Esequie funebri del Nunzio Apostolico Adriano Bernardini. Omelia pronunciata da Padre Ariel S. Levi di Gualdo

ESEQUIE FUNEBRI DEL NUNZIO APOSTOLICO ADRIANO BERNARDINI. OMELIA PRONUNCIATA DA PADRE ARIEL S. LEVI DI GUALDO

Diocesi di San Marino-Montefeltro, Chiesa di Monastero di Piandimeleto, 15 settembre 2025 ore 15:00. Esequie funebri di S.E. Mons. Adriano Bernardini, Arcivescovo titolare di Faleri e Nunzio Apostolico.

— Attualità ecclesiale —

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Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 1-6)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. lo vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”».  

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Venerabili Vescovi Domenico, pastore di questa nostra Chiesa particolare e Andrea, emerito, Confratelli amici e tutti voi carissimi qui presenti: «Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo».

Ricevendo il 30 agosto la sacra unzione degli infermi Adriano Bernardini Arcivescovo titolare di Faleri e Nunzio Apostolico, mi sussurrò le parole del Vangelo di Giovanni: «Padre, è giunta l’ora» (Gv 17, 1-2). Per questo ho scelto di salutarlo con un’omelia tratta da questo Quarto Vangelo, dove l’Apostolo Pietro chiede a Gesù: «Signore, dove vai?». Gesù risponde a Pietro che non era ancora pronto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Lo stesso aveva detto poco prima a tutti i discepoli: «Dove vado io, voi non potete venire» (Gv 13, 33-34).

Nella foto: S.E.R. Mons. Adriano Bernardini (13.08.1942 – †11.09.2025) e Padre Ariel S. Levi di Gualdo, suo segretario privato (2017-2025)

Sono frammenti che rivelano l’emozione per l’imminente distacco dal Divino Maestro. Forse è per questo che le parole del Vangelo appena proclamato si aprono con un invito di Gesù che diviene, oltre che promessa anche balsamo: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore».

Con le sue parole Gesù sta facendo della sua dipartita e del vuoto che lascia una occasione di rinascita per i suoi discepoli. Chiedendo loro fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi, appoggiandosi sul Signore che promette di andare a preparare un posto per loro. Egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una diversa fase di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza basata su una precisa promessa: «Vi prenderò con me» (Gv 14,2-3). 

In una circostanza difficile come questa è bello ritornare agli inizi, quando i discepoli, futuri apostoli, ebbero il primo contatto con Gesù e gli chiesero: «Rabbì, Maestro, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».

“Rimanere” o “dimorare”, “venire” e “vedere” sono i verbi che soprattutto nel Vangelo di Giovanni descrivono il cammino di fede, l’approdo del discepolo e la risposta alla domanda di Pietro: «Dove vai, dove possiamo incontrarti e trovarti ancora?». Gesù dirà un giorno: «Rimanete nel mio amore, come il tralcio rimane nella vite, perché Io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Quello è il luogo dove dimoro, rimango e abito» (Gv 15,9-10). 

Ecco il traguardo del discepolo per il quale non bisognerà attendere il transito della morte, perché è qui, ora, disponibile per tutti, perché Gesù si è fatto via. Non è una realtà futura che si rivelerà oltre questa vita per mezzo della morte, duro valico per chi lo deve oltrepassare e doloroso lascito per chi dovrà convivere con la memoria, ma essa è dono presente per chi «crede in lui» (Gv 14,12).

Non sia dunque turbato neppure il nostro cuore dinanzi al distacco, piuttosto prepariamoci fin d’ora a riconoscere il posto che a ciascuno di noi spetta nella dimora eterna che ci attende. Simile al posto del discepolo amato che reclinò il suo capo sul petto di Gesù nell’ultima cena. Questi era adagiato nel seno di Gesù (Gv 13,25), il quale, come dice il prologo giovanneo «è tornato nel seno del Padre ed ha aperto la via» (Gv 1,18), adesso «venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre (Gv 13,1) ci dice: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».

Per cercare di proporre le ragioni non facili, ma perseguibili e realizzabili del Santo Vangelo la Chiesa si serve da sempre di molti mezzi, compresa la diplomazia. Questo è il nunzio Apostolico: un portatore e annunciatore del Santo Vangelo chiamato a realizzare la pax Christi nel mondo. Ma proviamo a raffigurare il tutto con un esempio concreto: nell’ottobre 1962 il mondo sfiorò la Terza Guerra Mondiale con la “crisi di Cuba”. Ormai i due interlocutori, Nikita Kruscev e John Fitzgerald Kennedy non potevano più parlare né trattare, perché nessuno dei due era disposto a fare un passo indietro. Fu in quel momento tragico che intervenne il Santo Pontefice Giovanni XXIII che, bene ricordarlo, non era propriamente quel contadino sempliciotto che viene affigurato in certe iconografie popolari, proveniva dal mondo della diplomazia ed era stato un diplomatico anche raffinato, specie nel suo mandato come nunzio apostolico in Francia. I due interlocutori accolsero l’appello entrambi in contemporanea e le testate missilistiche in rotta verso Cuba tornarono indietro. Pochi mesi dopo, nell’aprile 1963, il Santo Pontefice pubblicò la sua enciclica Pacem in Terris. Il messaggio di pace del Vangelo prevalse grazie alla diplomazia pontificia. Oggi, i libri di storia contemporanea, narrano che quell’intervento diplomatico salvò l’umanità dal rischio di una Terza Guerra Mondiale.

