessuno, quindi lascia che ciascuno faccia la sua scelta, senza peraltro poterne giustamente impedirne le eventuali conseguenze spiacevoli in caso di rifiuto.  Caratteristica infatti del no a Dio è precisamente il privarsi della felicità. E dunque è assurdo credere che uno possa peccare ed ottenere comunque la felicità. Può aver certo la perversa soddisfazione di aver fatto la propria volontà, ma tale soddisfazione se la tenga lui e non la auguriamo a nessuno.

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La dottrina dell’Inferno ci mostra in tutta la sua entità e le sue terribili conseguenze l’esistenza e la natura della cattiveria umana e quanto è grave il danno che fa l’uomo a  se stesso con la cattiva volontà ribelle a Dio; per cui tale dottrina, per contrasto, stimola l’uomo peccatore, sotto l’impulso della grazia, nel suo stesso interesse eterno, a convertirsi, ossia a cambiare in buona la cattiva volontà col pentimento, la riparazione  e chiedendo perdono a Dio.

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Il fondamento naturale della credenza nell’Inferno

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Sandro Botticelli, particolare de La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Il problema della esistenza di dannati nell’Inferno torna oggi a presentarsi col libro appena uscito del Monaco Benedettino francese Guy Pagès, intitolato «Giuda è all’Inferno? – Risposte a Hans Urs von Balthasar» [cf. QUI]. In esso l’Autore sostiene che Giuda è all’Inferno, si confronta con le idee di von Balthasar sull’Inferno [1] e formula il voto che il Papa voglia definire la dottrina dell’Inferno come dogma di fede.

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La parola Inferno corrisponde al latino infernum, connessa con l’idea di qualcosa che sta sotto, che è basso, inferiore, eventualmente sotterraneo. È chiaro il significato simbolico di questa immagine, ci vuol pertanto solo la grettezza di mente di un Rudolf Bultmann per credere che si tratti di rozza cosmologia o addirittura metafisica antica e non capire che questa metafora universalmente presente nelle concezioni religiose e morali dell’umanità, rappresenta l’abiezione, l’abbassamento e la massima degradazione morale, in contrasto con l’immagine di ciò che è grande, maestoso, sublime, in alto, in cielo, per rappresentare al contrario l’elevatezza della virtù morale e della santità, il «regno dei cieli, dove abita il Padre che è nei cieli […], il Dio Altissimo» del quale parla l’Antico Testamento.

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Questa metafisica dei piani ontologici del reale è supposta in uno dei celebri inni cristologici paolini [cf. Fil 2,10], dove l’Apostolo dice che il Padre ha dato al Figlio «il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome  di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra». Il che significa che la provvidenza divina non raggiunge solo il cielo e la terra, ma anche l’Inferno. E del resto, il Cristo dell’Apocalisse, dice: «Ho potere sopra la morte sopra gli inferi» [Ap 1,18]).

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Non è il caso di ricordare qui la dottrina cattolica sull’Inferno. Tocchiamo invece alcune questioni di attualità sull’argomento. Attorno alla questione dell’Inferno si affollano ancor oggi varie domande, che spingono a negarne l’esistenza. Ci si domanda che senso ed utilità può avere un fatto simile nel quadro della divina provvidenza e della storia della salvezza. A che serve una dottrina del genere ai fini della nostra salvezza? Favorisce od ostacola la nostra confidenza in Dio? Evoca l’immagine di un Dio attraente o quella di un Dio spaventoso? Ma poi, perchè mai una pena così severa – una pena eterna?

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La fede biblica nell’Inferno suppone tre certezze fondamentali ed indiscutibili della coscienza morale naturale:

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la prima, è l’esigenza di conoscere ciò che fa bene e perché, e ciò che fa male e perché; conoscere insomma le azioni che procurano benessere e quelle che recano danno.

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La seconda è la convinzione basilare della retta coscienza morale naturale, che il volere umano, nella vita presente, inclinato per natura a cercare il bene ed a respingere il male, di fatto alterna l’azione buona all’azione malvagia. Ossia, in forza del libero arbitrio, l’uomo ora fa il bene, ora fa il male. La volontà, ora è buona, ora è cattiva, a seconda di come vuole. Se fa il bene, ha vantaggio, merita lode e premio; se fa il male, si procura danno, merita biasimo e castigo.

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L’azione buona è la giustizia, quella cattiva è il peccato. Ognuno di noi, quale che sia la sua concezione del bene e del male, in ogni caso, promuove ciò che giudica esser bene e si oppone a ciò che giudica esser male. E’ inevitabile. Ciò che varia sono i criteri per giudicare ciò che è bene e ciò che è male. Possono esistere però criteri giusti e criteri sbagliati. Da qui la necessità di conoscere ciò che è veramente bene fare e ciò che è veramente male, onde evitarlo.

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L’azione buona fa bene all’agente, l’azione cattiva gli fa male. Il concetto dell’Inferno nasce su questo presupposto. Il senso innato di giustizia che tutti noi abbiamo ci dice che è giusto che il buono sia premiato ed è giusto che il malvagio sia punito. L’Inferno, come si sa, è l’eterno castigo dei malvagi.

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La terza convinzione di religione naturale, prima che biblica, è la nozione naturale della giustizia divina, come dice la Lettera agli Ebrei: «chi si accosta a Dio deve credere che Egli esiste e che Egli ricompensa coloro che lo cercano» [Eb 11,6].

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La giustizia divina comporta che Dio premi i buoni e castighi i malvagi. Comporta la convinzione che Dio tiene conto delle opere e dei meriti di ciascuno di noi e retribuisca con perfetta giustizia. È saggezza, è nostro dovere agire tenendo conto delle conseguenze buone o cattive, del premio o del castigo. È saggezza agire per guadagnare il premio ed evitare il castigo.  E’ saggezza pratica sapere quindi qual è il premio e qual è il castigo.

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Occorre agire, certo, innanzitutto in vista del raggiungimento del nostro fine ultimo e sommo Bene, che è Dio, attività che va di pari passo con l’acquisto delle virtù e con l’amore per il dovere, che sono i mezzi per raggiungere Dio. Egli infatti è il Bene infinito, per il quale siamo fatti e che è immensamente superiore al nostro bene personale finito e quindi all’esercizio della virtù e al compimento del dovere. L’Inferno è perdere o respingere questo Bene, anche se avessimo raggiunto alti livelli di virtù personale.

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Il perfezionamento di sé fine a se stesso, alla maniera stoica, può apparire virtù, ma in realtà è superbia ed egoismo, che alla fine fa fallire la nostra vita. Questo è il sottile rischio dell’etica kantiana, pur così nobile e disinteressata per l’assoluto rispetto della legge morale, che fa vergognare i nostri modernisti senza nerbo e senza carattere.

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La giustizia umana va rispettata e dobbiamo aver fiducia in essa, ma essa, a causa delle conseguenze del peccato originale, è lacunosa e difettosa. Capita che i criminali restino impuniti e vengano castigati gli innocenti. Occorre allora in questi casi far ricorso alla giustizia divina. Il giusto prova così soddisfazione nel vedere il castigo dell’empio, non tanto perchè l’empio soffre – e sarebbe crudeltà –, ma in quanto nell’empio si realizza la giustizia divina. Secondo San Tommaso d’Aquino, la visione che i beati hanno delle pene dei dannati entra nell’oggetto stesso del beatitudine celeste [2]. Non bisogna peraltro confondere la nobile e serena soddisfazione del giusto che contempla la realizzazione della divina giustizia ed è ricompensato delle sofferenze che gli empi gli hanno fatto patire ingiustamente, con la soddisfazione maligna e colma di livore di colui che gode della sventura dell’avversario perché lo odia.

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È giusta una pena eterna? Rispondiamo che l’uomo, avendo un’anima immortale, è fatto per vivere in eterno o per sempre. Per questo egli, nelle sue scelte di vita, sceglie un bene che egli considera eterno o assoluto. Tuttavia nel giudicare di questo bene, la sua volontà può errare e giudicare come assoluto ciò che non lo è. Solo Dio è il vero assoluto. Ora la scelta di una creatura al posto di Dio è il principio che conduce l’uomo all’Inferno. Ma l’uomo, peccando, ha la possibilità di scegliere per sempre, senza pentimento, come fosse assoluto un bene (se stesso o una creatura), che non è veramente assoluto, cioè non è Dio, che è il suo vero bene sommo e fine ultimo. Questa scelta peccaminosa definitiva, che avviene al termine della vita presente, comporta necessariamente una pena eterna, perché è la perdita definitiva ed irreparabile di un bene eterno.

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Ciò che la volontà sceglie è un atto o un bene che le dà soddisfazione, altrimenti non lo sceglierebbe. Ora l’uomo ha una naturale, innata e necessaria tendenza o inclinazione a un bene assoluto ed eterno, posta in lui da Dio stesso. Ma Dio lascia al libero arbitrio dell’uomo determinare il contenuto preciso e concreto di questo bene assoluto, affinchè esso possa essere effettivamente oggetto di scelta.

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Ora, Dio lascia all’uomo la facoltà di scegliere definitivamente e per sempre o il vero assoluto, che è Dio, oppure un falso assoluto, che può essere o se stesso o una creatura. Se l’uomo sceglie un falso assoluto, perde la propria vera felicità, che può essere solo in Dio. Gli resta la perversa soddisfazione di aver fatto la propria volontà, pur disobbedendo a Dio. Questo atto malvagio gli procura la pena dell’Inferno. Ma siccome egli stesso ha trovato la sua soddisfazione nel fare questo atto, egli, nella sua irremovibile ostinazione, non si pente affatto di trovarsi tra le fiamme dell’Inferno, perché lì ha ottenuto ciò che essenzialmente lo interessava: fare la sua volontà. Lì nell’Inferno, egli ha ottenuto ciò che ha voluto e che vuole. Egli pertanto ragiona così: meglio essere nell’Inferno, lontano da Dio, che essere in Paradiso in compagnia di Dio. Così si spiega come sia possibile che uno scelga di andare all’Inferno, dove sa che lo attende una pena eterna. Non è certo la pena, che egli vuole, ma è fare la sua volontà. Se ciò comporta una pena eterna, è disposto ad accettarla, pur di fare la sua volontà.

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Con l’evento della morte, la volontà resta fissa per sempre nel suo rapporto con Dio che ha al momento della morte: se è in comunione con Dio, è salva; se invece si trova in rotta con Lui, ossia è priva della grazia per colpa mortale, è perduta. Questa fissazione della volontà dipende dal fatto che con la morte, essa entra in contatto diretto e immediato con l’assoluto che ha scelto ― per Dio o contro Dio ― in modo tale che non può più scegliere diversamente, ossia vien meno l’oscillazione del libero arbitrio, che era giustificata dal fatto che durante la vita l’assoluto può, appunto in forza della scelta del libero arbitrio, assumere determinazioni diverse.

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In questa vita noi abbiamo uno spazio di movimento per le nostre scelte. Qui i limiti di detto spazio trascendono le singole scelte, mentre l’assoluto — Dio o non-Dio — appare come un bene tra gli altri. Al momento della morte, la volontà non si può più muovere, perché l’assoluto che abbiamo scelto occupa tutto lo spazio. Oppure è come nello scalare un monte. Durante la scalata, si possono seguire diversi sentieri. Ma quando giungiamo alla cima, ci fermiamo lì. Il momento della morte è qualcosa di simile: l’uomo giunge al termine di questo movimento o di questo cammino.

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Insegnamenti della Chiesa sull’Inferno

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Sandro Botticelli, particolare de La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Ho esposto gli insegnamenti biblici, ma soprattutto di Cristo sull’Inferno, nel mio libro già citato L’Inferno esiste. La verità negata. Secondo la Scrittura, a seguito del peccato originale l’umanità è stata castigata con varie pene nella vita presente e, dopo la morte, con la pena degli inferi, che sono un luogo ultraterreno, oscuro e triste, lontano da Dio e pur custodito da Lui, simile all’Ade pagano, che raccoglie giusti e ingiusti.

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Un aspetto dell’opera salvifica di Cristo, secondo il Simbolo degli Apostoli, è stato quello di discendere negli inferi dopo la sua morte a liberare le anime dei giusti che attendevano il realizzarsi della giustizia divina [cf. Denz. 369, 485, 587], per condurle in Paradiso. Invece, la pena dei malvagi che non hanno accolto Cristo, fu commutata da Dio nella più grave pena dell’Inferno, perché, come spiega la Lettera agli Ebrei, se già meritava una pena eterna la disobbedienza alla Legge di Mosè, ben più grave pena merita la disobbedienza alla Legge di Cristo [cf. Eb 10,26-29]. Dal che si vede la falsità dell’opinione di coloro che sostengono che il Dio dell’Antico Testamento è più severo del Dio del Nuovo o addirittura che il Dio cristiano sarebbe solo misericordia e non castiga nessuno. Invece la maggior severità del Dio cristiano si evince proprio dal fatto che è più misericordioso. È giusto infatti che sia punito più severamente chi rifiuta un maggior dono e disobbedisce a una legge più facile da adempiere, qual è la Legge evangelica alleggerita dalla grazia: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero» [Mt 11,30], anche se le opere sono più ardue ed occorrono sacrifici maggiori. Ma l’amore rende leggero il sacrificio.

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L’esistenza di dannati è implicitamente ma chiaramente affermata nell’articolo del Simbolo di Fede nel quale recitiamo: «Et iterum venturus est cum gloria iudicare vivos et mortuos». Dalle parole del Signore è chiaro che alla sua Venuta [cf. Mt 3,12; 25,32; Ap 20, 11-15] non tutta l’umanità entrerà nel regno di Dio, come credono von Balthasar, Rahner e Teilhard de Chardin, ma solo gli eletti o predestinati, ossia coloro che avranno obbedito ai santi comandamenti di Dio.

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Il Magistero della Chiesa, in perfetta linea con l’insegnamento biblico, afferma che non tutti si salvano [cf. Denz. 623, 624, 1523] ma che dall’intera umanità caduta a seguito del peccato originale, Dio sceglie un certo «numero» di «eletti» [Canone Romano della Santa Messa] o di «predestinati» [cf. Denz. 621, 1540].

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La verità qui da tenere presente è che la salvezza è opera divina. Dio dà a tutti i mezzi sufficienti per salvarsi, ma non tutti ne fanno uso per colpa loro. Per questo vengono giustamente puniti con l’Inferno. Che uno faccia uso dei mezzi della salvezza, è un atto soprannaturale causato dalla grazia. Questo atto è atto del libero arbitrio in grazia, quindi meritorio del Paradiso. Per conseguenza, come dice il Concilio di Trento [cf. Denz. 1548], gli stessi nostri meriti soprannaturali, con i quali ― con buona pace di Lutero ― ci guadagniamo il Paradiso, sono doni della sua grazia.

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Il fatto è che a Dio, più che il fatto che tutti scelgano Lui, interessa che tutti facciamo la nostra scelta, dovesse essere anche contro Lui. Egli vuole che Lo scegliamo liberamente, non che ci indirizziamo verso di Lui deterministicamente, per legge fisica, come gli animali, le piante e i sassi. Pertanto, pur di rispettare la nostra scelta, Egli addirittura accetta di mettere in gioco Se stesso, accettando anche di essere rifiutato. Ma quello che Egli comunque vuole è che ognuno faccia la sua scelta. Se uno Lo rifiuta, non lo costringe ad accoglierLo, però costui deve attendersi le inevitabili logiche conseguenze, che neppure Dio può evitare, perché comporterebbero contraddizione, dato che c’è contraddizione tra la vita e la morte. Non può infatti continuare a vivere chi sceglie la morte. Ma le suddette conseguenze sono appunto l’Inferno. Ora l’Inferno, come dice l’Apocalisse, è la «seconda morte» [Ap 20,14]. E morte e vita non possono coesistere simultaneamente nello stesso soggetto, perchè si escludono reciprocamente. Naturalmente, la vita che vien meno nel dannato, non è la sua vita naturale, ma la vita della grazia, la quale del resto era già assente al momento della morte. I dannati non vengono annullati, come crede erroneamente Schillebeeckx [3]. Le loro anime, essendo per essenza immortali, continuano a vivere in eterno, ed anch’esse riprenderanno il loro corpo al momento della resurrezione finale. L’articolo del Simbolo di fede che recita: «credo resurrectionem mortuorum» si riferisce evidentemente non solo alle anime beate, ma anche a quelle dannate [cf. Gv 5,29].

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Un fatto del genere è degno di molta attenzione, in quanto manifesta chiaramente la bontà di Dio. Infatti, col peccato, l’umanità ha conosciuto la morte, la quale consiste nel fatto che l’anima resta da sola senza il suo corpo. Sennonché, a questo proposito, bisogna dire che anche per i dannati sono intervenute la misericordia e la giustizia divine: la prima, la quale ha avuto pietà dell’anima separata, per cui le ridà il suo corpo, e la giustizia, per la quale Dio, per giustizia rende omaggio all’opera redentrice di Cristo, la quale ha meritato la resurrezione del corpo anche ai dannati.

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L’idea della distruzione dei dannati potrebbe esser suggerita dall’immagine della Geenna, usata da Cristo per alludere all’Inferno. Infatti, come è noto, si trattava di un luogo vicino a Gerusalemme, dove venivano bruciati i rifiuti. Oggi diremmo un inceneritore, come abbiamo nelle nostre città. Era un luogo maledetto, che ricordava gli orrendi sacrifici umani idolatrici fatti praticare a suo tempo dai re Acaz e Manasse. Certamente Cristo, con l’immagine della Geenna, non intende affatto alludere a una distruzione dei dannati, ma alla pena del fuoco.

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Secondo la Scrittura l’Inferno è di fatto una parte essenziale del creato, ma non lo è necessariamente, come, del resto, Dio, avrebbe anche potuto non creare nulla. Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto creare un universo felice senza Inferno. Egli avrebbe potuto creare angeli e uomini perfettamente buoni e santi, come sostengono i buonisti e i massoni. Il male sarebbe stato assente dal mondo o, se ci fosse stato, avrebbe potuto essere completamente annullato.

