Il peccato di Sodoma e quel desiderio inespresso di gaizzare la Sacra Scrittura e sdoganare l’omosessualità all’interno della chiesa e del clero — The sin of Sodom and that unexpressed desire to “gay-ize” Sacred Scripture and legitimize homosexuality within the church and the clergy — El pecado de Sodoma y ese deseo inexpresado de hacer gay la Sagrada Escritura y legalizar la homosexualidad dentro de la iglesia y del clero

(Italian, English, Español)

 

IL PECCATO DI SODOMA E QUEL DESIDERIO INESPRESSO DI GAIZZARE LA SACRA SCRITTURA E SDOGANARE L’OMOSESSUALITÀ ALL’INTERNO DELLA CHIESA E DEL CLERO

Se ci è rimasto ancora abbastanza pelo sullo stomaco, veniamo a scoprire che pure la Sacra Scrittura è ossessionata dall’omosessualità e dagli omosessuali. Scopriamo, ad esempio, che Davide e Gionata sono stati forse un po’ più che semplici amici; che Sodoma e Gomorra sono le capitali dell’amore LGBT+, e che anche Gesù con i suoi apostoli e con Lazzaro di Betania aveva qualche cosa da nascondere, insomma non si salva proprio più nessuno.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Un sacerdote italiano, Giovanni Berti, celebre vignettista, pubblicò giorni fa sul suo sito una vignetta in cui il buon Dio minaccia di incenerire i preti che ancora insegnano che il peccato di Sodoma consiste nell’omosessualità.

In tempi schizofrenici come i nostri dobbiamo assistere a questi teatrini in cui ci sono più preti che parlano e si preoccupano di omosessualità, al disperato scopo di sdoganarla all’interno della Chiesa e del suo clero, più di quanto non ne parlino gli attivisti del più famoso Circolo di cultura omosessuale di Roma, che sono molto più coerenti e quindi rispettabili, nelle loro libere e insindacabili scelte. Gli omosessuali da sempre migliori, sul piano umano e sociale, sono quelli che per loro insindacabile scelta di vita vivono la propria omosessualità alla luce del sole, in libertà e coerenza, senza preoccuparsi della Chiesa cattolica e della sua morale, perché la cosa non li riguarda. Invece, i peggiori in assoluto sono le cocorite clericali, detti anche «omosessuali da sacrestia», che vorrebbero piegare i principi della morale cattolica ai loro capricci, nel disperato tentativo di introdurre le rivendicazioni LGBT+ dentro la Chiesa e il clero come un vero e proprio cavallo di Troia.

Questi soggetti andrebbero mandati a lezione da Tomaso Cerno, che fu presidente nazionale dell’Arcigay (associazione gay della sinistra italiana), in seguito eletto al Senato della Repubblica Italiana, splendida figura di intellettuale omosessuale libero e intellettualmente onesto, autore di frasi intelligenti ed esilaranti del tipo:

«Essendo io un omosessuale serio, certi froci repressi e certe checche impazzite non le ho mai sopportate».

Verrebbe da ribattergli: vallo a dire ai nostri acidi gay isterici da sacrestia! E, con una ironia e una libertà senza pari, a quei vari programmi televisivi e radio dove è consentito un linguaggio più colorito — che, per quanto all’apparenza triviale, in certi contesti può essere anche efficace e persino utile sul piano sociocomunicativo — esordisce facendo continuo riferimento ai «froci» e riferendosi a se stesso dicendo «io sono felicemente finocchio sin da quando ero bambino» (vedere QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, ecc..).

Così, se ci è rimasto ancora abbastanza pelo sullo stomaco, veniamo a scoprire che pure la Sacra Scrittura è ossessionata dall’omosessualità e dagli omosessuali. Scopriamo, ad esempio, che Davide e Gionata sono stati forse un po’ più che semplici amici; che Sodoma e Gomorra sono le capitali dell’amore LGBT+, e che anche Gesù con i suoi apostoli e con Lazzaro di Betania aveva qualche cosa da nascondere, insomma non si salva proprio più nessuno.

Ma torniamo alla vignetta di questo sacerdote italiano. Qual è veramente il peccato di Sodoma che fa scandalizzare certi preti à la page? Il testo di Genesi dice così:

«Non si erano ancora coricati, quand’ecco gli uomini della città, cioè gli abitanti di Sòdoma, si affollarono attorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: “Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!”» (cfr. Gen 19,4-5).

La traduzione italiana usa il verbo «abusare», che già dice qualcosa di un po’ più preciso per una giusta esegesi (ab-uti: andare oltre l’uso consentito). Il testo originale ebraico usa invece l’espressione «affinché potessero conoscerli». Il termine ebraico è yādáʿ (יָדַע) e significa «avere una conoscenza completa» — non sempre di tipo sessuale — ma in molti casi indica una conoscenza carnale, specifica dell’atto unitivo tra l’uomo e la donna. Se così fosse, ed è così, più che di un atto omosessuale, il racconto biblico testimonierebbe il tentativo di una violenza di gruppo, usato come segno di subordinazione e sottomissione per quegli stranieri considerati ostili e pericolosi.

Del resto, in molte popolazioni — e la storia lo testimonia — l’atto supremo di maggior disprezzo verso un individuo o un’etnia è spesso coinciso non con l’omicidio ma con la violazione del corpo attraverso un atto di abuso sessuale. E quando ad essere abusate sono state le donne, la conseguente gravidanza scaturita dall’atto di violenza riaffermava una volontà di sottomissione e di dominio anche nel figlio che ne sarebbe nato.

Per procedere con maggiori informazioni, riporto quanto la Pontificia Commissione Biblica dice in riferimento a questo passo di Gen 19,4 nel documento «Che cosa è l’uomo?» (Sal 8,5). Un itinerario di antropologia biblica: «Va subito rilevato che la Bibbia non parla dell’inclinazione erotica verso una persona dello stesso sesso, ma solo degli atti omosessuali. E di questi tratta in pochi testi, diversi fra loro per genere letterario e importanza. Per quanto riguarda l’Antico Testamento abbiamo due racconti (Gen 19 e Gdc 19) che evocano impropriamente questo aspetto, e poi delle norme in un Codice legislativo (Lv 18,22 e 20,13) che condannano le relazioni omosessuali» (PCB 2019, n. 185).

Il passo è molto chiaro e la preoccupazione della Bibbia si riferisce al solo atto omosessuale e non alle relazioni e implicazioni omoaffettive, così come noi oggi le conosciamo e teorizziamo. Il che significa introdurre una riflessione sostanzialmente diversa, quanto l’analisi di un caso di teologia morale alla luce della sola antropologia. La Bibbia vede e legge l’atto omosessuale all’interno di una sessualità ben definita e di una relazionalità stabilita da Dio tra uomo e donna, tra maschio e femmina, che stabilisce un ordine e un piano di salvezza (sebbene anche queste categorie, da alcuni biblisti di matrice protestante, siano state scardinate). In questo senso anche la sessualità umana, per Dio, è stata pensata come strumento di salvezza e va esercitata anche in tal senso.

L’uomo biblico, che è un uomo sostanzialmente dell’antichità, considera gli atti omosessuali così come nell’antichità venivano considerati e conosciuti. Così come Paolo di Tarso considerava gli atti omosessuali in quelle persone che, avendo aderito a Cristo, riscoprivano come novità salvifica anche la sessualità (cfr. Rm 1,26-27; 1Cor 6,9-11; 1Tm 1,10).

Ma che cosa erano gli atti omosessuali per gli antichi? Sostanzialmente il capovolgimento dell’ordine naturale di unione e di procreazione, che assegnava all’uomo una parte attiva-donativa e alla donna quella passiva-ricettiva. Una visione forse arcaica, ma mutuata dall’osservazione del mondo naturale, per cui: «Si riteneva che il rapporto sessuale richiedesse un partner attivo e l’altro passivo, che la natura avesse assegnato questi ruoli rispettivamente al maschio e alla femmina, e che gli atti omoerotici inevitabilmente ingenerassero confusione in questi ruoli, confondendo così ciò che è naturale. Nel caso di rapporti tra due maschi, si riteneva che uno venisse degradato dall’assumere il ruolo passivo, considerato naturalmente riservato alla donna. Nel caso di due donne, si riteneva che una delle due usurpasse il ruolo dominante, attivo, considerato naturalmente riservato all’uomo» (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, in AA. VV., Bibbia e omosessualità, Claudiana, Torino 2011, p. 25).

Quindi, per tali ragioni di natura, tra due uomini o tra due donne non erano contemplate relazioni sessuali di questo tipo. Tuttavia ciò non implicava un giudizio di merito esteso alle persone: il discorso verteva sull’atto, non sulle relazioni affettive come oggi le intendiamo, pena ipotizzare un’omofobia storica generalizzata.

Gli storici e gli studiosi del mondo antico sono concordi nell’indicare anche l’esistenza di divieti e pene per disciplinare le pratiche omoerotiche in alcune civiltà e circostanze, ma non si ha certezza della loro effettiva applicazione, salvo determinati casi che qui non trattiamo e che potranno essere oggetto di un successivo articolo.

Tornando al documento della Pontificia Commissione Biblica, si può precisare ancor meglio:

«Ma qual è stato in realtà il peccato di Sodoma, meritevole di una così esemplare punizione? …» (PCB 2019, n. 186).

Il peccato di Sodoma è un peccato derivante dal sostanziale disprezzo di Dio che genera orgoglioso rifiuto e condotta oppositiva verso gli uomini estranei a Sodoma — non solo gli ospiti di Lot, ma anche Lot stesso e la sua famiglia. Sodoma è la città malvagia in cui lo straniero non è tutelato e non si rispetta il sacro dovere dell’accoglienza, perché già da tempo si è smesso di accogliere Dio. Qualcosa di simile si deduce da alcuni passi evangelici (cfr. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), dove si parla della punizione per il rifiuto degli inviati dal Signore: un rifiuto che avrà conseguenze più gravi di quelle abbattutesi su Sodoma. Nella cultura classica questo atteggiamento è la hýbris (ὕβρις): violazione del diritto divino e naturale che sfocia in conseguenze infauste, atti dissacranti e disumani.

Sì, ma l’omosessualità dov’è finita? A partire dal secondo secolo dell’era cristiana, si è affermata una lettura abituale del racconto di Gen 19,4 alla luce di 2Pt 2,6-10 e Gd 7. Il racconto non intende presentare l’immagine di un’intera città dominata da brame omosessuali: denuncia piuttosto la condotta di una entità sociale e politica che non vuole accogliere lo straniero e pretende di umiliarlo, costringendolo con la forza a subire un trattamento infamante di sottomissione (cfr. PCB 2019, n. 187). Se volessimo essere più precisi, potremmo circoscrivere il tentativo di violenza come stuprum, che nel diritto romano definiva un rapporto sessuale illegittimo, anche senza violenza carnale: stuprum cum virgine vel vidua o stuprum cum masculis (cfr. Eva Cantarella, Secondo natura, Feltrinelli, Milano, edizione consultata, pp. 138-141).

Ma allora gli abitanti di Sodoma erano omosessuali sì o no? La Bibbia non lo dice, e questo invita a riflettere su come il testo sacro metta l’accento su tematiche più importanti rispetto a una singola condotta. Analizzando la storia del mondo antico e i costumi morali del tempo, possiamo presumere che a Sodoma come in Persia, in Egitto, a Gerusalemme, ad Atene e a Roma esistessero persone che praticavano in egual misura atti di natura omosessuale e atti di natura eterosessuale. Persone consapevoli del proprio sesso biologico — sapevano di essere maschi e femmine — e che vivevano queste pratiche con una libertà e leggerezza maggiori di quanto immaginiamo. Forse il secolo della liberalizzazione sessuale andrebbe cercato nell’antichità, non (solo) dopo il 1968.

Tali tematiche ci permettono di parlare di atti più che di relazioni omosessuali. In Grecia avevano una funzione politico-civile definita; a Roma altri significati e scopi. Molti di coloro che praticavano atti omosessuali, a una certa età e per fini simili, tornavano ad atti eterosessuali e convolavano a nozze con una donna.

Per il mondo antico e per la filosofia dei Greci, il matrimonio era il solo istituto che garantisse la prosecuzione della famiglia e della società civile, cosa che una comunità di soli uomini o di sole donne non avrebbe potuto sostenere, come attestano i poemi classici, nei quali comunità femminili, per non estinguersi, cercano uomini.

Il mondo antico conosce un’antropologia della sessualità ancora primitiva, basata sugli istinti naturali, e non riusciva a definire pienamente la grandezza della sessualità umana così come il Cristianesimo l’ha proposta nei secoli — talora con toni discutibili — giungendo tuttavia a una teologia della corporeità in vista di una salvezza che include, non mortifica, la sessualità.

Forse siamo noi moderni ad aver categorizzato e definito la sessualità in modo così preciso — grazie alle scienze umane e alle neuroscienze. Il concetto di orientamento omosessuale è moderno. Secondo gli studiosi, l’attività sessuale nell’antichità poteva somigliare a una bisessualità consapevole esercitata in contesti e con scopi diversi. Anche perché il concetto di natura/contro natura era inteso diversamente da come lo intenderà la morale cristiana.

Adesso che sappiamo l’identità del peccato di Sodoma, comprendiamo che nelle tradizioni narrative della Bibbia non ci sono indicazioni puntuali — almeno come vorremmo — sulle pratiche omosessuali, né come comportamento da biasimare, né come atteggiamento da tollerare o favorire (cfr. PCB 2019, n. 188). Semplicemente, la Bibbia parla della salvezza che Dio opera nella storia dell’uomo: una salvezza pedagogica che tiene insieme opposti e apparenti contraddizioni. In Cristo la salvezza si rivela e si affina, immettendo nel cuore dell’uomo un cambiamento non solo interiore, ma anche strutturale, che tocca le relazioni umane, e quindi anche la sessualità. Più fondamentale di un atto considerato peccaminoso è la persona umana, più grande del suo atto o del suo orientamento. Una fede vissuta e accolta con gioia comporta un cammino educativo liberante che ristabilisce e ridefinisce le relazioni in modo nuovo, così da percepire la bellezza di ciò che ci è stato dato — compresa la sessualità e il suo esercizio — affinché sia per me e per altri strumento di salvezza.

Sanluri, 18 ottobre 2025

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THE SIN OF SODOM AND THAT UNEXPRESSED DESIRE TO “GAY-IZE” SACRED SCRIPTURE AND LEGITIMIZE HOMOSEXUALITY WITHIN THE CHURCH AND THE CLERGY

So then, if we still have enough stomach hair left, we come to discover that even Sacred Scripture seems to be obsessed with homosexuality and homosexuals. We learn, for instance, that David and Jonathan may have been somewhat more than simple friends; that Sodom and Gomorrah were the capitals of LGBT+ love; and that even Jesus, with his apostles and with Lazarus of Bethany, had something to hide — in short, it would seem that no one is left innocent anymore.

— Ecclesial actuality —

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Author
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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An Italian priest, Giovanni Berti, well-known as a cartoonist, recently published on his website a cartoon in which the good Lord threatens to incinerate those priests who still teach that the sin of Sodom consists in homosexuality.
In these schizophrenic times of ours, we are forced to witness such little shows, where there are more priests speaking about and worrying over homosexuality — desperately trying to normalize it within the Church and her clergy — than there are activists at Rome’s most famous Homosexual Cultural Circle, who are far more consistent and therefore more respectable in their free and unquestionable choices.

The best homosexuals, humanly and socially speaking, have always been those who, by their own unquestionable life choice, live their homosexuality openly, in freedom and coherence, without worrying about the Catholic Church and her moral teaching — because it simply does not concern them.

The worst, instead, are the clerical parakeets, also known as the camp priests of the sacristy who would like to bend the principles of Catholic morality to their whims, in the desperate attempt to introduce LGBT+ claims into the Church and the clergy as a true Trojan horse.

These individuals should be sent to take lessons from Tommaso Cerno, former national president of Arcigay (Italy’s major left-wing gay association) and later elected to the Italian Senate — a brilliant figure of a free and intellectually honest homosexual, author of witty and sharp remarks such as: Since I am a serious homosexual, I have never been able to stand certain hysterical queens”. One would be tempted to reply: go tell that to our acidic sacristy queens! And, with his unmatched irony and freedom of spirit, in various television and radio programs where a more colorful language is allowed — which, although apparently coarse, can in some contexts be effective and even socially useful — he often opens his remarks by repeatedly referring to faggots and by saying of himself: I have been a happily queer man ever since I was a child (see QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, etc..)

So then, if we still have enough stomach hair left, we come to discover that even Sacred Scripture seems to be obsessed with homosexuality and homosexuals. We learn, for instance, that David and Jonathan may have been somewhat more than simple friends; that Sodom and Gomorrah were the capitals of LGBT+ love; and that even Jesus, with his apostles and with Lazarus of Bethany, had something to hide — in short, it would seem that no one is left innocent anymore.

But let us return to the cartoon by this Italian priest. What, in truth, is the sin of Sodom that so scandalizes certain à la page priests? The text of Genesis says:

“They had not yet gone to bed when the townsmen, the men of Sodom, both young and old, all the people to the last man, surrounded the house. They called to Lot and said, ‘Where are the men who came to your house tonight? Bring them out to us that we may abuse them’” (cf. Gen 19:4-5).

The Italian translation uses the verb “to abuse”, which already says something a bit more precise for a proper exegesis (ab-uti: to go beyond the permitted use). The original Hebrew text, however, uses the expression “so that they might know them”. The Hebrew term is yādáʿ (יָדַע) and means “to have complete knowledge” — not always of a sexual kind — but in many cases it indicates a carnal knowledge, specific to the unitive act between a man and a woman. If this is so, and it is so, more than describing a homosexual act, the biblical account would bear witness to an attempted act of group violence, used as a sign of subordination and humiliation toward those foreigners considered hostile and dangerous.

Indeed, in many peoples — and history bears witness to this — the supreme act of contempt toward an individual or an ethnic group has often consisted not in murder but in the violation of the body through an act of sexual abuse. And when the victims of such abuse were women, the consequent pregnancy resulting from the act of violence reaffirmed a will of subjugation and domination even in the child who would be born of it.

To proceed with greater precision, I shall report what the Pontifical Biblical Commission says in reference to this passage of Gen 19:4 in the document What is man? (Ps 8:5), A Journey of Biblical Anthropology: “It must immediately be noted that the Bible does not speak of an erotic inclination toward a person of the same sex, but only of homosexual acts. And these are mentioned in only a few texts, which differ from one another in literary genre and importance. With regard to the Old Testament, we have two accounts (Gen 19 and Judg 19) that improperly evoke this aspect, and then certain norms in a legislative code (Lev 18:22 and 20:13) that condemn homosexual relations” (PBC 2019, n. 185).

The passage is very clear, and the concern of Scripture refers solely to the homosexual act, not to the relationships and affective implications between persons of the same sex as we know and conceptualize them today. This means introducing a substantially different reflection, namely the analysis of a case in moral theology in the light of anthropology alone. The Bible perceives and interprets the homosexual act within a sexuality clearly defined and within a relationality established by God between man and woman, male and female, which determines an order and a salvific plan (although even these categories, according to some Protestant biblical scholars, have been dismantled). In this sense, human sexuality itself, in God’s design, was conceived as an instrument of salvation and must be lived accordingly.

The biblical man, who is essentially a man of antiquity, viewed homosexual acts as they were understood and regarded in ancient times. In the same way, Paul of Tarsus considered homosexual acts in those persons who, having embraced Christ, rediscovered even their sexuality as a new dimension of salvation (cf. Rom 1:26–27; 1 Cor 6:9–11; 1 Tim 1:10).

But what were homosexual acts for the ancients? Essentially, they were seen as the overturning of the natural order of union and procreation, which assigned to the man an active-donative role and to the woman a passive-receptive one. A vision perhaps archaic, yet derived from the observation of the natural world, according to which: “It was believed that the sexual act required one active and one passive partner, that nature had assigned these roles respectively to male and female, and that homoerotic acts inevitably produced confusion in these roles, thereby confusing what is natural. In the case of relations between two males, it was thought that one of them was degraded by assuming the passive role, considered naturally reserved to the woman. In the case of two women, it was thought that one of them usurped the dominant, active role, considered naturally reserved to the man” (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, in Bibbia e omosessualità, Claudiana, Turin 2011, p. 25).

Therefore, for such reasons of nature, sexual relations of this kind were not contemplated between two men or between two women. However, this did not imply a moral judgment extended to the persons themselves: the discourse concerned the act, not the affective relationships as we understand them today, otherwise we would have to hypothesize a generalized historical homophobia.

Historians and scholars of the ancient world agree in noting the existence of prohibitions and penalties intended to regulate homoerotic practices in certain civilizations and circumstances, but there is no certainty as to their actual application, except for specific cases that will not be treated here and may be the subject of a future article.

Returning to the document of the Pontifical Biblical Commission, the matter can be clarified even further: “But what was in fact the sin of Sodom, deserving of so exemplary a punishment? …” (PBC 2019, n. 186).

The sin of Sodom is a sin arising from a fundamental contempt for God that generates a proud rejection and an oppositional attitude toward those who are strangers to Sodom — not only Lot’s guests, but also Lot himself and his family. Sodom is the wicked city in which the stranger is not protected and the sacred duty of hospitality is no longer respected, because long ago its people ceased to welcome God. Something similar can be deduced from certain Gospel passages (cf. Mt 10:14–15; Lk 10:10–12), where reference is made to the punishment for rejecting those sent by the Lord — a rejection that will have consequences more severe than those that befell Sodom. In classical culture, this attitude corresponds to hybris (ὕβρις): the violation of divine and natural law, leading to disastrous consequences, sacrilegious and inhuman acts.