Anziché recitare le litanie delle sue virtù accennerò a un suo difetto, per dimostrare come un servitore della Chiesa e del Papato può mutare un difetto in virtù attraverso le tre virtù di fede, speranza e carità (cfr. I Cor 13, 1-13), che non si reggono sulle emozioni, peggio sulle ideologie viscerali, ma sulla ragione. Fides quaerens intellectum e per inverso intellectus quaerens fidem, ovvero: la fede richiede la ragione e per inverso la ragione richiede la fede, come enunciò il padre della scolastica classica Sant’Anselmo d’Aosta rifacendosi a sua volta al pensiero del Santo Padre e dottore della Chiesa Agostino vescovo d’Ippona: credo ut intelligam e per inverso intelligo ut credam, ossia, credo per capire, capisco per credere. Sino a giungere al Santo Pontefice Giovanni Paolo II che riassunse questo rapporto tra ragione e fede nell’enciclica Fides et Ratio, fede e ragione.

Risoluto per temperamento, era capace a divenire inamovibile. Negli ultimi mesi di vita è stato indebolito dalla malattia, ma conservando il suo carattere peculiare. Un giorno, durante il suo ultimo ricovero nella casa di cura romana Villa del Rosario — dove per inciso è stato accudito in modo eccellente dai medici, dai paramedici e dalle suore —, prese a considerare giusta una cosa sbagliata che avrebbe potuto essere nociva per lui. Glielo dissi e, sulle prime, quasi si arrabbiò, ma lo placai ricordandogli la pagina del Vangelo in cui si narra del discorso in cui Gesù dice a Pietro: «”In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 18). Sorrise e rispose ironico: va bene, ti seguirò, però cerca di portarmi dove voglio andare io».  

Alle persone dal carattere risoluto la Cristianità deve molto, basta pensare al passo degli Atti degli Apostoli dove si narra del Beato Apostolo Paolo che «discuteva con i greci» (traduzione: litigava con loro); «ma questi cercavano di ucciderlo» (traduzione: perché non lo sopportavano). «I fratelli, saputolo, lo condussero a Cesarea e di là lo mandarono a Tarso» (traduzione: cerchiamo di salvargli la vita in nome della neonata carità cristiana). E in chiusura la diplomatica conclusione di questa cronaca: «Così la Chiesa, per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria, aveva pace» (che tradotto significa: meno male che è partito) (At 9, 29-31). Eppure, quanto dobbiamo al carattere risoluto e non poco spigoloso del Beato Apostolo Paolo?

Ho onorato la sua volontà evitando beatificazioni per mezzo di racconti epici e biografie trionfali, come talora si è soliti fare ai funerali, cose da lui detestate, anche perché nessuno di noi conosce il giudizio di Dio, ma tutti sappiamo quanto sia grande la sua ricompensa per i suoi servi fedeli, perché solo gli uomini di fede forgiati dalle autentiche virtù riescono a mutare in servizio prezioso alla Chiesa persino i loro apparenti difetti; e in tal senso, da San Paolo a Sant’Agostino, la lista di questi uomini straordinari è molto lunga. A recare danni alla Chiesa non sono gli uomini resi risoluti dalla loro forza di carattere, ma coloro che non sanno dire sì quando è sì e no quando è no (Cfr. Mt 5, 37); sono i deboli fieri della propria debolezza velata di spiritualismi e misticismi, inconsapevoli che noi, nella sequela di Cristo, siamo chiamati a essere il sale, non lo zucchero della terra (cfr. Mt 5, 13-16). Infatti, quando fummo consacrati sacerdoti non ci fu regalato un pensiero sdolcinato, il Vescovo consacrante ci disse: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Il tutto basato sulle parole del Divino Maestro che ci ha ammoniti: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24-25).

Tutto questo egli ha cercato di comprenderlo, viverlo e trasmetterlo attraverso un modo particolare di annunciare e portare il Vangelo: la diplomazia ecclesiastica a servizio della Chiesa di Cristo e della Sede Apostolica.

La fonte della vera diplomazia ecclesiastica è tutta racchiusa sulle righe, dentro le righe e oltre le righe del Vangelo che, di secolo in secolo, sino al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, non cesserà di mettere in luce le nostre miserie e le nostre ricchezze umane, i nostri limiti e le nostre grandezze, i nostri peccati e le nostre cristiane virtù. E di questi tempi, forse più che mai viene da dire col Beato Apostolo Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (II Tm 4,6). Perché non è facile conservare la fede, nemmeno dentro quella società umana che è la Chiesa visibile, definita «Santa e peccatrice» dal Santo vescovo Ambrogio, seguito secoli dopo dal Cardinale Joseph Ratzinger che meditando nel 2005 la nona stazione della Via Crucis lamentò: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».

Chi è questo prete salito sul pulpito a predicare in memoria di Adriano vescovo? Sono un servo inutile. Come infatti dice il Signore Gesù: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17, 10). Quale era il mio intimo rapporto con lui? Rispondo dicendo che nel Vangelo lucano si parla della grande riservatezza della Beata Vergine Maria che «da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19).

Scrive l’Apostolo agli abitanti di Corinto: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (I Cor 15, 55). Riflettendo su questo passo sul finire della sua vita, il Sommo Pontefice Benedetto XVI commentò: «Non mi preparo alla fine ma a un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna, che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo».

Buon viaggio nel «nuovo» buon viaggio «nell’eterno», Adriano vescovo, hai fatto quanto dovevi fare, come tutti noi «servi inutili», ne sono testimone come figlio, amico e fratello. Ogni 11 settembre, finché fisicamente potrò, verrò in questo luogo presso la Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro, alla quale appartengo come presbitero ― benché non sia vissuto nel Montefeltro ma a Roma con te ―, per celebrare nel tuo luogo natale, oggi anche tuo luogo di sepoltura, una Santa Messa per l’anima immortale del padre, dell’amico e del fratello che sei stato per me.

Sia lodato Gesù Cristo!