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Sorge allora la domanda: perché Dio ha permesso l’esistenza del male e quindi di dannati? Non era meglio se creava un mondo subito e per sempre felice, piuttosto che far giungere alla felicità solo alcuni e dopo una serie di disavventure e rischiose peripezie, sofferenze, tragedie, traviamenti e cadute, lungo i millenni e millenni di una storia segnata da insuccessi, catastrofi, ingiustizie, guerre ed orrori di ogni genere?

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Potremmo farci una contro-domanda: crediamo forse di essere più saggi di Dio per darGli consigli, per correggere o migliorare le sue opere? Se dunque Dio, Che è saggezza, bontà, provvidenza, giustizia, onnipotenza e misericordia infinita, ha permesso e permette tutto ciò, ci dev’essere un ottimo e saggio motivo che a noi sfugge, per cui è saggio accettare serenamente e fiduciosamente ciò che Egli dispone e permette, certamente o per correggerci o per farci espiare e comunque sempre per il nostro bene, anche se la cosa non ci è sempre chiara, mettendo in pratica ciò che Egli ci comanda di fare per liberarci dal male, tenendo comunque presente che della malizia degli uomini e dei demòni ne sono responsabili i soli autori, e mostrandoci dove vanno a finire coloro che Gli disubbidiscono.

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Dunque, come narra la Scrittura, le cose non sono andate così come qualcuno avrebbe preferito che fossero andate. Di fatto l’umanità, creata buona da Dio, ha deliberatamente peccato ed è stata castigata. Ma Dio ha avuto pietà ed ha mandato suo Figlio come Salvatore. Se tutti avessero obbedito a Cristo, tutta l’umanità sarebbe stata salva. Ora accade invece che alcuni obbediscono al Vangelo, mentre altri non obbediscono. Questi sono i dannati dell’Inferno.

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Questo allora significa che Dio ha pianificato la storia del mondo, in modo tale che una parte del male del mondo resta in eterno ― e questo è l’Inferno ―, mentre una parte è tolta nell’umanità che si salva ― e questo è il Paradiso ―. Potremmo chiederci perché Dio non ha eliminato il male da tutto l’universo e lo lascia sussistere all’Inferno. Rispondiamo dicendo anzitutto che la malizia dei dannati ― uomini e demòni ― se può costituire tentazione per i viventi, non nuoce ai beati del Paradiso ed alle anime del Purgatorio. In secondo luogo, la malizia dei dannati non aggrava le loro colpe, perché non possono più meritare, ma il male che fanno è semplice effetto dei peccati commessi in vita. In terzo luogo, Dio, permettendo che continuino ad esistere soggetti malvagi nell’Inferno, mostra che egli li ha vinti chiudendoli nel carcere infernale, dove essi si odiano e si fanno guerra a vicenda. In quarto luogo, si realizza la volontà di Dio di lasciar libera la creatura spirituale di opporsi anche a Lui. In quinto luogo, Dio, nella sua provvidenza e magnanimità, vuol governare anche la città infernale, nonostante l’ingratitudine e l’odio che i suoi abitanti mostrano contro di Lui. E qui Dio, come dice San Tommaso d’Aquino, esercita una certa misericordia, perché non li punisce tanto quanto meriterebbero.

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Riguardo alle pene dell’Inferno, quella della quale Cristo ci rende certi è la pena del fuoco. Possiamo certamente pensare ai tormenti inflitti dai demòni e dagli altri dannati. Tuttavia occorre anche non esagerare, come forse avviene in alcune rivelazioni private. Dio è severo, ma non crudele. Certamente, l’Inferno, in se stesso è spaventoso. Ma il pensiero del significato dell’Inferno non deve terrorizzare; esso invece è salutare, così come non causa spavento un precipizio, in sé spaventoso, nel quale, appunto perché spaventoso, non vogliamo cadere e non vogliamo far nulla che possa trascinarci in esso. Anzi è utile sapere che, se non ci teniamo alla larga, possiamo cadervi. Mentre sarebbe follia credere che se in esso ci gettiamo non succederà nulla, come chi crede di poter peccare impunemente.

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La Chiesa, nel Concilio Lateranense IV del 1215 ha definito l’esistenza dell’Inferno per gli angeli ribelli [cf. Denz. 800], basandosi su alcuni passi biblici [cf. Gd 6 e Ap 20,10] e sulle stesse parole del Signore, dove dice che l’Inferno ― il «fuoco eterno» ― è «preparato per il Diavolo e per i suoi Angeli» [Mt 25,41]. Occorre pertanto distinguere bene, gli Inferi dall’Inferno. Gli Inferi, come abbiamo visto, sono il luogo di pena ultraterrena delle anime prima dell’opera redentrice di Cristo. L’Inferno, invece, come dimora dei Demòni, esiste sin dal momento della loro caduta, all’inizio della creazione, prima ancora della creazione dell’uomo, per cui il serpente che tenta i nostri progenitori, è evidentemente Satana [cf. Ap 20,2], salito dall’Inferno e pertanto, col permesso divino, entrato addirittura nell’Eden.

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Il crudelismo  è l’altra faccia del buonismo

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Sandro Botticelli, particolare de La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Sul tema dell’Inferno occorre tener presenti due concezioni sbagliate ed opposte dell’agire morale, le quali conducono a una falsificazione della giustizia divina e quindi alla falsificazione o alla negazione della dottrina dell’Inferno. La prima, oggi apertamente diffusa e propagandata come “carità” e perfezione cristiana; la seconda, celata sotto la prima: il buonismo e il crudelismo. Esse conducono a due concezioni opposte dell’Inferno parimenti erronee. La prima suppone la fede in un Dio babbeo, bonaccione e citrullo, che non si accorge dell’esistenza dei malvagi, per cui tale concezione ne nega l’esistenza, in nome di un falso concetto della bontà divina, sostenendo che tutti, in fondo, sono buoni, per cui tutti si salvano. La seconda, invece, in nome di un falso concetto della libertà, della potenza  e della sovranità divine, concepisce un Dio balzano, dispotico e malvagio, che condanna a capriccio gli innocenti, e quindi una doppia predestinazione: alcuni al Paradiso, altri all’Inferno, quali che siano le loro opere. È una concezione orribile di origine manichea, un vero inganno del Diavolo; questa concezione, presente in Lutero e Calvino, riprende la concezione già condannata di Godescalco, Monaco del IX sec. [cf. Denz. 621]. Secondo questa teoria, i singoli uomini non posseggono una vera facoltà di scelta del loro destino, ossia o per Dio o contro Dio, per cui non conoscono il motivo della loro eterna destinazione, che non è condizionata dalle loro opere, come invece chiaramente insegna la Scrittura [cf. Dt 11,26; Mt 19,17], ma dipende esclusivamente da un beneplacito divino, che si riserva di premiare chi opera il male e di punire chi opera il bene. Ovviamente occorre qui evitare il pelagianesimo, che ritiene che l’inizio della salvezza venga da noi, mentre la grazia sarebbe un soccorso e un premio aggiuntivo successivo per completare l’opera. È chiaro che non è così: è la grazia che ci previene e muove il nostro cuore alla conversione; e tuttavia, una volta che abbiamo ricevuto la grazia, non ci salviamo, se non compiamo le opere buone, evidentemente compiute in grazia.

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Occorre inoltre precisare che ciò che l’uomo considera bene o male ― questo apparirà anche in Lutero ― nel crudelismo non coincide affatto col giudizio divino, perché Dio non giudica l’uomo sulla base di una legge naturale, stabilita da Lui e conoscibile dall’uomo, dell’osservanza della quale l’uomo deve rispondere a Dio, ma giudica in contrasto con questa conoscenza. Sotto pretesto della ”fede”, i comandi divini non sono ragionevoli, ma irrazionali. Quindi un Dio contrario alla ragione. In tal modo, un Dio disumano, se è vero che la ragione costituisce la dignità dell’uomo.

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Per il buonismo, che non riconosce le conseguenze del peccato originale, l’uomo è buono ed agisce sempre bene; per la seconda, che esagera queste conseguenze, è radicalmente malvagio ed agisce sempre male. Da notare peraltro che, per quanto ciò possa sembrare strano o impossibile, data l’opposizione radicale tra le due concezioni, in realtà esse si richiamano a vicenda e sono l’una l’immagine speculare dell’altra. Sono le due facce di un medesimo meccanismo perverso, nonostante l’apparenza mite contraria.

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Nel buonismo o mollezzamollities ― [4], infatti, che è una falsa e millantata misericordia, si esagera nel lasciar correre, nel concedere o nel permettere, per cui non si fa giustizia; nella crudeltà o durezza ― saevitia ―, invece, che è una falsa giustizia, si esagera nella severità e si fa accezione di persone, con la scusa dei ”casi speciali”. Ma il falso mite, ossia il molle o flaccido facilmente trapassa nel duro e viceversa, perché non si fonda sulla verità, ma sulla sua bizzarra e volubile volontà; non ha quindi una misura salda o un criterio oggettivo né nell’uno né nell’altro caso, per cui agisce a capriccio come l’umore, l’interesse, lo sfizio o la passione gli detta. Così, quando il molle vuole essere severo e combattere il male, diventa duro; quando vuol essere misericordioso, diventa molle. Aggredisce il debole e cede al forte. Cede ed è flessibile, quando dovrebbe star saldo ed irremovibile; è duro quando dovrebbe essere cedevole. E questo perché non sta fermo sul principio oggettivo della giustizia e della misericordia, che è il medesimo: il diritto e il torto dell’altro. Se permette il torto,  cade nella mollezza e si ha il buonismo; se conculca il diritto,  cade nella crudeltà. Così beneficia chi non ne ha bisogno e punisce chi non lo merita. In tal modo, i buonisti negano l’esistenza dell’Inferno; ma poi, quando a loro salta il ticchio o la cosiddetta mosca al naso, semmai perché qualcuno dà loro ombra o perché sono rimproverati dal giusto o vogliono in tutti i modi prevalere su qualcuno o hanno invidia di lui, ecco che in barba alla misericordia diventano feroci come belve.

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Nella visione buonista, inoltre, vien meno l’aspetto agonistico ed ascetico della vita cristiana. Se tutti sono buoni, non bisogna combattere o giudicare nessuno, ma bisogna accogliere tutti, incontrare tutti e dar ragione a tutti. Non c’è più da combattere contro il mondo, ma solo da dialogare con esso. E così, la Chiesa stessa, diviene un mero strumento di collaborazione col mondo.

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Per il buonista, la visione apocalittica di una Chiesa combattiva, assediata dal mondo è una favola fondamentalista e medioevale da scartare. Ma l’ipocrisia di queste loro belle parole si rivela nella reazione feroce con la quale lo stesso  buonista, che in realtà è un prepotente, assale chi gli smaschera l’ipocrisia del suo discorso e denuncia l’incoerenza della sua condotta. Per il buonista l’Inferno non esiste perché lui si crede salvo e promette salvezza a chi la pensa come lui, ma sarebbe capace a creare un Inferno su questa terra per rinchiudervi chi lo avverte che Dio lo punirà per la sua finta misericordia e la sua reale crudeltà.

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Il buonismo è in fondo una concezione ipocrita che, dando ad intendere di voler cantare la misericordia divina e di proclamare il dovere della misericordia verso il prossimo, ha il recondito scopo, squallido e meschino, di celare sotto questa falsa bontà o una concezione minimalista, teilhardiana, del peccato, o una concezione relativistica, rahneriana o kasperiana, col desiderio di poter peccare liberamente senza essere punito, giacché, come dice il Padre Raniero Cantalamessa, «Dio non castiga». O per dirla in altre parole: il buonista pensa sempre di poter farla franca.

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È chiaro che con questi discorsi stolti tutte le pene della vita diventano inspiegabili e insensate o ”naturali”, a meno che non attribuirle un Dio ”cattivo” o ad una natura “cattiva”. Da qui la conseguenza che si perde di vista il valore espiativo della sofferenza e per conseguenza non si capisce più il valore di sacrificio della Messa. In pratica si perde di vista la Croce di Cristo come mezzo di salvezza. Che cosa resta? Rimane una visione buonistica della storia sacra, quella che, nell’antichità, come noto, è stata quella di Origene, il quale non capì il senso di una pena eterna e scambiò la condizione dello spirito creato umano e angelico nel mondo ultra-terreno dell’eternità col divenire di questo mondo, dove la volontà creata oscilla tra il sì e il no. E questo perché, non avendo compreso che nell’al di là la scelta del libero arbitrio rispetto a Dio è fissata per sempre, nella beatitudine come nella dannazione, egli non capì o non volle accettare ― probabilmente sedotto da un monismo gnostico ― altro che una pena temporanea, che si conclude con la remissione della colpa, quale egli immaginò per i Demòni e le anime dannate, non rendendosi conto che, se una pena temporanea è concepibile per il cammino terreno dell’uomo in via di conversione, è del tutto impossibile, secondo la Scrittura, per i Demòni e per le anime dannate. Origene, benché grande studioso della Scrittura, forse sotto l’influsso dello gnosticismo pagano, si fece un’idea della storia sacra che non corrisponde a quella biblica. Egli infatti credette che il piano salvifico divino comportasse l’annullamento di ogni male, per cui, pur accettando l’esistenza di dannati, uomini ed angeli, credette che la «ricapitolazione di tutte le cose» [Ef 1,10], della quale parla San Paolo, comportasse la ricostituzione perfetta di tutte le cose in armonia con Dio, senza conflitti con Lui, conseguenza del peccato e, per conseguenza, dopo un certo processo di riconciliazione, la ricomposizione in pacifica ed armoniosa unità di tutte le cose in Dio, il che escludeva evidentemente la realtà dell’Inferno.

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Occorre però tener presente il caso del Purgatorio, che comporta una pena ultraterrena temporanea. Questa pena non dipende però dalla scelta definitiva dell’anima in rapporto a Dio, come nel caso dell’Inferno, nel quale l’anima ha scelto definitivamente contro Dio e ciò comporta necessariamente una pena eterna. Al contrario, nel caso del Purgatorio l’anima ha scelto definitivamente per Dio e ciononostante è afflitta da una pena, sia pur temporanea. Come mai? Perché la Chiesa ci insegna che l’anima, benchè perdonata da Dio e quindi in grazia, deve purificarsi dalle reliquie dei peccati veniali commessi in vita e non sufficientemente espiati.  

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Una concezione errata di Dio

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Sandro Botticelli, particolare de La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Queste concezioni hanno uno sfondo panteistico per il quale non è che Dio, distinto dal mondo dove c’è il male, sia di per sé assolutamente innocente del male del mondo; non è che ami il bene ed odi il male; o faccia solo il bene ed eviti il peccato, no. Invece, siccome Dio s’identifica col mondo, allora in Dio c’è il bene e il male, l’atto buono e l’atto cattivo, l’amore e l’odio. Dio è causa tanto del bene che del male, tanto della giustizia che del peccato dell’uomo. Come diceva Lutero: «Dio è stato causa tanto del peccato di Davide, quanto della conversione di Paolo».

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Certamente, il Dio di Lutero, è ancora il Dio biblico trascendente il mondo che Egli ha creato; tuttavia è un Dio legato al mondo, perché agisce in modo mondano, dispotico. Egli, a ghiribizzo, vuole tanto la salvezza che la perdizione, perché, come è noto, Lutero nega il libero arbitrio e il merito, per cui l’uomo non raggiunge liberamente un destino o fine ultimo da lui scelto e meritato con le opere ― Paradiso o Inferno ―, ma è mosso irrazionalmente e necessariamente, «predestinato» da Dio verso quel destino, di salvezza o di perdizione che Egli, nel suo imperscrutabile ingiusto volere, ha fissato per ognuno dall’eternità, indipendentemente dalle opere dell’uomo le quali del resto, secondo Lutero, dopo il peccato originale sono tutte cattive. Ma Dio, in forza della sua misericordia le considera buone per chi ha fede. In tal modo il credente è iustus et peccator. Ma allora vuol dire che alla radice di ciò, Dio stesso è iustus et peccator.

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Lutero, comunque, ammette ancora l’esistenza di dannati. Secondo lui i Papi vanno all’Inferno. Ma i suoi seguaci del XIX sec. cominceranno ad accentuare l’immanentismo luterano, fino a trasformarlo in panteismo, col risultato che, attesa l’identificazione dell’umanità con Dio, è chiaro che non avrà più senso parlare di dannati in un mondo fuori di Dio, ossia l’Inferno; ma tutta l’umanità è buona e salva proprio in quanto identificata con Dio, bontà infinita. Ma d’altra parte, sempre per il fatto che il mondo è identificato con Dio e nel mondo ci sono i malvagi, ecco che l’Inferno ricompare questa volta non fuori di Dio, ma nella stessa Essenza divina.

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La concezione dell’Inferno in Von Balthasar sembra essere su questa linea [5]. Paradiso e Inferno si trovano in Dio elidendosi a vicenda: l’Inferno è svuotato dal Paradiso,  ma per converso il Paradiso convive in Dio con l’Inferno. È l’opposizione dialettica di bene e male in Dio, che era già comparsa con Jakob Böhme nel XVII sec. [6]. È l’assolutizzazione enfatica in Dio del paradosso luterano del simul iustus et peccator.

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Tutti in Dio sono salvi e tutti sono peccatori. È ciò che riappare in Rahner nella sua teoria dei cristiani anonimi, per cui tutti, consciamente o inconsciamente, sono in grazia e tutti si salvano. In Paradiso San Giuseppe e la Madonna, i Santi Pietro e Paolo, i Santi Francesco e Domenico sono in buona e dolce compagnia accanto a Nerone, Caligola, Nietzsche, Hitler, Lenin e Stalin, sinceramente pentiti, in quanto … cristiani anonimi!

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Quanto a Giuda, non c’è dubbio che le parole di Cristo su di lui fanno pensare che egli si sia perduto; a meno che Gesù con quelle parole non intendesse darci un severo avvertimento a non seguire il suo esempio, mentre non possiamo escludere che, indipendentemente dall’insano gesto di uccidersi, egli abbia compiuto un supremo gesto ― basta un attimo ― di pentimento e richiesta di perdono in articulo mortis.