Yes, but where did homosexuality go? Starting from the second century of the Christian era, a customary reading of the account in Gen 19:4 took shape in the light of 2 Pt 2:6–10 and Jude 7. The narrative does not intend to present the image of an entire city dominated by homosexual desires; rather, it denounces the behavior of a social and political entity that refuses to welcome the stranger and seeks to humiliate him, forcing him by violence to undergo a degrading treatment of subjugation (cf. PBC 2019, n. 187). If we wished to be more precise, we could describe the attempted violence as stuprum, which in Roman law defined an illicit sexual act, even without physical violence: stuprum cum virgine vel vidua or stuprum cum masculis (cf. Eva Cantarella, Secondo natura, Feltrinelli, Milan, consulted edition, pp. 138–141).

But then, were the inhabitants of Sodom homosexual or not? Scripture does not say so, and this invites us to reflect on how the sacred text places the emphasis on themes far more important than a single behavior. By analyzing the history of the ancient world and the moral customs of the time, we may presume that in Sodom, as in Persia, Egypt, Jerusalem, Athens, and Rome, there were people who practiced both homosexual and heterosexual acts in equal measure. They were persons conscious of their biological sex — they knew themselves to be male or female — and who lived these practices with a freedom and lightness greater than we might imagine. Perhaps the true century of sexual liberalization should be sought in antiquity, not (only) after 1968.

Such themes allow us to speak of homosexual acts rather than homosexual relationships. In Greece, these acts had a specific political and civic function; in Rome, they bore other meanings and purposes. Many of those who engaged in homosexual acts, at a certain age and for similar reasons, returned to heterosexual acts and contracted marriage with a woman.

For the ancient world and for Greek philosophy, marriage was the only institution that guaranteed the continuation of the family and of civil society, something that a community made up solely of men or solely of women could not sustain, as attested by the classical poems in which female communities, in order not to die out, seek men.

The ancient world possessed an anthropology of sexuality that was still primitive, based on natural instincts, and it was unable fully to define the greatness of human sexuality as Christianity has proposed it throughout the centuries — at times with debatable tones — yet ultimately arriving at a theology of corporeality aimed at a salvation that includes rather than mortifies sexuality.

Perhaps it is we moderns who have categorized and defined sexuality so precisely — thanks to the human sciences and to neuroscience. The concept of homosexual orientation is modern. According to scholars, sexual activity in antiquity could resemble a conscious bisexuality practiced in different contexts and for different purposes. This was also because the concept of nature and against nature was understood differently from the way it would later be interpreted by Christian morality.

Now that we know the true identity of the sin of Sodom, we understand that in the narrative traditions of the Bible there are no precise indications — at least not as we would wish — concerning homosexual practices, neither as behaviors to be condemned nor as attitudes to be tolerated or favored (cf. PBC 2019, n. 188). Quite simply, Scripture speaks of the salvation that God works in the history of humanity: a pedagogical salvation that holds together opposites and apparent contradictions. In Christ, salvation is revealed and refined, implanting in the human heart a change not only interior but also structural, which touches human relationships and therefore also sexuality. More fundamental than an act considered sinful is the human person, who is greater than his or her act or orientation. A faith lived and received with joy entails a liberating educational journey that restores and redefines relationships in a new way, so as to perceive the beauty of what has been given to us — including sexuality and its exercise — that it may be, for me and for others, an instrument of salvation.

Sanluri, 18th October 2025

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EL PECADO DE SODOMA Y ESE DESEO INEXPRESADO DE HACER GAY LA SAGRADA ESCRITURA Y LEGALIZAR LA HOMOSEXUALIDAD DENTRO DE LA IGLESIA Y DEL CLERO

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Descubrimos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

— Actualidad eclesial —

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Author
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Un sacerdote italiano, Giovanni Berti, célebre dibujante, publicó hace unos días en su sitio web una viñeta en la que el buen Dios amenaza con incinerar a los sacerdotes que aún enseñan que el pecado de Sodoma consiste en la homosexualidad.

En tiempos esquizofrénicos como los nuestros debemos asistir a estos teatrillos en los que hay más sacerdotes que hablan y se preocupan por la homosexualidad — con el desesperado propósito de normalizarla dentro de la Iglesia y de su clero — que los activistas del más famoso Círculo de Cultura Homosexual de Roma, quienes son mucho más coherentes y, por ello, más respetables en sus libres e incuestionables decisiones. Los mejores homosexuales, desde el punto de vista humano y social, han sido siempre aquellos que, por su libre e incuestionable elección de vida, viven su homosexualidad a la luz del sol, con libertad y coherencia, sin preocuparse por la Iglesia católica ni por su moral, porque el asunto no les concierne. En cambio, los peores en absoluto son las locas histéricas de sacristía, que quisieran doblegar los principios de la moral católica a sus caprichos, en el desesperado intento de introducir las reivindicaciones LGBT+ dentro de la Iglesia y del clero por medio de un verdadero caballo de Troya.

Estos sujetos deberían ser enviados a tomar lecciones de Tommaso Cerno, quien fue presidente nacional de Arcigay (asociación homosexual de la izquierda italiana) y posteriormente elegido senador de la República, una espléndida figura de intelectual homosexual libre y honesto, autor de frases inteligentes y divertidísimas como: “Siendo yo un homosexual serio, nunca he soportado a ciertas locas histéricas”. A uno le darían ganas de responderle: díselo a nuestros ácidos gays histéricos de sacristía!

Y, con una ironía y una libertad sin igual, en varios programas de televisión y radio donde se permite un lenguaje más colorido — que, aunque aparentemente vulgar, en ciertos contextos puede resultar más eficaz e incluso útil en plano sociocomunicativo — suele comenzar refiriéndose constantemente a los “maricones” y diciendo de sí mismo: “Yo soy felizmente un maricón desde que era niño” (véase AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, etc..).

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Descubrimos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

Pero volvamos a la viñeta de este sacerdote italiano. ¿Cuál es realmente el pecado de Sodoma que escandaliza a ciertos curas à la page? El texto del Génesis dice así:

“No se habían acostado todavía cuando los hombres de la ciudad, los habitantes de Sodoma, se apiñaron alrededor de la casa, jóvenes y viejos, todo el pueblo en pleno. Llamaron a Lot y le dijeron: ‘¿Dónde están los hombres que entraron en tu casa esta noche? Sácalos para que podamos abusar de ellos’” (cf. Gen 19,4-5).

La traducción italiana utiliza el verbo “abusar”, que expresa algo un poco más preciso para una correcta exégesis (ab-uti: ir más allá del uso permitido). El texto hebreo original, en cambio, usa la expresión “para que pudieran conocerlos”. El término hebreo es yādáʿ (יָדַע) y significa “tener un conocimiento completo”, no siempre de tipo sexual, aunque en muchos casos indica un conocimiento carnal, propio del acto unitivo entre el hombre y la mujer. Si así fuera — y así es —, más que de un acto homosexual, el relato bíblico daría testimonio de un intento de violencia colectiva, utilizada como signo de subordinación y humillación hacia aquellos extranjeros considerados hostiles y peligrosos.

De hecho, en muchos pueblos — y la historia lo demuestra —, el acto supremo de desprecio hacia un individuo o un grupo étnico no ha coincidido con el homicidio, sino con la violación del cuerpo mediante un acto de abuso sexual. Y cuando las víctimas de tales abusos han sido mujeres, el embarazo resultante del acto de violencia reafirmaba una voluntad de sometimiento y de dominio incluso sobre el hijo que habría de nacer.

Para proceder con mayor precisión, cito lo que dice la Comisión Bíblica Pontificia en referencia a este pasaje de Gén 19,4 en el documento ¿Qué es el hombre? (Sal 8,5). Un itinerario de antropología bíblica: “Debe señalarse de inmediato que la Biblia no habla de la inclinación erótica hacia una persona del mismo sexo, sino únicamente de los actos homosexuales. Y de éstos trata en pocos textos, distintos entre sí por género literario e importancia. En lo que respecta al Antiguo Testamento, tenemos dos relatos (Gén 19 y Jue 19) que evocan de manera impropia este aspecto, y luego unas normas en un código legislativo (Lv 18,22 y 20,13) que condenan las relaciones homosexuales” (CBP 2019, n. 185).

El pasaje es muy claro, y la preocupación de la Biblia se refiere únicamente al acto homosexual y no a las relaciones ni a las implicaciones afectivas entre personas del mismo sexo, tal como hoy las conocemos y teorizamos. Esto significa introducir una reflexión sustancialmente distinta, como el análisis de un caso de teología moral a la luz exclusiva de la antropología. La Biblia percibe y lee el acto homosexual dentro de una sexualidad bien definida y de una relacionalidad establecida por Dios entre el hombre y la mujer, entre el varón y la hembra, que establece un orden y un plan de salvación (aunque estas categorías, según algunos biblistas de origen protestante, han sido desmanteladas). En este sentido, también la sexualidad humana, para Dios, fue pensada como instrumento de salvación y debe ejercerse de ese modo.

El hombre bíblico, que es esencialmente un hombre de la antigüedad, considera los actos homosexuales tal como en la antigüedad eran conocidos y comprendidos. Así también Pablo de Tarso consideraba los actos homosexuales en aquellas personas que, habiéndose adherido a Cristo, redescubrían como novedad salvífica incluso la sexualidad (cf. Rom 1,26-27; 1 Cor 6,9-11; 1 Tim 1,10).

Pero ¿qué eran los actos homosexuales para los antiguos? En esencia, la inversión del orden natural de unión y de procreación, que asignaba al hombre una parte activa-donativa y a la mujer una parte pasiva-receptiva. Una visión quizás arcaica, pero derivada de la observación del mundo natural, según la cual: “Se creía que el acto sexual requería un compañero activo y otro pasivo, que la naturaleza había asignado esos roles respectivamente al varón y a la mujer, y que los actos homoeróticos inevitablemente generaban confusión en esos roles, confundiendo así lo que es natural. En el caso de las relaciones entre dos varones, se pensaba que uno de ellos se degradaba al asumir el papel pasivo, considerado naturalmente reservado a la mujer. En el caso de dos mujeres, se pensaba que una de ellas usurpaba el papel dominante, activo, considerado naturalmente reservado al hombre” (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, en Bibbia e omosessualità, Claudiana, Turín 2011, p. 25).

Por tales razones de naturaleza, entre dos hombres o entre dos mujeres no se contemplaban relaciones sexuales de este tipo. Sin embargo, esto no implicaba un juicio moral extendido a las personas: el discurso se centraba en el acto, no en las relaciones afectivas tal como hoy las entendemos, bajo pena de imaginar una homofobia histórica generalizada.

Los historiadores y estudiosos del mundo antiguo coinciden también en señalar la existencia de prohibiciones y sanciones destinadas a regular las prácticas homoeróticas en ciertas civilizaciones y circunstancias, aunque no se tiene certeza de su aplicación efectiva, salvo en algunos casos específicos que aquí no tratamos y que podrán ser objeto de un artículo posterior.

Volviendo al documento de la Comisión Bíblica Pontificia, puede precisarse aún mejor: “¿Pero cuál fue en realidad el pecado de Sodoma, merecedor de un castigo tan ejemplar?…” (CBP 2019, n. 186).

El pecado de Sodoma es un pecado derivado del desprecio fundamental hacia Dios, que genera un rechazo orgulloso y una conducta de oposición hacia quienes son extranjeros en Sodoma: no sólo los huéspedes de Lot, sino también el propio Lot y su familia. Sodoma es la ciudad malvada en la que el extranjero no está protegido y no se respeta el sagrado deber de la hospitalidad, porque desde hacía tiempo se había dejado de acoger a Dios. Algo similar se deduce de algunos pasajes evangélicos (cf. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), donde se habla del castigo por el rechazo a los enviados del Señor, un rechazo que tendrá consecuencias más graves que las que cayeron sobre Sodoma. En la cultura clásica, esta actitud corresponde a la hýbris (ὕβρις): violación del derecho divino y natural que desemboca en consecuencias nefastas, actos sacrílegos e inhumanos.

Sí, pero ¿dónde ha quedado la homosexualidad? A partir del siglo II de la era cristiana se consolidó una lectura habitual del relato de Gén 19,4 a la luz de 2 Pe 2,6-10 y Jud 7. El relato no pretende presentar la imagen de una ciudad entera dominada por deseos homosexuales; más bien denuncia la conducta de una entidad social y política que no quiere acoger al extranjero y pretende humillarlo, obligándolo por la fuerza a sufrir un trato infamante de sometimiento (cf. CBP 2019, n. 187). Si quisiéramos ser más precisos, podríamos circunscribir el intento de violencia como stuprum, que en el derecho romano definía una relación sexual ilícita, incluso sin violencia carnal: stuprum cum virgine vel vidua o stuprum cum masculis (cf. Eva Cantarella, Según naturaleza, Feltrinelli, Milán, edición consultada, pp. 138-141).

Entonces, ¿eran homosexuales los habitantes de Sodoma, sí o no? La Biblia no lo dice, y esto invita a reflexionar sobre cómo el texto sagrado pone el acento en temas mucho más importantes que una sola conducta. Analizando la historia del mundo antiguo y las costumbres morales de la época, podemos suponer que en Sodoma, como en Persia, en Egipto, en Jerusalén, en Atenas y en Roma, existían personas que practicaban en igual medida actos de naturaleza homosexual y actos de naturaleza heterosexual. Personas conscientes de su propio sexo biológico — sabían que eran varones y mujeres — y que vivían esas prácticas con una libertad y una ligereza mayores de lo que imaginamos. Tal vez el verdadero siglo de la liberalización sexual habría que buscarlo en la antigüedad, no (solo) después de 1968.

Estos temas nos permiten hablar de actos más que de relaciones homosexuales. En Grecia tenían una función político-cívica definida; en Roma, otros significados y fines. Muchos de los que practicaban actos homosexuales, a cierta edad y por motivos semejantes, regresaban a actos heterosexuales y contraían matrimonio con una mujer.

Para el mundo antiguo y para la filosofía de los griegos, el matrimonio era la única institución que garantizaba la continuidad de la familia y de la sociedad civil, algo que una comunidad compuesta solo por hombres o solo por mujeres no habría podido sostener, como atestiguan los poemas clásicos en los que comunidades femeninas, para no extinguirse, buscan varones.

El mundo antiguo poseía una antropología de la sexualidad todavía primitiva, basada en los instintos naturales, y no lograba definir plenamente la grandeza de la sexualidad humana tal como el cristianismo la ha propuesto a lo largo de los siglos —a veces con tonos discutibles—, llegando sin embargo a una teología de la corporeidad orientada hacia una salvación que incluye, no que mortifica, la sexualidad.

Tal vez seamos nosotros, los modernos, quienes hemos categorizado y definido la sexualidad de un modo tan preciso, gracias a las ciencias humanas y a las neurociencias. El concepto de orientación homosexual es moderno. Según los estudiosos, la actividad sexual en la antigüedad podía asemejarse a una bisexualidad consciente ejercida en contextos y con fines diversos. También porque el concepto de naturaleza/contra naturaleza se entendía de manera diferente de como lo interpretará la moral cristiana.

Ahora que conocemos la identidad del pecado de Sodoma, comprendemos que en las tradiciones narrativas de la Biblia no hay indicaciones precisas — al menos no como quisiéramos — sobre las prácticas homosexuales, ni como comportamiento que deba ser censurado, ni como actitud que deba ser tolerada o favorecida (cf. CBP 2019, n. 188). Simplemente, la Biblia habla de la salvación que Dios realiza en la historia del hombre: una salvación pedagógica que mantiene unidos los opuestos y las aparentes contradicciones. En Cristo, la salvación se revela y se perfecciona, infundiendo en el corazón humano un cambio no solo interior, sino también estructural, que toca las relaciones humanas y, por tanto, también la sexualidad. Más fundamental que un acto considerado pecaminoso es la persona humana, más grande que su acto o su orientación. Una fe vivida y acogida con alegría comporta un camino educativo liberador que restablece y redefine las relaciones de un modo nuevo, permitiendo percibir la belleza de lo que nos ha sido dado —incluida la sexualidad y su ejercicio— para que sea, para mí y para los demás, instrumento de salvación.

Sanluri, 18 de octubre de 2025

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Con Leone XIV Vescovo di Roma, riemerge il titolo di Primate d’Italia

CON LEONE XIV, VESCOVO DI ROMA, RIEMERGE IL TITOLO DI PRIMATE D’ITALIA

Questa definizione, rimasta a lungo silenziosa nei testi ufficiali, torna ora viva nella voce del Pontefice come segno di orientamento per la Chiesa e per l’Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, proprio per questo, guida e padre delle Chiese d’Italia.

– Attualità ecclesiale –

Autore Teodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

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Tra le parole pronunciate dal Sommo Pontefice Leone XIV nel suo recente discorso al Quirinale, il 14 ottobre scorso, una in particolare ha risuonato con forza teologica e con intensità storica: «Come Vescovo di Roma e Primate d’Italia».

Questa definizione, rimasta a lungo silenziosa nei testi ufficiali, torna ora viva nella voce del Pontefice come segno di orientamento per la Chiesa e per l’Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, proprio per questo, guida e padre delle Chiese d’Italia.

Il titolo di Primate d’Italia esprime la verità ecclesiologica che unisce la Chiesa universale alla sua radice concreta, riconducendo il primato di Pietro alla sorgente sacramentale e alla comunione delle Chiese locali (cfr. Lumen gentium, 22; Pastor aeternus, cap. II). Nella visione del Concilio Vaticano II, la funzione petrina non è mai disgiunta dalla dimensione episcopale e collegiale: il Vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, esercita una presidenza di carità e di unità (Lumen gentium, 23), la quale si radica nella sua stessa sede episcopale. In tal senso, il titolo di Primate d’Italia non rappresenta un privilegio di tipo giuridico, ma un segno teologico ed ecclesiale che manifesta l’intima connessione tra il primato universale del Romano Pontefice e la sua paternità sulle Chiese d’Italia. Come ricorda San Giovanni Paolo II, il ministero del Vescovo di Roma «è al servizio dell’unità di fede e di comunione della Chiesa» (Ut unum sint, 94), e proprio da questa comunione scaturisce la dimensione nazionale e locale della sua sollecitudine pastorale.

Nella gerarchia cattolica della Chiesa latina, agli inizi del secondo millennio, sono previsti anche vescovi primati, prelati che con quel titolo — soltanto onorifico — sono preposti alle diocesi più antiche e più importanti di Stati o di territori, senza prerogativa alcuna (cfr. Annuario Pontificio, ed. 2024). Il Vescovo di Roma è il Primate d’Italia: titolo antico, attuato nei secoli e tuttora vigente, sebbene con prerogative diverse che si sono succedute nel tempo.

Nel corso dei secoli altri vescovi nella Penisola hanno avuto il titolo onorifico di Primate: l’Arcivescovo metropolita di Pisa mantiene il titolo di Primate delle isole di Corsica e Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Cagliari porta il titolo di Primate di Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Palermo mantiene il titolo di Primate di Sicilia, e l’Arcivescovo metropolita di Salerno quello di Primate del Regno di Napoli (cfr. Annuario Pontificio, sez. “Sedi Metropolitane e Primaziali”).

Vario è stato l’ambito territoriale riferito al termine Italia: dall’Italia suburbicaria dei primi secoli cristiani, all’Italia gotica e longobarda, fino al Regnum Italicum incorporato nell’Impero romano-germanico, sostanzialmente costituito dall’Italia settentrionale e dallo Stato Pontificio. Questa primazia non riguardava i territori dell’ex patriarcato di Aquileia, né i territori facenti parte del Regnum Germanicum — l’attuale Trentino-Alto Adige, Trieste e l’Istria —, in seguito appartenuti all’Impero austriaco. Oggi la primazia d’Italia viene attuata su un territorio corrispondente a quello della Repubblica Italiana, della Repubblica di San Marino e dello Stato della Città del Vaticano (cfr. Annuario Pontificio, ed. 2024, sez. “Sedi Primaziali e Territori”).

La nozione di “Italia” applicata alla giurisdizione ecclesiastica non ha mai avuto un valore politico, ma un significato eminentemente pastorale e simbolico, connesso alla funzione unificante del Vescovo di Roma come centro di comunione tra le Chiese particolari della Penisola. Fin dall’epoca tardo-antica, infatti, la suburbicaria regio designava il territorio che, per antica consuetudine, riconosceva la diretta dipendenza dalla Sede romana (cfr. Liber Pontificalis, vol. I, ed. Duchesne). Nel corso dei secoli, pur mutando le circoscrizioni civili e gli assetti statali, la dimensione spirituale della primazia è rimasta costante, come espressione dell’unità ecclesiale e della tradizione apostolica della Penisola.

Nei duemila anni di Cristianesimo, i popoli della Penisola e lo stesso episcopato hanno costantemente guardato alla Sede Romana, sia in ambito ecclesiastico sia in quello civile. Nel 452 il Vescovo di Roma, Leone I, su richiesta dell’imperatore Valentiniano III, fece parte dell’ambasceria che si recò nell’Italia settentrionale per incontrare il re degli Unni Attila, nel tentativo di dissuaderlo dal procedere nella sua avanzata verso Roma (cfr. Prosper d’Aquitania, Chronicon, ad annum 452).