Dall’Isola di Patmos 15 settembre 2025

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L’amaro caso del presbitero Paolo Zambaldi della Diocesi di Bolzano-Bressanone: cronaca di una morte annunciata

L’AMARO CASO DEL PRESBITERO PAOLO ZAMBALDI DELLA DIOCESI DI BOLZANO BRESSANONE: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

«Le distanze con la Chiesa Cattolica si sono fatte sempre più profonde negli anni, fino a diventare insanabili. Non posso più far parte di un’istituzione che continua a proclamare dogmi e ad alimentare un sistema di potere. La verità non ha bisogno di dogmi: la verità è evidente, non necessita di imposizioni né di svalutare la ragione. Inoltre, non condivido le posizioni discriminatorie della Chiesa nei confronti delle donne, della comunità LGBTQIA+, di chi sceglie l’interruzione volontaria di gravidanza o l’eutanasia. Tutto questo è lontano anni luce dal mio sentire umano e spirituale».

— Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Purtroppo, era solo una questione di tempo e diciamo questo senza nessun entusiasmo e ironica soddisfazione: il presbitero Paolo Zambaldi della Diocesi di Bressanone ha lasciato il sacerdozio nella maniera più tragica e più traumatica possibile. A darne notizia è stato lui stesso nel suo blog (vedi QUI), notizia che poi è stata ripresa da alcuni quotidiani online (vedi QUI, QUI) e da alcuni vari post sui social (vedi QUI).

il Vescovo di Bosen-Brixen (Bolzano-Bressanone) 

Chi ha avuto la possibilità di seguire nel tempo questo confratello sacerdote nelle sue elucubrazioni mentali annotate come cosa sacra sul suo blog (vedi QUI), non poteva non accorgersi della grave deriva dogmatica e dottrinale che da diverso tempo aveva offuscato la sua mente e il sano sentire cattolico che un sacerdote di Santa Romana Chiesa dovrebbe avere e custodire.

La definitiva vittoria del Serpente Antico — a cui non credeva minimamente e che più volte sbeffeggiava in coloro che ne erano vittime — ha compiuto il capolavoro di tentare un uomo fragile e debole nell’orgogliosa superbia e nell’illusione di una maggiore libertà lontana da Dio e dalla Chiesa.

Come sempre non ci deve essere un giudizio sulla persona di Paolo Zambaldi — che solo Dio conosce e può dare — ma non possiamo che rammaricarci e piangere sapendo che un giudizio sul suo stile sacerdotale non è mai stato dato pubblicamente dalla sua Diocesi e dal suo Ordinario diocesano che lo ha lasciato libero di propagare e rafforzarsi nelle sue idee confondenti per il popolo di Dio, che hanno fatto maturare in lui il frutto velenoso dell’abbandono del ministero e dello stato sacerdotale, denigrando il grembo della Chiesa che lo ha accolto e allevato per molti anni sino a scrivere queste parole:

«Le distanze con la Chiesa Cattolica si sono fatte sempre più profonde negli anni, fino a diventare insanabili. Non posso più far parte di un’istituzione che continua a proclamare dogmi e ad alimentare un sistema di potere. La verità non ha bisogno di dogmi: la verità è evidente, non necessita di imposizioni né di svalutare la ragione. Inoltre, non condivido le posizioni discriminatorie della Chiesa nei confronti delle donne, della comunità LGBTQIA+, di chi sceglie l’interruzione volontaria di gravidanza o l’eutanasia. Tutto questo è lontano anni luce dal mio sentire umano e spirituale».

Pensiamo forse che questo modo di pensare sia recente? No, purtroppo! La cosa grave è che simili soggetti arrivano nei seminari già pregni di queste idee eterodosse; e nei seminari vengono premiati dai formatori proprio per queste posizioni alternative, mentre quelli più “ortodossi” vengono regolarmente bastonati o dichiarati … problematici, o non in linea con quella o quell’altra “pastorale di tendenza” in voga al momento.

Ancora una volta, il problema della formazione sacerdotale ritorna con preponderante forza, così come la vicinanza e l’accompagnamento spirituale dei sacerdoti che deve essere continuo e reale, una priorità per il cuore paterno di ogni vescovo. Il naufragio di questo Presbitero è molto più grave delle varie fragilità morali e umane che noi uomini consacrati immancabilmente possiamo commettere, con l’aggravante che chi doveva vigilare e proteggerlo non l’ha fatto, così come non è stato fatto nulla per evitare questo tragico epilogo.

Conosco personalmente fedeli devoti cattolici che hanno segnalato più e più volte a S.E. Mons. Ivo Muser le gravi inadempienze dottrinali del suo presbitero, sacerdoti e teologi inclusi, eppure nulla si è mosso. Anzi, questo prete sopra a tutte le righe sembrava quasi essere l’enfant prodige del suo Presule, colui che avrebbe risolto tutti i problemi di Bosen-Brixen (Bolzano-Bressanone) e al quale si dava carta bianca in molte situazioni pastorali e organizzative in questa diocesi.

Cosa resta da fare adesso? Sicuramente pregare molto per lui, chiedendo a Dio la sua conversione e il suo ravvedimento, con la speranza che questo ennesimo caso di doloroso fallimento umano ed ecclesiale — del popolo di Dio e dei suoi pastori — smuova le coscienze di chi oggi può fare qualcosa.

Sanluri, 4 settembre 2025

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Pagare di tasca propria per lavorare gratis è un privilegio che solo pochi “eletti” possono permettersi

PAGARE DI TASCA PROPRIA PER LAVORARE GRATIS È UN PRIVILEGIO CHE SOLO POCHI “ELETTI” POSSONO PERMETTERSI

Nella sua opera De rerum natura Tito Lucrezio Caro rivolge una critica alla religione indicandola come fonte che genera paura, superstizione e sofferenza, impedendo all’uomo di giungere alla vera felicità, od a quella conoscenza della verità — come afferma il Beato Apostolo Giovanni — che ci renderà liberi. Concetto al quale si rifarà Karl Marx con il celebre aforisma «la religione è l’oppio dei popoli». Avevano ragione tutti e due, Tito Lucrezio Caro e Karl Marx …

— Attualità —

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Duole lasciarsi andare alle geremiadi, specie quando si è consapevoli che non servono a niente, solo a manifestare comprensibile disagio fine a se stesso.