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Non è necessaria una definizione dogmatica sull’Inferno

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Sandro Botticelli, particolare de La mappa dell’Inferno, ispirata all’opera di Dante Alighieri

Riguardo la proposta di chiedere al Pontefice di dogmatizzare l’esistenza dei dannati, non mi pare necessario né opportuno. La Chiesa dogmatizza quando la Parola di Cristo è contestata dagli eretici o non è chiara e certa, ma si tratta di dar certezza per contrastare negazioni di insegnamenti dei magisteri precedenti od approvare e confermare pie tradizioni o interpretazioni, deduzioni o esplicitazioni di contenuti di fede, oppure confermare o respingere opinioni teologiche discusse, o di chiarire se una data tesi o proposizione è o non è di fede.

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Ricordiamo per esempio le definizioni dogmatiche del peccato originale, o i Sette Sacramenti o l’Immacolata Concezione di Maria o la sua Assunzione al cielo o la dualità delle nature e delle volontà in Cristo, nell’unità della Persona divina o il mistero della transustanziazione eucaristica o l’infallibilità pontificia. Ma se ci sono parole del Signore, ripetute in vari toni, modi ed occasioni, e che brillano per chiarezza, esse sono proprio quelle che riferiscono ai dannati dell’Inferno. Da esse vediamo quanto Cristo tenesse a quelle parole, a quelle previsioni ed a quegli avvertimenti. Per questo non occorre che il Papa dogmatizzi. Se mai basta confutare i ciechi, disonesti e  stolti che, dopo 2000 anni di pacifica e salutare accettazione di quelle divine parole, adesso, con inaudita sfrontatezza, osano espungerle dal Vangelo, col metodo proprio degli eretici che, invece di assumere fedelmente tutto ciò che Cristo ha detto, prendono dai suoi detti solo ciò che a loro piace.

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Ora, dobbiamo tener presente che Il dogma è una proposizione formulata infallibilmente dalla Chiesa come interpretazione o esplicitazione di parole del Signore che non si trovano tali e quali nel Vangelo. Per questo il dogma non è propriamente dottrina di Cristo, ma è dottrina della Chiesa, benchè rifletta fedelmente il pensiero del Signore. Ma la sua autorità, benchè impegni la fede divina, è ben al di sotto di quella delle parole esplicite di Cristo, benchè il Vangelo non sempre riporti gli ipsississima verba. Per questo, a piena ragione, il Cardinale Walter Kasper intitolò un suo libro Il dogma sotto la Parola di Dio, benchè anche il dogma, come la Parola di Dio sia immutabile verità di fede, ben altra cosa dalla falsa concezione evoluzionista e storicista, che ne hanno invece i modernisti di ieri e di oggi.

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Varazze, 2 aprile 2018 – Lunedì dell’Angelo

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NOTE

[1] Cf il mio libro L’Inferno esiste. La verità negata,Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010, Cap.VII.

[2] Summa Theologiae, Suppl., q.94, a.3.

[3] Cf Umanità. La storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, pp.180, 181, 183.

[4] Sono quelli che Paolo chiama malakòi, che si potrebbe tradurre anche con “effeminati”, se ciò non fosse offensivo per la donna. E’ un vizio oggi molto diffuso, anche tra i vescovi, che assumono l’aria di essere miti, dolci, caritatevoli  e comprensivi, ma in realtà sono delle banderuole, dei vili, degli opportunisti e dei don Abbondio, che nascondono il pugnale nella tasca. Il malakòs è anche volgarmente detto “calabraghe”.

[5] Vedi la mia analisi in L’Inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010, pp.54-70.

[6] Cf Flavio Cuniberto, Boehme, Morcelliana, Brescia 2000; Franz Hartmann, Il mondo magico di Jakob Boehme, Edizioni Mediterranee, Roma 2005.

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Colloquio con Rocco Buttiglione: «Tomismo e dottrina sui divorziati risposati in Amoris Laetitia», ed una nota finale di Ariel S. Levi di Gualdo

— disputationes theologicae —

COLLOQUIO CON ROCCO BUTTIGLIONE: «TOMISMO E DOTTRINA SUI DIVORZIATI RISPOSATI IN AMORIS LAETITIA», ED UNA NOTA FINALE DI ARIEL S. LEVI di GUALDO

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«Esistono dei casi ― pochi o molti non so ― nei quali il divorziato risposato può avere delle buone ragioni da raccontare al confessore per chiedere di potere essere ammesso alla comunione, nel corso di un cammino di Penitenza e di riavvicinamento alla fede».

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Autore:
Ivo Kerže *

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L’On. Prof. Rocco Buttiglione

Rocco Buttiglione, insigne politico e accademico, non necessita certamente di presentazioni estese per i Lettori de L’Isola di Patmos. Negli ultimi tempi ha esposto il suo nome con una serie di pubblicazioni a difesa della dottrina dell’esortazione post-sinodale Amoris lætitia sulla possibilità di ammettere alla Comunione alcuni divorziati risposati viventi more uxorio. Tra queste pubblicazioni, l’ultima e più completa, è la monografia titolata Risposte (amichevoli) ai critici di Amoris lætitia, che è comparsa lo scorso ottobre in libreria [vedere QUI]. In essa l’impianto argomentativo di Buttiglione fa leva sulle condizioni soggettive di peccato mortale, che si basano sulla piena avvertenza ed il deliberato consenso. Qualche settimana fa ho dedicato a questo libro, è soprattutto alla sua tesi portante circa l’aderenza di Amoris laetitia al tomismo, un articolo su L’Isola di Patmos [vedere QUI]. Dopo alcuni giorni lo mandai all’On. Prof. Rocco Buttiglione che molto gentilmente non ha solamente risposto, ma si è reso disponibile a rilasciare per le colonne telematiche di questa rivista di teologia ecclesiale un’intervista dove abbiamo cercato di appurare la problematica in profondità. Concluda il lettore quale delle due parti, in questa intervista-dialogo, abbia esposto gli argomenti più convincenti riguardo a questa seria questione per la vita della Chiesa. Resta in ogni caso il fatto che, aver potuto dialogare con una persona così profondamente colta e priva di pregiudizi, è un grande piacere, ed al tempo stesso anche un onore, per qualsiasi studioso di scienze filosofiche.

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Ivo Kerže ― Nel Suo libro [par. 2.3] ella afferma, partendo dall’articolo I-II, quæstio. 94, a. 6 della Summa theologiæ di San Tommaso d’Aquino, che la legge naturale è nota a tutti noi per natura quanto ai principi primi, che sono effettivamente molto generici, tra i quali spicca quello fondamentale di fare il bene e fuggire il male. Fin qui siamo tutti d’accordo. Nello stesso brano, però, l’Aquinate parla della possibilità di un oscuramento della legge naturale in noi riguardo alla cognizione dei principi secondi ― sono quelli più concreti, come quelli del decalogo ― e alla cognizione della corretta applicazione dei principi al caso singolo. Lei conclude che, quando avviene un tale oscuramento circa il divieto di adulterio ― che è un principio secondo ―, allora non c’è piena avvertenza e quindi non c’è peccato mortale. In questa prima parte dell’intervista mi fermerei sul primo punto, che riguarda l’oscuramento dei principi secondi, lasciando il tema dell’applicazione per la seconda parte. La mia prima obiezione è che San Tommaso parla nel brano citato che questo oscuramento può essere provocato da «malas persuasiones», «pravas consuetudines» ed «habitus corruptos». Tutte e tre le denominazioni denotano un carattere vizioso ― malas, pravas, corruptos, sembra che quindi presuppongano un’ignoranza colpevole. Oltre a ciò il brano cita ― alla fine della responsio il primo capitolo della Lettera ai Romani dove l’Apostolo tratta appunto di una società corrotta ma in maniera colpevole [cf. 1 Rom 20], perché sapeva cosa era bene fare, ma non lo faceva.

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Rocco Buttiglione ― Il testo della Summa theologiæ, I-II a me sembra chiarissimo. I principi secondari della legge naturale ― e la proibizione dell’adulterio è uno di questi ― possono essere sradicati dal cuore dell’uomo in due modi: per un errore conoscitivo simile a quello che può avvenire anche nella conoscenza speculativa e per un vizio. L’errore conoscitivo è sempre cattivo ma non sempre ne deriva una colpa morale. La mala persuasio può essere un semplice errore senza colpa o può anche essere l’effetto di una cattiva azione di cui il soggetto è vittima piuttosto che protagonista. Pensi ad un bambino cresciuto in una cultura antropofaga cui i genitori e gli altri personaggi autorevoli della tribù abbiano insegnato che uccidere i nemici e mangiarli è un atto meritorio. Il soggetto attivo della mala persuasio è l’educatore cui l’educando si affida. Si può almeno accusare l’educando di essersi affidato all’educatore sbagliato? No, se l’educatore sono i genitori cui il soggetto è inclinato dalla natura stessa ad affidarsi. Diverso è il caso del vizio ma anche in questo caso la colpa è almeno fortemente diminuita se il vizio è appreso da una legittima autorità. 

L’errore è tanto più facile quanto più ci si avvicina al caso singolo. È qui che emerge la differenza fra il saggio e l’indotto. Il soggettivismo non vuole vedere il lato oggettivo dell’etica. Per esso qualunque giudizio della coscienza va accettato perché è la coscienza a creare la norma. L’oggettivismo non vuole vedere il lato soggettivo dell’etica. Per esso la coscienza si limita a trascrivere il giudizio della ragion pratica. L’etica realista vede che il soggetto morale deve obbedire alla coscienza e la coscienza dal canto suo può sbagliare nell’interpretare la norma. In tal caso la coscienza deve essere rispettata ― il soggetto non può essere considerato colpevole per essersi attenuto al giudizio della coscienza ― ma il suo giudizio non deve essere assolutizzato. Esso, piuttosto, deve essere corretto attraverso l’accompagnamento ed il discernimento.

Non dimentichi che un principio cardine dell’etica tomista è conscientia erronea obligat. La coscienza può essere erronea senza colpa. Esiste l’errore in buona fede ed esso scusa o almeno diminuisce la colpa. 

Credo che questi siano principi assolutamente tradizionali dell’etica cattolica (e tomista).

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Ivo Kerže ― Nella Sua interpretazione dei testi tommasiani riguardo alla conoscenza dei principi secondari non trovo espresso ciò che San Tommaso dice in Summa theologiæ I-II, quæstio 100, a. 1, ossia che i principi secondari che sono altresì precetti morali del decalogo («Honora patrem tuum et matrem tua, et, Non occides, Non furtum facies») vengono conosciuti subito (statim, e statim, cum modica consideratione) dalla «ragione naturale di ogni uomo», anche di quello cresciuto in un cultura antropofaga. Sono d’accordo con Lei che le «malas persuasiones» della sopra citata quæstio 94, a. 6 sembrano in contraddizione con ciò che ho citato della quæstio 100, a. 1, proprio perché l’Aquinate le compara agli errori speculativi circa le conclusioni necessarie ― anche se in generale pure gli errori speculativi possono essere colpevoli, se derivano per esempio da noncuranza ―. Penso però che questa sembianza di contraddizione si possa risolvere soltanto distinguendo i principi secondari in quelli morali del decalogo, tra i quali figura il divieto di adulterio. Principi secondari che sono comprensibili «statim» da chiunque, ed in altri precetti ― chiamati dai tomisti anche terziari, anche se San Tommaso non usa questo termine ― che seguono, ma in maniera più complicata dai primi principi, nei quali invece si possono intromettere le «malas persuasiones» e dove si può quindi verificare l’ignoranza incolpevole. Vede qualche altra soluzione di questa sembianza di contraddizione?

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Rocco Buttiglione ― Nella quæstio 100 della I-II, San Tommaso ci dice che ci sono i primi principi che sono immanenti alla ragion pratica, i principi secondi che da essi derivano attraverso il ragionamento immediato e le conseguenze pratiche. Per individuare la giusta conseguenza del principio nel caso concreto occorre essere dotto e l’indotto facilmente può sbagliare senza colpa. 

La quaestio 94 a. 6 aggiunge che, mentre in generale i secondi principi sono noti perché immediatamente derivabili dai primi, tuttavia in alcuni casi essi possono essere sradicati dal cuore dell’uomo. Per capire in che modo questo possa avvenire occorre fare un excursus sulla teoria tomista della attenzione. Perché l’intelletto possa compiere la sua operazione propria è necessaria una certa concentrazione dell’attenzione. Questa però può venir meno o per colpevole decisione del soggetto o anche per circostanze indipendenti dalla sua volontà. Non credo che Pascal abbia mai conosciuto la dottrina tomista dell’attenzione, essa però praticamente coincide con la teoria pascaliana del divertissement

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Ivo Kerže ― Riguardo alla teoria tomistica dell’attenzione San Tommaso riporta in Summa theologiæ, I-II, quaestio 77, a. 2 il caso di un geometra che non fa attenzione ad alcune conclusioni che subito ― anche qui utilizza la parola «statim» ― gli dovrebbero balzare agli occhi. Va bene. Però dall’altra parte San Tommaso in Summa theologiæ I-II, quaestio 6, a. 8, dove tratta dell’ignoranza volontaria, dice che un’ignoranza è volontaria e quindi colpevole quando riguarda ciò che uno può e deve sapere: «dicitur ignorantia voluntaria eius quod quis potest scire et debet». Nel caso della legge naturale si tratta appunto di cose alle quali abbiamo il dovere di rivolgere l’attenzione e, quanto riguarda i principi secondi del decalogo, che possiamo comprendere subito in maniera facilissima. Quindi il caso del geometra qui non entra in gioco, perché non è nostro dovere conoscere la geometria.

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Rocco Buttiglione ― Bisogna sapere però che il Santo Dottore distingue una ignoranza incolpevole ― non so cose che non sono tenuto a sapere ― da una ignoranza colpevole ma non malvagia ― non so cose che sono tenuto a sapere perché sono stato negligente ― e da una ignoranza colpevole malvagia ― non so cose che sono tenuto a sapere perché non voglio essere ostacolato nella mia volontà malvagia―. Il primo tipo di ignoranza esclude la colpa, il secondo la diminuisce, il terzo la aggrava (Summa theologiæ, I-II, quæstio 76, a. 3 e 4). 

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Ivo Kerže ― ma d’altra parte San Tommaso in Summa theologiæ, I-II, quaestio 6, a. 8, dove parla del rapporto tra ignoranza e volontarietà ― anche negli articoli da Lei citati la colpevolezza del ignoranza dipende dall’involontarietà che ne consegue ―, parla in modo diverso del tipo di ignoranza dove non so cose che posso sapere e sono tenuto a saperle ― nel brano della quæstio 76: «scire tenetur et potest», in quello della quæstio 6: «potest scire et debet». Nel brano della q. 76 l’Aquinate dice ciò che ha citato Lei, ossia che una tale ignoranza diminuisce il peccato senza toglierlo del tutto. Nel brano della quæstio 6, invece, dice che una tale ignoranza non può causare l’involuntarium simpliciter. Ma solo l’involuntarium simpliciter ridurrebbe di per sé il peccato grave da mortale a veniale (si veda il De maloin quæstio 7, a. 11, arg. 3, che è secondo me un brano molto importante per il nostro tema). Quindi penso che il testo della quæstio 76 vada inteso nel senso che l’ignoranza di ciò che posso e devo sapere diminuisce la colpa ma non riducendo il peccato grave da mortale a veniale.

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Rocco Buttiglione ― Credo che bisogni ricordare prima di tutto che il peccato è sempre una azione contraria al giudizio della ragione recepito dalla coscienza. Coscientia erronea obligat. Il giudizio può essere errato per l’ignoranza di cose che il soggetto non era tenuto a sapere e non poteva sapere facendo uso della ordinaria diligenza. Può accadere che questa ignoranza riguardi i principi secondi della legge naturale, più spesso riguarda il materiale empirico che costituisce la premessa minore del sillogismo applicativo dei principi secondari al caso concreto. Questa ignoranza scusa interamente. 

Esiste poi una ignoranza che scusa ma non del tutto. Essa riguarda cose che il soggetto è tenuto a sapere ed è in grado di sapere facendo uso della ordinaria diligenza ma non sa. Possiamo dire che questa ignoranza fa derubricare il peccato da mortale a veniale? Non credo che questo si possa dire. Non credo però neppure che si possa dire il contrario: che il concetto di ordinaria diligenza ammetta una quantità infinita di gradazioni e non credo si possa determinare in astratto in questo caso la esatta linea di confine fra peccato veniale e peccato mortale. Quanto è grave la mancanza di diligenza? Quali sono state le sue cause? Etc… Pensi ad uno studente che non ha studiato affatto per l’esame e lo paragoni ad uno che ha studiato bene tutto tranne una nota a piè di pagina. In ambedue i casi vi è un deficit del livello di diligenza dovuta, ma il livello del deficit non è lo stesso.

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Ivo Kerže ― Lasciando adesso il tema della conoscibilità dei principi secondi, passiamo all’altro tema, sul quale fa soprattutto leva nel Suo libro: quello che riguarda la conoscibilità della corretta applicazione dei principi. Mi pare che nella Sua esegesi la distinzione tra precetti positivi e precetti negativi non sia evidenziata abbastanza. Infatti in I-II, quæstio 94, a. 4 l’Angelico cita come esempio di difficoltà, nell’applicazione dei precetti, il precetto positivo della restituzione delle cose depositate. I precetti negativi del decalogo (gli intrinsece mala), come il divieto di adulterio, invece obbligano semper et ad semper, in ogni circostanza applicativa, come viene spiegato nel Commento di San Tommaso alla Lettera ai Romani, c. 13, l. 2. Quindi in questi casi l’errore riguardo all’applicazione non può avere luogo.

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Rocco Buttiglione ― Esistono due ragioni possibili di errore. Una riguarda il contenuto oggettivo del precetto secondario della legge naturale. A secondo delle circostanze il contenuto oggettivo del precetto può variare. Il precetto riguarda ciò che per lo più avviene (quod plerumque accidit) ma patisce eccezioni in circostanze straordinarie. Non è questo il caso degli intrinsece mala. Essi, come Lei osserva giustamente, valgono semper et pro semper. Essi sfuggono a questa prima causa di errore. La seconda causa di errore è contenuta nella natura del sillogismo pratico. La premessa maggiore è inequivoca e certa a priori, la premessa minore è invece empirica e passibile di errore. A questo secondo tipo di errore non si sottrae nemmeno il sillogismo la cui premessa maggiore è una proposizione valida semper et pro semper.