Sono i Papi di Roma che, nei secoli, sostengono i Comuni contro i poteri imperiali: il partito guelfo — e in particolare Carlo d’Angiò — diviene lo strumento del potere pontificio in tutta la Penisola. Il Romano Pontefice apparirà come l’amico dei Comuni, il protettore delle libertà italiche, contribuendo a dissolvere l’idea stessa di Impero inteso come detentore della piena sovranità, a favore di una sovranità diffusa e molteplice.

Il concetto di iurisdictio sarà espresso con chiarezza da Bartolo da Sassoferrato (1313-1357): essa non è intesa soltanto come potestas iuris dicendi, ma soprattutto come il complesso di poteri necessari al governo di un ordinamento che non si accentra nelle mani di una sola persona o ente (cfr. Bartolus de Saxoferrato, Tractatus de iurisdictione, in Opera omnia, Venetiis, 1588, vol. IX). In questa visione pluralistica del diritto, la Sede Apostolica rappresenta il principio di equilibrio e di giustizia tra le molteplici forme di sovranità che si sviluppano nella Penisola, ponendosi come garante dell’ordine e della libertà delle comunità cristiane.

Ancora nel XIX secolo, Vincenzo Gioberti propose l’ideale neo-guelfo e una confederazione degli Stati italiani sotto la presidenza del Romano Pontefice, delineando una visione nella quale l’autorità spirituale del Papa avrebbe dovuto fungere da principio d’unità morale e politica della Penisola (cfr. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, Bruxelles 1843, lib. II, cap. 5). In sintonia, anche Antonio Rosmini riconosceva nella Sede Apostolica il fondamento dell’ordine politico cristiano, pur distinguendo tra potere spirituale e potere temporale, in una prospettiva che intendeva sanare la frattura tra Chiesa e nazione (cfr. A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Lugano 1848, Parte II, cap. 1).

Il titolo di Primate d’Italia, nell’età moderna, si riferiva dunque al Vescovo di Roma, sovrano di un vasto territorio e capo di uno Stato che si estendeva, come altri, nella Penisola. Il territorio della primazia, di conseguenza, non si identificava con quello di un solo Stato, ma si sovrapponeva alla pluralità delle giurisdizioni politiche dell’epoca. Se il Concordato di Worms (1122) aveva attribuito ai Papi di Roma la facoltà di confermare la nomina dei vescovi, in Italia — o meglio nel Regnum Italicum, comprendente l’Italia centro-settentrionale —, nel corso dei secoli la scelta dei vescovi venne concordata con i sovrani territoriali, secondo le consuetudini proprie degli Stati europei: o tramite presentazioni di terne, il primo dei quali era generalmente il prescelto, oppure con un’unica designazione da parte del principe titolare del diritto di patronato, come accadeva anche per il Regno di Sicilia (cfr. Bullarium Romanum, t. V, Roma 1739).

Il coinvolgimento dell’autorità statale determinava spesso un sostanziale equilibrio tra Stato e Chiesa, nel quale il riconoscimento delle rispettive sfere d’azione permetteva alla Sede Apostolica di mantenere la propria influenza sulle nomine episcopali, pur entro i confini dei concordati e dei privilegi sovrani.

In pienaepoca giurisdizionalista del secolo XVIII, nell’episcopato della Penisola non trovarono spazio né le rivendicazioni episcopaliste, né quelle gallicane o germaniche, nonostante alcuni principi italiani tentassero di assecondare, se non patrocinare, tali teorie (cfr. P. Prodi, Il giurisdizionalismo nella storia del pensiero politico italiano, Bologna 1968). In Toscana, l’ingerenza statale in materia religiosa raggiunse la sua piena attuazione sotto il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790). Animato da sincero fervore religioso, il Granduca credette di compiere opera di vera devozione e pietà quando si adoperò per combattere gli abusi della disciplina ecclesiastica, le superstizioni, la corruzione e l’ignoranza del clero.

In un primo tempo nessuna protesta venne elevata dall’episcopato toscano, o perché vedeva l’inutilità di opporsi, o perché approvava quelle misure; forse anche perché, nell’episcopato toscano come nel clero, covava un’antipatia verso gli Ordini religiosi e si accettava volentieri una forma di autonomia dalla Santa Sede. Tuttavia, nel sinodo generale di Firenze del 1787, tutti i vescovi dello Stato — tranne Scipione de’ Ricci e altri due — respinsero tali riforme, riaffermando la fedeltà alla comunione con il Romano Pontefice e difendendo l’integrità della tradizione ecclesiastica (cfr. Acta Synodi Florentinae, 1787, arch. curiae Florentiae).

La Chiesa Cattolicaha sempre combattuto il formarsi di chiese nazionali, poiché tali tentativi risultano in aperto contrasto con la struttura stessa della comunione ecclesiale e con l’antica disciplina canonica. Già il can. XXXIV dei Canones Apostolorum — una raccolta risalente al IV secolo, attorno all’anno 380 — prescriveva un principio fondamentale di unità episcopale:

Episcopus gentium singularum scire convenit, quia inter eos primus habeatur, quem velut caput existiment et nihil amplius praeter eius consientiam gerant, quam illa sola singuli, quae paroeciae [in greco τῇ παροικίᾳ] propriae et villis quae sub ea sunt competant. Sed nec ille praeter omnium conscientiam faciat aliquid; sic enim unanimitas erit et glorificatur Deus per Christum in Spiritu Sancto (“Bisogna che i vescovi di ciascuna nazione sappiano chi tra di loro sia il primo e lo considerino come il loro capo, e non facciano nulla di importante senza il suo assenso; ciascuno si occuperà solo di ciò che riguarda la propria diocesi e i territori che da essa dipendono; ma anche colui che è primo non faccia nulla senza l’assenso di tutti: così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato per Cristo nello Spirito Santo.”)

Questa norma, di sapore apostolico e di matrice sinodale, afferma il principio di unità nella collegialità, dove il primato non è dominio, ma servizio di comunione. Tale concezione, assunta e approfondita nella tradizione cattolica, ha trovato la sua piena espressione nella dottrina del primato romano. Come insegna Papa Leone XIII:

«la Chiesa di Cristo è una per natura, e come uno è Cristo, così uno deve essere il suo corpo, una la sua fede, una la sua dottrina, e uno il suo capo visibile, stabilito dal Redentore nella persona di Pietro» (Satis cognitum, 9).

Di conseguenza, ogni tentativo di fondare chiese particolari o nazionali indipendenti dalla Sede Apostolica è stato sempre respinto come contrario alla una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. La subordinazione del collegio episcopale al primato petrino costituisce infatti il vincolo di unità che garantisce la cattolicità della Chiesa e preserva le singole Chiese particolari dal rischio di isolamento o di deviazione dottrinale (cfr. Lumen gentium, 22; Christus Dominus, 4).

Il titolo di Primate, attribuito ad alcune sedi, era in realtà un mero titolo onorifico, al pari di quello di Patriarca conferito ad alcune sedi episcopali di rito latino (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 438). Tale dignità, di natura esclusivamente cerimoniale, non comportava potestà giurisdizionale effettiva, né un’autorità diretta sulle altre diocesi di una determinata regione ecclesiastica. Il titolo aveva lo scopo di onorare la vetustà o la particolare rilevanza storica di una sede episcopale, secondo una prassi consolidata nel secondo millennio.

Diversa è invece la posizione e soprattutto le prerogative delle due sedi primaziali di Italia e Ungheria, che conservano una fisionomia giuridico-ecclesiale singolare all’interno della Chiesa latina. Secondo una tradizione secolare, il Principe-Primate d’Ungheria è rivestito sia di funzioni ecclesiastiche sia di compiti civili. Tra questi, il privilegio di incoronare il sovrano — privilegio esercitato l’ultima volta il 30 dicembre 1916 per l’incoronazione di re Carlo IV d’Asburgo da parte di S. E. Mons. János Csernoch, allora Arcivescovo di Esztergom — e di sostituirlo in caso di impedimento temporaneo (cfr. Acta Sanctae Sedis, vol. XLIX, 1917).

La primazia ungherese è attribuita alla sede arcivescovile di Esztergom (oggi Esztergom-Budapest), la cui antica dignità primaziale risale al secolo XI, quando re Stefano I ottenne dal Papa la fondazione della Chiesa nazionale ungherese sotto la protezione diretta della Sede Apostolica. L’Arcivescovo di Esztergom, come Primate d’Ungheria, gode di una posizione speciale su tutti i cattolici presenti nello Stato e di una potestà quasi-governativa sui vescovi e metropoliti, compresa la metropoli di Hajdúdorog per i fedeli ungheresi di rito bizantino. Presso di lui esiste un tribunale primaziale, da lui sempre presieduto, che giudica le cause in terza istanza: un privilegio fondato su una consuetudine immemorabile, più che su una norma giuridica espressa (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 435; Annuario Pontificio, sez. “Sedi Primaziali”, ed. 2024). Egli è un cittadino ungherese, residente nello Stato, e spesso ricopre anche la carica di Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese, esercitando una funzione di mediazione tra la Sede Apostolica e la Chiesa locale.

La primazia italiana, attribuita alla Sede Romana, possiede una configurazione del tutto particolare: il suo titolare, il Vescovo di Roma, può essere — e in effetti negli ultimi pontificati è stato — un cittadino non italiano. Egli è sovrano di uno Stato estero, lo Stato della Città del Vaticano, non facente parte dell’Unione Europea, e non appartiene alla Conferenza Episcopale Italiana, pur mantenendo su di essa un’autorità diretta. In virtù del suo titolo di Primate d’Italia, il Romano Pontefice nomina infatti il Presidente e il Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, come previsto dall’art. 4 §2 dello Statuto della CEI, che richiama espressamente «il particolare legame che unisce la Chiesa in Italia al Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia» (cfr. Statuto della Conferenza Episcopale Italiana, approvato da Paolo VI il 2 luglio 1965, aggiornato nel 2014).

Questa singolare configurazione giuridica mostra come la primazia italiana, pur priva di struttura amministrativa autonoma, conservi una funzione ecclesiologica reale, quale espressione visibile del legame organico tra la Chiesa universale e le Chiese d’Italia. In ciò si manifesta la continuità del primato petrino nella sua duplice dimensione: universale, come servizio alla comunione di tutta la Chiesa, e locale, come paternità pastorale esercitata sul territorio italiano (Lumen gentium, 22–23).

Si delinea così un’apertura del finis Ecclesiae ai problemi d’ordine internazionale e mondiale, cosa che è anche riscontrabile in alcuni paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica, dedicati ai diritti umani, alla solidarietà internazionale, al diritto alla libertà religiosa dei vari popoli, alla tutela degli emigranti e dei profughi, alla condanna dei regimi totalitari e alla promozione della pace. Ciò che poi è maggiormente rilevante è che l’invito, l’incitamento, della Chiesa a perficere bonum non è solamente ancorato alla salus aeterna, al raggiungimento del fine ultramondano, ma anche al contingente, alle necessità immanenti dell’uomo bisognoso di aiuto materiale.

In base alla rivendicata primazia e ai sensi dell’art. 26 del Trattato Lateranense, l’azione pastorale dello stesso Pontefice si attua in più regioni d’Italia, tramite visite in molte città e santuari, effettuate senza che queste si presentino come viaggi in Stati esteri. L’uso invalso di considerare il Papa di Roma come il primo Vescovo d’Italia fa sì che i fatti d’Italia siano spesso presenti nelle sue allocuzioni o discorsi. Sovente egli visita zone della Penisola dove si sono verificati eventi dolorosi, e la presenza del Papa è vista dalle popolazioni come doverosa, richiesta come segno di conforto e di aiuto. Rientra inoltre, nel senso lato della primazia, il ricevere delegazioni degli organismi statali italiani. In questa prospettiva, la figura del Romano Pontefice come Primate d’Italia assume il valore di un segno di comunione tra la Chiesa e la Nazione, nella linea della missione universale che egli esercita quale successore di Pietro. La dimensione nazionale della sua sollecitudine pastorale non si oppone, ma anzi si integra, con la missione cattolica della Sede Apostolica, perché il Papa è insieme Vescovo di Roma, Padre delle Chiese d’Italia e Pastore della Chiesa universale (Praedicate Evangelium, art. 2).

La triplice dimensione del suo ministero — diocesana, nazionale e universale — rende visibile quella unitas Ecclesiae che la fede professa e la storia testimonia. Così il titolo di Primate d’Italia, riemerso nella voce di Leone XIV, non appare come un residuo di onori passati, ma come un richiamo vivo alla responsabilità spirituale del Papato verso il popolo italiano, in continuità con la sua missione apostolica verso tutte le genti.

Velletri di Roma, 16 ottobre 2025

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Dal Professor Alessandro Barbero un San Francesco “sotto la crosta”. quando la santità si coniuga con la storia

DAL PROFESSOR ALESSANDRO BARBERO UN SAN FRANCESCO “SOTTO LA CROSTA”. QUANDO LA SANTITÀ SI CONIUGA CON LA STORIA

Lo storico Alessandro Barbero non è un cattolico, è un laico, ma su San Francesco racconta più verità di quante se ne siano sentite dai devoti cattolici sulla vita del Poverello. Ciò allo stesso modo in cui, nella cinematografia, il Francesco più aderente al reale lo rappresentò la regista Liliana Cavani, atea e comunista, attraverso un giovane e virile Mickey Rourke. Con buona pace per il talento e la memoria del regista Franco Zeffirelli, che invece rappresentò un San Francesco sdolcinato e completamente de-virilizzato.

— attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Da qualche giorno ho iniziato la lettura del nuovo libro su San Francesco d’Assisi del professor Alessandro Barbero, volto ormai noto e apprezzato non solo nell’ambito accademico.

Mickey Rourke interpreta Francesco d’Assisi nel film della regista Liliana Cavani (Italia, 1989)

Come storico ha intrapreso con successo una buona attività di divulgazione di quella materia ― la storia ― che è sempre stata oggetto di noia per molti ai tempi della scuola, forse più per la metodologia con cui veniva spiegata e posta agli studenti che per l’oggetto stesso del suo studio.

Il merito di questo divulgatore è senza dubbio di aver avvicinato un vasto pubblico alla storia e ad argomenti di carattere storico, così come il giornalista Indro Montanelli fece con i suoi libri e interviste sulla Storia d’Italia che potremmo definire una storia d’inchiesta, come solo un provetto ed esperto giornalista sa fare. 

La storia è magistra vitae e conoscere la storia, quella senza coloriture ideologiche, che ha tante contraddizioni e buchi neri, quella non scritta dai soli vincitori, quella dei fatti e delle fonti è estremamente utile per conoscerci e per sapere come orientare il futuro e forse anche per evitare di commettere errori madornali. Ma non sempre è così purtroppo.

Fino a quando questo discorso lo si applica alle guerre mondiali, ai fatti della storia recente e dell’antichità siamo forse tutti d’accordo, ma quando la storia tocca argomenti e tematiche più particolari come l’agiografia o la teologia che cosa succede? Beh, bisogna saper mantenere un giusto equilibrio tra le parti e le discipline ma personalmente credo che saper fare una buona storia, e partire da una buona base storica riguardo ai temi trattati dalla agiografia e dalla teologia, sia estremamente importante per comprendere come Dio è capace di operare nella vita degli uomini, proprio in quella maniera umana non priva di contraddizioni, di lentezze, di sorprese che apparentemente contraddicono una certa idea devota di azione divina e di santità.

Per quanto riguarda la vita di San Francesco, questa realtà è stata evidente da subito dopo la sua morte e in vista della sua rapida canonizzazione. Noi, suoi frati e prosecutori dei suoi ideali, abbiamo avuto forse troppo una preoccupazione conservativa che ci ha portato a vedere (e a far vedere) frate Francesco come un modello inarrivabile, fino a considerarlo ― come poi l’iconografia avrà modo di esplicitare meglio ― un nuovo Cristo in terra e questo non solo a motivo del dono delle sacre stimmate che furono l’ultimo sigillo che il Verbo di Dio gli conferì (cf. Dante Alighieri, Paradiso, XI canto) ma anche grazie ad alcune colorazioni biografiche che le versioni ufficiali hanno presentato.

Intendiamoci, da moderni non vogliamo fare nessun processo alla Legenda maior di San Bonaventura che contribuì a fissare nella memoria collettiva l’immagine di San Francesco essenzialmente mistico e protagonista solo di eventi favolosi e che ribadivano la sua somiglianza con Cristo. In quel momento storico in senso più ampio possibile ― per la società medievale, per la Chiesa Cattolica, per la stessa sopravvivenza dell’Ordine dei Minori ― un procedimento agiografico più che biografico come quello operato da San Bonaventura era quasi obbligato.

Si cercavano sicurezze e stabilità e lui con la sua astuzia e intelligenza è riuscito nel compito. Si cercava soprattutto un modello e spesso questo desiderio portava a descrivere con perfezione le gesta di un “uomo santo”, omettendo quelle parti di normale fragilità e umanità che invece sono le prime a testimoniare la santità di una persona se teniamo in buon conto l’insegnamento di San Gregorio Magno: «miracula que sanctitatem non faciunt sed ostendum» (i miracoli non creano la santità, ne sono però manifestazione o dimostrazione) 

Tracciare una figura di San Francesco così aulica e inarrivabile ha forse costituito per tanti un traguardo irraggiungibile, più una legenda che una vera e propria vita; una storia che doveva essere letta per scaldare il cuore con buone e sante ispirazioni e insegnamenti morali e religiosi non sempre però realmente percorribili, distanti da quella ferialità dei suoi frati e dei suoi devoti.

Credo che questo abbia anche contribuito al proliferare nei secoli successivi, di quelle visioni di vita di San Francesco, più accomodanti e percorribili che sono diventate tanto care a una modernità ideologica e schierata come la nostra: il Francesco pacifista, ecologista, animalista, vegano, precursore del dialogo interreligioso accomodante, pauperista, comunista ante litteram. Visioni più percorribili forse nell’oggi ma totalmente false e distanti dalle reali intenzioni del Poverello di Assisi.

Com’ebbi già modo di sottolineare in un altro mio articolo (vedi QUI) San Francesco è una persona, prima che un santo, estremamente complicata, dentro un periodo storico ed ecclesiale altrettanto complicato, per cui solo una ricerca storica oggettiva e sana può ricostituirlo all’interno di un discorso che tenda il più possibile al vero, a quel Francesco di Pietro di Bernardone zero, quello che si intravede sotto la crosta di tante amenità a cui ha dovuto, obtorto collo, seraficamente sottostare e forse anche sopportare.

Il merito dello storico Barbero ― come di altri che si sono interessati di San Francesco, penso a Franco Cardini e a Chiara Frugoni ― è descriverlo come un uomo dentro una storia ben precisa, un uomo tormentato, duro, capace di gesti dolcissimi e di asprezze inaspettate, un uomo aperto alla trascendenza e alle contraddizioni del suo tempo.

La lettura storica di San Francesco ci permette di crescere anche nella conoscenza di una Chiesa medievale che per il Poverello non costituisce un motivo di scandalo a differenza dei tanti movimenti a lui contemporanei caduti nell’eresia e nella violenza scismatica. Tirare per la giacchetta San Francesco come un fustigatore dei costumi della Chiesa ― e della Chiesa come corpo istituzionale ― è quanto mai improprio. Questo lo fecero altri e se mai anche con ragione ma San Francesco non lo fece, né lo desiderò, per lui la Chiesa era quella, la migliore possibile esistente perché così voluta da Cristo, non dunque una rifondazione utopica dalle basi ma un rinnovamento in interiore homine che poi sarà il cuore dalla sua forma vitae che si esplicita con tutta la passione nell’estensione della Regola non bollata.

San Francesco ama la Chiesa Cattolica, la sua, quella che dal 1182 in poi lo accompagnerà dal battesimo fino alla sepoltura nella chiesetta di San Giorgio, non un’altra Chiesa ideale. Egli ama e rispetta la gerarchia della Chiesa, dai sacerdoti più poveri e moralmente fragili al suo vescovo di Assisi (Guido) che sarà testimone della sua spogliazione, per arrivare al vescovo di Roma (Innocenzo III e Onorio III) che lo confermeranno nel proposito di vivere sine glossa il Santo Vangelo del Signore Nostro Gesù Cristo approvando la forma vitae. Francesco non è cieco davanti ai fatti ma ha capito che il rinnovamento più efficace è personale, inizia dal di dentro ed è per questo che non giudica ma lascia che lui e i suoi frati siano e diventino quel segno di cambiamento reale – quel lievito buono del Vangelo – che è capace di migliorare tutta quanta la Chiesa Cattolica. Una metodologia di rinnovamento ecclesiale come quella di San Francesco è ancora oggi difficile da trovare nei piani e nei programmi pastorali.