Nell’ottobre del 2024 questa nostra rivista ha compiuto 10 anni di attività, nel corso dei quali ha offerto servizi che possono essere più o meno condivisibili per contenuti e impostazioni, ma di indubbia qualità, cosa riconosciuta persino dai nostri avversari e da coloro che non la pensano come noi.

In un mondo cattolico sempre più devastato dal fideismo, da forme di millenarismo dal sapore esoterico, inquinato al presente da tutte le vecchie eresie di ritorno, i Padri de L’Isola di Patmos hanno sempre offerto un servizio improntato sul più aderente ossequio al deposito della fede, alla dottrina e al magistero della Chiesa, combattendo all’occorrenza pericolose derive e recuperando nel corso degli anni non poche persone che si erano smarrite al seguito di vari ciarlatani che oggi abbondano a dismisura, specie grazie ai social media.

Pochi mesi fa si è concluso un complesso pontificato reso complicato da un contesto geopolitico mondiale delicatissimo, il giudizio sul quale spetterà alla storia, che potrà darlo solo in futuro, forse anche tra molti anni. Un pontificato nel corso del quale diverse persone, già di per sé immature e fragili nella fede, sono andate totalmente fuori strada mettendosi in marcia dietro preti usciti fuori equilibrio, finiti sospesi a divinis, scomunicati o persino dimessi dallo stato clericale, seguiti, a loro volta, da laici senza arte né parte che si sono improvvisati ecclesiologi, canonisti e teologi in stuzzicante salsa complottistica alla Dan Brown de noartri. La nostra ultradecennale missione pastorale su L’Isola di Patmos si è incentrate principalmente sul richiamo all’unità con Pietro e sotto Pietro, a prescindere dagli evidenti difetti dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, senza dimenticare che sotto vari aspetti, quel rozzo pescatore galileo scelto da Cristo in persona, non eletto da un conclave di cardinali, a suo tempo si rivelò molto peggiore di tanti pontefici problematici della storia, sia sul piano pastorale che su quello dottrinale, basti pensare a quando giurando e imprecando rinnegò Cristo (cfr. Mt 26, 69-75) o quando ad Antiochia fu redarguito da Paolo su questioni legate alla dottrina della fede (cfr. Gal 2, 11-21)

Premesso che nella vita nulla è dovuto, che tutto va meritato e che tutto è una grazia, va detto però che la mancanza di generosità da parte delle persone — a partire dalle non poche alle quali abbiamo fatto del bene —, induce a prendere atto che l’opera pastorale portata avanti dal 2014 da un gruppo di sacerdoti e teologi forse non merita di essere sostenuta. Per questo suscitano in noi particolare amarezza — ed è difficile negare il nostro sacerdotale disagio in tal senso — le numerose persone che i Padri de L’Isola di Patmos hanno aiutato e sostenuto nel corso degli anni, sanando le loro ferite doloranti dopo che erano state ingannate da “santoni”, “santuzze” e “veggenti”, dinanzi ai quali non esitarono ad aprire i loro portafogli come fossero fisarmoniche, gli stessi che sono rimasti invece chiusi ermeticamente dinanzi alla nostra opera alla quale non hanno mai versato un euro.

C’è poco da stupirsi, sappiamo com’è solito agire quello che una volta si chiamava popolino, già lo sapeva Giovanni Boccaccio quando nel lontano XIV secolo immortalò nel Decameron la paradigmatica Novella 10 dedicata a Frate Cipolla. Basta inebriarlo, il popolino, con la garanzia del vero “segreto” di Fatima finalmente svelato dopo essere stato tenuto nascosto dalla Chiesa bugiarda e mentitrice; oppure ubriacarlo con i “dieci segreti” che una Gospa logorroica e ripetitiva, ormai affetta da evidente demenza senile, avrebbe dato a un gruppo di scaltri zingari bosniaci che grazie a questa grande truffa del Novecento si sono fatti le budella d’oro; oppure drogarlo con qualche madonna che batte i piedi come una narcisista isterica mandando a dire da qualche altro visionario fulminato che vuole essere proclamata a tutti i costi corredentrice e che smercia anch’essa “segreti” in giro per la orbe terracquea, in attesa del magico e definitivo trionfo del suo cuore immacolato. Ebbene sì, diamo questi generi di oppiacei al popolino ed ecco aprirsi come per magico incanto i portafogli. Così avveniva nella Certaldo boccaccesca del XIV secolo così avviene oggi nel Terzo Millennio.

Nella sua opera De rerum natura Tito Lucrezio Caro rivolge una critica alla religione indicandola come fonte che genera paura, superstizione e sofferenza, impedendo all’uomo di giungere alla vera felicità, od a quella conoscenza della verità — come afferma il Beato Apostolo Giovanni — che ci renderà liberi (cfr. Gv 8, 32). Concetto al quale si rifarà Karl Marx con il celebre aforisma «la religione è l’oppio dei popoli». Avevano ragione tutti e due, Tito Lucrezio Caro e Karl Marx, sbagliavano però sia il concetto che il termine confondendo la fede con il fideismo dei beoti al seguito di Frate Cipolla, che nulla hanno da spartire con la purezza della fede, da loro vilipesa e trasformata in parodia grottesca tra madonne parlanti, madonne piangenti, segreti rivelati, profezie catastrofiche e via dicendo a seguire.

Siamo arrivati alla conclusione, triste ma realistica, che in fondo questa gente si merita i vari Frate Cipolla capaci a suscitare in loro pruriti morbosi, facendogli uscire fuori soldi come gli incantatori fanno uscire il serpente dalla cesta al suono dell’ipnotico pungi.