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Ivo Kerže ― Riguardo alla premessa minore empirica nei giudizi pratici non riesco bene a capire in che modo può verificarsi qui un errore nei casi dei divorziati risposati. La premessa maggiore è in questi casi il divieto di adulterio ― «non devo avere relazioni more uxorio con un donna che non è mia moglie» ―, la premessa minore empirica è «questa donna qui, non è mia moglie» Detto ciò domando: secondo Lei esistono persone che confondono la donna con la quale compiono adulterio con la loro moglie? Mi pare di no, o forse in casi di malattia mentale o simili.

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Rocco Buttiglione ― Evidentemente esistono casi di incertezza su quale sia la vera moglie, altrimenti non avrebbero ragione di esistere i tribunali ecclesiastici diocesani, la Sacra Rota e via discorrendo. Un caso evidente a cui si può applicare il riferimento di Amoris lætitia al possibile accesso ai sacramenti per i divorziati risposati è proprio quello della convinzione in coscienza della nullità del primo matrimonio. In questi casi di per sé bisognerebbe adire il tribunale ecclesiastico ma … non tutte le diocesi hanno un tribunale ecclesiastico funzionante, è possibile che testimoni decisivi siano irreperibili o testimonino il falso e che sia quindi impossibile fornire la prova canonica, il giudizio può tardare indefinitamente, è possibile che il giudice si sbagli … I ministri del matrimonio sono i coniugi. Se in essi vi è la volontà di contrarre un vero matrimonio la loro unione realizza il sacramento. Se due divorziati i cui precedenti matrimoni sono nulli si uniscono con una autentica intenzione matrimoniale il loro sarà un autentico matrimonio, anche se illecitamente contratto, proprio come le ordinazioni sacerdotali compiute da un vescovo senza il consenso del Papa sono illecite ma valide. È possibile imporre come pena canonica per il matrimonio illecitamente contratto la separazione? Peggio, si può imporre ad un uomo di abbandonare la donna che egli in coscienza sa ― o crede di sapere ― essere sua moglie per convivere con un’altra che egli invece sa ― o crede di sapere ― non esserlo? La risposta della Summa nel testo del Supplementum, quæstio 45, a. 4 è chiarissima: piuttosto subire la pena canonica o cercare rifugio fra gli infedeli ma non tradire la donna che in coscienza so essere mia moglie.

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Ivo Kerže ― A quanto ne so, però, un matrimonio ― a differenza delle ordinazioni dei ministri in sacris ― se non avviene di fronte ad un rappresentante dell’autorità ecclesiastica, solitamente il parroco, non è soltanto illecito, ma anche invalido. Proprio per questo i matrimoni celebrati nelle comunità della Fraternità sacerdotale di San Pio X non erano validi, fino a quando il Romano Pontefice non ha conferita ai loro sacerdoti questa facoltà nel 2017.

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Rocco Buttiglione ― I ministri del matrimonio sono gli sposi. La presenza del parroco e dei testimoni ha la funzione ― importantissima ― di certificare che di vero matrimonio si tratta ma non attiene alla essenza del sacramento. La Chiesa può, in foro externo, rifiutarsi di riconoscere un matrimonio non canonicamente celebrato ma questa è una disposizione di disciplina ecclesiastica che può per giusta ragione essere derogata. Pensi al caso di scuola di un uomo e di una donna isolati in un paese in cui non ci sono sacerdoti; ed il caso non è tanto di scuola: pensi alla storia drammatica delle chiese clandestine e perseguitate In Giappone, in Corea o in Albania. Il Concilio di Trento ha molto insistito  sulla forma canonica del matrimonio e lo ha fatto per una giusta ragione. Basta leggere William Shakespeare per vedere quanti problemi nascessero dalla “elasticità” delle forme del matrimonio prima del concilio tridentino. Ovviamente il rifiuto senza giusta causa di celebrare il matrimonio nella forma canonica prescritta può costituire colpa grave di disubbidienza alla autorità legittima ed anche dar vita ad una presunzione di invalidità che però, ovviamente, non può essere assoluta,  vale cioè fino a prova contraria. In altre parole il matrimonio celebrato senza il parroco ma con una autentica intentio et affectio coniugalis è vero matrimonio davanti a Dio. L’ordinamento canonico, però, per i suoi fini propri, può rifiutarsi di riconoscerlo. Esso non sa se sia vero matrimonio e pertanto si rifiuta di considerarlo come tale. Più esattamente: il matrimonio sussiste se il contenuto dell’atto di volontà dei coniugi coincide con il contenuto del matrimonio cristiano. Se questo contenuto non è stato accertato nelle forme prescritte dal diritto canonico l’ordinamento canonico non ha una certezza a questo proposito e presume che non vi sia un autentico matrimonio. Di qui i problemi ― fortunatamente superati ― per il riconoscimento dei matrimoni celebrati dai sacerdoti della Fraternità sacerdotale San Pio X.

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Ivo Kerže ― Comunque mi pare che qui abbiamo esulato dal tema della Comunione ai divorziati risposati. Il divorzio presuppone in origine un matrimonio valido. Il caso della nullità di questo matrimonio che Lei ha messo qui in rilievo mi pare un tema diverso.

 

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Rocco Buttiglione ― Non proprio. Il divorzio non presuppone un matrimonio valido ma semplicemente la scelta delle parti di adire il giudice civile invece di quello ecclesiastico. Possono fare questa scelta perché convinti che il giudice ecclesiastico non scioglierebbe il vincolo ma anche perché non credenti o anche semplicemente perché vogliono regolare i loro rapporti economici e per il momento non intendono entrare in una nuova relazione. Accade che più tardi, dopo essersi risposati, alcuni vogliano tornare ai sacramenti. Si presentano allora situazioni ingarbugliate che i tribunali ecclesiastici non sempre sono in grado di risolvere.  Facciamo solo un caso, quello probabilmente più frequente. Due giovani battezzati solo superficialmente evangelizzati contraggono matrimonio. Ogni matrimonio fra battezzati è un sacramento. Perché sia un sacramento, però, basta che le parole della formula matrimoniale siano pronunciate? Oppure occorre che esse siano intese nel senso della  Chiesa Cattolica ― per esempio includendo la volontà di avere dei figli, l’obbligo della fedeltà, l’impegno alla testimonianza reciproca dell’amore di Dio in tutte le circostanze della vita etc … ―. Che succede se la formula è stata pronunciata senza intendere ciò che essa davvero voleva significare? La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede si è occupata del problema ed il suo prefetto, Cardinale Joseph Ratzinger, era incline a ritenere che in quei casi non vi fosse un vero matrimonio ma ritenne che l’argomento dovesse essere ulteriormente approfondito.

 Che fare se in questo, ed in altri casi simili, non fosse possibile produrre la prova canonica della nullità ma il confessore si convincesse non solo che il penitente è convinto in buona fede che il vero matrimonio sia il secondo ma anche che egli con ogni probabilità ha ragione? Ammetterlo alla comunione, dopo avere preso tutte le precauzioni opportune per evitare lo scandalo, sarebbe davvero così sbagliato?

Bisogna ricordare il fatto che la sentenza del tribunale ecclesiastico è meramente dichiarativa. Essa non annulla un matrimonio valido ma dichiara che il matrimonio non è mai stato valido. È possibile che i giudici vengano ingannati e dichiarino nullo un matrimonio che invece è valido? Nonostante tutti gli sforzi e tutta la diligenza è possibile. È possibile che i giudici siano tratti in inganno e dichiarino valido un matrimonio che invece è nullo? È possibile, anzi è ancora più possibile perché il tribunale agisce sulla base di una presunzione di validità del vincolo. In altre parole il tribunale dichiarerà che il vincolo sussiste in tutti i casi dubbi nei quali non c’è la prova della invalidità e nemmeno quella della validità. Ancora più possibile è che gli interessati non abbiano la possibilità di adire il tribunale ecclesiastico.

Esistono dei casi ― pochi o molti non so ― nei quali il divorziato risposato può avere delle buone ragioni da raccontare al confessore per chiedere di potere essere ammesso alla comunione, nel corso di un cammino di Penitenza e di riavvicinamento alla fede.

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17 marzo 2018

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* Nato a Trieste nel 1976. Essendo di nazionalità slovena intraprese gli studi alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Lubiana dove ha conseguito la laurea nel 2000, il magistero nel 2001 ed il dottorato nel 2007 in filosofia concentrandosi sopratutto sulla filosofia tomista. Per lunghi anni è stato collaboratore di Tretji dan che è una delle principali riviste dedicate al pensiero cattolico in Slovenia. Nel 2008 fu pubblicata presso la collana Claritas la sua prima opera monografica dal titolo Začetek slovenske filozofije (L’inizio della filosofia slovena). Attualmente insegna filosofia al liceo diocesano di Maribor. In Italia collabora dal 2014 con la rivista Sensus Communis diretta da Antonio Livi.

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UNA NOTA FINALE

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Giovanni Cavalcoli, O.P. e Ariel S. Levi di Gualdo

Padre Giovanni Cavalcoli, O.P. e io, ormai noti come i Padri de L’Isola di Patmos, ringraziamo il filosofo anziano ed il filosofo giovane per questo loro colloquio: l’On. Prof. Rocco Buttiglione e il Dott. Ivo Kerže, perché il loro è un colloquio che ci rallegra e che ci onora profondamente.

Questo dialogo rappresenta infatti il proficuo scambio che per secoli ha caratterizzato le migliori e più feconde disputationes theologicæ, prima che si giungesse ai tempi attuali nei quali si è scivolati nella peggiore umoralità farisaica in nome della difesa di una verità che per molti è tale solo perché soggettiva, il tutto manifestato attraverso quel iocentrismo che si è sostituito ― come da anni vado lamentando ―, al cristocentrismo. Il tutto procede a spron battuto soprattutto per mezzo di vecchie eresie di ritorno, oggi purtroppo più attuali di ieri e delle quali parla il recente testo della Placuit Deo, commentato pochi giorni dopo la sua uscita da Padre Giovanni Cavalcoli e da me [vedere QUI].

Proprio come spiegavo questa mattina a Roma alle Suore dello Spirito Santo nella meditazione al Santo Vangelo del giorno [cf. Gv 7, 40-53]: Se scribi e farisei non credono, nessuno allora deve credere. Così, la loro non-fede, diviene certezza di verità che Cristo Gesù non è da Dio, mentre invece egli è proprio θεὸν εκ θεοῦ, φῶς ἐκ φωτός, Θεὸν ἀληθινὸν ἐκ Θεοῦ [Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero].

È davvero terribile pensare di poter affermare, come i farisei narrati in questo brano del Santo Vangelo [cf. Gv 7, 40-53] che se io non credo, allora Cristo Signore è falso e che pertanto neppure tu, devi credere. Il tutto sulla base del fatto che la mia fede viene elevata a certezza per la fede tua. Se per ciò io credo, tu credi, ma se io non credo, tu non devi credere, perché è da me che promana quella certezza che regge la verità.

Ricordo sempre un articolo scritto da Padre Giovanni Cavalcoli alcuni anni fa, nel quale egli dedica parole severe alla superbia peggiore: la superbia intellettuale, che non a caso egli definisce come «apologia della superbia» [vedere QUI,  QUI].

Questo agire è la orrenda bestemmia contro lo Spirito Santo, quella per la quale Cristo Dio ammonisce:

«Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro» [cf. Mt 12, 31-32]

La mancanza di remissione è dovuta al fatto che questo genere di bestemmia non solo chiude, perché la conseguenza di siffatta chiusura è la distruzione di ogni azione di grazia. Per questo, la Chiesa che da Cristo Dio ha ricevuto il mandato di assolvere dai peccati i peccatori [cf. Gv 20, 19-31], non ha facoltà di concedere remissione per il grave peccato contro lo Spirito Santo dell’impenitente totalmente refrattario a qualsiasi forma di pentimento ed ostinato nel peccato [cf. Sant’Agostino, discorso n. 71 sulla bestemmia contro lo Spirito Santo, testo in italiano QUI].

I peccati contro lo Spirito Santo, noti come «bestemmia contro lo Spirito», sono sei, ed è bene forse ricordare ch’essi sono: l’impugnazione della verità conosciuta e l’invidia dei doni di grazia, ai quali si aggiunge il tentativo di distruggere i doni di grazia altrui; la disperazione della salvezza e la presunzione di salvarsi senza merito; l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale.

Oggi, la «bestemmia contro lo Spirito», a parere mio ― e beninteso sia, è un parere tanto modesto quanto personale ―, non si manifesta più in modo per così dire “classico”, ma in forme parecchio più raffinate e gravi, per esempio attraverso quel processo d’inversione diabolica mediante il quale il bene diviene male ed il male bene, il vizio virtù e la virtù vizio, la verità rivelata eterodossia e l’eterodossia l’unica autentica verità rivelata. Tutto questo conduce inevitabilmente a vivere ostinatamente nella bestemmia, nel peccato sino alla morte; quello stato terribile di peccato che San Tommaso d’Aquino indica come «ostinazione nel peccato» [Summa Theologiæ, II-II, 14, 2].

I nostri due filosofi, dialogando hanno mostrato il desiderio profondo che li spinge a cercare la verità, mai però a imporre la propria verità, perché la verità ― e con essa la grazia ed il perdono di Dio ―, rimane racchiusa nel mistero imperscrutabile del cuore di Colui al quale acclamiamo: Πιστεύομεν εἰς ἕνα Θεόν, Πατέρα Παντοκράτορα, ποιητὴν οὐρανοῦ καὶ γῆς, ὁρατῶν τε πάντων καὶ ἀοράτων [Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili]. 

Chi serve veramente la verità, cercando di farsi strumento di verità, non si distaccherà mai un istante della propria vita dal cero pasquale, che è Cristo luce del mondo dinanzi al quale nessuno di noi canta: “Oh, mio Dio, come sono io veritiero!”. Tutt’altro. Dinanzi a Cristo luce del mondo noi inneggiamo al nostro peccato sulla ispirazione intuitiva di San Tommaso d’Aquino: «O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem» [O felice colpa, che ci fece meritare un così grande Redentore]. Perché «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» [Rm 5, 20]. 

Tutto questo è molto chiaro ai nostri due filosofi, non lo è invece, purtroppo, ai nuovi affetti dall’eresia pelagiana di ritorno, per la cui conversione non cesseremo mai di pregare, affinché possano uscire dalla dimensione iocentrica per penetrare quella dimensione cristocentrica che ci conduce all’eterno mistero della salvezza.

Roma, 17 marzo 2018

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Salvezza e perdizione. La Placuit Deo è la Pascendi Dominici Gregis del Sommo Pontefice Francesco I

SALVEZZA E PERDIZIONE. LA PLACUIT DEO È LA PASCENDI DOMINICI GREGIS DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO I

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Non sembri incongruo o azzardato paragonare la Placuit Deo alla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. Uno potrebbe osservare che esse si differenziano profondamente, perché la seconda è severa, mentre la prima è indulgente. Eppure, al di là del mutato clima storico, tra i due documenti c’è una continuità: Pio X dovette affrontare il problema modernistico. Il Pontefice regnante ha dovuto riprendere in mano la questione, perché il modernismo dei tempi del suo predecessore Pio X è, come disse il Maritain nel 1966, un «modesto raffreddore da fieno rispetto alla febbre neo-modernista» dei nostri giorni.

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Autori
Giovanni Cavalcoli, O.P – Ariel S. Levi di Gualdo

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il Sommo Pontefice Francesco I sulla cattedra episcopale di San Giovanni in Laterano

La Lettera Placuit Deo della Congregazione per la Dottrina della Fede [vedere testo QUI], tratta di un tema di estrema importanza, considerando che in questi ultimi decenni ― più precisamente dalla fine del Concilio Vaticano II ―, sono venute alla luce nuove teorie, ma anche molte eresie, non ancora vinte, per cui, questo intervento della Chiesa, è veramente provvidenziale, illuminante, confortante e consolante per tutti i cattolici desiderosi di veder trionfare la sana dottrina e liberate le anime dall’insidia dell’errore, che è di ostacolo sulla via della salvezza.

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Questo testo va letto in linea di continuità con un altro importante documento risalente a diciotto anni fa, la Dichiarazione Dominus Jesus [vedere testo QUI], voluta dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II e firmata all’epoca dall’allora prefetto di quella stessa Congregazione, Cardinale Joseph Ratzinger. Cominciamo allora col dire che la salvezza, in generale, è la condizione di felicità di chi ha scampato un pericolo, soprattutto se pericolo di morte; ed è l’atto col quale il salvatore sottrae al pericolo colui al quale dà salvezza. Possiamo salvarci da soli, se la difficoltà non è eccessiva; ma nelle difficoltà più gravi abbiamo bisogno di qualcuno più capace di noi, che ci salvi, facendo noi eventualmente, dietro suoi ordini, se ne abbiamo le forze, ciò che possiamo e dobbiamo fare per collaborare all’azione del salvatore o soccorritore. La dinamica della salvezza che ci viene dagli uomini è figura e immagine di quella che ci viene da Dio.

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Nelle religioni l’uomo ha coscienza di trovarsi in una condizione di pericolo, di miseria, di schiavitù, di sofferenza, di peccaminosità, di inimicizia con Dio, che gli fa desiderare che Dio, suo benevolo Signore, abbia pietà di lui e lo soccorra. Si sente però in debito con Dio per le colpe commesse. Ha così con Dio un conto aperto.  Considera le pene della vita come castigo di tali colpe ed offre a Dio sacrifici in espiazione e riparazione, sperando di placarLo, di ottenere perdono e misericordia e di essere sollevato e salvato dalle proprie miserie, financo dalla morte.

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Le religioni hanno consapevolezza che, per ottenere il conseguimento delle massime aspirazioni – unione con Dio, santità, libertà dal peccato e dalla morte vita e felicità eterna – l’uomo deve bensì obbedire a Dio, ma soprattutto deve implorare da Dio questa salvezza. Tutti, salvo che non siano dei perfetti superbi, sentono in vari modi il bisogno della salvezza, ma non tutti sanno in che consiste e come si ottiene. Molti, come nota questa Lettera, per salvezza intendono soltanto salvezza dai mali fisici o dalla miseria materiale o tutt’al più essere liberati da un tirannide politica o sociale. Non si rendono conto, o non vogliono saperne che per raggiungere la vera felicità, hanno bisogno, ed hanno se lo vogliono la possibilità di essere liberati per opera di Dio dal peccato, dalla schiavitù del demonio e della morte.