San Francesco è amante e cultore della vita avventurosa del Medioevo, sogna di essere un cavaliere e vede i suoi frati come cavalieri di Cristo senza macchia e puri di cuore. Conosce le mirabolanti avventure fascinose delle Chanson de Geste ed è al contempo testimone delle vicende politico-ecclesiali che hanno condotto alle crociate. Notiamo come Francesco non è critico verso la Chiesa neanche per l’indizione delle crociate. Rimane comunque un uomo del Medioevo e sa che seppur nella loro tragicità anche le crociate hanno un senso e un merito. Furono diversi i santi che si susseguirono dopo di lui che le crociate e le loro ragioni ritenute legittime, le predicarono, tra di essi un altro celebre francescano, Bernardino degli Albizzeschi di Massa Marittima, noto come San Bernardino da Siena. Avendo però conosciuto personalmente le crudeltà della guerra, della battaglia, della prigionia, delle ferite e delle mutilazioni dei suoi compagni, San Francesco sceglie di andare dal Sultano optando una scelta diversa, non quella delle armi ma della Parola.

In Egitto davanti ad Al-Malik al-Kāmil annuncia Cristo e il Vangelo, un’arma ben diversa e più potente della spada, un dialogo che non scade nel politicamente corretto ma in un invito deciso alla conversione del Sultano d’Egitto e Siria a far regnare quel Dio portatore di pace e che dona il pacificatore per eccellenza. Non è sorprendente che il Sultano non si senta offeso dalle parole di San Francesco, ricordiamo che in Egitto erano già presenti i cristiani copti e il Sultano e la sua corte erano abituati a vedere cristiani e ministri ordinati in terra d’Egitto e a disputare con loro. L’atto di San Francesco non è becera propaganda politica alla Chiesa Cattolica ma reale invito di conversione e di salvezza come diversi membri dell’Ordine dei Minori fecero in Marocco e in altri territori di fede islamica trovando molto spesso il martirio nei secoli successivi.

Il libro del Professor Barbero tratta di questi e di altri temi, portando alla luce una immagine di San Francesco che supera l’ideologia e il maquillage da immaginetta agiografica. Il merito è senza dubbio quello di poter conoscere un San Francesco scomodo che non può essere categorizzato dentro una singola visione, la sua storia dentro la storia ci permette di apprezzarlo ancora di più e di restituirne una immagine concreta e vivida.

Per concludere, la stessa tematica della povertà che San Francesco sogna, sposa e raccomanda è quella che anzitutto si è realizzata con una kenosis di sé stesso come uomo che scopre il suo limite e conosce il suo cuore traballante. La povertà materiale non è il fine ma la conseguenza maturata negli anni di una povertà più vera e più profonda. In questo sì che possiamo assimilare San Francesco a Cristo nella umiliazione-spogliazione di una vita che apparentemente sembra un fallimento agli occhi del mondo. Dopo la morte di San Francesco è proprio sul tema della povertà spirituale che i suoi figli discutono e iniziano con le prime controversie che scaturiranno nelle successive riforme.  

La povertà di San Francesco si va costituendo dentro diversi fatti reali della sua storia: nel suo esaurimento fisico e mentale dopo la prigionia della battaglia di Collestrada nel 1202 che lo ridimensiona nei suoi ideali di cavalierato. Nell’incontro con il lebbroso che è l’esempio concreto della spogliazione che ogni malattia impone all’infermo ma è anche il segno evidente che la conversione necessita di determinazione e violenza per essere attuata (cf. Mt 11,12). Fino ad essere rifiutato e non più riconosciuto come capo del suo Ordine che estendendosi in prestigio in buona parte dell’Europa di allora può fare a meno di lui. All’uomo moderno che apprezza in San Francesco la santa povertà si dovrebbe ricordare che questa si conquista facendo diversi passi indietro, nullificandosi, guardando i propri limiti e accettandoli con la perfetta letizia di chi ha saputo mettere tutto nelle mani di Dio.

Lo storico Alessandro Barbero non è un cattolico, è un laico, ma su San Francesco racconta più verità di quante se ne siano sentite dai devoti cattolici sulla vita del Poverello. Ciò allo stesso modo in cui, nella cinematografia, il Francesco più aderente al reale lo rappresentò la regista Liliana Cavani, atea e comunista, attraverso un giovane e virile Mickey Rourke. Con buona pace per il talento e la memoria del regista Franco Zeffirelli, che invece rappresentò un San Francesco sdolcinato e completamente de-virilizzato.

Auguriamo ad Alessandro Barbero, laico e non cattolico, nella saggezza dell’età che passa, complice anche San Francesco, si possa avvicinare a Dio e trovare in lui, fonte di ogni sapienza, ogni bene.     

Sanluri, 9 ottobre 2025

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Esequie funebri del Nunzio Apostolico Adriano Bernardini. Omelia pronunciata da Padre Ariel S. Levi di Gualdo – Esequial Mass for Apostolic Nuncio Adriano Bernardini. Homily delivered by Father Ariel S. Levi di Gualdo –

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ESEQUIE FUNEBRI DEL NUNZIO APOSTOLICO ADRIANO BERNARDINI. OMELIA PRONUNCIATA DA PADRE ARIEL S. LEVI DI GUALDO

Diocesi di San Marino-Montefeltro, Chiesa di Monastero di Piandimeleto, 15 settembre 2025 ore 15:00. Esequie funebri di S.E. Mons. Adriano Bernardini, Arcivescovo titolare di Faleri e Nunzio Apostolico.

— Attualità ecclesiale —

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† Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 1-6)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. lo vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”».  

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Venerabili Vescovi Domenico, pastore di questa nostra Chiesa particolare e Andrea, emerito, Confratelli amici e tutti voi carissimi qui presenti: «Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo».

Ricevendo il 30 agosto la sacra unzione degli infermi Adriano Bernardini Arcivescovo titolare di Faleri e Nunzio Apostolico, mi sussurrò le parole del Vangelo di Giovanni: «Padre, è giunta l’ora» (Gv 17, 1-2). Per questo ho scelto di salutarlo con un’omelia tratta da questo Quarto Vangelo, dove l’Apostolo Pietro chiede a Gesù: «Signore, dove vai?». Gesù risponde a Pietro che non era ancora pronto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Lo stesso aveva detto poco prima a tutti i discepoli: «Dove vado io, voi non potete venire» (Gv 13, 33-34).

Nella foto: S.E.R. Mons. Adriano Bernardini (13.08.1942 – †11.09.2025) e Padre Ariel S. Levi di Gualdo, suo segretario privato (2017-2025)

Sono frammenti che rivelano l’emozione per l’imminente distacco dal Divino Maestro. Forse è per questo che le parole del Vangelo appena proclamato si aprono con un invito di Gesù che diviene, oltre che promessa anche balsamo: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore».

Con le sue parole Gesù sta facendo della sua dipartita e del vuoto che lascia una occasione di rinascita per i suoi discepoli. Chiedendo loro fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi, appoggiandosi sul Signore che promette di andare a preparare un posto per loro. Egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una diversa fase di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza basata su una precisa promessa: «Vi prenderò con me» (Gv 14,2-3). 

In una circostanza difficile come questa è bello ritornare agli inizi, quando i discepoli, futuri apostoli, ebbero il primo contatto con Gesù e gli chiesero: «Rabbì, Maestro, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».

“Rimanere” o “dimorare”, “venire” e “vedere” sono i verbi che soprattutto nel Vangelo di Giovanni descrivono il cammino di fede, l’approdo del discepolo e la risposta alla domanda di Pietro: «Dove vai, dove possiamo incontrarti e trovarti ancora?». Gesù dirà un giorno: «Rimanete nel mio amore, come il tralcio rimane nella vite, perché Io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Quello è il luogo dove dimoro, rimango e abito» (Gv 15,9-10). 

Ecco il traguardo del discepolo per il quale non bisognerà attendere il transito della morte, perché è qui, ora, disponibile per tutti, perché Gesù si è fatto via. Non è una realtà futura che si rivelerà oltre questa vita per mezzo della morte, duro valico per chi lo deve oltrepassare e doloroso lascito per chi dovrà convivere con la memoria, ma essa è dono presente per chi «crede in lui» (Gv 14,12).

Non sia dunque turbato neppure il nostro cuore dinanzi al distacco, piuttosto prepariamoci fin d’ora a riconoscere il posto che a ciascuno di noi spetta nella dimora eterna che ci attende. Simile al posto del discepolo amato che reclinò il suo capo sul petto di Gesù nell’ultima cena. Questi era adagiato nel seno di Gesù (Gv 13,25), il quale, come dice il prologo giovanneo «è tornato nel seno del Padre ed ha aperto la via» (Gv 1,18), adesso «venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre (Gv 13,1) ci dice: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».

Per cercare di proporre le ragioni non facili, ma perseguibili e realizzabili del Santo Vangelo la Chiesa si serve da sempre di molti mezzi, compresa la diplomazia. Questo è il nunzio Apostolico: un portatore e annunciatore del Santo Vangelo chiamato a realizzare la pax Christi nel mondo. Ma proviamo a raffigurare il tutto con un esempio concreto: nell’ottobre 1962 il mondo sfiorò la Terza Guerra Mondiale con la “crisi di Cuba”. Ormai i due interlocutori, Nikita Kruscev e John Fitzgerald Kennedy non potevano più parlare né trattare, perché nessuno dei due era disposto a fare un passo indietro. Fu in quel momento tragico che intervenne il Santo Pontefice Giovanni XXIII che, bene ricordarlo, non era propriamente quel contadino sempliciotto che viene affigurato in certe iconografie popolari, proveniva dal mondo della diplomazia ed era stato un diplomatico anche raffinato, specie nel suo mandato come nunzio apostolico in Francia. I due interlocutori accolsero l’appello entrambi in contemporanea e le testate missilistiche in rotta verso Cuba tornarono indietro. Pochi mesi dopo, nell’aprile 1963, il Santo Pontefice pubblicò la sua enciclica Pacem in Terris. Il messaggio di pace del Vangelo prevalse grazie alla diplomazia pontificia. Oggi, i libri di storia contemporanea, narrano che quell’intervento diplomatico salvò l’umanità dal rischio di una Terza Guerra Mondiale.

Anziché recitare le litanie delle sue virtù accennerò a un suo difetto, per dimostrare come un servitore della Chiesa e del Papato può mutare un difetto in virtù attraverso le tre virtù di fede, speranza e carità (cfr. I Cor 13, 1-13), che non si reggono sulle emozioni, peggio sulle ideologie viscerali, ma sulla ragione. Fides quaerens intellectum e per inverso intellectus quaerens fidem, ovvero: la fede richiede la ragione e per inverso la ragione richiede la fede, come enunciò il padre della scolastica classica Sant’Anselmo d’Aosta rifacendosi a sua volta al pensiero del Santo Padre e dottore della Chiesa Agostino vescovo d’Ippona: credo ut intelligam e per inverso intelligo ut credam, ossia, credo per capire, capisco per credere. Sino a giungere al Santo Pontefice Giovanni Paolo II che riassunse questo rapporto tra ragione e fede nell’enciclica Fides et Ratio, fede e ragione.

Risoluto per temperamento, era capace a divenire inamovibile. Negli ultimi mesi di vita è stato indebolito dalla malattia, ma conservando il suo carattere peculiare. Un giorno, durante il suo ultimo ricovero nella casa di cura romana Villa del Rosario — dove per inciso è stato accudito in modo eccellente dai medici, dai paramedici e dalle suore —, prese a considerare giusta una cosa sbagliata che avrebbe potuto essere nociva per lui. Glielo dissi e, sulle prime, quasi si arrabbiò, ma lo placai ricordandogli la pagina del Vangelo in cui si narra del discorso in cui Gesù dice a Pietro: «”In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 18). Sorrise e rispose ironico: va bene, ti seguirò, però cerca di portarmi dove voglio andare io».  

Alle persone dal carattere risoluto la Cristianità deve molto, basta pensare al passo degli Atti degli Apostoli dove si narra del Beato Apostolo Paolo che «discuteva con i greci» (traduzione: litigava con loro); «ma questi cercavano di ucciderlo» (traduzione: perché non lo sopportavano). «I fratelli, saputolo, lo condussero a Cesarea e di là lo mandarono a Tarso» (traduzione: cerchiamo di salvargli la vita in nome della neonata carità cristiana). E in chiusura la diplomatica conclusione di questa cronaca: «Così la Chiesa, per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria, aveva pace» (che tradotto significa: meno male che è partito) (At 9, 29-31). Eppure, quanto dobbiamo al carattere risoluto e non poco spigoloso del Beato Apostolo Paolo?

Ho onorato la sua volontà evitando beatificazioni per mezzo di racconti epici e biografie trionfali, come talora si è soliti fare ai funerali, cose da lui detestate, anche perché nessuno di noi conosce il giudizio di Dio, ma tutti sappiamo quanto sia grande la sua ricompensa per i suoi servi fedeli, perché solo gli uomini di fede forgiati dalle autentiche virtù riescono a mutare in servizio prezioso alla Chiesa persino i loro apparenti difetti; e in tal senso, da San Paolo a Sant’Agostino, la lista di questi uomini straordinari è molto lunga. A recare danni alla Chiesa non sono gli uomini resi risoluti dalla loro forza di carattere, ma coloro che non sanno dire sì quando è sì e no quando è no (Cfr. Mt 5, 37); sono i deboli fieri della propria debolezza velata di spiritualismi e misticismi, inconsapevoli che noi, nella sequela di Cristo, siamo chiamati a essere il sale, non lo zucchero della terra (cfr. Mt 5, 13-16). Infatti, quando fummo consacrati sacerdoti non ci fu regalato un pensiero sdolcinato, il Vescovo consacrante ci disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Il tutto basato sulle parole del Divino Maestro che ci ha ammoniti: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24-25).

Tutto questo egli ha cercato di comprenderlo, viverlo e trasmetterlo attraverso un modo particolare di annunciare e portare il Vangelo: la diplomazia ecclesiastica a servizio della Chiesa di Cristo e della Sede Apostolica.

La fonte della vera diplomazia ecclesiastica è tutta racchiusa sulle righe, dentro le righe e oltre le righe del Vangelo che, di secolo in secolo, sino al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, non cesserà di mettere in luce le nostre miserie e le nostre ricchezze umane, i nostri limiti e le nostre grandezze, i nostri peccati e le nostre cristiane virtù. E di questi tempi, forse più che mai viene da dire col Beato Apostolo Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (II Tm 4,6). Perché non è facile conservare la fede, nemmeno dentro quella società umana che è la Chiesa visibile, definita «Santa e peccatrice» dal Santo vescovo Ambrogio, seguito secoli dopo dal Cardinale Joseph Ratzinger che meditando nel 2005 la nona stazione della Via Crucis lamentò: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».

Chi è questo prete salito sul pulpito a predicare in memoria di Adriano vescovo? Sono un servo inutile. Come infatti dice il Signore Gesù: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17, 10). Quale era il mio intimo rapporto con lui? Rispondo dicendo che nel Vangelo lucano si parla della grande riservatezza della Beata Vergine Maria che «da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19).

Scrive l’Apostolo agli abitanti di Corinto: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (I Cor 15, 55). Riflettendo su questo passo sul finire della sua vita, il Sommo Pontefice Benedetto XVI commentò: «Non mi preparo alla fine ma a un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna, che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo».

Buon viaggio nel «nuovo» buon viaggio «nell’eterno», Adriano vescovo, hai fatto quanto dovevi fare, come tutti noi «servi inutili», ne sono testimone come figlio, amico e fratello. Ogni 11 settembre, finché fisicamente potrò, verrò in questo luogo presso la Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro, alla quale appartengo come presbitero ― benché non sia vissuto nel Montefeltro ma a Roma con te ―, per celebrare nel tuo luogo natale, oggi anche tuo luogo di sepoltura, una Santa Messa per l’anima immortale del padre, dell’amico e del fratello che sei stato per me.

Sia lodato Gesù Cristo!

Santa Maria del Mutino, loc. Monastero di Piandimeleto, 15 settembre 2025

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ESEQUIAL MASS FOR APOSTOLIC NUNCIO ADRIANO BERNARDINI. HOMILY DELIVERED BY FATHER ARIEL S. LEVI DI GUALDO

Diocese of San Marino-Montefeltro, Monastery Church of Piandimeleto, September 15, 2025, 3:00 PM. Esequial Mass for His Excellency Msgr. Adriano Bernardini, Titular Archbishop of Faleri and Apostolic Nuncio.

— Ecclesial actuality —

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† Gospel of John (14, 1-6)

«”Do not let your hearts be troubled. You have faith in God; have faith also in me. In my Father’s house there are many dwelling places. If there were not, would I have told you that I am going to prepare a place for you? And if I go and prepare a place for you, I will come back again and take you to myself, so that where I am you also may be. Where [I] am going you know the way”. Thomas said to him, “Master, we do not know where you are going; how can we know the way?” Jesus said to him, “I am the way and the truth and the life. No one comes to the Father except through me”».

 

Venerable Bishops Dominic, shepard of this particular Church, and Andrew, Bishops emeritus, Brother friends, and all of you dearly beloved present here: «Grace to you and peace from God our Father and the Lord Jesus Christ!».

Receiving the sacred anointing of the sick on August 30, Adriano Bernardini, Titular Archbishop of Faleri and Apostolic Nuncio, whispered to me the words of the Gospel of John: «Father, the hour has come» (Jn 17:1-2). For this reason, I chose to greet him with a homily taken from this Fourth Gospel, where the Apostle Peter asks Jesus: «Lord, where are you going? Jesus responds to Peter, who was not yet ready: “Where I am going, you cannot follow me now; you will follow me later”. He had said the same thing shortly before to all the disciples: “Where I am going, you cannot come”» (Jn 13:33-34).

These fragments reveal the emotion of the imminent separation from the Divine Master. Perhaps this is why the words of the Gospel just proclaimed open with an invitation from Jesus that becomes not only a promise but also a balm: «Do not let your hearts be troubled. Believe in God, believe also in me. In my Father’s house are many rooms».

With his words, Jesus is making his departure and the void it leaves an opportunity for rebirth for his disciples. By asking them for faith, he pushes them to transform their fear of the new and the terror of abandonment into the courage to give themselves, relying on the Lord who promises to go and prepare a place for them. He experiences his departure in relationship with those who remain and shows that he is not abandoning them, but is inaugurating a different phase of relationship with them. This separation is in preparation for a new welcome based on a specific promise: «I will take you to myself» (Jn 14:2-3).

In a difficult circumstance like this, it’s beautiful to return to the beginning, when the disciples, future apostles, first encountered Jesus and asked him: «Rabbi, Master, where are you staying?». He said to them: «Come and see».

«To remain» or «to abide», «to come» and «to see» are the verbs that, especially in the Gospel of John, describe the journey of faith, the disciple’s arrival, and the answer to Peter’s question: «Where are you going? Where can we meet you and find you again?» Jesus will one day say: «Remain in my love, as the branch remains in the vine, for I have kept my Father’s commandments and remain in his love. There is my dwelling place, where I remain and dwell» (Jn 15:9-10).

This is the disciple’s goal, for which there is no need to wait for the passing of death, because it is here, now, available to all, because Jesus has become the way. It is not a future reality that will be revealed beyond this life through death, a difficult passage for those who must cross it and a painful legacy for those who will have to live with the memory, but it is a present gift for those who «believe in him» (Jn 14:12).

Let not our hearts, then, be troubled by separation; rather, let us prepare ourselves from now to recognize the place that belongs to each of us in the eternal home that awaits us. Similar to the place of the beloved disciple who leaned his head on Jesus’ chest at the Last Supper. He was reclining in Jesus’ bosom (Jn 13:25), who, as the John prologue says, «has returned to the bosom of the Father and has opened the way» (Jn 1:18), now «when his hour has come to pass from this world to the Father» (Jn 13:1), he tells us: «No one comes to the Father except through me».

To try to propose the difficult, yet attainable and achievable, reasons for the Holy Gospel, the Church has always used many means, including diplomacy. This is the Apostolic Nuncio: a bearer and proclaimer of the Holy Gospel called to establish the Pax Christi in the world. But let’s try to illustrate this with a concrete example: in October 1962, the world came close to World War III with the “Cuban crisis”. By then, the two interlocutors, Nikita Khrushchev and John Fitzgerald Kennedy, could no longer speak or negotiate, because neither was willing to take a step back. It was at that tragic moment that the Holy Pontiff John XXIII intervened. It is worth remembering that he was not exactly the simpleton depicted in certain popular iconography; he came from the world of diplomacy and had been a refined diplomat, especially during his tenure as Apostolic Nuncio to France. Both sides simultaneously accepted the appeal, and the missile warheads headed toward Cuba were turned back. A few months later, in April 1963, the Holy Pontiff published his encyclical Pacem in Terris. The Gospel’s message of peace prevailed thanks to papal diplomacy. Today, contemporary history books tell us that this diplomatic intervention saved humanity from the risk of a Third World War.

Rather than reciting the litany of his virtues, I will mention one of his defects, to demonstrate how a servant of the Church and the Papacy can transform a defect into a virtue through the three virtues of faith, hope, and charity (cf. 1 Cor 13:1-13), which are not based on emotions, or worse, on visceral ideologies, but on reason. Fides quaerens intellectum and and vice versa intellectus quaerens fidem, or faith requires reason, and conversely, reason requires faith, as the father of classical scholasticism, Saint Anselm of Aosta, stated, in turn drawing on the thought of the Holy Father and Doctor of the Church, Augustine, Bishop of Hippo: credo ut intelligam and vice versa intelligo ut credam, or I believe in order to understand, I understand in order to believe. This culminated in the Holy Pontiff John Paul II, who summarized this relationship between reason and faith in the encyclical Fides et Ratio, Faith and Reason.