Il paradosso è che L’Isola di Patmos non è un fallimento, tutt’altro: è un successo straordinario e a tratti incredibile. La mole di visite è pari a una media di oltre tre milioni al mese, l’anno 2024 si è chiuso con quasi quaranta milioni di visite totalizzate. Presto detto: se solo lo 0,1% di questi visitatori ci avesse donato un euro, le spese di gestione sarebbero totalmente coperte e ne avremo persino d’avanzo per qualche opera di carità.

Chiunque s’intenda solo un po’ di certi aspetti tecnici, con pochi colpi d’occhio coglie immediatamente la qualità del sito che ospita la nostra rivista, a partire dalla grafica. Offrire la versione stampabile degli articoli, la audio-lettura, spesso anche la traduzione degli stessi in tre lingue, comporta un lavoro redazionale notevole, tutto svolto dai Padri a titolo puramente gratuito. Certo, fa specie che nel corso di un anno solare non si riesca a raccogliere neppure la metà del necessario per il pagamento delle spese vive di gestione e che puntualmente si debba provvedere di tasca nostra al sopraggiungere delle scadenze di pagamento. Perché impiegare le proprie personali risorse per avere il raro privilegio di lavorare gratis per le persone che prendono e non danno, o che dopo avere dato agli scaltri incantatori di serpenti, una volta finito il suono del piffero e con esso l’effetto ipnotico vengono a piangere da noi per essere aiutate e sostenute, è davvero una gran soddisfazione, anzi: è proprio un privilegio, lavorare gratis et amor Dei per queste persone! Ma siamo preti e per quanto tanta sarebbe la voglia, mettere queste persone alla porta, come meriterebbero, è contro la nostra natura ontologica sacerdotale.

L’Isola di Patmos sta concludendo il proprio undicesimo anno di attività senza mai avere conosciuto flessioni ma solo un continuo incremento, lo prova l’alto numero di visite che a partire dal 2016 ci ha obbligati a spostare il sito su un server-dedicato, che costituisce la maggior voce di spesa annuale seguita dalle altre spese per i vari abbonamenti quali l’acquisto dei programmi grafici, audio, video, sistemi di sicurezza… Insomma, stiamo parlando di qualche cosa che funziona e che funziona anche molto bene, ma che non dispone dei mezzi di sussistenza. Per questo abbiamo deciso di darci un altro anno di tempo: se a settembre del 2026 non avremo raccolto tutto il necessario per sostenere le spese del successivo anno 2027, o se non troveremo un ente pubblico o privato disposto a finanziarci, concluderemo la nostra felice e proficua esperienza di apostolato chiudendo la rivista L’Isola di Patmos, conservando sempre il ricordo indelebile di questa esperienza bellissima vissuta nell’unione cattolica d’intenti in piena comunione tra un gruppo di sacerdoti che hanno cercato di testimoniare il Cristo vivo e vero. Come però insegna il Beato Apostolo Paolo nella sua epistola al discepolo Timoteo:

«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (II Tm 4, 1-4).

E quel giorno oggi è venuto, purtroppo, riteniamo di averne fatto triste spesa anche noi. Però, anche in questo caso, il Santo Vangelo ci insegna:

«Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi». 

Dall’Isola di Patmos 31 agosto 2025

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Riscoprire la filosofia della cura: dall’accudimento alla persona al prendersi cura delle possibilità

RISCOPRIRE LA FILOSOFIA DELLA CURA: DALL’ACCUDIMENTO ALLA PERSONA AL PRENDERSI CURA DELLE POSSIBILITÀ1

L’accudimento è un elemento essenziale di ogni consorzio umano civile, il grado di sviluppo di una società matura si riconosce non tanto dalla sua capacità di fare o di creare ma nella sua capacità di prendersi cura degli altri. Anche nell’ipotesi del migliore dei mondi possibili in cui siano state finalmente abolite le guerre, le povertà e le malattie, l’imperativo alla cura resta immutato dentro quella componente umana, troppo umana ma anche felicemente umana che ci permette di mantenerci autentici.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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L’autenticità come perdita di tempo. Il tempo estivo è quel momento propizio per riscoprire il senso più genuino “del sé”.

E questo non soltanto come realtà psicologica comprendente la consapevolezza e la percezione che un individuo ha di sé stesso ma proprio come soggetto ontologico che riflette e fa memoria sul proprio essere. L’estate è quel tempo opportuno per ricentrarsi sulla propria umanità, non è un tempo di inerzia o di pigrizia come per molto tempo è stato considerato ma è un tempo in cui la coscienza di arricchisce e si approfondisce.

È proprio dell’essere umano, infatti, formulare interrogativi e porre domande che toccano la propria essenza.  I nostri antichi padri del pensiero si erano accorti che ognuno di noi è capace di filosofeggiare sulla propria esistenza: sull’essere e sull’esserci.

Questo percorso di ricerca non può che riguardare le scelte individuali e quotidiane, le situazioni che oppongono delle obiezioni e a cui bisogna dare un senso, fino ad arrivare alla contemplazione senza giudizio di quel bene e di quel male con cui ogni uomo è impastato e che lo rende così unico e raro tanto da caratterizzarlo all’interno di una tensione verso la verità, tra il tormento e la grazia. C’è da riconoscere che oggi sempre più raramente desideriamo filosofeggiare su noi stessi e sul mondo che ci circonda e questo è oggettivamente e filosoficamente un male. Consideriamo tutto ciò come una perdita di tempo inutile e privilegiamo le strategie e le soluzioni facili ― last minute ― cadendo in quel peccato dell’uomo moderno che è identificabile in un’esistenza inautentica.