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Questo testo, più breve della Dominus Jesus che l’ha preceduto,  colpisce per il modo in cui allude a molte eresie di oggi, od a quella che potremmo definire come le stagione del ritorno delle grandi eresie. Non sono fatti i nomi, ma chiunque voglia intendere, coglierà sin dalle prime righe a chi viene fatto riferimento. Tentiamo allora, considerando le idee esposte, di comprendere a quali correnti, tendenze, scuole o autori il documento può far riferimento, soprattutto a quegli autori che sono già stati censurati dalla Chiesa o dai migliori teologi in tempi antichi o recenti.

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TEMI GIÀ TRATTATI DAL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO I

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La Placuit Deo si riferisce, senza citarlo per esteso, al discorso tenuto dal Sommo Pontefice a Firenze ai rappresentanti del V° Convegno nazionale della Chiesa italiana, il 10 novembre 2015. Un discorso che conviene ricordare in questo contesto e nel quale sono presentate due tendenze come tentazioni all’interno della Chiesa. Una, è la tentazione pelagiana, che

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«ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo. La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività».

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Rimedio proposto dal Sommo Pontefice a questa mentalità rigida e chiusa è il «radicarsi in Cristo» e lasciarsi condurre dalla «leggerezza del soffio dello Spirito», quello Spirito che «rinnova la faccia della terra». Questo Spirito ci impedisce di essere troppo sicuri delle nostre idee e troppo coscienti della nostra forza. Rende la nostra fedeltà creativa e ci dona le ali che ci sollevano al di sopra le misure e i calcoli umani, per farci spaziare e volare negli orizzonti illimitati della santità. E in questi passi, chiunque presta profonda attenzione coglierà il respiro di alcuni degli elementi fondamentali della Enciclica Fides et ratio del Santo Pontefice Giovanni Paolo II. Così come non è difficile riconoscere nelle parole del Sommo Pontefice il problema del lefebvrismo, con il suo unilaterale richiamo alla Sacra Tradizione, legato a una forma mentis indubbiamente e giustamente preoccupata dell’immutabilità e della certezza del dogma, ma chiusa al progresso dottrinale compiuto dal Concilio Vaticano II e per conseguenza al Magistero dei Pontefici seguenti fino all’attuale, che essa accusa di eresia modernistica. Che il post-concilio trabocchi purtroppo Modernismo, è un fatto non facilmente passibile di smentita, ma questo problema oggettivo, come noi Padri de L’Isola di Patmos abbiamo messo sempre in luce, non deve indurre a un errore davvero venefico, che poi è il seguente: affermare che le molte derive eterodosse di stampo perlopiù modernistico, del post-concilio, sia una conseguenza “ovvia” e del tutto “naturale” del Concilio Vaticano II. Infatti, affermare questo, oltre che falso, è invero empio.

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Nella mente del lefebvriano il processo della deduzione dogmatica si è bloccato al Magistero del Venerabile Pontefice Pio XII, per cui ha cessato di avanzare in nome di una fedeltà alla Tradizione e della conservazione del deposito della fede, delle quali la prima, agli occhi del lefebvriano, sarebbe stata alterata, mentre la seconda sarebbe stata dismessa. Ciò equivale a dire che nel passaggio dall’insegnamento dogmatico di Pio XII a quello del Concilio, questo non sarebbe stato in continuità, ma avrebbe rotto con quello, in altre parole lo avrebbe smentito o falsificato.

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Il lefebvrismo distingue certamente la natura dalla grazia, ma punta eccessivamente sulle opere, sui meriti e sulla forza della ragione e della volontà, correndo il rischio del formalismo, del legalismo, del ritualismo, dell’autocompiacimento farisaico e del rigorismo morale, quasi volendo disciplinare con dovizia l’opera stessa della grazia e lasciando poco spazio all’iniziativa dello Spirito. Il suo conservatorismo conserva ciò che è superato e respinge come falsità la novità evangelica dello Spirito, scambiando il rinnovamento per infedeltà; sa che la grazia completa la natura, ma non sa che la natura è anticipata dalla grazia. Ora un’idea di questo genere suppone e ammette la possibilità che il Magistero pontificio e conciliare cada nell’eresia, il che è con ciò stesso eretico, perché significherebbe negar fede alla promessa di Cristo fatta a Pietro che le “porte dell’inferno”, ossia il potere delle tenebre non potrà distruggere la Chiesa. Ma negar fede alle promesse di Cristo è eretico. Dunque, il credere che il Concilio sia caduto nell’eresia è a sua volta eresia.

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PELAGIANI E GNOSTICI

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La Placuit Deo denuncia coloro che credono di poter raggiungere una condizione divina con le proprie forze, come se l’uomo disponesse da sé in modo innato di un potere divino o perché credono che la grazia divina sia premio dei loro sforzi ― i pelagiani ― o perchè credono di possedere da sé un sapere assoluto e sovrumano, tale ― gli gnostici ―, da conoscere dà sé la via di una salvezza sublime, che consenta loro di conseguire  un potere e una libertà divini. Per costoro il loro corpo e la natura umana sono manipolabili o plasmabili a loro piacimento, in un continuo divenire storico, senza che abbiano alcun obbligo di sottostare ad una legge morale immutabile stabilita da un Dio trascendente e personale, giacché Dio, per loro, è solo il  fondo assoluto del loro io. Ciò che conta, per loro, è la loro libera volontà; essa sola è buona e divina; il corpo e la materia sono apparenze effimere; le loro leggi sono viste come ostacoli alla libertà, per cui il soggetto si sente libero di operare sul corpo e sull’uomo secondo il principio epicureo del piacere o quello nietzschiano del dominio.

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La Placuit Deo nota che questa divisione degli eretici in pelagiani e gnostici, propria di queste antiche eresie, risponde a deviazioni ricorrenti del Cristianesimo, per cui ha anche oggi un riscontro nelle eresie moderne, senza ovviamente coincidere pienamente con esse. Pensiamo per esempio a fenomeni come il luteranesimo, il modernismo, il rahnerismo, il lefebvrismo e la Teologia della Liberazione. I primi quattro possono esser ricondotti allo gnosticismo; l’ultimo al pelagianesimo. Ciò risulta chiaro, se facciamo riferimento alle parole usate dalla Placuit Deo per descrivere il pelagianesimo e lo gnosticismo contemporanei.

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Dice essa infatti:

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«Da una parte, l’individualismo centrato sul soggetto autonomo tende a vedere l’uomo come essere, la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze. In questa visione, la figura di Cristo corrisponde più ad un modello che ispira azioni generose, con le sue parole e i suoi gesti, che non a Colui che trasforma la condizione umana, incorporandoci in una nuova esistenza riconciliata con il Padre e tra noi mediante lo Spirito [cf. 2 Cor 5,19; Ef 2,18]. L’individualismo centrato sul soggetto autonomo tende a vedere l’uomo come essere la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze».

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Questo è il principio della gnoseologia cartesiana del cogito, che nei secoli seguenti porterà a Kant e all’idealismo tedesco, dal quale sorge, per reazione, il materialismo marxista e quello evoluzionista del XIX secolo. Qui riconosciamo l’impostazione della teologia della liberazione, influenzata da Marx, o l’evoluzionismo antropologico materialista di Teilhard de Chardin influenzato da Darwin, nei quali l’uomo, collettivamente o personalmente, sale sulla scala dell’evoluzione fino a Cristo, il quale però non appare come Redentore, ma solo come liberatore, modello di somma perfezione umana personale e sociale.

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Continua la Placuit Deo:

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«D’altra parte, si diffonde la visione di una salvezza meramente interiore, la quale suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento, di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre relazioni con gli altri e con il mondo creato. Con questa prospettiva diviene difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra storia, per noi uomini e per la nostra salvezza».

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Osserviamo che la prospettiva di una salvezza «meramente interiore» è quella luterana, la quale, congiunta col cogito cartesiano, produrrà nel XIX secolo l’idealismo soggettivistico e panteista tedesco. Si tratta infatti del soggetto che, ritenendosi già illuminato da Dio, respinge la mediazione dei sensi ― Cartesio ― o della Chiesa ― Lutero ―. La Lettera vien poi meglio compresa alla luce di quanto il Sommo Pontefice ha detto a Firenze sullo gnosticismo, vale a dire che esso

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«porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [Evangelii gaudium, 94]. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’Incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo».

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La Placuit Deo spiega così le parole del Sommo Pontefice:

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«Si pretende così di liberare la persona dal corpo e dal cosmo materiale, nei quali non si scoprono più le tracce della mano provvidente del Creatore, ma si vede solo una realtà priva di senso, aliena dall’identità ultima della persona, e manipolabile secondo gli interessi dell’uomo» [n.3].

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Lo gnosticismo, per il Sommo Pontefice Francesco I, per quanto affermi un’interiorità anche profonda, è un pensare chiuso su se stesso e quindi sterile. È il pensare dell’idealista. «Dice e non fa» [Mt 23,3], come Cristo ci avverte dei farisei. Ma l’idealista ― qui lo gnostico ― non produce buoni frutti, non tanto perché non agisca o non si dia da fare o si adagi nella pigrizia in una specie di quietismo,tutt’altro, egli, senza che abbracci l’idealismo etico di Fichte, è attivissimo, ma solo per i suoi interessi.

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Se un Giovanni Gentile dice che tutto è pensiero, non nega l’azione, anzi le dà tale importanza, che il soggetto pone se stesso nell’essere [autoctisi]. Rahner arriva a dire che il soggetto determina con la sua volontà la sua propria essenza o la sua propria natura. Ma proprio questo agire staccato dall’attenzione limpida ed onesta alla realtà divina, alla realtà della natura umana e della legge morale oggettiva, è alla fine è un non-agire, o un agire insensato, e comunque un disobbedire alla legge divina. Così l’idealista, alla fine, non afferra la realtà, la «cosa in sé» ― lo dice egli stesso con Kant ―; non afferra, direbbe il Beato Antonio Rosmini «né l’essere reale, né l’essere morale» e neppure il vero «essere ideale», ma solo le sue false idee ed immaginazioni, ma, come nota il Sommo Pontefice, resta staccato dal reale, col rischio di cadere nel nichilismo o nel solipsismo.

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La pretesa esorbitante dello gnostico, quella che il reale si identifichi con la sua idea infallibile del reale e che l’essere, anche quello divino, coincida col suo pensiero, è punita col distacco dalla realtà, un distacco a volte davvero tragico [1]. Dice infatti il Sommo Pontefice:

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«l’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento» [2].

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La realtà, per l’idealista ― vedi per esempio qui Husserl ―, non ha senso in sé, da sé e di per sé, un senso preciso ed intellegibile, dato dal Creatore, un senso indipendente dall’uomo e che l’uomo deve scoprire, rispettare e, se si tratta della legge morale, mettere in pratica; ma l’uomo pretende, con le sue categorie a priori, di esser lui a dar senso ad una realtà priva di senso. E qui si vede il disprezzo gnostico per il corpo e per il reale in generale. Il corpo, per lo gnostico, non è buono in sé, ma sta a lui, con la sua libera volontà, in forza della sua divina interiorità, determinare a suo piacimento il bene e il male riguardo alla vita fisica e sessuale, sostituendosi a Dio nel legiferare sulla condotta da tenere e sostituendo, con la sua violenza e la sua libidine, le sagge inclinazioni e leggi poste dal Creatore nella natura umana.

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UNA PROVVIDENZIALE NOVITÀ NELLA STORIA DEL MAGISTERO PONTIFICIO

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La cosa notevole in queste parole, un fatto nuovo che non esitiamo a considerare di portata storica nella storia del Magistero pontificio, è che per la prima volta un Sommo Pontefice condanna senza mezzi termini lo gnosticismo chiamandolo col suo nome; con quel nome che da tempo era stato chiamato dagli studiosi, i quali ne avevano segnalato il ritorno pericoloso, ma senza incontrare rispondenza nel Magistero pontificio. Categorie usate dai Papi precedenti a partire dal XIX secolo, che maggiormente possono essere avvicinate allo gnosticismo, erano solo quelle di razionalismo, idealismo e panteismo. I Pontefici dei tempi dello gnosticismo storico certo si accorsero del pericolo e i primi teologi lo combatterono, pur senza lasciarci espliciti documenti di condanna, limitandosi a qualificarlo nel suo complesso come effetto della superbia intellettuale, il che poi costituisce la sostanza o lo spirito dello gnosticismo, il quale appare certamente come cedimento alla tentazione diabolica genesiaca di voler «essere come Dio». Così, il Santo Pontefice Pio X, nella sua Pascendi Dominici Gregis qualificherà come effetto della superbia il Modernismo, che può considerarsi senza dubbio come il rinato gnosticismo dei nostri tempi, se mai lo gnosticismo ha cessato di agire più o meno apertamente nella storia del pensiero e delle eresie. Che cosa è infatti l’eresia, se non l’effetto della superbia e, in tal senso, dello gnosticismo? E chi è l’eretico, se non colui che, credendo di possedere il sapere supremo, è convinto di conoscere Cristo meglio del Papa o contro il Papa? O di conoscere Dio meglio di Gesù Cristo, come Severino ed Heidegger? O come Maometto?

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Esistono molte forme di gnosticismo, dove lo gnostico si erige a giudice del testo sacro della propria religione. Così esiste uno gnosticismo ebraico [3] e l’ebreo Spinoza o la Kabbalà pretesero di conoscere Dio meglio della Bibbia; Averroè pretese di conoscere Dio meglio del Corano; Budda pretese di conoscere il Nirvana meglio dei testi sacri del brahmanesimo; Giordano Bruno [4] volle andare dal Romano Pontefice per convincerlo che la sua dottrina magico-ermetica era migliore del cristianesimo per la salvezza dell’uomo, ma, come sappiamo, gli andò male; la massoneria pretende di possedere il sapere supremo meglio di tutte le religioni [5], la teosofa Helena Blavatsky, ispiratrice delle dottrine esoteriche del nazismo [6], dette ad intendere a milioni persone di poter insegnare lei, con la teosofia [7], la via della salvezza eterna meglio di quanto aveva potuto  fare Gesù Cristo.

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I CARATTERI DELLO GNOSTICISMO

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Lo gnosticismo, infatti, è la pretesa di conoscere Dio più e meglio di quanto all’uomo sia concesso di conoscere e, in campo cristiano, è la pretesa di conoscere Cristo più e meglio di quanto ci è insegnato dal Magistero della Chiesa. A esso si contrappone, quasi opposto estremismo, l’agnosticismo, il quale, sotto pretesto della debolezza dell’umana ragione e coprendosi della veste di una falsa umiltà, si  rifiuta di accogliere quanto la ragione da sé può conoscere su Dio e quanto su Dio ci è rivelato da Cristo mediante il Magistero della Chiesa. Lo gnostico non ha bisogno di pervenire a sapere che Dio esiste e chi è Dio e come opera partendo dall’esperienza delle cose o perché istruito da un magistero umano o ecclesiastico, perché egli ritiene di sapere già da sé tutto ciò, a priori, partendo dalla sua semplice autocoscienza, giacché egli crede che Dio non esiste indipendentemente da questa autocoscienza, ma è precisamente posto da essa a-prioricamente. Per questo, lo gnostico, ritenendosi da sé e per conto proprio in possesso del sapere supremo o della Scienza assoluta — appunto la Gnosi —, eventualmente per mezzo del concetto — Hegel — [8], si considera autorizzato e capace di giudicare o censurare qualunque dottrina su Dio, compresa quella della Chiesa, e quindi di respingerla come falsa, se non corrisponde alla sua idea di Dio.

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La questione dello gnosticismo antico ha avuto un forte incremento nel secolo scorso, allorché furono scoperti documenti gnostici. Si è allora molto discusso su cosa si dovesse intendere per ”gnosticismo”, un termine che deriva dal greco gnosis=scienza o conoscenza. Furono chiamati ― o chiamavano se stessi ― “gnostici” [gnostikòi] un gruppo di teologi del II-III secolo, i quali, imbevuti di dottrine pagane, soprattutto platoniche e di mitologia religiosa, erano particolarmente interessati al problema della salvezza, che interpretavano come esperienza interiore di un Dio ineffabile, mentre l’azione e il mondo esterno materiale appariva a loro come principio  del male e quindi estraneo all’esperienza salvifica come esperienza mistica di Dio e conoscenza suprema ― gnosis ―, segreta ed esoterica, per pochi eletti, della verità. Secondo loro l’etica e quindi la salvezza si esauriva nell’orizzonte di questa esperienza interiore soggettiva come autocoscienza gnostica, di uno spirito estraneo ed ostile alla materia. Sicché per loro non esisteva un’etica vincolante, comandata da Dio, nei confronti del corpo, della società e del mondo, vane  apparenze rimesse alla loro  libera scelta, tanto più che in fin dei conti la libertà per loro era solo quella intima dello spirito pervaso da Dio, liberi dalle pastoie del corpo. Certo non disdegnavano le dissolutezze della carne, convinti che al riguardo del corpo non vi fossero comandi divini, anche se accadeva che passassero all’eccesso contrario del rigorismo, poiché vedevano il corpo come il  principio del male. Questa specie di gnosticismo ricomparve nel sud della Francia con l’eresia dei Catari nel XIII secolo [9].

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I primi teologi cristiani si accorsero dell’importanza della conoscenza di Dio nella vita cristiana, cosa così legata al valore della verità, ma lo fecero senza esagerare la potenza e la portata della conoscenza, collegata sapientemente con i doveri della vita cristiana ed inquadrata nel superiore ambito della carità, in comunione con la Chiesa. La vera gnosi poteva e doveva essere accettata e stimata, ma doveva essere respinta quella falsa. Fu così che mentre Clemente Alessandrino poteva definire il cristiano come uno ”gnostico”, Sant’Ireneo di Lione si dedicava alla confutazione della falsa gnosi. Tuttavia, di là da questa categorizzazione storica, che denomina come gnosticismo un fenomeno circoscritto nel tempo, la Lettera suggerisce anche un senso più ampio come perenne atteggiamento dello spirito, che si riassume in sostanza nella superbia intellettuale, sicché può esistere tanto uno gnosticismo spiritualistico quanto uno materialistico, tanto uno dualistico manicheo, quanto uno monistico panteista, tanto uno lassista, quanto uno rigorista.