Resolute by temperament, he was capable of becoming immovable. In the last months of his life, he was weakened by illness, but retained his peculiar character. One day, during his final stay at the Roman nursing home Villa del Rosario — where, incidentally, he was excellently cared for by doctors, paramedics, and nuns — he began to consider a wrong thing that could have been harmful to him as right. I told him this, and at first he almost became angry, but I calmed him by reminding him of the Gospel passage recounting Jesus speech to Peter: «Truly, truly, I say to you, when you were younger, you girded yourself and walked where you wished; but when you grow old, you will stretch out your hands, and another will gird you and carry you where you do not wish to go» (Jn 21:18). He smiled and replied ironically: «All right, I will follow you, but try to take me where I want to go».

Christianity owes much to people of resolute character. Just think of the passage in the Acts of the Apostles where the Blessed Apostle Paul is described as «arguing with the Greeks» (translation: he argued with them); «but they sought to kill him» (translation: because they could not stand him). «When the brothers learned of this, they took him to Caesarea, and from there they sent him to Tarsus» (translation: we tried to save his life in the name of the nascent Christian charity). And finally, the diplomatic conclusion to this chronicle: «So the church throughout all Judea, Galilee, and Samaria had peace» (which translated means: thank goodness he left) (Acts 9:29-31). And yet, how much do we owe to the resolute and not a little rough-edged character of the Blessed Apostle Paul?

I have honored his will by avoiding beatifications through epic tales and triumphal biographies, as is sometimes customary at funerals, things he detested, also because none of us know God’s judgment, but we all know how great his reward is for his faithful servants, because only men of faith forged by authentic virtues are able to transform even their apparent defects into precious service to the Church; and in this sense, from Saint Paul to Saint Augustine, the list of these extraordinary men is very long. Those who harm the Church are not men made resolute by their strength of character, but those who cannot say yes when it is yes and no when it is no (cf. Mt 5:37); they are the weak, proud of their own weakness veiled in spiritualism and mysticism, unaware that we, in following Christ, are called to be the salt, not the sugar, of the earth (cf. Mt 5:13-16). In fact, when we were consecrated priests, we weren’t given a sentimental thought; the consecrating Bishop told us: «Realize what you will do, imitate what you will celebrate, conform your life to the mystery of the cross of Christ the Lord». All of this was based on the words of the Divine Master who admonished us: «If anyone would come after me, let him deny himself, take up his cross, and follow me» (Mt 16:24-25).

He sought to understand, live, and transmit all of this through a particular way of announcing and bringing the Gospel: ecclesiastical diplomacy in the service of the Church of Christ and the Apostolic See.

The source of true ecclesiastical diplomacy lies entirely inside and beyond the written lines of the Gospel, which, from century to century, until Christ’s return at the end of time, will never cease to highlight our human miseries and riches, our limitations and our greatness, our sins and our Christian virtues. And in these times, perhaps more than ever, we can say with the Blessed Apostle Paul: «have competed well; I have finished the race;f I have kept the faith» (2 Tim 4:7). Because it is not easy to maintain the faith, not even within that human society which is the visible Church, defined as “holy and sinful” by the Holy Bishop Ambrose, followed centuries later by Cardinal Joseph Ratzinger who, meditating on the ninth station of the Way of the Cross in 2005, lamented: «How much filth there is in the Church, and even among those who, in the priesthood, should belong completely to him!»

Who is this priest who ascended the pulpit to preach in memory of Bishop Hadrian? I am an unprofitable servant. As the Lord Jesus says: «When you have done all that you were commanded, say, “So should it be with you. When you have done all you have been commanded, say, “We are unprofitable servants; we have done what we were obliged to do”» (Lk 17:10). What was my intimate relationship with him? I answer by saying that the Gospel of Luke speaks of the great reserve of the Blessed Virgin Mary, who «And Mary kept all these things, reflecting on them in her heart» (Lk 2:19).

The Apostle writes to the people of Corinth: « Where, O death, is your victory?» (1 Cor 15:55). Reflecting on this passage at the end of his life, the Roman Pontiff Benedict XVI commented: «I am not preparing for the end but for an encounter, since death opens the way to life, to eternal life, which is not an infinite duplicate of the present time, but something completely new».

Have a good journey into the «new» world, and a good journey into the «eternal», Bishop Adriano. You have done what you had to do, like all of us «unprofitable servants». I bear witness to this as a son, friend, and brother. Every September 11th, as long as I am physically able, I will come to this place, to the particular Church of San Marino-Montefeltro, to which I belong as a priest — although I did not live in Montefeltro but in Rome with you — to celebrate in your birthplace, now also your burial place, a Holy Mass for the immortal soul of the father, friend, and brother you were to me.

Praised be Jesus Christ!

Santa Maria del Mutino, Monastero di Piandimeleto, 15 settembre 2025

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EXEQUIAS FÚNEBRES DEL NUNCIO APOSTÓLICO ADRIANO BERNARDINI. HOMILÍA PRONUNCIADA POR EL PADRE ARIEL S. LEVI DI GUALDO

Diócesis de San Marino-Montefeltro, Iglesia del Monasterio de Piandimeleto, 15 de septiembre de 2025. Exequias fúnebres de S.E. Mons. Adriano Bernardini, Arzobispo titular de Faleri y Nuncio Apostólico.

— Actualidad eclesial —

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†Del Evangelio según Juan (14, 1-6)

«En aquel tiempo, Jesús dijo a sus discípulos: “No se inquieten. Crean en Dios y crean también en mí. En la Casa de mi Padre hay muchas habitaciones; si no fuera así, se lo habría dicho a ustedes. Yo voy a prepararles un lugar. Y cuando haya ido y les haya preparado un lugar, volveré otra vez para llevarlos conmigo, a fin de que donde yo esté, estén también ustedes. Ya conocen el camino del lugar adonde voy”. Tomás le dijo: “Señor, no sabemos adónde vas. ¿Cómo vamos a conocer el camino?”.Jesús le respondió: “Yo soy el Camino, la Verdad y la Vida. Nadie va al Padre, sino por mí”».

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Venerables Obispos Domenico, pastor de esta nuestra Iglesia particular y Andrea pastor emérito, Cohermanos sacerdotes, amigos y todos estimados presentes: «Gracia y paz a vosotros de parte de Dios nuestro Padre y del Señor Jesucristo».

Recibiendo el 30 de agosto la unción de los enfermos Adriano Bernardini, Arzobispo titular de Faleri y Nuncio Apostólico, me susurró las palabras del Evangelio de Juan: «Padre, ha llegado la hora» (Jn 17, 1-2). Por eso he elegido despedirlo con una homilía extraída de este Cuarto Evangelio, donde el Apóstol Pedro pregunta a Jesús: «Señor, ¿adónde vas?». Jesús responde a Pedro que aún no estaba preparado: «Adonde yo voy, tú no puedes seguirme ahora; me seguirás más tarde». Lo mismo había dicho poco antes a todos los discípulos: «Adonde yo voy, vosotros no podéis venir» (Jn 13, 33-34)

Son fragmentos que revelan la emoción por la inminente separación del Divino Maestro. Quizás es por eso que las palabras del Evangelio recién proclamado se abren con una invitación de Jesús que se convierte, además de  promesa, en bálsamo: «No se turbe vuestro corazón. Tened fe en Dios y tened fe también en mí. En la casa de mi Padre hay muchas moradas».

Con sus palabras Jesús está haciendo de su partida y del vacío que deja una ocasión de renacimiento para sus discípulos. Pidiéndoles fe, los impulsa a transformar el miedo hacia lo nuevo y el terror al abandono en valor para entregarse, apoyándose en el Señor que promete ir a preparar un lugar para ellos. Él vive su partida en relación con quien se queda y muestra que no lo está abandonando, sino que está inaugurando una fase diferente de relación con ellos. La separación es en vista de una nueva acogida basada en una promesa precisa: «Os tomaré conmigo» (Jn 14, 2-3).

En una circunstancia difícil como esta es bueno volver a los inicios, cuando los discípulos, futuros apóstoles, tuvieron el primer contacto con Jesús y le preguntaron: «Rabí, Maestro, ¿dónde moras?». Les dijo: «Venid y veréis».

“Permanecer” o “morar”, “venir” y “ver” son los verbos que sobretodo en el Evangelio de Juan describen el camino de fe, la llegada del discípulo y la respuesta a la pregunta de Pedro: «¿Adónde vas, dónde podemos encontrarte y hallarte de nuevo?». Jesús dirá un día: «Permaneced en mi amor, como el sarmiento permanece en la vid, porque yo he guardado los mandamientos de mi Padre y permanezco en su amor. Ese es el lugar donde habito, permanezco y moro» (Jn 15, 9-10).

He aquí la meta del discípulo para la cual no hay necesidad de esperar el tránsito de la muerte, porque está aquí, ahora, disponible para todos, porque Jesús se ha hecho camino. No es una realidad futura que se revelará más allá de esta vida a través de la muerte, un paso difícil para quien debe atraversarlo y un doloroso legado para quien deba convivir con el recuerdo, sino un regalo presente para quien «cree en él» (Jn 14, 12).

Que no sea pues turbado nuestro corazón ante la separación, sino preparémonos desde ahora a reconocer el lugar que a cada uno de nosotros corresponde en la morada eterna que nos aguarda. Que es similar al lugar del discípulo amado quien reclinó su cabeza en el pecho de Jesús en la última cena. Este estaba reclinado en el seno de Jesús (Jn 13, 25), el cual, como dice el prólogo joánico «ha vuelto al seno del Padre y ha abierto el camino» (Jn 1,18), ahora «habiendo llegado su hora de pasar de este mundo al Padre (Jn 13, 1) nos dice: «Nadie va al Padre sino por mí».

Para tratar de proponer las razones no fáciles, pero alcanzables y realizables del Santo Evangelio, la Iglesia se sirve desde siempre de muchos medios, incluida la diplomacia. Esto es el Nuncio Apostólico: un portador y anunciador del Santo Evangelio llamado a realizar la pax Christi en el mundo. Pero intentemos representar todo esto con un ejemplo concreto: en octubre de 1962 el mundo rozó la Tercera Guerra Mundial con la “crisis de Cuba”. Ya los dos interlocutores, Nikita Jrushchov y John Fitzgerald Kennedy no podían hablar ni negociar, porque ninguno de los dos estaba dispuesto a dar un paso atrás. Fue en ese momento trágico cuando intervino el Santo Pontífice Juan XXIII que, es bueno recordarlo, no era propiamente aquel simple campesino representado en ciertas iconografías populares. Provenía del mundo de la diplomacia y había sido un diplomático refinado, especialmente en su función como nuncio apostólico en Francia. Los dos interlocutores acogieron el llamamiento simultáneamente y las cabezas misilísticas en ruta hacia Cuba volvieron para atrás. Pocos meses después, en abril de 1963, el Santo Pontífice publicó su encíclica Pacem in Terris. El mensaje de paz del Evangelio prevaleció gracias a la diplomacia pontificia. Hoy, los libros de historia contemporánea narran que aquella intervención diplomática salvó a la humanidad del riesgo de una Tercera Guerra Mundial.

En lugar de recitar las letanías de las virtudes aludiré a un defecto suyo, para demostrar cómo un servidor de la Iglesia y del Papado puede mutar un defecto en virtud a través de las tres virtudes de fe, esperanza y caridad (cfr. I Cor 13, 1-13), las cuales no se sostienen sobre emociones, o peor aún sobre ideologías viscerales, sino sobre la razón. Fides quaerens intellectum e inversamente intellectus quaerens fidem, es decir: la fe requiere la razón e inversamente la razón requiere la fe, como enunció el padre de la escolástica clásica San Anselmo de Aosta remitiéndose a su vez al pensamiento del Santo Padre y doctor de la Iglesia Agustín obispo de Hipona: credo ut intelligam e inversamente intelligo ut credam, o sea, creo para entender, entiendo para creer. Y finalmente se llega al Santo Pontífice Juan Pablo II que resumió esta relación entre razón y fe en la encíclica Fides et Ratio, fe y razón.

Decidido por temperamento, era capaz de volverse inamovible. En los últimos meses de vida fue debilitado por la enfermedad, pero conservaba su carácter peculiar. Un día, durante su última estancia en la casa de cura romana Villa del Rosario — donde, por cierto, fue atendido de modo excelente por  médicos, paramédicos y religiosas —, empezó a considerar correcta una cosa errónea que habría podido ser nociva para él. Se lo dije y, al principio, casi se enojó, pero lo calmé recordándole la página del Evangelio en la cual se narra el discurso en que Jesús dice a Pedro: «“En verdad, en verdad te digo: cuando eras más joven, te ceñías e ibas adonde querías; pero cuando seas viejo, extenderás tus manos, y otro te ceñirá y te llevará adonde no quieras”» (Jn 21, 18). Sonrió y respondió irónico: está bien, te seguiré, pero trata de llevarme adonde yo quiero ir».

A las personas de carácter decidido la Cristiandad debe mucho,  basta pensar en el pasaje de los Hechos de los Apóstoles donde se narra que el Beato Apóstol Pablo «discutía con los griegos» (traducción: reñía con ellos); «pero estos buscaban matarlo» (traducción: porque no lo soportaban). «Los hermanos, al saberlo, lo condujeron a Cesarea y de allí lo enviaron a Tarso» (traducción: intentemos salvarle la vida en nombre de la naciente caridad cristiana). Y al cierre la diplomática conclusión de esta crónaca: «Así la Iglesia, por toda Judea, Galilea y Samaria, tenía paz» (que traducido significa: menos mal que se fue) (Hch 9, 29-31). Y sin embargo, ¿cuánto le debemos al carácter decidido y no poco espinoso del Beato Apóstol Pablo?

He honrado su voluntad evitando beatificaciones por medio de relatos épicos y biografías triunfales, como a veces se suele hacer en los funerales, cosas detestadas por él, también porque ninguno de nosotros conoce el juicio de Dios, pero todos sabemos cuán grande es su recompensa para sus siervos fieles, porque solo los hombres de fe forjados por las auténticas virtudes logran mutar en servicio precioso para la Iglesia incluso sus aparentes defectos; y en tal sentido, desde San Pablo hasta San Agustín, la lista de estos hombres extraordinarios es muy larga. No son los hombres decididos por su fuerza de carácter los que dañan a la Iglesia, sino aquellos que no saben decir sí cuando es sí y no cuando es no (Cfr. Mt 5, 37); son débiles orgullosos de su debilidad velada en espiritualismos y misticismos, inconscientes de que nosotros, en la secuela de Cristo, hemos sido llamados a ser la sal y no el azúcar de la tierra (cfr. Mt 5, 13-16). De hecho, cuando fuimos consagrados sacerdotes no se nos regaló un pensimiento empalagoso, el Obispo consagrante nos dijo: «Date cuenta de lo que harás, imita lo que celebrarás, conforma tu vida al misterio de la cruz de Cristo Señor». Todo ello, basado en las palabras del Divino Maestro que nos ha advertido: «Si alguno quiere venir en pos de mí, niéguese a sí mismo, tome su cruz y me siga» (Mt 16, 24-25).

Todo esto él ha buscado comprenderlo, vivirlo y transmitirlo a través de un modo particular de anunciar y llevar el Evangelio: la diplomacia eclesiástica al servicio de la Iglesia de Cristo y de la Sede Apostólica.

La fuente de la verdadera diplomacia eclesiástica está toda contenida en las líneas, dentro de las líneas y más allá de las líneas del Evangelio que, de siglo en siglo, hasta el retorno de Cristo al final de los tiempos, no cesará de poner en evidencia nuestras miserias y nuestras riquezas humanas, nuestros límites y nuestras grandezas, nuestros pecados y nuestras virtudes cristianas. Y en estos tiempos, quizás más que nunca, podemos decir con el Beato Apóstol Pablo: «He combatido el buen combate, he terminado mi carrera, he guardado la fe» (II Tim 4, 6). Porque no es fácil conservar la fe, ni siquiera dentro de aquella sociedad humana que es la Iglesia visible, definida «Santa y pecadora» por el Santo obispo Ambrosio, o siglos después, por el Cardenal Joseph Ratzinger quien meditando en 2005 la novena estación del Vía Crucis lamentó: «¡Cuánta suciedad hay en la Iglesia, y precisamente entre aquellos que, en el sacerdocio, deberían pertenecerle completamente!».

¿Quién es este sacerdote subido al púlpito a predicar en memoria de Adriano obispo? Soy un siervo inútil. Como de hecho dice el Señor Jesús: «“Cuando hayáis hecho todo lo que se os ha mandado, decid: “Somos siervos inútiles. Hemos hecho lo que debíamos hacer””» (Lc 17, 10). ¿Cuál era mi relación íntima con él? Respondo diciendo que en el Evangelio lucano se habla de la gran reserva de la Bienaventurada Virgen María que «por su parte, guardaba todas estas cosas meditándolas en su corazón» (Lc 2, 19).

Escribe el Apóstol a los habitantes de Corinto: «¿Dónde está, oh muerte, tu victoria?» (I Cor 15, 55). Reflexionando sobre este paso al final de su vida, el Sumo Pontífice Benedicto XVI comentó: «No me preparo para el final sino para un encuentro porque la muerte abre a la vida, a la vida eterna, que no es un infinito duplicado del tiempo presente, sino algo completamente nuevo».

Buen viaje hacia lo «nuevo» buen viaje «hacia lo eterno», Adriano obispo, has hecho cuanto debías hacer, como todos nosotros «siervos inútiles», de ello soy testigo como hijo, amigo y hermano. Cada 11 de septiembre, mientras físicamente me sea posible, vendré a este lugar bajo la jurisdicción de la Iglesia particular de San Marino-Montefeltro, a la cual pertenezco como presbítero — aunque no haya vivido en Montefeltro sino en Roma contigo —, para celebrar en tu lugar natal, ya hoy tu lugar de sepultura, una Santa Misa por el alma inmortal del padre, del amigo y del hermano que has sido para mí.

¡Alabado sea Jesucristo!

Santa Maria del Mutino, Monastero di Piandimeleto, 15 Septiembre 2025

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L’amaro caso del presbitero Paolo Zambaldi della Diocesi di Bolzano-Bressanone: cronaca di una morte annunciata

L’AMARO CASO DEL PRESBITERO PAOLO ZAMBALDI DELLA DIOCESI DI BOLZANO BRESSANONE: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

«Le distanze con la Chiesa Cattolica si sono fatte sempre più profonde negli anni, fino a diventare insanabili. Non posso più far parte di un’istituzione che continua a proclamare dogmi e ad alimentare un sistema di potere. La verità non ha bisogno di dogmi: la verità è evidente, non necessita di imposizioni né di svalutare la ragione. Inoltre, non condivido le posizioni discriminatorie della Chiesa nei confronti delle donne, della comunità LGBTQIA+, di chi sceglie l’interruzione volontaria di gravidanza o l’eutanasia. Tutto questo è lontano anni luce dal mio sentire umano e spirituale».

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Purtroppo, era solo una questione di tempo e diciamo questo senza nessun entusiasmo e ironica soddisfazione: il presbitero Paolo Zambaldi della Diocesi di Bressanone ha lasciato il sacerdozio nella maniera più tragica e più traumatica possibile. A darne notizia è stato lui stesso nel suo blog (vedi QUI), notizia che poi è stata ripresa da alcuni quotidiani online (vedi QUI, QUI) e da alcuni vari post sui social (vedi QUI).

il Vescovo di Bosen-Brixen (Bolzano-Bressanone) 

Chi ha avuto la possibilità di seguire nel tempo questo confratello sacerdote nelle sue elucubrazioni mentali annotate come cosa sacra sul suo blog (vedi QUI), non poteva non accorgersi della grave deriva dogmatica e dottrinale che da diverso tempo aveva offuscato la sua mente e il sano sentire cattolico che un sacerdote di Santa Romana Chiesa dovrebbe avere e custodire.

La definitiva vittoria del Serpente Antico — a cui non credeva minimamente e che più volte sbeffeggiava in coloro che ne erano vittime — ha compiuto il capolavoro di tentare un uomo fragile e debole nell’orgogliosa superbia e nell’illusione di una maggiore libertà lontana da Dio e dalla Chiesa.

Come sempre non ci deve essere un giudizio sulla persona di Paolo Zambaldi — che solo Dio conosce e può dare — ma non possiamo che rammaricarci e piangere sapendo che un giudizio sul suo stile sacerdotale non è mai stato dato pubblicamente dalla sua Diocesi e dal suo Ordinario diocesano che lo ha lasciato libero di propagare e rafforzarsi nelle sue idee confondenti per il popolo di Dio, che hanno fatto maturare in lui il frutto velenoso dell’abbandono del ministero e dello stato sacerdotale, denigrando il grembo della Chiesa che lo ha accolto e allevato per molti anni sino a scrivere queste parole:

«Le distanze con la Chiesa Cattolica si sono fatte sempre più profonde negli anni, fino a diventare insanabili. Non posso più far parte di un’istituzione che continua a proclamare dogmi e ad alimentare un sistema di potere. La verità non ha bisogno di dogmi: la verità è evidente, non necessita di imposizioni né di svalutare la ragione. Inoltre, non condivido le posizioni discriminatorie della Chiesa nei confronti delle donne, della comunità LGBTQIA+, di chi sceglie l’interruzione volontaria di gravidanza o l’eutanasia. Tutto questo è lontano anni luce dal mio sentire umano e spirituale».