Quando non sono capace a determinarmi, altri prenderanno il mio posto e lo faranno per me, insieme a tutte quelle realtà che il mondo moderno dispone a questo proposito: addormentare la coscienza critica per vivere un continuo presente fatto di una successione compulsiva di eventi che mi lasciano spettatore passivo e tristemente compiaciuto.

Il pensiero filosofico ci permette di porre un freno a questo vorticoso turbinio di eventi, esso è capace di distinguere tra verità e autenticità ed è proprio nell’autenticità che scorgiamo più profondamente l’individuo nel suo essere soggetto ontologico, nel mantenersi fedele a sé stesso e quindi alla propria natura umana. Per certi versi l’autenticità dell’uomo è il saper essere coerenti in quella ricerca della verità e di senso.

Martin Heidegger, rimprovera all’uomo il rischio di cadere nella non autenticità per i tanti doveri, obblighi e impegni nei quali vive e che lo allontanano da sé stesso e dagli altri. Abbiamo tutti troppo da fare per preoccuparci di essere e di esistere, di esserci e di esistere nella vita degli altri.

L’uomo autentico, che è capace di inseguire la verità del proprio essere, ama la lentezza, che è un po’ quella capacità di saper perdere il tempo per poterlo poi ritrovare non in senso quantitativo ma qualitativo. E una logica oggi impopolare quella del perdere per guadagnare e se ci pensiamo le cose più importanti della vita dell’uomo sembrano essere costantemente in perdita per poter funzionare a dovere, per crescere e svilupparsi armonicamente.

Mi capita spesse volte di rivolgere alle coppie di coniugi in stanca matrimoniale queste due semplici domande: «Quanto tempo dedichi a tuo marito/moglie?»; «Quanto tempo sapete ritagliarvi nella vostra giornata per stare insieme?» La risposta è quasi sempre la medesima, salvo piccole varianti: «Padre non abbiamo tempo, siamo troppo impegnati, siamo troppo indaffarati». Queste risposte sono il segnale di una autenticità personale e di coppia che sta soffrendo, di un essere che non è più.

Stesso discorso lo possiamo fare in ambiti differenti: tra figli e genitori, tra amici e colleghi di lavoro. Anche all’interno della Chiesa il bisogno di autenticità tocca la persona dei consacrati e dei fedeli. La non autenticità dell’essere è come la ruggine che corrode l’umanità di ciascuno con il rischio di diventarne talmente parte di essa che è poi difficile distinguerla da quello che è autentico. È solo nell’autenticità che io mi permetto di essere e di esserci, di conoscere me stesso e l’altro. Non sono le cose da sbrigare che mi determinarono, non sono i ruoli con cui mi presento al mondo che mi identificano o quello che gli altri mi caricano sulle spalle attraverso mille aspettative.

L’autentico soggetto ontologico che racchiude la verità di me stesso e il medesimo che mi permette di conoscere e dialogare con la verità dell’altro, ma per far questo occorre saper perdere tempo, camminare con lentezza, che è la vera forma della memoria come scriveva Milan Kundera. Il saper filosofeggiare dei nostri antichi padri comprendeva tutto questo, il cui guadagno consisteva anzitutto in una perdita di tempo che era capace di curare e di accudire la persona.

La cura come possibilità di essere e di esserci. Tutti siamo bisognosi di cura, così come tutti possiamo essere i soggetti attivi di una cura. La cura non è solo una prerogativa dei deboli e dei fragili ma fa parte di ogni essere uomo che viene al mondo, nella consapevolezza di non poter vivere come un assoluto a sé stesso.

Il mito dell’uomo che «non deve chiedere mai» indipendentemente dal suo essere maschio o femmina ― è appunto un miraggio dell’ideologia del benessere, di chi presume di potersi fare da solo, un mito prometeico di assoluto che abbiamo visto naufragare proprio con l’evento pandemico di alcuni anni fa che ha messo in crisi questa modalità di vedere l’uomo moderno come invincibile e padrone di sé. L’accudimento è un elemento essenziale di ogni consorzio umano civile, il grado di sviluppo di una società matura si riconosce non tanto dalla sua capacità di fare o di creare ma nella sua capacità di prendersi cura degli altri. Anche nell’ipotesi del migliore dei mondi possibili in cui siano state finalmente abolite le guerre, le povertà e le malattie, l’imperativo alla cura resta immutato dentro quella componente umana, troppo umana ma anche felicemente umana che ci permette di mantenerci autentici. Ne è un esempio l’immagine evocativa di Anchise portato in braccio dal figlio Enea che la mitologia antica ha individuato come icona della virtù della pietà ― precedente e anticipatrice della pietas cristiana ― e che comprende e racchiude il dovere, la devozione e l’affetto, caratteristiche tutte che ritroviamo nella cura verso gli altri qui racchiuse nell’autenticità di una relazione tra padre e figlio.

Forse è necessario ritornare a riscoprire una filosofia della cura per poter successivamente elaborare un’etica efficace della cura: la consapevolezza di perdere tempo sapendo che «aver cura significa prendersi a cuore, preoccuparsi con premura» (cf. L. Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015), così come il gesto di Enea suggerisce. Colui che curandosi del vecchio padre, dopo la disfatta di Troia, viene reciprocamente da lui custodito in quella stretta dei Penati, le divinità protettrici della famiglia, nelle mani del vecchio genitore.

Perché questi richiami? Perché il saper filosofeggiare ci permette di leggere e di interpretare il presente che ci circonda fuggendo la non autenticità e la distorsione della verità dell’essere che risiede come evenienza per ogni uomo. Tutti noi ricordiamo i casi di cronaca recente di Laura Santi e di don Matteo Balzano, ebbene sono proprio queste due vite spezzate dal suicidio che rendono doveroso un sapersi fermare e interrogare sull’importanza che ogni uomo ha e sulla cura che ogni uomo merita di avere. Delle domande non possono che essere formulate davanti a queste due vite che non sono più, non per cercare facili consolazioni e inutili responsabilità ma per sottolineare ancora una volta come preferiamo spesso accomodarci sull’inganno della non autenticità che sulla faticosa perdita di tempo che il curare comporta.  