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Merito di una rimessa in luce della questione dello gnosticismo in rapporto alla modernità, va nel secolo scorso al tedesco Hans Jonas [10]. Altri, come Giovanni Filoramo, hanno evidenziato la tendenza panteistica della gnosi [11]. Emanuele Samek Lodovici ha mostrato l’azione dissolvente dello gnosticismo nel pensiero contemporaneo. Gli Atti del convegno Phénoménlogie, gnose, métaphyique, tenutosi alla Sorbona nel 1997, curati da Natalie Depraz e Jean-François Marquet [12], mostrano lo gnosticismo di Schelling e di Husserl.

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LO GNOSTICISMO CONTEMPORANEO

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Per comprendere la sostanza di queste parole del Sommo Pontefice, occorre focalizzare e congiungere le sue seguenti espressioni:

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«Un certo neo-gnosticismo, dal canto suo, presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo» [n.3] e «una fede rinchiusa nel soggettivismo, … dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [Evangelii Gaudium, n. 94].

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Qui la Placuit Deo si riferisce al ritorno di modernismo idealista-panteista originato da Hegel, che trova una notevole espressione nella teologia di Karl Rahner, per il quale l’essere è l’essere pensato, per cui tutto il reale, compreso Dio, è un pensato immanente nell’autocoscienza di origine cartesiana. Tutto è nell’io, tutto è dall’io e niente fuori dell’io. Alla concezione idealistica della conoscenza e della coscienza, che comporta il primato del pensiero e dell’idea, ossia del soggetto, sull’essere e sul reale, ossia sull’oggetto, il Pontefice nella Evangelii gaudium contrappone la concezione realistica biblico-tomista del «primato della realtà sull’idea» [n. 231], che comporta la adaequatio intellectus et rei e quindi la soggezione del pensiero umano all’essere divino. Ciò assicura una corretta antropologia e una sana morale, fondata sulla legge naturale universale ed immutabile.

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La Placuit Deo viene quindi a condannare la gnoseologia storicistica del Cardinale Walter Kasper[13], per il quale il soggetto, nella sua storicità, determina l’oggetto, che per conseguenza muta col mutare del soggetto. In tal modo il mutamento tocca, come già in Hegel, l’essenza della verità, del dogma, della legge naturale e della natura divina; e queste tesi, lo ricordiamo, sono già state condannate dalla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. E colpisce qui altresì la concezione soggettivistica ed idealista della coscienza del Padre Arturo Sosa, che abbiamo già confutato su L’Isola di Patmos [cf. QUI]. In conformità a tale concezione la coscienza, ovvero l’idea, non ha l’obbligo di adeguarsi al reale, in modo assoluto e in ogni caso; e quindi per esempio ad una legge morale precisa, oggettiva, universale, immutabile, ma si regola su se stessa.

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Tornando al testo della Placuit Deo, si afferma che

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 «sia l’individualismo neo-pelagiano che il disprezzo neo-gnostico del corpo sfigurano la confessione di fede in Cristo, Salvatore unico e universale» [n.4] e «contraddicono anche l’economia sacramentale tramite la quale Dio ha voluto salvare la persona umana» [n.13]. «Il luogo dove riceviamo la salvezza portata da Gesù è la Chiesa» [n.12]: comprendere «questa mediazione salvifica della Chiesa è un aiuto essenziale per superare ogni tendenza riduzionista». [ibidem].  La salvezza «non si ottiene con le sole forze individuali, come vorrebbe il neo-pelagianesimo, ma attraverso i rapporti che nascono dal Figlio di Dio incarnato e che formano la comunione della Chiesa» [ibidem]. Inoltre, contrariamente alla visione neo-gnostica di «una salvezza meramente interiore»,  la Chiesa «è una comunità visibile: in essa tocchiamo la carne di Gesù, in modo singolare nei fratelli più poveri e sofferenti» [ibidem] attraverso «le opere di misericordia corporali e spirituali» [n.14].

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 C’È ANCHE L’AGNOSTICISMO

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Esiste però anche una forma di gnosticismo agnostico. Non sembri, questa, una contraddizione, quindi spieghiamo in tal senso che si tratta della pretesa di possedere un’esperienza immediata di Dio in modo atematico, preconcettuale, autocoscienziale ed apriorico prima ed indipendentemente dall’esperienza delle cose e dalla conoscenza concettuale di Dio, sia quella filosofica che quella dogmatica, trasmessa dalla Chiesa, la quale esperienza non esprime intellettualmente il contenuto della stessa esperienza originaria di Dio, ma ne è un derivato nell’ambito dell’immaginazione o simbologia emotiva e creativa. Pertanto non si ha qui una conoscenza di Dio concettuale vera, oggettiva, universale, certa ed immutabile, che produca una fides, una sola verità salvifica uguale per tutti e per sempre, ma una molteplicità di ”fedi”, ossia di opinioni soggettive su Dio, relative e mutevoli, tutte ugualmente vere, anche se in contraddizione fra loro, perché la verità non è ciò che è in sé, indipendentemente da me, non è universale, è ma ciò che appare a me e che decido io. Inutile dire che questa è una ereticale vanificazione del fondamento di fede «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» [cf. Ef 4, 4-6]. E questo poco prima descritto è lo gnosticismo rahneriano, gnostico e ad un tempo agnostico.  Gnosticismo, per la pretesa dell’esperienza apriorica “trascendentale” di Dio, per la quale Dio appare addirittura come «orizzonte ultimo della auto-trascendenza umana». Altro che pelagianesimo: qui siamo proprio nel panteismo!

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Agnostico, perché la verità su Dio non si coglie nel concetto, anche se metafisico, analogico o trascendentale, e quindi nel dogma, ma solo in quell’esperienza di per sé ineffabile e quindi inesprimibile. Dio, quindi, per Rahner, è “Mistero assoluto”, non relativo a ciò che per noi di Dio è ignoto e trascende la finitezza della nostra comprensione, giacché è chiaro che Dio, in quanto ci è rivelato da Cristo per il tramite della Chiesa, non ci è ignoto, non ci è misterioso, ma Lo conosciamo nei concetti e nelle formule dogmatiche.

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Per Rahner, invece, noi non possiamo distinguere in Dio ciò che ci è noto ― per Rivelazione ― da ciò che ci è ignoto e ci trascende per l’infinità dell’Essenza divina. Ma Dio è assolutamente ignoto al concetto, proprio come l’Agnoston degli gnostici antichi; quell’agnosticismo, che il Santo Pontefice Pio X, nella Pascendi Dominici Gregis condanna riferendolo al «Inconoscibile».

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Il pelagianesimo è invece quella concezione del rapporto tra le opere umane e la grazia, per la quale la grazia è semplicemente l’aiuto che Dio dà all’uomo per il compimento del bene, ed è il perfezionamento finale, certo, soprannaturale, concesso da Dio, agli sforzi ed alle opere della ragione e della volontà umane. Insomma la grazia, per il pelagianesimo, è il compimento finale della autotrascendenza umana, la quale che perviene al culmine delle sue possibilità. Questa idea si trova anche in Rahner, il quale, pertanto, sotto questo aspetto, si può considerare pelagiano. Nel pelagianesimo, quindi, come è noto, l’iniziativa e l’inizio della salvezza non viene da Dio, ma dall’uomo e per merito umano. La grazia completa e premia  l’opera dell’uomo. Abbiamo dunque la grazia conseguente, ma non la grazia preveniente. C’è la grazia cooperante con l’opera dell’uomo, ma non la grazia operante, che muove l’uomo alla salvezza e lo salva.

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Il Sommo Pontefice, nella Evangelii gaudium, così descrive il neo-pelagianesimo, indicandolo come

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«autoreferenziale di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri, perché osservano determinate norme o perché irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. E’ una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare, che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri e invece di facilitare l’accesso alla grazia, si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi» ― ossia neognosticismo e neopelagianesimo ― «sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico» [n.94].

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Non è difficile rintracciare in questa descrizione i lefebvriani. Tuttavia, non esiste solo un pelagianesimo lefebvriano, ma ce n’è anche uno modernista, come per esempio quello di Rahner. Infatti, come abbiamo visto, caratteristica generale del pelagianismo è l’eccessivo affidamento sulle proprie forze, che porta ad intendere  la grazia non come aggiunta perfettiva alla natura e superamento gratuito dei limiti della natura, ma come termine ultimo, dovuto alla natura, dello sviluppo inarrestabile dell’orientamento necessario, esistenziale ed essenziale a Dio, proprio di ogni uomo. Il lefebvriano si irrigidisce nel conservare; il rahneriano si irrigidisce nel cambiare. L’uno e l’altro sono certi delle proprie idee più di quanto Cristo fosse certo delle sue.

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Rahner, in particolare, concepisce il rapporto natura-grazia come  trascendimento o sviluppo storico necessario di ogni agire umano, fino a giungere alla vita di grazia, senza soluzione di continuità. Siccome per Rahner la natura umana è illimitata, le è facile passare il limite e vivere in grazia. Confonde la disponibilità della natura alla grazia ― potentia oboedientialis ― con il potere attivo dell’uomo di realizzare se stesso, e con la passività o plasmabilità della natura corporea nei confronti della sua volontà [14].

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Al polo opposto del pelagianesimo [sola natura], sta lo gnosticismo, nel quale la natura è assorbita dalla grazia [sola gratia]. Qui la Lettera sottende evidentemente l’eresia opposta a quella razionalista di Pelagio, ossia quella fideista di Lutero, il quale ammette bensì la grazia preveniente ed operante, ma non quella conseguente e cooperante. Pelagio esagera il merito, Lutero lo nega. Lutero, infatti, come è noto, esclude giustamente che la grazia possa essere meritata dal figlio di Adamo, ma trascura l’esistenza del merito soprannaturale, che dipende dalle opere fatte in grazia, le quali collaborano con la grazia e meritano quindi la salvezza e il premio celeste, per cui la salvezza è condizionata dal compimento delle buone opere fatte i grazia. E qui, Pelagio, ha ragione.

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LE VARIE FUNZIONI DELLA GRAZIA

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Ottima idea quella della Placuit Deo, sempre in tema di grazia, di ricordare la distinzione fra grazia sanante e grazia elevante ― ossia fra quella grazia che rimette i peccati e salva la nostra umanità, riconducendola all’innocenza ― e quella grazia ancora più gratuita, per la quale l’uomo è elevato alla condizione di figlio di Dio, ad immagine del Figlio, mosso dallo Spirito Santo.  Infatti è oggi spesso l’idea cristiana e neotestamentaria della figliolanza è  banalizzata e degradata, a causa di una fraternité di sapore illuministico, sicché ogni uomo per il semplice fatto di essere uomo, appare come ”fratello” e ”figlio di Dio”. Questo vuol dire confondere quella che è la chiamata evangelica universale alla salvezza e a vivere la vita di figli di Dio nella Chiesa cattolica, con la supposizione falsa e infondata ― ecco il cristianesimo anonimo di Rahner [15] ― che tutti gli uomini, magari inconsapevolmente, siano di fatto figli di Dio, in grazia, immancabilmente ed irresistibilmente tendenti alla salvezza. Il che contrasta evidentemente con l’insegnamento di Cristo[16] e col dogma cattolico che «non tutti si salvano» [17], ossia col dogma dell’inferno, che non è una pena correttiva, ma afflittiva, perché il dannato si trova per sempre ed irrimediabilmente nella condizione di aver scelto definitivamente di opporsi a Dio, il che non gli consente ― e neppure lui lo vuole ― di pentirsi e di ravvedersi, finalità, che sono perseguite dalle pene correttive.

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Questa proprietà della pena infernale è la ragione della condanna nel 1998 da parte della Congregazione per la dottrina della fede della tesi del prof. Luigi Lombardi Vallauri, docente all’Università Cattolica di Milano, il quale sosteneva che il dogma dell’inferno è una credenza « incostituzionale [in quanto] nessun atto per quanto grave può meritare una pena eterna [e perché] è contraria ai princìpi più avanzati del diritto, e specificamente del diritto influenzato dal cristianesimo, una pena che in nessun modo tenda alla rieducazione e riabilitazione del condannato». Invece, nella falsa credenza, sostenuta da Rahner e da altri, che, comunque vadano le cose, tutti si salvano, si eleva indebitamente, in sostanza, una semplice facoltà appartenente a tutti – quella di scegliere o per Dio o contro Dio – a effettiva scelta per Dio da parte di tutti. Si abbassa la dignità incomparabile di un dono divino gratuito, soprannaturale e libero, il cui conferimento è condizionato dalla libera risposta di ciascuno, alle dimensioni della struttura essenziale e necessaria della natura umana, comune a tutti, santi e delinquenti. Il messaggio della salvezza non è più: “Potete salvarvi per grazia, se obbedite alla legge divina”, ma ”siete tutti salvi per sola grazia e per sola fede, indipendentemente dalle opere della fede”. Il che poi non è altro che l’eresia di Lutero.

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CRISTO, UNICO SALVATORE DEL MONDO

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La Placuit Deo ripropone l’insegnamento cristiano fondamentale circa la natura, le vie e i mezzi della salvezza, secondo il quale insegnamento noi otteniamo la salvezza obbedendo ed unendoci a Cristo, unico Salvatore del mondo[18] ed incorporandoci quindi nella Chiesa, Corpo di Cristo. La Lettera ricorda infatti al n°2 che

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«la confessione di fede cristiana, che proclama Gesù unico Salvatore di tutto l’uomo e dell’umanità intera [cf. At 4,12; Rom 3,23-24; 1 Tm 2,4-5; Tit 2,11-15].

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Questo testo si ricongiunge col dogma del Concilio di Firenze del 1442 [19], secondo il quale, per salvarsi, occorre appartenere alla Chiesa. Il Concilio Vaticano II, riprendendo l’insegnamento del Beato Pontefice Pio IX, ha chiarito che questa appartenenza non è necessariamente quella alla Chiesa visibile, benché essa rientri nel piano ordinario della salvezza, ma che la salvezza ― e quindi l’appartenenza alla Chiesa ― è possibile anche per coloro che senza colpa e in buona fede non conoscono il Vangelo, e addirittura per «coloro che, senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita (expressam) di Dio» [20]. Per questo, queste persone si salvano sempre nella Chiesa, ma appartenendo alla Chiesa invisibile o appartenendo alla Chiesa invisibilmente o in modo inconscio [21]. Qui naturalmente è esclusa l’interpretazione rahneriana, secondo la quale anche gli atei potrebbero salvarsi, giacché una conoscenza implicita di Dio, per quanto implicita, è pur sempre conoscenza di Dio e non è ateismo.

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In tal senso la Placuit Deo può affermare:

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«Il luogo dove riceviamo la salvezza portata da Gesù è la Chiesa, comunità di coloro che, essendo stati incorporati al nuovo ordine di relazioni inaugurato da Cristo, possono ricevere la pienezza dello Spirito di Cristo (cf. Rom 8,9). Comprendere questa mediazione salvifica della Chiesa è un aiuto essenziale per superare ogni tendenza riduzionista. La salvezza che Dio ci offre, infatti, non si ottiene con le sole forze individuali, come vorrebbe il neo-pelagianesimo, ma attraverso i rapporti che nascono dal Figlio di Dio incarnato e che formano la comunione della Chiesa […] Dato che la grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo-gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto, la Chiesa è una comunità visibile: in essa tocchiamo la carne di Gesù, in modo singolare nei fratelli più poveri e sofferenti. Insomma, la mediazione salvifica della Chiesa, «sacramento universale di salvezza», ci assicura che la salvezza non consiste nell’auto-realizzazione dell’individuo isolato, e neppure nella sua fusione interiore con il divino, ma nell’incorporazione in una comunione di persone, che partecipa alla comunione della Trinità» [n. 12].

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La Placuit Deo ribadisce implicitamente la condanna della cristologia sincretista del Padre Jacques Dupuis, pronunciata nel 2001 dalla Congregazione per la dottrina della fede, secondo il quale tutte le religioni sono vie di salvezza, sicché ognuno può scegliere quella che preferisce [22], ed implicitamente condanna la tesi del Cardinale Carlo Maria Martini, secondo il quale per salvarsi non occorre necessariamente la mediazione della Chiesa, ma basta seguire l’ispirazione dello Spirito Santo, o la tesi di Edward Schillebeeckx, per il quale la religione perfetta e completa è la somma e l’insieme di tutte le religioni [23].

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SALVEZZA DEL CORPO E DELL’ANIMA

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Molto opportuna è stata anche l’idea di ricordare che la salvezza eterna dell’uomo concerne e l’anima e il corpo. Dice infatti la Placuit Deo:

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«La salvezza che la fede ci annuncia non riguarda soltanto la nostra interiorità, ma il nostro essere integrale. È tutta la persona, infatti, in corpo e anima, che è stata creata dall’amore di Dio a sua immagine e somiglianza, ed è chiamata a vivere in comunione con Lui» [n.7].

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È la salvezza di tutto l’uomo, nel quale gli interessi dell’anima ― la vita spirituale ― devono prevalere, per la loro importanza decisiva, su quelli del corpo ― vita fisica ―, essi pure, tuttavia, essenziali alla salvezza. Ma se gli interessi del corpo ostacolano quelli dell’anima, il cristiano dev’esser pronto a rinunciare ai primi, sapendo che alla resurrezione futura gli sarà restituito ciò a cui per amore di Cristo, ossia per salvare l’anima, ha rinunciato in questa vita. Invece Rahner, male interpretando la concezione biblica dell’unità psicofisica della persona, respinge la distinzione reale tra anima e corpo[24], dogma del Concilio Lateranense IV del 1215 [25], addebitandola al «dualismo greco» ed intende l’individuo umano come un tutt’uno indivisibile, per cui respinge il dogma dell’anima forma sostanziale del corpo, definito dal Concilio di Viennes nel 1312 [26], ed afferma che l’anima è inseparabile dal corpo, così come due diversi modi di essere e di manifestarsi di un unico soggetto non vanno intesi come fossero due parti dello stesso soggetto.