Pensiamo forse che questo modo di pensare sia recente? No, purtroppo! La cosa grave è che simili soggetti arrivano nei seminari già pregni di queste idee eterodosse; e nei seminari vengono premiati dai formatori proprio per queste posizioni alternative, mentre quelli più “ortodossi” vengono regolarmente bastonati o dichiarati … problematici, o non in linea con quella o quell’altra “pastorale di tendenza” in voga al momento.

Ancora una volta, il problema della formazione sacerdotale ritorna con preponderante forza, così come la vicinanza e l’accompagnamento spirituale dei sacerdoti che deve essere continuo e reale, una priorità per il cuore paterno di ogni vescovo. Il naufragio di questo Presbitero è molto più grave delle varie fragilità morali e umane che noi uomini consacrati immancabilmente possiamo commettere, con l’aggravante che chi doveva vigilare e proteggerlo non l’ha fatto, così come non è stato fatto nulla per evitare questo tragico epilogo.

Conosco personalmente fedeli devoti cattolici che hanno segnalato più e più volte a S.E. Mons. Ivo Muser le gravi inadempienze dottrinali del suo presbitero, sacerdoti e teologi inclusi, eppure nulla si è mosso. Anzi, questo prete sopra a tutte le righe sembrava quasi essere l’enfant prodige del suo Presule, colui che avrebbe risolto tutti i problemi di Bosen-Brixen (Bolzano-Bressanone) e al quale si dava carta bianca in molte situazioni pastorali e organizzative in questa diocesi.

Cosa resta da fare adesso? Sicuramente pregare molto per lui, chiedendo a Dio la sua conversione e il suo ravvedimento, con la speranza che questo ennesimo caso di doloroso fallimento umano ed ecclesiale — del popolo di Dio e dei suoi pastori — smuova le coscienze di chi oggi può fare qualcosa.

Sanluri, 4 settembre 2025

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Pagare di tasca propria per lavorare gratis è un privilegio che solo pochi “eletti” possono permettersi

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Nella sua opera De rerum natura Tito Lucrezio Caro rivolge una critica alla religione indicandola come fonte che genera paura, superstizione e sofferenza, impedendo all’uomo di giungere alla vera felicità, od a quella conoscenza della verità — come afferma il Beato Apostolo Giovanni — che ci renderà liberi. Concetto al quale si rifarà Karl Marx con il celebre aforisma «la religione è l’oppio dei popoli». Avevano ragione tutti e due, Tito Lucrezio Caro e Karl Marx …

— Attualità —

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Duole lasciarsi andare alle geremiadi, specie quando si è consapevoli che non servono a niente, solo a manifestare comprensibile disagio fine a se stesso.

Nell’ottobre del 2024 questa nostra rivista ha compiuto 10 anni di attività, nel corso dei quali ha offerto servizi che possono essere più o meno condivisibili per contenuti e impostazioni, ma di indubbia qualità, cosa riconosciuta persino dai nostri avversari e da coloro che non la pensano come noi.

In un mondo cattolico sempre più devastato dal fideismo, da forme di millenarismo dal sapore esoterico, inquinato al presente da tutte le vecchie eresie di ritorno, i Padri de L’Isola di Patmos hanno sempre offerto un servizio improntato sul più aderente ossequio al deposito della fede, alla dottrina e al magistero della Chiesa, combattendo all’occorrenza pericolose derive e recuperando nel corso degli anni non poche persone che si erano smarrite al seguito di vari ciarlatani che oggi abbondano a dismisura, specie grazie ai social media.

Pochi mesi fa si è concluso un complesso pontificato reso complicato da un contesto geopolitico mondiale delicatissimo, il giudizio sul quale spetterà alla storia, che potrà darlo solo in futuro, forse anche tra molti anni. Un pontificato nel corso del quale diverse persone, già di per sé immature e fragili nella fede, sono andate totalmente fuori strada mettendosi in marcia dietro preti usciti fuori equilibrio, finiti sospesi a divinis, scomunicati o persino dimessi dallo stato clericale, seguiti, a loro volta, da laici senza arte né parte che si sono improvvisati ecclesiologi, canonisti e teologi in stuzzicante salsa complottistica alla Dan Brown de noartri. La nostra ultradecennale missione pastorale su L’Isola di Patmos si è incentrate principalmente sul richiamo all’unità con Pietro e sotto Pietro, a prescindere dagli evidenti difetti dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, senza dimenticare che sotto vari aspetti, quel rozzo pescatore galileo scelto da Cristo in persona, non eletto da un conclave di cardinali, a suo tempo si rivelò molto peggiore di tanti pontefici problematici della storia, sia sul piano pastorale che su quello dottrinale, basti pensare a quando giurando e imprecando rinnegò Cristo (cfr. Mt 26, 69-75) o quando ad Antiochia fu redarguito da Paolo su questioni legate alla dottrina della fede (cfr. Gal 2, 11-21)

Premesso che nella vita nulla è dovuto, che tutto va meritato e che tutto è una grazia, va detto però che la mancanza di generosità da parte delle persone — a partire dalle non poche alle quali abbiamo fatto del bene —, induce a prendere atto che l’opera pastorale portata avanti dal 2014 da un gruppo di sacerdoti e teologi forse non merita di essere sostenuta. Per questo suscitano in noi particolare amarezza — ed è difficile negare il nostro sacerdotale disagio in tal senso — le numerose persone che i Padri de L’Isola di Patmos hanno aiutato e sostenuto nel corso degli anni, sanando le loro ferite doloranti dopo che erano state ingannate da “santoni”, “santuzze” e “veggenti”, dinanzi ai quali non esitarono ad aprire i loro portafogli come fossero fisarmoniche, gli stessi che sono rimasti invece chiusi ermeticamente dinanzi alla nostra opera alla quale non hanno mai versato un euro.

C’è poco da stupirsi, sappiamo com’è solito agire quello che una volta si chiamava popolino, già lo sapeva Giovanni Boccaccio quando nel lontano XIV secolo immortalò nel Decameron la paradigmatica Novella 10 dedicata a Frate Cipolla. Basta inebriarlo, il popolino, con la garanzia del vero “segreto” di Fatima finalmente svelato dopo essere stato tenuto nascosto dalla Chiesa bugiarda e mentitrice; oppure ubriacarlo con i “dieci segreti” che una Gospa logorroica e ripetitiva, ormai affetta da evidente demenza senile, avrebbe dato a un gruppo di scaltri zingari bosniaci che grazie a questa grande truffa del Novecento si sono fatti le budella d’oro; oppure drogarlo con qualche madonna che batte i piedi come una narcisista isterica mandando a dire da qualche altro visionario fulminato che vuole essere proclamata a tutti i costi corredentrice e che smercia anch’essa “segreti” in giro per la orbe terracquea, in attesa del magico e definitivo trionfo del suo cuore immacolato. Ebbene sì, diamo questi generi di oppiacei al popolino ed ecco aprirsi come per magico incanto i portafogli. Così avveniva nella Certaldo boccaccesca del XIV secolo così avviene oggi nel Terzo Millennio.

Nella sua opera De rerum natura Tito Lucrezio Caro rivolge una critica alla religione indicandola come fonte che genera paura, superstizione e sofferenza, impedendo all’uomo di giungere alla vera felicità, od a quella conoscenza della verità — come afferma il Beato Apostolo Giovanni — che ci renderà liberi (cfr. Gv 8, 32). Concetto al quale si rifarà Karl Marx con il celebre aforisma «la religione è l’oppio dei popoli». Avevano ragione tutti e due, Tito Lucrezio Caro e Karl Marx, sbagliavano però sia il concetto che il termine confondendo la fede con il fideismo dei beoti al seguito di Frate Cipolla, che nulla hanno da spartire con la purezza della fede, da loro vilipesa e trasformata in parodia grottesca tra madonne parlanti, madonne piangenti, segreti rivelati, profezie catastrofiche e via dicendo a seguire.

Siamo arrivati alla conclusione, triste ma realistica, che in fondo questa gente si merita i vari Frate Cipolla capaci a suscitare in loro pruriti morbosi, facendogli uscire fuori soldi come gli incantatori fanno uscire il serpente dalla cesta al suono dell’ipnotico pungi.

Il paradosso è che L’Isola di Patmos non è un fallimento, tutt’altro: è un successo straordinario e a tratti incredibile. La mole di visite è pari a una media di oltre tre milioni al mese, l’anno 2024 si è chiuso con quasi quaranta milioni di visite totalizzate. Presto detto: se solo lo 0,1% di questi visitatori ci avesse donato un euro, le spese di gestione sarebbero totalmente coperte e ne avremo persino d’avanzo per qualche opera di carità.

Chiunque s’intenda solo un po’ di certi aspetti tecnici, con pochi colpi d’occhio coglie immediatamente la qualità del sito che ospita la nostra rivista, a partire dalla grafica. Offrire la versione stampabile degli articoli, la audio-lettura, spesso anche la traduzione degli stessi in tre lingue, comporta un lavoro redazionale notevole, tutto svolto dai Padri a titolo puramente gratuito. Certo, fa specie che nel corso di un anno solare non si riesca a raccogliere neppure la metà del necessario per il pagamento delle spese vive di gestione e che puntualmente si debba provvedere di tasca nostra al sopraggiungere delle scadenze di pagamento. Perché impiegare le proprie personali risorse per avere il raro privilegio di lavorare gratis per le persone che prendono e non danno, o che dopo avere dato agli scaltri incantatori di serpenti, una volta finito il suono del piffero e con esso l’effetto ipnotico vengono a piangere da noi per essere aiutate e sostenute, è davvero una gran soddisfazione, anzi: è proprio un privilegio, lavorare gratis et amor Dei per queste persone! Ma siamo preti e per quanto tanta sarebbe la voglia, mettere queste persone alla porta, come meriterebbero, è contro la nostra natura ontologica sacerdotale.

L’Isola di Patmos sta concludendo il proprio undicesimo anno di attività senza mai avere conosciuto flessioni ma solo un continuo incremento, lo prova l’alto numero di visite che a partire dal 2016 ci ha obbligati a spostare il sito su un server-dedicato, che costituisce la maggior voce di spesa annuale seguita dalle altre spese per i vari abbonamenti quali l’acquisto dei programmi grafici, audio, video, sistemi di sicurezza… Insomma, stiamo parlando di qualche cosa che funziona e che funziona anche molto bene, ma che non dispone dei mezzi di sussistenza. Per questo abbiamo deciso di darci un altro anno di tempo: se a settembre del 2026 non avremo raccolto tutto il necessario per sostenere le spese del successivo anno 2027, o se non troveremo un ente pubblico o privato disposto a finanziarci, concluderemo la nostra felice e proficua esperienza di apostolato chiudendo la rivista L’Isola di Patmos, conservando sempre il ricordo indelebile di questa esperienza bellissima vissuta nell’unione cattolica d’intenti in piena comunione tra un gruppo di sacerdoti che hanno cercato di testimoniare il Cristo vivo e vero. Come però insegna il Beato Apostolo Paolo nella sua epistola al discepolo Timoteo:

«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (II Tm 4, 1-4).

E quel giorno oggi è venuto, purtroppo, riteniamo di averne fatto triste spesa anche noi. Però, anche in questo caso, il Santo Vangelo ci insegna:

«Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi». 

Dall’Isola di Patmos 31 agosto 2025

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Riscoprire la filosofia della cura: dall’accudimento alla persona al prendersi cura delle possibilità

RISCOPRIRE LA FILOSOFIA DELLA CURA: DALL’ACCUDIMENTO ALLA PERSONA AL PRENDERSI CURA DELLE POSSIBILITÀ1

L’accudimento è un elemento essenziale di ogni consorzio umano civile, il grado di sviluppo di una società matura si riconosce non tanto dalla sua capacità di fare o di creare ma nella sua capacità di prendersi cura degli altri. Anche nell’ipotesi del migliore dei mondi possibili in cui siano state finalmente abolite le guerre, le povertà e le malattie, l’imperativo alla cura resta immutato dentro quella componente umana, troppo umana ma anche felicemente umana che ci permette di mantenerci autentici.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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L’autenticità come perdita di tempo. Il tempo estivo è quel momento propizio per riscoprire il senso più genuino “del sé”.

E questo non soltanto come realtà psicologica comprendente la consapevolezza e la percezione che un individuo ha di sé stesso ma proprio come soggetto ontologico che riflette e fa memoria sul proprio essere. L’estate è quel tempo opportuno per ricentrarsi sulla propria umanità, non è un tempo di inerzia o di pigrizia come per molto tempo è stato considerato ma è un tempo in cui la coscienza di arricchisce e si approfondisce.

È proprio dell’essere umano, infatti, formulare interrogativi e porre domande che toccano la propria essenza.  I nostri antichi padri del pensiero si erano accorti che ognuno di noi è capace di filosofeggiare sulla propria esistenza: sull’essere e sull’esserci.

Questo percorso di ricerca non può che riguardare le scelte individuali e quotidiane, le situazioni che oppongono delle obiezioni e a cui bisogna dare un senso, fino ad arrivare alla contemplazione senza giudizio di quel bene e di quel male con cui ogni uomo è impastato e che lo rende così unico e raro tanto da caratterizzarlo all’interno di una tensione verso la verità, tra il tormento e la grazia. C’è da riconoscere che oggi sempre più raramente desideriamo filosofeggiare su noi stessi e sul mondo che ci circonda e questo è oggettivamente e filosoficamente un male. Consideriamo tutto ciò come una perdita di tempo inutile e privilegiamo le strategie e le soluzioni facili ― last minute ― cadendo in quel peccato dell’uomo moderno che è identificabile in un’esistenza inautentica.

Quando non sono capace a determinarmi, altri prenderanno il mio posto e lo faranno per me, insieme a tutte quelle realtà che il mondo moderno dispone a questo proposito: addormentare la coscienza critica per vivere un continuo presente fatto di una successione compulsiva di eventi che mi lasciano spettatore passivo e tristemente compiaciuto.

Il pensiero filosofico ci permette di porre un freno a questo vorticoso turbinio di eventi, esso è capace di distinguere tra verità e autenticità ed è proprio nell’autenticità che scorgiamo più profondamente l’individuo nel suo essere soggetto ontologico, nel mantenersi fedele a sé stesso e quindi alla propria natura umana. Per certi versi l’autenticità dell’uomo è il saper essere coerenti in quella ricerca della verità e di senso.

Martin Heidegger, rimprovera all’uomo il rischio di cadere nella non autenticità per i tanti doveri, obblighi e impegni nei quali vive e che lo allontanano da sé stesso e dagli altri. Abbiamo tutti troppo da fare per preoccuparci di essere e di esistere, di esserci e di esistere nella vita degli altri.

L’uomo autentico, che è capace di inseguire la verità del proprio essere, ama la lentezza, che è un po’ quella capacità di saper perdere il tempo per poterlo poi ritrovare non in senso quantitativo ma qualitativo. E una logica oggi impopolare quella del perdere per guadagnare e se ci pensiamo le cose più importanti della vita dell’uomo sembrano essere costantemente in perdita per poter funzionare a dovere, per crescere e svilupparsi armonicamente.

Mi capita spesse volte di rivolgere alle coppie di coniugi in stanca matrimoniale queste due semplici domande: «Quanto tempo dedichi a tuo marito/moglie?»; «Quanto tempo sapete ritagliarvi nella vostra giornata per stare insieme?» La risposta è quasi sempre la medesima, salvo piccole varianti: «Padre non abbiamo tempo, siamo troppo impegnati, siamo troppo indaffarati». Queste risposte sono il segnale di una autenticità personale e di coppia che sta soffrendo, di un essere che non è più.

Stesso discorso lo possiamo fare in ambiti differenti: tra figli e genitori, tra amici e colleghi di lavoro. Anche all’interno della Chiesa il bisogno di autenticità tocca la persona dei consacrati e dei fedeli. La non autenticità dell’essere è come la ruggine che corrode l’umanità di ciascuno con il rischio di diventarne talmente parte di essa che è poi difficile distinguerla da quello che è autentico. È solo nell’autenticità che io mi permetto di essere e di esserci, di conoscere me stesso e l’altro. Non sono le cose da sbrigare che mi determinarono, non sono i ruoli con cui mi presento al mondo che mi identificano o quello che gli altri mi caricano sulle spalle attraverso mille aspettative.

L’autentico soggetto ontologico che racchiude la verità di me stesso e il medesimo che mi permette di conoscere e dialogare con la verità dell’altro, ma per far questo occorre saper perdere tempo, camminare con lentezza, che è la vera forma della memoria come scriveva Milan Kundera. Il saper filosofeggiare dei nostri antichi padri comprendeva tutto questo, il cui guadagno consisteva anzitutto in una perdita di tempo che era capace di curare e di accudire la persona.

La cura come possibilità di essere e di esserci. Tutti siamo bisognosi di cura, così come tutti possiamo essere i soggetti attivi di una cura. La cura non è solo una prerogativa dei deboli e dei fragili ma fa parte di ogni essere uomo che viene al mondo, nella consapevolezza di non poter vivere come un assoluto a sé stesso.

Il mito dell’uomo che «non deve chiedere mai» indipendentemente dal suo essere maschio o femmina ― è appunto un miraggio dell’ideologia del benessere, di chi presume di potersi fare da solo, un mito prometeico di assoluto che abbiamo visto naufragare proprio con l’evento pandemico di alcuni anni fa che ha messo in crisi questa modalità di vedere l’uomo moderno come invincibile e padrone di sé. L’accudimento è un elemento essenziale di ogni consorzio umano civile, il grado di sviluppo di una società matura si riconosce non tanto dalla sua capacità di fare o di creare ma nella sua capacità di prendersi cura degli altri. Anche nell’ipotesi del migliore dei mondi possibili in cui siano state finalmente abolite le guerre, le povertà e le malattie, l’imperativo alla cura resta immutato dentro quella componente umana, troppo umana ma anche felicemente umana che ci permette di mantenerci autentici. Ne è un esempio l’immagine evocativa di Anchise portato in braccio dal figlio Enea che la mitologia antica ha individuato come icona della virtù della pietà ― precedente e anticipatrice della pietas cristiana ― e che comprende e racchiude il dovere, la devozione e l’affetto, caratteristiche tutte che ritroviamo nella cura verso gli altri qui racchiuse nell’autenticità di una relazione tra padre e figlio.

Forse è necessario ritornare a riscoprire una filosofia della cura per poter successivamente elaborare un’etica efficace della cura: la consapevolezza di perdere tempo sapendo che «aver cura significa prendersi a cuore, preoccuparsi con premura» (cf. L. Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015), così come il gesto di Enea suggerisce. Colui che curandosi del vecchio padre, dopo la disfatta di Troia, viene reciprocamente da lui custodito in quella stretta dei Penati, le divinità protettrici della famiglia, nelle mani del vecchio genitore.

Perché questi richiami? Perché il saper filosofeggiare ci permette di leggere e di interpretare il presente che ci circonda fuggendo la non autenticità e la distorsione della verità dell’essere che risiede come evenienza per ogni uomo. Tutti noi ricordiamo i casi di cronaca recente di Laura Santi e di don Matteo Balzano, ebbene sono proprio queste due vite spezzate dal suicidio che rendono doveroso un sapersi fermare e interrogare sull’importanza che ogni uomo ha e sulla cura che ogni uomo merita di avere. Delle domande non possono che essere formulate davanti a queste due vite che non sono più, non per cercare facili consolazioni e inutili responsabilità ma per sottolineare ancora una volta come preferiamo spesso accomodarci sull’inganno della non autenticità che sulla faticosa perdita di tempo che il curare comporta.  

Quando una società civile si abbandona nell’illusione di normalizzare e regolamentare il suicidio di un uomo ― inteso anche come scelta eutanasica ― in base a giustificazioni che fanno capo a circostanze dispotiche e capricciose o a una necessità ineludibile, ebbene siamo al vertice della non autenticità dell’uomo e quindi al capolinea della sua disumanizzazione e della negazione del suo essere ontologico, l’anti-uomo per eccellenza. M. Heidegger parlava di «prendersi cura delle possibilità» (cf. Heidegger, Segnavia, (1967), Adelphi, Milano 2002, p. 21), intendendo come l’uomo abbia la possibilità di aspirare e realizzare la migliore forma di vita possibile, realizzando quella capacitività del suo essere che non si limita al solo esistere ma è caratterizzata da una progettualità, da un divenire più ampio di esistenza: «l’essere nell’esserci». Ed è proprio questo divenire più ampio di esistenza, l’autentica cura che il mondo moderno deve saper riscoprire come elemento di civiltà e di umanizzazione davanti al pericolo della negazione dell’essere che vede il suicidio come tollerabile e la malattia grave come fatalità da cui non è più possibile uscire.

La possibilità di aspirare e di realizzare una migliore forma possibile è quello che permette all’uomo di poter stare in ogni contesto e situazione della sua esistenza, aprendo porte che fino a quel momento sembravano chiuse, superando ostacoli apparentemente insormontabili. Il sapersi riconoscere uniti l’uno all’altro smuove il coraggio di promuovere ampie possibilità di umanizzazione, di responsabilità, di incoraggiamento e di sostegno della propria autentica identità.