Quando una società civile si abbandona nell’illusione di normalizzare e regolamentare il suicidio di un uomo ― inteso anche come scelta eutanasica ― in base a giustificazioni che fanno capo a circostanze dispotiche e capricciose o a una necessità ineludibile, ebbene siamo al vertice della non autenticità dell’uomo e quindi al capolinea della sua disumanizzazione e della negazione del suo essere ontologico, l’anti-uomo per eccellenza. M. Heidegger parlava di «prendersi cura delle possibilità» (cf. Heidegger, Segnavia, (1967), Adelphi, Milano 2002, p. 21), intendendo come l’uomo abbia la possibilità di aspirare e realizzare la migliore forma di vita possibile, realizzando quella capacitività del suo essere che non si limita al solo esistere ma è caratterizzata da una progettualità, da un divenire più ampio di esistenza: «l’essere nell’esserci». Ed è proprio questo divenire più ampio di esistenza, l’autentica cura che il mondo moderno deve saper riscoprire come elemento di civiltà e di umanizzazione davanti al pericolo della negazione dell’essere che vede il suicidio come tollerabile e la malattia grave come fatalità da cui non è più possibile uscire.

La possibilità di aspirare e di realizzare una migliore forma possibile è quello che permette all’uomo di poter stare in ogni contesto e situazione della sua esistenza, aprendo porte che fino a quel momento sembravano chiuse, superando ostacoli apparentemente insormontabili. Il sapersi riconoscere uniti l’uno all’altro smuove il coraggio di promuovere ampie possibilità di umanizzazione, di responsabilità, di incoraggiamento e di sostegno della propria autentica identità.

Proviamo ancora a filosofeggiare ed immaginiamo diversi ambiti dove anche ciascuno di noi vive e lavora. Forse certe situazioni che ci appaiono difficoltose o disperate sono caratterizzate non tanto dalla cattiveria, dall’invidia o del cieco fato ma dalla mancanza di sapersi prendere cura e di sentirsi oggetto di una cura premurosa e attenta. Come è possibile farci portatori di quell’essere nell’esserci all’interno di una situazione di malattia terminale o di oppressione e disperazione mortale che svuota di ogni senso? In altre parole, quale responsabilità abbiamo davanti a questi bisogni di cura più o meno espressi, più o meno coscienti e consapevoli? La cura dell’esserci è anzitutto gratuità e desiderare ardentemente di perdere tempo e di compromettersi con l’altro con rispetto, senza pretesa di dominio o di imposizione. La cura richiede coraggio che al giorno d’oggi più che mai si esprime come atto politico nel senso originario del termine.

Joan C. Tronto, una delle voci più autorevoli nella riflessione contemporanea sulla filosofia della cura, sottolinea come questa rappresenti una tra le pratiche basilari per una buona convivenza democratica e per una giustizia sociale non ideologica e questo è vero ma non ancora sufficientemente compreso perché ancora relegato ad ambiti circoscrittiti come quelli familiari, privati o confessionali.

Ricordiamoci questo e ritorniamo a filosofeggiare e a pensare che dietro le proposte apparentemente pietose dell’eutanasia e della facile commozione per coloro che con un gesto estremo ci hanno lasciato, esiste l’opzione della cura che ci permette di «riparare il nostro mondo così da poterci vivere nel modo migliore possibile», quel mondo che include tutto: i nostri corpi, le nostre identità personali, il nostro ambiente. (cf. B. Fisher, J.C. Tronto, Toward a Feminist Theory of Caring, in E. Abel, M. Nelon, Circles of Care, SUNY Press, Albania 1990, p. 40).

Sanluri, 18 agosto 2025

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1 Articolo liberamente tratto dal quadrimestrale di filosofia pratica La chiave di Sophia, N.27 Anno X Giu-Ott 2025, cfr. articoli di Elisa Giraud e Chiara Frezza.

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Carlo Acutis, l’Eucarestia. A volte avere grilli per la testa è sterile e pericoloso

CARLO ACUTIS, L’EUCARESTIA. A VOLTE AVERE GRILLI PER LA TESTA È STERILE E PERICOLOSO

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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La canonizzazione di nuovi santi è sempre un momento di dono per la Chiesa. Per nuove figure che sono modello ed intercessione per noi che rimaniamo. Anche per soffermarci su alcuni temi che quegli stessi santi hanno approfondito e vissuto nella loro vita.

Papa Leone, confermando il cammino svolto finora da Papa Francesco, ha confermato la canonizzazione di due santi: Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati per il prossimo 7 settembre. Se dunque innanzi alle nuove canonizzazioni, un minimo di dibattito e di riflessione sono sempre comprensibili, ed anzi auspicabili anche in una linea più teologico speculativa, alcune esasperazioni sui presupposti teologici e dottrinali degli stessi santi può risultare pericoloso e sterile se non addirittura stucchevole.

L’impressione che, mi sembra, ci sia dietro alcuni scritti recenti non sia quella di valorizzare un’opera di un santo, che se come noto, per fede, in sé stesso non ci è ovviamente chiesto di accogliere come quarta persona della Trinità, però non ci è neanche chiesto di usarlo come grimaldello per smontare una visione classica della teologia eucaristica. È il caso di un recente articolo del Prof. Andrea Grillo sulla teologia Eucaristica di Carlo Acutis. Articolo che non ci sembra cogliere a pieno le potenzialità del santo. Vediamo ora di comprenderlo un passo alla volta. Innanzitutto, focalizziamoci su Carlo Acutis.