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La riduzione rahneriana dell’anima al corpo o viceversa l’assorbimento del corpo nell’anima produce in modo evidente e inevitabile due etiche opposte, ma che si richiamano a vicenda perché entrambe caratterizzate dalla fusione dei due termini: la prima, il pelagianismo materialista, secolarista e terreno; la seconda, lo gnosticismo spiritualista, idealista, panteista dell’interiorità assoluta. Accade allora che Rahner non concepisce la morte come il separarsi dell’anima dal corpo e la sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo, per cui l’anima, separata dal corpo, che è nel sepolcro, continua a vivere da sola dopo la morte del corpo, ma per lui il momento della morte è il momento supremo della libertà, tutto l’uomo muore e nel contempo tutto risorge immerso in Dio. Ciò comporta che Rahner rifiuta il dogma dell’immortalità dell’anima definito dal Concilio Lateranense V nel 1513 [27] e quindi non ammette un intervallo di durata eviterna fra il giudizio particolare e quello universale, eresia condannata dalla “Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia” della Congregazione per la dottrina della fede del 1979. Nello stesso tempo, in questa visuale la salma che riposa nel sepolcro non è destinata a risorgere, contro quanto insegna il Concilio Lateranense IV del 1215 [28], ma si dissolve nella materia circostante. Ne viene la conseguenza che i racconti evangelici circa la tomba vuota di Cristo risorto  non possono essere addotti come prova della sua risurrezione, perché la resurrezione di Cristo, per Rahner, non è il fatto che la salma di Gesù abbia ripreso vita, ma il fatto che Cristo con la morte è «stato accolto da Dio». Inoltre  Rahner, con questa sua teoria della resurrezione immediata, nega il dogma del purgatorio, definito dal Concilio di Trento [29]. Infine, la teoria della resurrezione immediata costituisce un attentato al dogma della Assunzione della Beata Vergine Maria al cielo, perché per esplicita  dichiarazione di Rahner, non solo la Mater Dei, ma ogni uomo con la morte è assunto in cielo.

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Molto opportune, pertanto, sono le parole conclusive della Lettera:

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«Mentre si dedica con tutte le sue forze all’evangelizzazione, la Chiesa continua ad invocare la venuta definitiva del Salvatore, poiché «nella speranza siamo stati salvati» (Rom 8,24). La salvezza dell’uomo sarà compiuta solo quando, dopo aver vinto l’ultimo nemico, la morte (cf. 1 Cor 15,26), parteciperemo compiutamente alla gloria di Gesù risorto, che porterà a pienezza la nostra relazione con Dio, con i fratelli e con tutto il creato. La salvezza integrale, dell’anima e del corpo, è il destino finale al quale Dio chiama tutti gli uomini» [n. 15].

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LA SCELTA INEVITABILE: O PER DIO O CONTRO DIO. UNA LACUNA DELLA PLACUIT DEO

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E noi pure, a questo punto, chiediamo, a modo di conclusione, che ci sia concessa un’osservazione. La questione gravissima e sempre attuale della salvezza non può essere dissociata da quella altrettanto seria ed urgente della perdizione. Ebbene, ci pare di notare nella Placuit Deo, una grave lacuna: quella di non aver trattato, se non per fugaci accenni e allusioni implicite, di questo tema altrettanto importante ed urgente, circa il quale sono diffuse le eresie, le reticenze e le false interpretazioni. Non si può infatti parlare della salute senza parlare della malattia. Non si può parlare della vita senza parlare della morte. Non si può parlare del bene senza parlare del male. Certo, è evidente che chi accetta il pelagianesimo o lo gnosticismo non può salvarsi. Tuttavia non sarebbe stato male ricordare che è eretico credere che Dio non castighi. E questo proprio perché non si capirebbero il senso e le ragioni della salvezza, se si rifiutasse quella verità. Si pensa che chi sostiene che Dio castighi non apprezza la sua misericordia. E invece è proprio vero il contrario. E’ impossibile capire che cosa è la salvezza, senza partire dalla considerazione del castigo del peccato, a cominciare dal peccato originale, per arrivare ai nostri peccati personali e passando attraverso l’espiazione dolorosa del peccato, che avviene grazie alla partecipazione alla Croce di Cristo.

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Riguardo al peccato originale, la Placuit Deo evidentemente esclude in modo implicito la tesi secondo la quale il racconto genesiaco, come sostiene per esempio il Cardinale Gianfranco Ravasi, sarebbe un semplice mito «eziologico» per spiegare l’esistenza e peccato e del male. A quel punto si può comprendere che il dono che il Padre ci ha fatto del suo Figlio è opera di misericordia, perché, come dice il profeta Isaia: «il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui» [Is 53,5]. Opera divina è l’opera che Dio compie per trasformare il castigo in salvezza. Ecco perchè nell’inno dell’ufficio di Lodi della Quaresima si canta: «Dall’ira del giudizio, liberaci o Padre buono».

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Dio ci libera, mediante la Croce riparatrice di Cristo, dalle miserie nelle quali siamo precipitati e ci ridona col Battesimo la grazia perduta. La colpa del peccato originale, trasmessa per generazione a ciascun uomo dalla coppia dei nostri progenitori [30], viene cancellata dal Battesimo, anche se resta la concupiscenza, ossia l’inclinazione a peccare, che occorre contrastare e frenare per tutta la vita con le opere ascetiche e la pratica del sacramento della penitenza.

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Precisa allora la Placuit Deo al n. 13:

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«Così, purificati dal peccato originale e da ogni peccato, siamo chiamati ad una nuova esistenza conforme a Cristo [cf. Rom 6,4]».

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Col diventare figli di Dio, ci è aperta la porta dell’eterna salvezza e l’ingresso, come membri della Chiesa, nel regno dei cieli. Certo, non si tratta di affermare che Dio può essere punitore e misericordioso nello stesso momento con la stessa persona, il che sarebbe contradditorio, perché severità e misericordia sono effettivamente due virtù che si escludono a vicenda. La severità infligge una pena; la misericordia la toglie. Se c’è l’una, non ci può essere l’altra. Tuttavia a volte si richiamano e condizionano a vicenda: la misericordia che Dio usò verso Israele che attraversava il mar Rosso, fu resa possibile dalla severità che usò contro gli Egiziani.

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CONCLUSIONE

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Non sembri incongruo o azzardato paragonare la Deo Placuit alla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. Uno potrebbe osservare che esse si differenziano profondamente, perchè la seconda è severa, mentre la prima è indulgente. Eppure, di là del mutato clima storico, tra i due documenti c’è una continuità: Pio X dovette affrontare il problema modernistico. Il Pontefice regnante ha dovuto riprendere in mano la questione, perché il modernismo dei tempi del suo predecessore Pio X è, come disse il Maritain nel 1966 [31], un «modesto raffreddore da fieno rispetto alla febbre neo-modernista» dei nostri giorni. Dai tempi di Maritain la febbre non accenna ad diminuire, anzi, è giunta a temperature che rischiano di superare i 40 gradi di calore. E poi ricordiamo che il Santo Pontefice Pio X definì il modernismo dei suoi tempi come la «somma di tutte le eresie». Da qui possiamo farci un’idea del modernismo di oggi. Ma il Sommo Pontefice Francesco I non sembra purtroppo turbarsi più di tanto. Non è che non si renda conto di cosa sta succedendo, chissà, forse vuole evitare il panico?

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Abbiamo avuto in mezzo il Concilio Vaticano II che ha accolto quanto di valido c’era nelle istanze moderniste, ma ha evitato gli errori modernisti, entrati però poi nella Chiesa, in modo prepotente e decisivo, durante la stagione del post-concilio. Il Concilio Vaticano II, accogliendo quelle istanze, ha quindi aggiunto quanto mancava alla Pascendi Dominici Gregis. Ma non ne ha mai dimenticati gli avvertimenti, ancor oggi più che mai validi; anche se ovviamente il modernismo di oggi è diverso da quello di allora. Al Pontefice regnante si profilano dunque i seguenti compiti:

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  1. Mantenere le conquiste del Concilio, portarle avanti e difenderle; e correggere una certa tendenza troppo ottimista o buonista, come per esempio quanto riportato al n. 40 della Gaudium et spes, dal quale si evince che la Chiesa non ha che da dialogare col mondo, in un rapporto di reciprocità alla pari mondo-Chiesa. E di questa tendenza, è urgente correggere tutte quante le false interpretazioni del post-concilio.

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  1. Purificare i modernisti dallo gnosticismo, accogliere il loro dinamismo rinnovatore e progressista, proibir loro di strumentalizzare il Concilio.

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  1. Purificare i lefebvriani dal pelagianesimo, approvare ed appoggiare la loro fedeltà alla tradizione, persuaderli ad accettare il Concilio.

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  1. Fare opera di mediazione fra lefebvriani e modernisti al fine di una reciproca riconciliazione, congiungendo tradizione e conservazione con progresso e rinnovamento.

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Si tratta di un compito enorme, volendo abnorme. Ma, d’altronde, dentro la Cappella Sistina è stato l’uomo Jorge Mario Bergoglio a rispondere alla chiamata all’elezione al sacro soglio dicendo «accepto» e divenendo poco dopo Francesco I. E per quella risposta affermativa «accepto», deve assumersi tutte le responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini. E, certe gravose responsabilità, non ci si assumo né evitando di dare risposte chiare e sicure, né dicendo che potrebbe essere sì, ma volendo anche no, o come dire … non so, fate voi!

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Noi siamo dinanzi a Dio il profumo di Cristo tra quelli che si salvano e quelli che si perdono [I Cor 2,15]

Scientia inflat, caritas vero aedificat [I Cor 8,1]

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Dall’Isola di Patmos, 13  marzo 2018

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 NOTE

[1] Vedi il caso Nietzsche.

[2] Evangelii gaudium, n.222. Cf il mio studio La dipendenza dell’idea dalla realtà nella Evangelii gaudium di papa Francesco, in PATH, Libreria Editrice Vaticana, 2014/2, pp.237-316.

[3] Cf. Julio Meinvielle, Influsso dello gnosticismo ebraico un ambiente cristiano, a cura di E. Innocenti, Edizioni della Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1898.

[4] Cf.  Frances A.Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Editori Laterza, Bari 1992.

[5] Léon de Poncins, Freemasonry and the Vatican, Britons Publishing Company, London 1968.

[6] Ne parla a lungo E.Kurlander nel suo libro I mostri di Hitler, Mondadori Editore, Milano 2018.

[7] Introduzione alla Teosofia, Fratelli Bocca Editori,Torino 1911.

[8] J.Maritain giustamente parla di una ”gnosi hegeliana”, in La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, c.IX.

[9] Anne Brenon, I Catari. Storia e destino dei veri credenti, Convivio-Nardini Editore, Firenze 1990; Liber de duobus principiis, un traité néo-manichéen de XIIIe siècle, a cura di A.Dondaine,OP, Istituto Storico Domenicano di S.Sabina, Roma 1939.

[10] Lo gnosticismo, SEI, Torino, 2002.

[11] Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Laterza, Bari 1990.

[12] Les Editions du Cerf, Paris 2000.

[13] Cf il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, pp.318-329.

[14] Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, c.V – La grazia.

[15] Cf .il mio saggio La radice teoretica della dottrna rahneriana del cristianesimo anonimo, in Karl Rahner. Un’analisi critica, a cura di S.Lanzetta, Atti del Convegno dia Firenze del 23-al 23 novembre 2007, organizzato dai Francescani dell’Immacolata, Edizioni Cantagalli, Firenze 2009, pp.51-71.

[16] La Lettera cita il c.25, 31-46 di Matteo.

[17] Concilio di Quierzy dell’853 (Denz.623). Cf. il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.

[18] Cf. la Dichiarazione Christus Dominus della CDF  del 6 agosto 2000.

[19] Denz.1351

[20] Lumen Gentium, 16.

[21] Cf. la spiegazione di questo fatto data dal Maritain in L’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Descleée de Brouwer, Bruges 1870, c.X, III.

[22] Notificazione “In seguito” del Il 24 gennaio 2001. Cf. la sua Introduzione alla cristolgia, PIEMME 1993.

[23] Umanità. Storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, pp.219-220.

[24] Sulla dottrina rahneriana del rapporto anima-corpo, vedi il mio citato libro Karl Rahner, il Concilio tradito, c.III.

[25] Denz.800.

[26] Denz.902.

[27] Denz.1440-1441.

[28] Denz.801.

[29] Denz.1820.

[30] Concilio di Trento, Denz.1512-1513.

[31] Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Bruges 1966, p.16.

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Confidenze agli elettori di un italiano prete: vi spiego perché io non vado a votare

— fuori dalle ordinarie righe de L’Isola di Patmos —

CONFIDENZE AGLI ELETTORI DI UN ITALIANO PRETE: VI SPIEGO PERCHÉ IO NON VADO A VOTARE

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Vi sono due principali motivi per i quali esprimo da sedici anni la mia volontà attraverso il non-voto, che sono rispettivamente: il problema dell’ignoranza abissale diffusa tra il Popolo italiano e proditoriamente incrementata da chi ha grandi interessi ad incrementarla; la situazione del gran serbatoio di voti del Meridione d’Italia, che seguita ad essere in mano al potere trasversale di gestione delle varie potenti mafie, che da sempre gestiscono il mercato di quei voti senza i quali, nessuno schieramento politico, potrebbe mai vincere le elezioni politiche nazionali.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: Siracusa, il centro di Ortigia, cuore storico archeologico dell’antica città greca, con i sacchi di spazzatura gettati da molti degli elettori aventi diritto al voto agli angoli delle strade

Come sanno le molte migliaia dei nostri Lettori giornalieri, la rivista L’Isola di Patmos si occupa di teologia ecclesiale e di aggiornamento pastorale, non di attualità politica. A poche ore di distanza dall’apertura dei seggi elettorali, dove il corpo elettorale della Repubblica Italiana avente diritto al voto confluirà per le elezioni politiche nazionali, desidero offrire in via del tutto eccezionale ai Lettori, ma sopratutto egli Elettori, un mio pubblico commento sul perché, da ormai sedici anni, non mi reco alle urne a votare per le elezioni politiche nazionali e amministrative.

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È necessario anzitutto sfatare un equivoco duro a morire: il voto è sia un diritto sia un dovere, ma non un obbligo. Pertanto, chi in un sistema democratico decide di esprimere la propria libera volontà astenendosi dal voto, non è un cattivo cittadino, ma un degno membro di quel Popolo che compone il corpo dei consociati della Repubblica Italiana. E non è vero che coloro che non votano «danno il voto alla maggioranza», o «favoriscono la vittoria della maggioranza», perché dire questo è come affermare che chi non passa per un casello autostradale di Roma, quindi non ritira il biglietto col quale poi pagare all’uscita di Napoli o di Salerno, è come se lo avesse ritirato ed avesse pagato lo stesso. E capite bene che una simile affermazione, è del tutto illogica.

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Il voto, di per sé, è una libera espressione di volontà che può essere espressa in vari modi. Un qualsiasi atto di volontà, come c’insegna l’antica sapienza dei maestri del pensiero greco, può essere infatti espressa, in modo altrettanto efficace, sia con l’azione sia con la mancanza d’azione. Il tutto con buona pace del pensiero illuminista, che come ricordiamo non s’impone attraverso baci e abbracci, ma con la barbarie delle ghigliottine. È infatti per il pensiero illuminista che la mancanza d’azione, all’occorrenza anche violenta e sanguinaria, equivale a una mancata assunzione di responsabilità. E l’Illuminismo, tanto per ricordare, giunge al culmine attraverso quella ben poco gloriosa Rivoluzione Francese che in nome di un’idea alquanto discutibile di libertà, commise gravi violazioni e ingiustizie pagate col sangue di molti innocenti dopo processi sommari, con condanne a morte inflitte non su base di prove ineccepibili, bensì inflitte spesso solo per odio, gelosia e invidia sociale.

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: questa immagine non è tratta dal repertorio fotografico della casba di Algeri degli anni Cinquanta del Novecento, siamo a Siracusa, nel cuore storico di Ortigia, a pochi metri dal sito archeologico del Tempio di Apollo, uno dei templi dorici più grandi della Magna Grecia. La spazzatura che vedete in foto, è stata lasciata dagli elettori aventi diritto al voto, proprio quelli che poi urlano «No, ai politici corrotti, ripuliamo il Paese!»

Qualcosa di simile possiamo ravvisarla oggi a livello socio psicologico nel miserando movimento messo in piedi dal comico italiano Beppe Grillo, il giustizialismo del quale richiama alla storica memoria di chi la storia la conosce e l’ha studiata, certi stili di Robespierre, che al contrario di questo comico genovese era però una mente brillante ed intelligente. Il seguito pecorone di questo comico sbraitante è costituito dal suo onirico e cosiddetto “Popolo della rete”, che ricorda le turbe inferocite sotto i palchi delle ghigliottine; delle turbe composte perlopiù da quegli ignoranti illetterati sullo stile del grillino Luigi di Maio, che applaudirono ebbri di sangue e violenza quando il boia tagliò la testa ad Antoine-Laurent de Lavoisier, una delle menti più brillanti non solo della Francia, ma dell’Europa intera, tanto che pochi anni dopo si disse che forse non sarebbero bastati altri duecento anni, per veder rinascere un’altra mente geniale del genere. E personaggi come Beppe Grillo e Luigi di Maio, con appresso il loro furente “Popolo della rete”, semmai oggi ve ne fossero, sarebbero capaci di ghigliottinarne dieci, di uomini come il de Lavoisier.

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Per inciso, io credo da sempre che Beppe Grillo, pur non finendo a sua volta sulla ghigliottina come vi finì Robespierre, finirà come lui vittima della propria stessa violenza, ed a tempo e luogo dovrà lasciare l’Italia, come a suo tempo dovette lasciarla Bettino Craxi, sebbene con una differenza di non poco conto: Bettino Craxi era uno statista, mentre Beppe Grillo è un demente umorale capace solo di gonfiare la piazza delusa e frustrata con umori quasi sempre aggressivi e soprattutto emotivo-irrazionali.