Proviamo ancora a filosofeggiare ed immaginiamo diversi ambiti dove anche ciascuno di noi vive e lavora. Forse certe situazioni che ci appaiono difficoltose o disperate sono caratterizzate non tanto dalla cattiveria, dall’invidia o del cieco fato ma dalla mancanza di sapersi prendere cura e di sentirsi oggetto di una cura premurosa e attenta. Come è possibile farci portatori di quell’essere nell’esserci all’interno di una situazione di malattia terminale o di oppressione e disperazione mortale che svuota di ogni senso? In altre parole, quale responsabilità abbiamo davanti a questi bisogni di cura più o meno espressi, più o meno coscienti e consapevoli? La cura dell’esserci è anzitutto gratuità e desiderare ardentemente di perdere tempo e di compromettersi con l’altro con rispetto, senza pretesa di dominio o di imposizione. La cura richiede coraggio che al giorno d’oggi più che mai si esprime come atto politico nel senso originario del termine.

Joan C. Tronto, una delle voci più autorevoli nella riflessione contemporanea sulla filosofia della cura, sottolinea come questa rappresenti una tra le pratiche basilari per una buona convivenza democratica e per una giustizia sociale non ideologica e questo è vero ma non ancora sufficientemente compreso perché ancora relegato ad ambiti circoscrittiti come quelli familiari, privati o confessionali.

Ricordiamoci questo e ritorniamo a filosofeggiare e a pensare che dietro le proposte apparentemente pietose dell’eutanasia e della facile commozione per coloro che con un gesto estremo ci hanno lasciato, esiste l’opzione della cura che ci permette di «riparare il nostro mondo così da poterci vivere nel modo migliore possibile», quel mondo che include tutto: i nostri corpi, le nostre identità personali, il nostro ambiente. (cf. B. Fisher, J.C. Tronto, Toward a Feminist Theory of Caring, in E. Abel, M. Nelon, Circles of Care, SUNY Press, Albania 1990, p. 40).

Sanluri, 18 agosto 2025

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1 Articolo liberamente tratto dal quadrimestrale di filosofia pratica La chiave di Sophia, N.27 Anno X Giu-Ott 2025, cfr. articoli di Elisa Giraud e Chiara Frezza.

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Carlo Acutis, l’Eucarestia. A volte avere grilli per la testa è sterile e pericoloso

CARLO ACUTIS, L’EUCARESTIA. A VOLTE AVERE GRILLI PER LA TESTA È STERILE E PERICOLOSO

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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La canonizzazione di nuovi santi è sempre un momento di dono per la Chiesa. Per nuove figure che sono modello ed intercessione per noi che rimaniamo. Anche per soffermarci su alcuni temi che quegli stessi santi hanno approfondito e vissuto nella loro vita.

Papa Leone, confermando il cammino svolto finora da Papa Francesco, ha confermato la canonizzazione di due santi: Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati per il prossimo 7 settembre. Se dunque innanzi alle nuove canonizzazioni, un minimo di dibattito e di riflessione sono sempre comprensibili, ed anzi auspicabili anche in una linea più teologico speculativa, alcune esasperazioni sui presupposti teologici e dottrinali degli stessi santi può risultare pericoloso e sterile se non addirittura stucchevole.

L’impressione che, mi sembra, ci sia dietro alcuni scritti recenti non sia quella di valorizzare un’opera di un santo, che se come noto, per fede, in sé stesso non ci è ovviamente chiesto di accogliere come quarta persona della Trinità, però non ci è neanche chiesto di usarlo come grimaldello per smontare una visione classica della teologia eucaristica. È il caso di un recente articolo del Prof. Andrea Grillo sulla teologia Eucaristica di Carlo Acutis. Articolo che non ci sembra cogliere a pieno le potenzialità del santo. Vediamo ora di comprenderlo un passo alla volta. Innanzitutto, focalizziamoci su Carlo Acutis.

CARLO ACUTIS: UN SANTO DELL’INTERNET OF THINGS[1]

Carlo Acutis, nato a Londra nel 1991 e trasferitosi a Milano poco dopo, è una figura venerata dalla Chiesa Cattolica, noto per la sua precoce e profonda fede. La sua biografia rivela una vita breve ma intensa, caratterizzata da una straordinaria devozione e un talento eccezionale per l’informatica, che mise al servizio della sua spiritualità. Fin da bambino, Acutis manifestò una notevole inclinazione verso la fede. Questa sua devozione innata lo portava a desiderare ardentemente di ricevere la Prima Comunione, che gli fu concessa in anticipo, all’età di sette anni. Da quel momento, la Messa quotidiana, l’adorazione eucaristica e il rosario divennero pilastri della sua giornata. Frequentò le scuole dalle Suore Marcelline e successivamente l’Istituto Leone XIII, distinguendosi come uno studente brillante e socievole. Parallelamente ai suoi studi, Acutis sviluppò una notevole passione per l’informatica, diventando autodidatta e guadagnandosi l’appellativo di “genio dell’informatica”. Questa abilità non fu per lui un mero hobby, ma uno strumento di evangelizzazione. A soli quattordici anni, creò un sito web dedicato alla catalogazione dei miracoli eucaristici riconosciuti dalla Chiesa, un’opera che divenne uno strumento di evangelizzazione a livello mondiale, attirando l’attenzione di numerosi fedeli. Il suo obiettivo era far conoscere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, diffondendo la fede attraverso le nuove tecnologie.

Nonostante la sua profonda spiritualità, Acutis era un adolescente come tanti, che amava giocare a calcio, dedicarsi ai videogiochi e stare con gli amici. La sua carità era un tratto distintivo: utilizzava i suoi risparmi per aiutare i senzatetto e dedicava il suo tempo come volontario nelle mense per i poveri. Era anche un punto di riferimento per i suoi compagni di scuola, aiutandoli nello studio e offrendo supporto a chi affrontava bullismo o difficoltà familiari.

Nell’ottobre del 2006, la vita di Acutis fu bruscamente interrotta da una diagnosi di leucemia fulminante. Affrontò la malattia con una serenità sorprendente, offrendo le sue sofferenze per il Papa e per la Chiesa. Morì il 12 ottobre 2006, all’età di 15 anni. La sua fama di santità si diffuse rapidamente, portando all’apertura del suo processo di beatificazione nel 2013. Papa Francesco lo dichiarò Venerabile nel 2018 e nel 2020 riconobbe un miracolo a lui attribuito, aprendo la strada alla sua beatificazione, avvenuta il 10 ottobre 2020 ad Assisi. Il suo corpo è conservato ed esposto alla venerazione ad Assisi.

Carlo Acutis è oggi considerato un modello di santità per i giovani nell’era digitale, spesso chiamato «l’influencer di Dio» o «il cyber-apostolo dell’Eucaristia», per la sua capacità di unire fede e tecnologia.

Essendo personalmente legato all’apostolato di predicazione digitale, ritengo che per questa propensione alla divulgazione della fede in internet sia uno dei punti di luce, in cui tutti i giovani possano prendere modello ed ispirazione, per diventare dei «cyber predicatori digitali», senza per questo diventare bigotti o estremisti.

UNA SCHERMAGLIA ECCESSIVA

 Il Professor Andrea Grillo, nel suo articolo Il giovane Carlo Acutis e la maleducazione eucaristica [2], offre una disamina critica dell’interpretazione teologica dell’Eucaristia veicolata dalla figura del Beato Carlo Acutis, con particolare attenzione all’insistenza sui cosiddetti «miracoli eucaristici». Grillo si interroga su come Acutis, un «super-comunicatore», possa essere stato orientato verso una comprensione così «distorta» e «unilaterale» dell’Eucaristia, focalizzata sui «miracoli» anziché sul genuino valore ecclesiale del sacramento.

Il Professore esamina attentamente il sito ufficiale dell’Associazione Carlo Acutis, in particolare la sezione dedicata ai miracoli eucaristici, e analizza criticamente i testi introduttivi redatti dal Cardinale Angelo Comastri, da Monsignor Raffaello Martinelli e dal padre domenicano Roberto Coggi, che fu anche mio docente di filosofia della natura negli anni bolognesi della mia formazione. Grillo definisce questi testi «vecchi … pesanti … ossessivi», suggerendo che essi incarnino una «cattiva teologia» imposta ad Acutis da «cattivi maestri». Egli evidenzia incongruenze e visioni teologiche superate nelle loro scritture, come la prefazione difensiva del Cardinale Angelo Comastri, la giustificazione dei miracoli come “occasioni” per affrontare altri temi da parte di Monsignor Paolo Martinelli, e la comprensione antiquata delle parole della consacrazione di Padre Roberto Coggi. Il Professore sostiene che questa enfasi sui miracoli fisici distoglie l’attenzione dal «vero» e «”unico» miracolo eucaristico, che risiede nella comunione ecclesiale e nell’unità tra il corpo sacramentale e il corpo ecclesiale. La «maleducazione eucaristica», conclude Grillo, non è imputabile al giovane Carlo Acutis, quanto piuttosto agli adulti che hanno promosso queste interpretazioni sbilanciate, proponendo infine una “fissazione distorta sui miracoli eucaristici” come modello per i giovani.

AVERE GRILLI PER LA TESTA

Se da un lato concedo che l’eccessiva attenzione ai miracoli eucaristici «veicolato dagli adulti» in modo devozionalistico e quasi «eucaristolatrico» rischia di non far comprendere il vero senso dell’Adorazione in Gesù Cristo presente in corpo, sangue, anima e divinità e anche nell’Eucarestia quale comunione del nuovo popolo di Dio [3],  ci sembra che il focus del professore non sia quello di smontare una falsa devozione eucaristica, ma, quanto al contrario, di minimizzare fino a quasi descrivere come obsoleta la concezione della presenza sostanziale di Cristo nelle specie eucaristiche. Sebbene questo non viene detto esplicitamente, il modus in rebus risulta eccessivo. Se davvero si voleva colpire solo una tendenza «eucaristolatrica», ritengo personalmente più giusto esaltare anche i passaggi di bontà dello stesso Acutis e del suo desiderio di far comunione in Cristo anche tramite internet. Saltando a più pari il riferimento al prossimo santo, ogni riferimento sembra proprio pensato per attaccare la dottrina della presenza reale, senza motivi dottrinalmente validi.

Per cui scherzosamente, rispetto alle posizioni del professore, scrivevo tempo fa che questa propensione ad usare Carlo Acutis come grimaldello per scardinare «i chiusi rimasti a concilio tridentino» o come un trampolino per saltare a piè pari tutta la bellezza della riflessione sulla contemplazione eucaristica, questa propensione è come avere grilli per la testa. Tre salti — in lungo, esagerati e fuori focus — di un grillo che penso vadano un po’ risistemati. Puntualmente adesso cercheremo di rispondere, documenti alla mano, alle posizioni del Professore.

Eucaristia «vecchia» e «fuori moda»? La verità sull’Eucaristia come presenza reale non ha età e non può essere “fuori moda” come probabilmente diventerà una coca cola zero fra quindici anni. La dottrina della Presenza Reale di Gesù nel Santissimo Sacramento è il cuore della nostra fede e un pilastro immutabile, non una «moda» passeggera. Il Concilio di Trento ha solennemente affermato che Cristo è «veramente, realmente e sostanzialmente» presente nell’Eucaristia [4]. Il Concilio Vaticano II, lungi dal negare questa verità, l’ha approfondita, esortandoci a una partecipazione più piena e consapevole al Sacrificio eucaristico [5] .Carlo Acutis, con la sua vita, ci ha semplicemente tentato di ricordarci la bellezza e la potenza di questa verità eterna, dimostrando che essa può infiammare il cuore di ogni generazione. Ha cercato di fare comunione digitale e virtuale a partire dalla comunione reale con Cristo Eucaristico. Se l’Eucaristia è davvero «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» [6] allora non è affatto inessenziale, ma il centro di tutto.

Miracoli Eucaristici vs. il «Vero Miracolo»? I miracoli eucaristici riconosciuti dalla Chiesa, pur non essendo «oggetto di fede» come i dogmi, possono essere un grande aiuto per la nostra fede. Monsignor Raffaello Martinelli, in uno dei testi che presenta la mostra di Carlo, spiega che possono «costituire un utile e fruttuoso aiuto alla nostra fede». Essi sono segni straordinari che Dio, nella Sua infinita sapienza, ci offre per rafforzare la nostra adesione al Mistero. San Tommaso d’Aquino stesso ha spiegato come nelle specie eucaristiche si esprimono sostanzialmente le proprietà della carne e del sangue, anche se tale proprietà ineriscono a Dio per un miracolo [7]. Questo richiamo è davvero necessario per noi che quelle proprietà non potemmo adorarle nel corpo glorioso di Cristo, perché nati secoli e millenni dopo la presenza del Verbo Incarnato sulla terra. Questi fenomeni non eliminano il vero miracolo della Transustanziazione, ma possono aiutare a sottolinearlo in modo visibile, guidando molti a una fede più profonda nella Presenza Reale. Carlo Acutis non ha «trascurato» il vero miracolo, ma ha usato questi segni per condurre altri al cuore di quel Mistero che per lui era «la mia autostrada per il Cielo».

“Maleducazione eucaristica” e «cattivi maestri»? Queste proposizioni del Professore ci sembrano poco prudente. Nessun articolo teologico autorizza a processare le intenzioni di altri teologi. Padre Roberto Coggi, Monsignor Paolo Martinelli e il Cardinale Angelo Comastri sembrano quasi descritti come dei cattivi maestri portatori di una teologia obsoleta e stantia, che, per come descritta, sembra quasi lontana dalla dottrina cattolica. Questo non ci sembra. Leggiamo insieme cosa ci dice la Chiesa. Le parole della consacrazione, come ci insegna il Catechismo (n. 1353), hanno il loro fulcro nelle parole di Cristo: «Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…». Il Messale riformato nel 1970 ha ripreso questa formula traducendola dal latino: e infatti ha così provato le parole essenziali che operano il Sacramento rimangono quelle istituite dal Signore. Come tutto questo possa entrare nel novero della «maleducazione» o della «fantasia», o della cattiva maestria, mi sfugge completamente. Nessuno degli autori succitati, inoltre, ha mai negato l’importanza dell’Eucarestia come Comunione del Nuovo Popolo di Dio, e in particolare il padre Coggi, nel suo bel libro La Chiesa, frutto delle sue meditazioni a Radio Maria, scrive;

«La Chiesa non è presentata dal Concilio solo come il Corpo mistico di Cristo, ma anche come il nuovo Popolo di Dio. Anzi, si può dire che il Concilio ha sottolineato in modo particolare questo aspetto della Chiesa, che cioè la Chiesa è il Popolo di Dio. Lo dimostra il fatto che il Concilio dedica a questo argomento un intero capitolo fra gli otto di cui è costituita la Lumen Gentium. Infatti il secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa è intitolato: Il Popolo di Dio. Vedere la Chiesa come Popolo di Dio apre molte prospettive. Innanzitutto sottolinea la continuità del Nuovo Testamento con l’Antico Testamento: come Israele era il Popolo di Dio dell’Antica Alleanza, così la Chiesa è il Popolo di Dio della Nuova Alleanza. Inoltre sottolinea l’aspetto storico della Chiesa. Le denominazioni che abbiamo esaminato nelle passate trasmissioni, quando abbiamo detto che la Chiesa è il Regno di Dio, il Tempio di Dio, il Corpo mistico di Cristo, concentrano la nostra attenzione sul legame della Chiesa con Dio, con la Santissima Trinità, con Gesù risorto e glorioso, cioè sottolineano la dimensione eterna della Chiesa. Ma la Chiesa non ha soltanto questo aspetto, che in un certo senso la sottrae al mondo e alla storia. La Chiesa è anche inserita nella storia umana, la Chiesa cammina nel tempo. Dire che la Chiesa è il Popolo di Dio, il Popolo di Dio pellegrinante nella storia verso il traguardo dell’eternità – come l’antico Popolo di Israele peregrinava nel deserto verso la terra promessa -, dire questo è cogliere un aspetto essenziale della Chiesa» [8].

È davvero un passaggio splendido per comprendere anche la Chiesa come popolo di Dio. Insomma l’attenzione alla Presenza Reale non è disattenzione verso i fedeli: ma di un’attenzione al nucleo del Mistero che arriva ai fedeli. Accusare di «cattiva teologia» chi cerca di comunicare la centralità della Presenza Reale, anche attraverso la devozione popolare e i miracoli, significa non comprendere la pluralità e la ricchezza delle vie attraverso cui la fede viene trasmessa e vissuta.

CONCLUSIONI

Il futuro santo Carlo Acutis è un modello di santità proprio per la sua ardente fede eucaristica, un esempio luminoso per tutti noi e per i giovani. Una fede non devozionistica e ancorata a retaggi semipagani o protestanti. Quella di Acutis è una fede eucaristica che ci aiuta a ripetere l’azione del piccolo apostolo Giovanni nell’ultima cena. Egli cioè di fronte a Gesù appoggiò il suo capo sul petto di Gesù sul suo Sacro Cuore. E in quel «accoccolarsi» abbandonò tutto sé stesso a Dio. Così anche noi durante l’adorazione al Santissimo, possiamo appoggiare il nostro capo sul Suo Sacro Cuore. Abbandonare tutte le nostre ansie, tutte le nostre paure, e anche offrendo tutto quello che abbiamo a Lui. Un bel momento di preghiera che, di cuore, auguro anche al Professor Andrea Grillo.

Santa Maria Novella in Firenze, 23 luglio 2025

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Per approfondire

– Concilio di Trento, Sessione XIII, Decreto sull’Eucaristia, Canone 1. Cfr. Denzinger-Hünermann, Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 1651.

– Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 14.

– Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 11.

– San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 77, a. 1.

– Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

– R.Coggi, La Chiesa, ESD, Bologna, 2002, 81.

NOTE

[1] Sintetizzo da qui https://biografieonline.it/biografia-carlo-acutis

[2] Si veda

https://www.cittadellaeditrice.com/munera/il-giovane-carlo-acutis-e-la-maleducazione-eucaristica/

[3] Non esiste la comunione dei fedeli in Cristo senza la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, sebbene anche questo, en passant, sembra essere assunto dal professore.

[4] Denzinger-Hünermann, n. 1651

[5] Sacrosanctum Concilium, n. 14.

[6] Lumen Gentium, n. 11

[7] Summa Theologiae, III, q. 77, a. 1, Somma Teologica III, q.76,a.8.

[8] R.Coggi, La Chiesa, ESD, Bologna, 2002, 81.

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Carlo Acutis. La fabbrica dei Santi passata al vaglio delle critiche dal teologo Andrea Grillo

CARLO ACUTIS. LA FABBRICA DEI SANTI PASSATA AL VAGLIO DELLE CRITICHE DAL TEOLOGO ANDREA GRILLO

Di recente è stato sollevato un dibattito per certi versi interessante, perfino con qualche punta polemica, scaturito dagli interventi del Professor Andrea Grillo. Le sue puntuali critiche e perplessità erano rivolte a come il Beato Carlo Acutis viene ufficialmente presentato e sulla pubblicità ecclesiastica che si è sviluppata attorno a lui, la quale, a suo dire, risentirebbe di una sensibilità religiosa arretrata, che terrebbe di nessun conto tutto il cammino fatto dalla Chiesa negli anni del post Concilio in tema di Eucarestia.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il popolare detto, «scherza coi fanti, lascia stare i Santi», negli ultimi tempi pare abbia perso di valore nei riguardi di colui che è considerato il beato moderno per eccellenza: Carlo Acutis; prossimamente innalzato agli onori degli altari insieme all’altro giovane beato Piergiorgio Frassati.

Poco tempo fa sono iniziati a circolare commenti circa l’opportunità della canonizzazione di Carlo Acutis; essi provenivano perlopiù ― e lo dico esemplificando molto ―, dagli ambienti cosiddetti conservatori. Gli appunti si addensavano intorno alla velocità del processo di canonizzazione, che appariva a costoro più una promozione della politica ecclesiastica che un invito alla santità. Di seguito sono emerse domande sulla figura del prossimo Santo che poco avrebbe da proporre ai giovani di oggi, i quali viaggiano sulla rete molto più velocemente del Beato ritenuto «genio dell’informatica», solo per aver creato un semplice sito internet sui miracoli eucaristici. E ancora, critiche sono state mosse alla presenza costante della famiglia Acutis; anche questa una novità tollerata dalla Chiesa che invece, in passato, proibiva ogni intervento pubblico dei familiari, come nel caso della madre e dei fratelli della giovane Santa Maria Goretti. Diversa invece la situazione odierna dove le mamme promuovono il figlio santo, oppure i figli e i nipoti che girano a tenere conferenze sul padre, la madre, il nonno o la nonna elevati agli onori degli altari.

Più di recente, da un fronte diverso, è stato sollevato un dibattito per certi versi interessante, perfino con qualche punta polemica, scaturito dagli interventi del Professor Andrea Grillo, docente di Liturgia presso l’Ateneo romano di Sant’Anselmo, riportati sulla sua pagina facebook e sul suo blog. Le sue puntuali critiche e perplessità erano rivolte invece a come il Beato Acutis viene ufficialmente presentato e sulla pubblicità ecclesiastica che si è sviluppata attorno a lui, la quale, a suo dire, risentirebbe di una sensibilità religiosa arretrata, che terrebbe di nessun conto tutto il cammino fatto dalla Chiesa negli anni del post Concilio in tema di Eucarestia. In particolare, egli ha usato l’espressione «mala educazione» riferendosi alla debordante attrazione verso il miracoloso, sottolineata nella presentazione del Beato Carlo. Afferma Grillo:

«Come è possibile che tutto il cammino che la Chiesa ha fatto negli ultimi 70 anni, sul piano della comprensione del valore ecclesiale dell’Eucaristia e della sua celebrazione, sia stato comunicato in modo così distorto al giovane ardente comunicatore, tanto da suggerirgli una comprensione tanto lacunosa, tanto difettosa, tanto unilaterale?».

Egli muove perciò una critica, più che al Beato, mai messo in discussione, piuttosto alla presentazione che di lui viene fatta e, riguardo all’Acutis, se la sua fu una passione verso i miracoli eucaristici, secondo il professore questa non fu ben indirizzata. Da queste affermazioni che ho molto sintetizzato, ne è nato un dibattito che, come sempre accade, prevede favorevoli e contrari. Forse alcune affermazioni del docente sono potute apparire a tratti pungenti, mi riferisco a quelle rivolte ai celebri motti del Beato, che ne hanno decretato la fortuna: «Non io ma Dio» e «Tutti nascono originali ma molti muoiono fotocopie». Ciononostante, alcune domande sollevate sono difficilmente aggirabili, rivolte soprattutto ai promotori della causa di canonizzazione e non al Santo, i quali si sono «fermati» troppo unilateralmente sull’aspetto miracolistico della presentazione dell’Eucarestia.

È probabile che alcune problematiche prima o poi sarebbero emerse, indipendentemente dalla canonizzazione del giovane Beato Acutis, a seguito delle nuove norme emanate da Giovanni Paolo II, anch’egli precoce Santo, le quali hanno permesso di accelerare i tempi per far si che si potessero presentare figure contemporanee, a scapito però della perdita di una prospettiva storica e dell’impossibilità di valutare la permanenza di una memoria e di un’ispirazione. Il discorso in questa circostanza si fa ancor più delicato perché parliamo, fra l’altro, di un ragazzo morto in giovanissima età che, secondo le concordi testimonianze, ha umanamente mostrato grande entusiasmo, generosità e coraggio e che la Chiesa Cattolica ha deciso, con procedure semplificate rispetto al passato, ma non per questo superficiali, di proporre come possibile modello per tutti, soprattutto per i giovani.

Il processo che porta alla canonizzazione di un Santo è complesso e delicato insieme. Alla fine, è come una consegna o un dono che la Chiesa fa a tutti i fedeli, quando riconosce le virtù di uno dei suoi figli. Ma i fedeli ― e questo spesso non accade ―, dovrebbero avere quella necessaria maturità che viene dalla formazione teologica e non solo, quel sensus fidei che porta a un sano discernimento e spirito critico. Pensiamo, per fare un esempio, alla tendenza attuale di considerare tutti i canonizzati come dottori della Chiesa, dando ai loro scritti un valore esorbitante. Mentre invece bisognerebbe sapere che la canonizzazione di un Santo non vuol dire, ipso facto, che tutto quello che egli ha scritto o detto sia da considerarsi oro colato. A maggior ragione quando siamo di fronte alla canonizzazione di un adolescente, che certamente avrà avuto una formazione non completa o esaustiva. Un tempo, per dire, venivano presi in considerazione come santi solo i bambini o gli adolescenti martiri, come nel famoso caso limite degli inconsapevoli, eppure veneratissimi, Santi Innocenti.

Anche se non si vogliono esasperare i problemi dottrinali messi in luce dal prof. Andrea Grillo, di comprensione dell’Eucaristia soprattutto, ma anche riguardo al destino eterno ― mi riferisco alle affermazioni del nostro Beato circa il desiderare di saltare il purgatorio grazie alle sofferenze ospedaliere ― è indubbio che si addice ai pastori e a seguire ai fedeli la capacità di saper discernere sapientemente ogni cosa, sapendo tirar fuori, secondo il detto evangelico: «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

A mio avviso, il dono che il Beato Carlo Acutis sta facendo alla Chiesa è proprio questo. Egli purtroppo, come sappiamo, non ha avuto il tempo per sviluppare una conoscenza strutturata della teologia eucaristica o di altri aspetti del mistero cristiano e si è fermato a una intuizione che è divenuta in lui passione e devozione. Certo, è facile per noi citare San Tommaso d’Aquino, insigne teologo, lì dove discute dei miracoli eucaristici e ne limita il significato (cfr. Summa Theologiae, III, 76, 8)  e metter ciò a confronto di quella che può apparire una fissazione adolescenziale del nostro Beato. Ma il fatto è appunto questo: che così confronteremmo un discorso teologico con qualcosa che non è discorso teologico e non vuole esserlo. È appunto passione e devozione. Non tutto può essere perfetto come lo vorremmo o ci aspetteremmo. Lo abbiamo visto nel caso emblematico di Medjugorje, dove la Santa Sede ha preferito alla fine promuovere l’esperienza religiosa che in quel luogo si vive, mentre ha declassato la saldezza dei messaggi mariani che da lì sono partiti, ritenendoli solamente presunti, di fatto non riconoscendoli autentici.

Casomai possiamo chiederci — e in questo ci aiuti il Beato Carlo Acutis — come mai dopo il Concilio di Trento sono nate tante devozioni che hanno arricchito l’esperienza cristiana, che mettevano al centro la semplicità di vita, l’interiorità, la vita comune? Era un movimento molto più laicale che clericale, che non aveva di per sé una sua teologia elaborata e strutturata, eppure traduceva la fede cristiana in una sensibilità, in pratiche, in modi di vivere. E invece questo non è avvenuto a seguito dell’ultimo Concilio. Non siamo stati capaci di rinnovare quelle devozioni, né farne nascere di altre, nonostante tutto lo sforzo teologico ed ecclesiologico del movimento liturgico che, se da un lato aveva ridimensionato molte devozioni, dall’altro offrì contenuti, approfondimenti e nuove occasioni per cammini rinnovati. Come è possibile che una comprensione così ricca e vitale non sia diventata anche devozione, sensibilità e forma di linguaggio? Così oggi ci troviamo di fronte a un adolescente Beato moderno che si è gettato con passione tutta giovanile su aspetti dell’Eucarestia considerati devozionali, come i miracoli eucaristici, al quale non sono pervenute tutte le acquisizioni più recenti su quell’importante Mistero. E, stando alla presentazione che viene fatta di quel Beato, sembra che tutta quella ricchezza non sia passata neanche ai promotori della causa di Carlo Acutis, finanche a coloro che promuovono forme che lasciano, per così dire, perplessi, come quella di una trasmissione youtube 24h su 24h del sepolcro del Beato Carlo.

La domanda sul perché non abbiamo oggi devozioni che tengano conto della ricchezza delle ultime acquisizioni, che sappiano legare vita liturgica e testimonianza di fede improntata al Vangelo, con al suo centro l’Eucarestia che insieme è approdo e sorgente della vita del credente e delle comunità, non è così peregrina. Alla luce di altri due fatti, il secondo dei quali alquanto doloroso. Il primo è che tutto il corso del processo che ha portato alla beatificazione e ora alla canonizzazione del Beato Acutis, come pure alla diffusione del suo culto, si sono svolti durante il pontificato di Papa Francesco. In Carlo troviamo l’esempio, infatti, di quella «santità della porta accanto» a cui accenna l’esortazione papale Gaudete et exultate del 2018. Addirittura, l’esortazione post sinodale del 2019, Christus vivit, nomina esplicitamente il Beato, pur essendo all’epoca ancora venerabile e gli dedica persino più di un rimando (nr. 104-107). Qualcuno ha chiesto: Come è possibile, anche da questo punto di vista, che nulla di «conciliare» sia stato trasmesso; visto che Papa Francesco è stato salutato come primo Pontefice figlio del Concilio?

Il secondo fatto è che oggi, stando alle inchieste sulla religiosità in Italia e in particolare quella dei giovani, si deve ammettere che se abbiamo da un lato un ragazzo prossimo Santo con una passione e devozione verso l’Eucarestia, forse poco formate; dall’altro c’è una grande maggioranza di ragazzi e giovani che non hanno alcuna devozione verso l’Eucarestia, tantomeno al «valore ecclesiale dell’Eucaristia e della sua celebrazione». E questo, per quasi tutti di loro, dopo anni e anni di catechismo e formazione in gruppi specifici. Anche qui qualcuno ha detto, probabilmente esagerando, ma senza andare troppo lontano dal vero, che è rimasta loro solo un «qualche valore umanitario ed ecologico».

Perché tutte queste domande e i dibattiti scaturiti dalla canonizzazione del Beato Carlo Acutis non rimangono uno sterile esercizio o, come spesso accade ultimamente anche dentro la comunità ecclesiale, un segnare il proprio campo, prendendo ancora le distanze dagli altri che pensano diversamente, sarebbe utile farne tesoro.  E quindi sarebbe importante una riflessione a tutti i livelli, cominciando dai più alti nella Chiesa, su come riprendere un cammino di formazione alla vita cristiana dei giovani che sia serio, che tenga conto dei vissuti molteplici, ma anche di ricominciare a offrire un cibo solido ai ragazzi, senza tediarli certo, ma neanche prendendoli semplicemente per il pelo, perché altrimenti scappano o si annoiano. Certo qualcosa si sta facendo, ma credo sia giunto il momento di non perdere altro tempo. I tesori della Parola di Dio, della vita liturgica, la comprensione della Chiesa rispetto a questi e alla sua Tradizione, le mille e più esperienze e testimonianze della vita cristiana hanno bisogno di essere di nuovo posti al centro per farli diventare cultura e perché no, anche devozione, passione per la vita cristiana vissuta in tempi moderni. Per l’impegnativo compito immagino che la Chiesa si aspetti la consistente intercessione dei due prossimi Santi.

Dall’Eremo, 23 luglio 2023

 

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Social media e ignoranza. Se la storia è scritta dai vincitori, dei vili terroristi assassini diventano martiri della libertà

SOCIAL MEDIA E IGNORANZA. SE LA STORIA È SCRITTA DAI VINCITORI, DEI VILI TERRORISTI ASSASSINI DIVENTANO MARTIRI DELLA LIBERTÀ

I terroristi possono essere tali se l’ideologia da loro seguita perde e finisce sconfitta, come nel caso delle Brigate Rosse, ma possono diventare eroi e martiri della libertà se l’ideologia da loro seguita vince e si impone come potere di governo. Se infatti l’islamismo radicale avesse vinto e soggiogato gli Stati Uniti d’America, oggi a New York l’abbattimento delle due Torri Gemelle verrebbe celebrato allo stesso modo in cui si celebra in Francia la presa della Bastiglia e il rovesciamento del governo di Luigi XVII.

— Storia e attualità —

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Più si abbassa nella società il quoziente intellettivo medio, più è necessario spiegare anche le cose ovvie. L’errore che spesso noi studiosi facciamo in ambito teologico come nelle sfere di tutte le più disparate scienze, dalla medicina all’astrofisica, è dare per scontate cose che riteniamo ovvie e che di fatto lo sono pure, trattandosi degli elementi più rudimentali delle varie scienze o del semplice e basilare umano buonsenso. Purtroppo, è necessario tenere conto che oggi si è più propensi a seguire gli influencer analfabeti e i tiktoker, inclusi certi preti che si sono lanciati in questi giochi demenziali (cfr. QUI).

Come sempre spieghiamoci con un esempio: numerosi influencer convinti che «un nano ha il cuore troppo vicino al buco del culo» perché non hanno capito la iperbole ironica della canzone Un Giudice di Fabrizio de André (testo QUI), usano in senso dispregiativo la parola medioevo, ignorando che il bagaglio d’arte, scienza e tecnologia di cui oggi noi disponiamo lo dobbiamo tutto al medioevo. Non solo, perché se oggi conosciamo gli autori classici; se la cultura, la letteratura e la filosofia greca e romana è stata tramandata sino a noi è solo grazie al medioevo, incluse le poesie più lussuriose di Valerio Gaio Catullo, che non solo la Chiesa si è ben guardata dal censurare o distruggere, perché se oggi le conosciamo è grazie a essa e ai monaci amanuensi che le hanno trascritte e tramandate nei secoli.

Se in quelle zone dell’Etruria che fu territorio dello Stato Pontificio fino al settembre del 1870, la Chiesa non avesse salvato e conservato affreschi murali e vasellami che raffigurano scene falliche, orge e rapporti omosessuali tra uomini, quei patrimoni etruschi e romani sarebbero andati perduti. Proprio come avvenne altrove, dove a governare non era la Chiesa, ma i governi liberali “illuminati” che giudicarono scandalose e immorali certe rappresentazioni e per questo le distrussero.

L’impianto del moderno diritto lo dobbiamo ai grandi glossatori bolognesi vissuti tra l’XI e il XII secolo e l’elemento fondamentale di civiltà giuridica della tutela e della legittima difesa dell’imputato lo dobbiamo proprio a quel processo inquisitorio sul quale sparano a raffica persone ignare e ignoranti circa il fatto che essere condannati dai Tribunali della Santa Inquisizione era difficilissimo. E furono proprio i tribunali dell’inquisizione a sancire un altro elemento che oggi fa parte delle giurisprudenze penali di tutti i paesi cosiddetti civili del mondo: la pena mirata al recupero, non alla punizione dettata da istinti di vendetta, perché attraverso la pena il condannato non va punito ma recuperato. Pronta la replica dell’ignorante: «Erano date condanne a morte!». E qui bisogna ribadire che le condanne a morte non erano rare ma rarissime, precisando che vanno collocate e lette in contesti storici ai quali non sono applicabili i criteri di giudizio di oggi, basterebbe spiegare che persino la condanna a morte era un atto estremo teso al recupero del condannato. Per questo i condannati erano vestiti di bianco, segno della purezza, perché con la morte pagavano il proprio debito ed estinguevano la loro colpa riacquistando quella che in linguaggio cristiano si chiama “purezza battesimale”. E i loro corpi, dopo la morte, dovevano essere trattati con rispetto e seppelliti con riguardo.

Alle spiegazioni storiche ribatte tosto l’ignorante: Giordano Bruno è stato bruciato al rogo, altro che ucciso e sepolto con rispetto!». Certo. E secondo quella che era la logica sociale, politica, giuridica e religiosa dell’epoca fecero bene a bruciarlo al rogo. Fu lui che sbagliò con rara ostinazione. Fu sottoposto a due processi, uno a Venezia e uno a Roma. Col secondo processo romano fu dato nuovamente avvio ex novo all’intero iter processuale che durò in totale otto anni, nel corso dei quali intervennero due annullamenti per risibili difetti di forma, allo scopo di dare al Bruno quanto più tempo possibile per potersi ravvedere. Per anni fu tentato di indurlo al ravvedimento, che ostinatamente rifiutò. Inutile dire e spiegare a certa gente che si nutre e abbevera di leggende nere che non si può valutare e giudicare il caso Bruno con i criteri di giudizio del nostro presente sociale, politico, giuridico e anche religioso. Sarebbe come condannare con grida di scandalo, mediante l’applicazione del pensiero contemporaneo, certe pratiche degli uomini della preistoria ritenute a nostro parere disumane e criminali.

Molti sono i fatti storici manipolati dal XVI secolo per opera di autori protestanti e dalla fine del XVIII inizi XIX da liberali-anticlericali nel periodo successivo la Rivoluzione Francese. Tutt’oggi rimane cosa ardua, se non pressoché impossibile smentire certe leggende nere ormai assurte a verità impresse persino su testi scolastici di storia. Come nel caso della vicenda che vide protagonisti nella Roma pontificia del 1867 Gaetano Tognetti, 23 anni, Giuseppe Monti, 33 anni, oggi celebrati come indiscussi eroi e patrioti del Risorgimento. I due sedicenti eroi, nella sera del 22 ottobre 1867 piazzarono e fecero esplodere una potente carica di esplosivo che distrusse quasi completamente la caserma di Serristori, ubicata in una traversa della attuale Via della Conciliazione, a poche decine di metri dalla Papale arcibasilica di San Pietro. In questa caserma alloggiava una compagnia di zuavi pontifici. L’esplosione causò la morte di venticinque militari e di due civili. Se poco prima una numerosa compagnia non fosse uscita dallo stabile, il numero di morti sarebbe stato assai maggiore. L’ispiratore di questo attentato fu principalmente Francesco Cucchi, deputato al Parlamento di Firenze, che con altri sodali si servirono dell’opera dei due attentatori, finiti poi scoperti, arrestati, processati e condannati a morte. 

Due anni dopo la loro esecuzione, a unità d’Italia avvenuta e con Roma diventata sua capitale, i due attentatori furono celebrati come eroi e fatti passare alla storia come “martiri della libertà”. Nel 1977 il regista italiano Luigi Magni scrisse e diresse un film di becera matrice anticlericale esaltando queste due figure e falsando totalmente il quadro storico dell’ultimo squarcio di vita dello Stato Pontificio, ormai ridotto al solo territorio di Roma e di parte della attuale Regione Lazio.

Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti non furono degli eroici patrioti ma dei vili terroristi che uccisero in un attentato dei giovani in fascia d’età compresa tra i 18 e i 25 anni, tutti perlopiù componenti la banda musicale. Molte più di ventisette in totale avrebbero potuto essere le vittime, se un’intera compagnia non fosse uscita d’improvviso da quello stabile.

Nessuno dei regnanti europei, a partire dai Savoia, offrì diplomatico aiuto a Pio IX, chiedendo la grazia dei condannati e la commutazione della condanna alla pena capitale in carcerazione, pur sapendo che in quel momento il Romano Pontefice doveva fare i conti con i genitori delle giovani vittime e la popolazione romana ferita e arrabbiata per la loro morte, inclusa quella di una bimba di cinque anni, Rosa, morta sul colpo assieme al padre Francesco Ferri, mentre la madre, Giuseppa Cecchi, si salvò cadendo a terra stordita. Una volta ripresi i sensi impazzì completamente, tanto che fu necessario internarla nel manicomio di Santa Maria della Pietà, dove in seguito morì.

Questa reale narrativa dei fatti non è mai passata nei leggendari racconti del glorioso Risorgimento Italiano, come provano libri pseudo-storici, romanzi e persino produzioni cinematografiche di registi anticlericali.

In virtù di quella che fu la reale vicenda storica, ci saremmo dovuti guardare dal mutare a posteriori questi due terroristi in leggendari eroi per opera della propaganda liberale-anticlericale, con tanto di strade, quartieri e monumenti a loro dedicati. Ciò equivarrebbe a erigere oggi a Roma, in Via Fani, dove fu rapito nel 1978 il primo ministro Aldo Moro e uccisi i suoi agenti di scorta, un monumento celebrativo in onore delle eroiche e patriottiche Brigate Rosse. Imprimendo a seguire sui libri di storia che le Brigate Rosse non costituirono un pericoloso movimento terroristico che si macchiò di omicidi e attentati nel corso degli anni Settanta del Novecento, ma un eroico gruppo di liberatori, intitolando al nome di ciascun terrorista strade e piazze.

I terroristi e gli attentatori possono divenire eroi ed essere celebrati come tali a seconda di chi vince la guerra e a seguire scrive le cronache, mutando ideologie e leggende in falsi storici presentati ai posteri come storia-patria, con tanto di film di grande diffusione, scopo dei quali è instillare nelle masse sempre più incolte disprezzo e odio verso la Chiesa Cattolica e il Papato, nello spregio totale delle verità storiche. I terroristi possono essere tali se l’ideologia da loro seguita perde e finisce sconfitta, come nel caso delle Brigate Rosse, ma possono diventare eroi e martiri della libertà se l’ideologia da loro seguita vince e si impone come potere di governo. Se infatti l’islamismo radicale avesse vinto e, sempre per esempio, soggiogato gli Stati Uniti d’America, oggi a New York l’abbattimento delle due Torri Gemelle verrebbe celebrato allo stesso modo in cui si celebra in Francia la presa della Bastiglia e il rovesciamento del governo di Luigi XVII, senza cenno alcuno alle esecuzioni sommarie o ai processi farseschi interamente basati su false delazioni che dettero poi vita a un immane bagno di sangue sulle ghigliottine.

Lo storico olandese Pieter Geyl (1887-1966) affermò che «La storia è sempre scritta dai vincitori». Molti secoli prima, il filosofo greco Aristotele scrisse nella sua opera politica: «Le bugie dei vincitori diventano storia mentre quelle dei vinti vengono scoperte».

Frase tutt’altro che facile da interpretare, quella di Aristotele, che il filosofo e politico italiano Rocco Buttiglione chiarì in modo lapidario interloquendo proprio sulle pagine dei social media:

«Esiste la scienza storica che ha le sue regole: il controllo delle fonti, la verifica della coerenza logica delle affermazioni, l’obbligo della completezza dell’informazione. La scienza storica vuole appurare “was eigentlich geschehen” (ciò che veramente è accaduto). Ciò non elimina ma pone un limite alla partigianeria. C’è la propaganda di guerra dei vincitori che cerca di affermarsi come verità ufficiale. C’è anche la propaganda di guerra dei vinti, che periodicamente viene riscoperta e opposta alle versioni ufficiali degli avvenimenti. C’è però anche la ricerca storica seria che valuta tutti i dati disponibili. Spesso la frase “la storia è scritta dai vincitori” è usata dai vinti per riabilitare la propria propaganda di guerra. È bene tenerlo a mente per distinguere fra il revisionismo storico serio e quello che serio non è» (cfr. QUI).

Oggi, dalla Russia all’Ucraina sino al Medio Oriente, la storia si sta ripetendo, con i peggiori prepotenti già all’opera per fabbricare i prossimi falsi eroi della patria da celebrare.

Dall’Isola di Patmos 12 luglio 2025

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