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre a Ortigia, cuore del centro storico dell’antica città greca di Siracusa, a poche decine di metri di distanza dal sito archeologico del Tempio di Apollo

Dall’altra parte c’è un ottantenne, certo Silvio Berlusconi, con una vita alle spalle che con blando eufemismo potremo definire “intensa” e “movimentata”. A differenza di Grillo, questo sgrillettante ottantenne non è affatto un demente umorale, ma una persona con grandi capacità pratiche sul piano della organizzazione e su quello della gestione, ma anche sul piano politico.

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Se poc’anzi ho espresso che mai darei il voto ad un piccolo Robespierre redivivo come Grillo, proseguo spiegando che i motivi per i quali mai voterei ― e per i quali mai ho votato ― Berlusconi, sono sommariamente i seguenti: perché costui incarna ed esprime il meglio del peggio della società edonista, narcisista e soprattutto lassista. Non oserei mai definire Berlusconi persona immorale, perché ciò sarebbe davvero riduttivo. Berlusconi è un soggetto a-morale che esprime come tale la vivente negazione di tutti quelli che sono i miei personali sentimenti e valori cristiani di vita. Berlusconi, pur alla sua tenera età di ottant’anni passati, è un povero affetto da priapismo fallocentrico supportato dagli artifici del Viagra.

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Fanno da corolla a questi due poli principalmente in lizza, tutta una serie di micro partiti nati più o meno dalla sera alla mattina in occasione delle elezioni, ma necessari a dare agli elettori l’illusione del voto offerto a qualche piccola aggregazione. Purtroppo però gli elettori, avvolti spesso e per gran parte da santa ignoranza, ignorano che votare a questi micro partitini, equivale in tutto e per tutto a dare a ‘na mignotta un assegno firmato in bianco, senza importo e senza data. A quel punto, in modo del tutto legittimo, la pia mignotta deciderà lei a qual pappone o magnaccia portare l’assegno, quale importo di danaro metterci e presso qual banca incassarlo.

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre nell’Ortigia di Siracusa, con le immondizie lasciate dinanzi ad un palazzo storico del XVII secolo, di fronte alla chiesa della Madonna del Carmine, XVI secolo

Pertanto, chi deciderà di votare per protesta a Matteo Salvini, o od altre mignotte diverse ma comunque analoghe, offrirà il proprio assegno in bianco a colui al quale costoro decideranno di portarlo: a Berlusconi, a Grillo, od al Partito Democratico. Se infatti il partito più votato non raggiungerà da solo la maggioranza, avrà bisogno dei voti di questi altri partitini, che venderanno a caro prezzo il proprio pacchetto di voti in cambio di precisi condizionamenti e condizioni.

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Inutile dire ― sebbene sia opportuno dirlo e soprattutto ricordarlo ― che un simile sistema elettorale vanifica la volontà dell’elettore e trasforma per l’appunto il voto dato in un vero e proprio assegno firmato in bianco, senza importo e senza data, messo in totale fiducia nelle mani de ‘na mignotta alla totale mercé del proprio pappone o magnaccia, di cui peraltro non sarà possibile conoscere neppure l’identità fino a quando non sarà stato formato il nuovo Governo del Paese.

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Vi sono poi due principali motivi per i quali esprimo ormai da sedici anni la mia volontà attraverso il non-voto, che sono rispettivamente: il problema dell’ignoranza abissale diffusa tra il Popolo italiano e proditoriamente incrementata da chi ha grandi interessi ad incrementarla; la situazione del gran serbatoio di voti del Meridione d’Italia, che seguita ad essere in mano al potere trasversale di gestione delle varie potenti mafie, che da sempre gestiscono il mercato di quei voti senza i quali, nessuno schieramento politico, potrebbe mai vincere le elezioni politiche nazionali.

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Partiamo allora dal primo di questo punti, che è l’ignoranza, spiegando anzitutto che gran parte degli aventi legittimo diritto al voto, non sanno neppure com’è strutturata a livello costituzionale e politico la Repubblica Italiana. E più questi ignoranti sono ignoranti, più essi si infervorano nel dar vita ad assurde discussioni politiche più o meno equiparabili a quelle di un povero tizio che, totalmente digiuno di tutti i rudimenti basilari della anatomia umana, presume però di poter dissertare sulle scienze mediche. A questo si aggiunga poi di peggio, perché questo genere di ignoranti, non si limitano soltanto a dissertare sulle scienze mediche, ma si prendono pure la libertà di dar dell’incompetente ad uno specialista in anatomia che da trent’anni insegna questa fondamentale materia alla facoltà di medicina chirurgia. Infatti, assieme alla mitica «immaginazione» rivendicata nel Sessantotto, oggi, con essa al potere, c’è andata purtroppo da tempo anche l’ignoranza, supportata dalla peggiore arroganza aggressiva che è tutta quanta tipica del non sapere, dell’ignorante che ignora e che, proprio per questo, sproloquia a ruota libera, il tutto con una pericolosa aggravante per l’intera comunità nazionale: gli ignoranti votano e purtroppo sono tanti, ahimè sono la maggioranza! Se infatti così non fosse stato, come avrebbero potuto, svariati milioni di italiani, mettersi in mano ad un comico che nel 2007 dette avvio alle proprie lungimiranti idee politiche chiamando gli italiani a partecipare in massa al suo primo Vaffanculo Day  ?

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre nell’Ortigia di Siracusa, a pochi metri dalla basilica paleocristiana di San Pietro, risalente al IV secolo: rifiuti di materiali edili di uno dei tanti cantierini abusivi che sorgono in pieno centro storico nelle completa noncuranza degli amministratori locali

Capita così di udire il venefico elettore ignorante affermare spropositi di questo genere: «Se fosse abolita una delle due camere e mandati a casa i membri che adesso la compongono, sarebbero risanate per buona parte le finanze dello Stato». Mi domando: chi glielo spiega a questi venefici ignoranti, di quelli che pensano davvero di far politica coi Vaffanculo Day, che affermare una cosa del genere sarebbe come dire che il Patriarca Mosè, tolti con un secchio tre o quattro litri d’acqua dal Mar Rosso, creò una tale secca da dividere le acque e far passare in mezzo ad esse tutto il Popolo degli israeliti? Detto questo sorvolo senza indugiare su quella che sarebbe di per sé una lunga e qui non possibile dissertazione in diritto costituzionale, per spiegare in brevi parole che il cosiddetto bi-cameralismo, nel nostro Paese, non è stato adottato per creare “deficit pubblico”, ma per dare le massime garanzie di democrazia. E la democrazia, ammesso ch’essa abbia dei costi, non avrà comunque mai un costo troppo elevato, sempre con buona pace dei Vaffanculo Day e di coloro che strillando Vaffanculo sulle piazze gremite al seguito di un comico schizofrenico, pensano davvero di poter salvare il proprio Paese.

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Cosa dire poi degli scandali periodici inscenati da eserciti di analfabeti psicologici quando alla grande accademia del Vaffanculo, si mettono a lanciare tuoni e fulmini sui cosiddetti stipendi d’oro dei parlamentari? Mi domando: durante la scuola dell’obbligo che per legge costoro devono comunque avere fatto — pur non avendo molti appreso niente, come l’abissale ignorante Luigi di Maio —, in qualche semplice lezioncina di educazione civica, di quelle che se ben fatte sono capite anche dai ragazzi di dodici e tredici anni, qualcuno gli ha mai spiegato come mai i parlamentari ricevono, ed è giusto che ricevano, un congruo ed anche elevato stipendio?

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A parte il fatto che un parlamentare rappresenta la dignità di un intero Paese, ed è bene quindi che per questa sola ragione non se ne vada girando con le pezze al culo, ciò che andrebbe spiegato con una semplice lezioncina di storia agli accademici che sentenziano alla grande accademia del Vaffanculo, è ciò che accadeva nell’Italia dell’epoca monarchica quando, a certe cariche, potevano accedere solo esponenti di famiglie di aristocratici possidenti, di famiglie d’industriali e di famiglie dell’alta borghesia, perché certe cariche e funzioni politiche non erano in alcun modo remunerate. Pertanto, inizialmente, i senatori ed i parlamentari non ricevevano neppure un rimborso per le spese che dovevano affrontare per recarsi a Roma presso il Regio Senato o la Regia Camera dei Deputati. Vediamo allora chi erano in quegli anni i senatori: lo erano i membri delle famiglie Agnelli, Pirelli, Brera … nessuna persona, seppur dotata di talento politico, avrebbe mai potuto giungere a certe cariche, perché non avrebbe avuto i mezzi per sostenere la propria attività politica di senatore o di parlamentare, specie quando certi impegni gravosi implicano anzitutto la necessità di lasciare il proprio lavoro o posto d’impiego per dedicarsi a tempo pieno all’attività politica, che sarebbe di per sé un alto e nobile servizio alla Madrepatria. Ma ecco pronta la replica degli accademici della grande accademia del Vaffanculo, perché leggere quanto costoro commentano in giro per i blog, quali esponenti del cosiddetto Popolo giacobino della rete, è per certi versi esilarante: «I deputati devono lavorare e mantenersi!». Fatemi capire, illustri membri del gran Popolo della rete: esiste forse qualcuno che affermerebbe, peraltro anche in modo serio e convinto, che se uno vuol fare il primario del reparto di cardiochirurgia, deve andare a lavorare per poter dirigere quel reparto ospedaliero? O forse che un insegnante, se vuole insegnare, deve andare a lavorare per poter insegnare? O forse che un operaio, se vuole permettersi il lusso di lavorare ad una catena di montaggio industriale, deve andare a lavorare per potersi mantenere il posto di lavoro? O forse che un contadino, per potersi permettere il lusso di mungere le vacche nella sua stalla, deve andare a lavorare se vuole poi procedere alla mungitura?

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre nell’antica Ortigia di Siracusa, con sacchi d’immondizia lasciati dagli aventi diritto al voto in una via della Graziella, antico e caratteristico quartiere dei pescatori

Temo quindi che purtroppo si confondano degli abusi, legati sia alla corruzione della classe politica sia alle sue malversazioni, con quelle che sono e che di per sé nascono come garanzie di democrazia e di massima rappresentatività democratica di tutti i cittadini senza alcuna distinzione di ceto e classe sociale. Ma soprattutto, ciò che le piazze sbraitanti dei Vaffanculo del povero Grillo non vogliono capire ― perché ciò comporterebbe molte assunzioni di responsabilità da parte di milioni di singole persone ―, è che i politici corrotti nascono sempre e di prassi da un popolo corrotto, perché è il popolo che li ha votati e che seguita a votarli, non sono loro che si sono imposti con un colpo di Stato: sono stati eletti a maggioranza dagli aventi diritto al voto! E quello italiano, a mio parere, è un Popolo profondamente e intimamente corrotto, che come tale esprime corrotti e corruzione anche attraverso il meccanismo delle libere elezioni democratiche, in modo particolare alle elezioni locali amministrative, dove eserciti di elettori corteggiano i politici più immorali e corrotti per vedersi da essi riconosciuto e garantito il loro “sacrosanto diritto” a vivere nelle varie forme di “illegalità istituzionalizzata”.

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Il secondo dei punti per i quali esprimo la mia libera volontà attraverso il non-voto è legato al dramma che vede un’intera fetta del nostro Paese governata dalle mafie, le cui varie denominazioni sono: Camorra, N’drangheta, Cosa Nostra e Sacra Corona Unita.

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre nell’antica Ortigia di Siracusa, con sacchi d’immondizia lasciati dagli aventi diritto al voto in una caratteristica piazzetta storica

Da molti decenni le varie mafie si servono delle migliori regole democratiche per imporre il proprio dominio, o per dirla chiara e breve: in intere zone del nostro Paese, chi muove i voti sono le varie mafie. Per sconfiggere il potere del governo mafioso su intere regioni, bisognerebbe incidere in modo deciso e radicale proprio sul meccanismo del voto, posto che né in Campania, né in Calabria né in Sicilia è possibile vincere le elezioni senza il supporto della Camorra, della N’drangheta e di Cosa Nostra. Sicché, in modo diretto o per l’uso di uomini di paglia, queste aggregazioni mafiose incidono sulle amministrazioni locali e poi sulla vita politica nazionale attraverso i propri uomini.

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Per capire questa mia grave affermazione è necessario fare ricorso ad esempi concreti, o se preferiamo a prove visibile ed immagini d’impatto. Per poter fare questo debbo premettere che io risiedo in parte a Roma, dove svolgo vari uffici legati al mio ministero di sacerdote e di teologo, compreso uno in particolare che mi impegna come postulatore presso il dicastero per le cause dei Santi, ed in parte risiedo a Siracusa, dove mi ritiro quando devo studiare con tutta calma certi documenti, o quando io stesso devo preparare attente documentazioni o lavorare a miei scritti di vario genere. Questa spiegazione e precisazione è del tutto dovuta perché serve per capire sia l’esempio portato e poi elevato a paradigma, sia le foto che accompagnano questo articolo come altrettanto paradigma reso visibile attraverso delle immagini.

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Ecco dunque servito l’esempio: nel cuore storico dell’antica città greca di Siracusa, che è Ortigia ― dove io ho una delle due diverse residenze tra le quali mi divido ―, è stato dato avvio alla raccolta differenziata dei rifiuti. Sono stati quindi giustamente tolti tutti i cassonetti da questo centro di grande interesse storico, artistico ed archeologico, perché tutti i residenti o domiciliati sono stati muniti di cassonetti domestici per la raccolta differenziata dei rifiuti. Con solerte zelo, io ed il mio collaboratore che condivide con me il lavoro e quindi gli spazi abitativi sia a Roma sia a Siracusa, differenziamo i rifiuti, poi, nei giorni stabiliti, poniamo i bidoncini domestici fuori dalla porta. Mentre noi ed altre persone facciamo questo, un numero più elevato di abitanti, non essendovi più i cassonetti per strada, getta la spazzatura agli angoli delle vie, coi desolanti risultati visibili in pieno centro: cumuli di sacchetti dei rifiuti all’angolo di palazzi storici monumentali.

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paradigma di un’intera nazione e del suo popolo: siamo sempre nell’antica Ortigia di Siracusa, con sacchi d’immondizia lasciati dagli aventi diritto al voto in una caratteristica piazzetta storica

Qualsiasi anima ingenua potrebbe chiedersi: come mai, i Vigili Urbani o le Forze dell’Ordine, non si precipitano presso le case di questi incivili bombardandoli di sanzioni amministrative? Tanto più, sanzionare diverse di queste persone sarebbe anche facile, se consideriamo che svariati di costoro, tra un bivacco e l’altro agli arresti domiciliari, vivono in case occupate abusivamente, hanno gli allacci abusivi alla luce, hanno figlioletti dotati di tutti gli strumenti tecnologici più all’avanguardia e più costosi, ma non svolgono alcun lavoro e non sono in grado di documentare alcun reddito percepito. Allora perché, non intervengono?

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Spiego subito alle anime pie i motivi del non-intervento: perché coloro che gettano la spazzatura per la strada agli angoli dei palazzi monumentali, sono una media di sei o sette abitanti su dieci. E questi sei o sette su dieci, politicamente parlando, si chiamano elettori. E quando ci sono le elezioni, questi sei o sette incivili, al primo squillo di tromba partono come pecore per dare in massa il voto al mafioso di turno, od al prestanome politico dietro il quale si cela il mafioso od una cosca mafiosa intera. Ora, siccome le elezioni si vincono con la maggioranza costituita oggi purtroppo da incivili, voi capite bene che nessuno andrà mai a toccare ― e dico mai e in alcun modo ―, questi preziosi elettori, perché sono indispensabili, in quanto maggioranza qualificata, a tenere in piedi un intero sistema corrotto e corruttore.

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Dinanzi a questo esempio concreto, è forse del tutto sbagliato, da parte mia, consapevole di appartenere a quella minoranza costituita da tre o quattro persone civili contro dieci incivili, affermare: prendetevi il voto di questa bella e preziosa gente, ma non certo il voto mio? O per meglio chiarire: a che serve votare, quando c’è già una maggioranza che ha vinto in partenza, che in questo caso è la maggioranza degli incivili, degli abusivisti, di quanti bivaccano tra un piccolo reato e l’altro agli arresti domiciliari, dei beneficiari di pensioni fasulle d’invalidità, o delle pensioni di accompagnamento elargite a soggetti affatto invalidi, per seguire coi beneficiari di finanziamenti regionali a fondo perduto dati per delle assurde quanto mai improbabili attività d’arte ed artigianato, ma che in verità sono solo regalìe — spesso fatte piovere a botte di alcune decine di migliaia di euro —, utilità delle quali è solo quella di tenersi buone intere famigliole di elettori foraggiate dai politici locali coi soldi di tutti i pubblici contribuenti?

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i bidoncini della raccolta differenziata della residenza siracusana del Padre Ariel S. Levi di Gualdo, il certificato elettorale lo ha smaltito nel bidoncino blu, quello per la differenziata di carta e cartone, esercitando in tal modo un proprio libero e insindacabile diritto: il diritto al non-voto.

Eccome, se andrei a votare! Lo farei se il mio voto fosse in qualche modo utile per contribuire a spostare anche di un millesimo l’ago della bilancia. Contrariamente, dinanzi ad un Popolo corrotto e corruttore che esprime corruzione e che detiene la maggioranza, io non vado a firmare un assegno in bianco a ‘na mignotta, senza cifra e senza data, ben sapendo che costei lo consegnerà ad un pappone o magnaccia il quale, come meglio preferirà, sceglierà presso quale banca porlo all’incasso.

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Agendo a questo modo, non penso di essere un cattivo cittadino, tutt’altro! Anzi, seguiterò sempre a considerare l’Italia la mia fiera e amata Patria, facendo frattanto la raccolta differenziata assieme ad una minoranza di persone civili, mentre la maggioranza darà nel segreto dell’urna l’obolo del voto al mafioso di turno, affinché spazzatura produca spazzatura ed incrementi spazzatura, sino al totale collasso di questa miserevole democrazia ormai svuotata di libertà, perché è questo che da tempo hanno inaugurato: la democrazia senza libertà.

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Dio benedica l’Italia, i suoi abitanti ed i suoi governanti in occasione delle elezioni politiche nazionali.

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dall’Isola di Patmos, 3 marzo 2018

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