CARLO ACUTIS: UN SANTO DELL’INTERNET OF THINGS[1]

Carlo Acutis, nato a Londra nel 1991 e trasferitosi a Milano poco dopo, è una figura venerata dalla Chiesa Cattolica, noto per la sua precoce e profonda fede. La sua biografia rivela una vita breve ma intensa, caratterizzata da una straordinaria devozione e un talento eccezionale per l’informatica, che mise al servizio della sua spiritualità. Fin da bambino, Acutis manifestò una notevole inclinazione verso la fede. Questa sua devozione innata lo portava a desiderare ardentemente di ricevere la Prima Comunione, che gli fu concessa in anticipo, all’età di sette anni. Da quel momento, la Messa quotidiana, l’adorazione eucaristica e il rosario divennero pilastri della sua giornata. Frequentò le scuole dalle Suore Marcelline e successivamente l’Istituto Leone XIII, distinguendosi come uno studente brillante e socievole. Parallelamente ai suoi studi, Acutis sviluppò una notevole passione per l’informatica, diventando autodidatta e guadagnandosi l’appellativo di “genio dell’informatica”. Questa abilità non fu per lui un mero hobby, ma uno strumento di evangelizzazione. A soli quattordici anni, creò un sito web dedicato alla catalogazione dei miracoli eucaristici riconosciuti dalla Chiesa, un’opera che divenne uno strumento di evangelizzazione a livello mondiale, attirando l’attenzione di numerosi fedeli. Il suo obiettivo era far conoscere la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, diffondendo la fede attraverso le nuove tecnologie.

Nonostante la sua profonda spiritualità, Acutis era un adolescente come tanti, che amava giocare a calcio, dedicarsi ai videogiochi e stare con gli amici. La sua carità era un tratto distintivo: utilizzava i suoi risparmi per aiutare i senzatetto e dedicava il suo tempo come volontario nelle mense per i poveri. Era anche un punto di riferimento per i suoi compagni di scuola, aiutandoli nello studio e offrendo supporto a chi affrontava bullismo o difficoltà familiari.

Nell’ottobre del 2006, la vita di Acutis fu bruscamente interrotta da una diagnosi di leucemia fulminante. Affrontò la malattia con una serenità sorprendente, offrendo le sue sofferenze per il Papa e per la Chiesa. Morì il 12 ottobre 2006, all’età di 15 anni. La sua fama di santità si diffuse rapidamente, portando all’apertura del suo processo di beatificazione nel 2013. Papa Francesco lo dichiarò Venerabile nel 2018 e nel 2020 riconobbe un miracolo a lui attribuito, aprendo la strada alla sua beatificazione, avvenuta il 10 ottobre 2020 ad Assisi. Il suo corpo è conservato ed esposto alla venerazione ad Assisi.

Carlo Acutis è oggi considerato un modello di santità per i giovani nell’era digitale, spesso chiamato «l’influencer di Dio» o «il cyber-apostolo dell’Eucaristia», per la sua capacità di unire fede e tecnologia.

Essendo personalmente legato all’apostolato di predicazione digitale, ritengo che per questa propensione alla divulgazione della fede in internet sia uno dei punti di luce, in cui tutti i giovani possano prendere modello ed ispirazione, per diventare dei «cyber predicatori digitali», senza per questo diventare bigotti o estremisti.

UNA SCHERMAGLIA ECCESSIVA

 Il Professor Andrea Grillo, nel suo articolo Il giovane Carlo Acutis e la maleducazione eucaristica [2], offre una disamina critica dell’interpretazione teologica dell’Eucaristia veicolata dalla figura del Beato Carlo Acutis, con particolare attenzione all’insistenza sui cosiddetti «miracoli eucaristici». Grillo si interroga su come Acutis, un «super-comunicatore», possa essere stato orientato verso una comprensione così «distorta» e «unilaterale» dell’Eucaristia, focalizzata sui «miracoli» anziché sul genuino valore ecclesiale del sacramento.

Il Professore esamina attentamente il sito ufficiale dell’Associazione Carlo Acutis, in particolare la sezione dedicata ai miracoli eucaristici, e analizza criticamente i testi introduttivi redatti dal Cardinale Angelo Comastri, da Monsignor Raffaello Martinelli e dal padre domenicano Roberto Coggi, che fu anche mio docente di filosofia della natura negli anni bolognesi della mia formazione. Grillo definisce questi testi «vecchi … pesanti … ossessivi», suggerendo che essi incarnino una «cattiva teologia» imposta ad Acutis da «cattivi maestri». Egli evidenzia incongruenze e visioni teologiche superate nelle loro scritture, come la prefazione difensiva del Cardinale Angelo Comastri, la giustificazione dei miracoli come “occasioni” per affrontare altri temi da parte di Monsignor Paolo Martinelli, e la comprensione antiquata delle parole della consacrazione di Padre Roberto Coggi. Il Professore sostiene che questa enfasi sui miracoli fisici distoglie l’attenzione dal «vero» e «”unico» miracolo eucaristico, che risiede nella comunione ecclesiale e nell’unità tra il corpo sacramentale e il corpo ecclesiale. La «maleducazione eucaristica», conclude Grillo, non è imputabile al giovane Carlo Acutis, quanto piuttosto agli adulti che hanno promosso queste interpretazioni sbilanciate, proponendo infine una “fissazione distorta sui miracoli eucaristici” come modello per i giovani.

AVERE GRILLI PER LA TESTA

Se da un lato concedo che l’eccessiva attenzione ai miracoli eucaristici «veicolato dagli adulti» in modo devozionalistico e quasi «eucaristolatrico» rischia di non far comprendere il vero senso dell’Adorazione in Gesù Cristo presente in corpo, sangue, anima e divinità e anche nell’Eucarestia quale comunione del nuovo popolo di Dio [3],  ci sembra che il focus del professore non sia quello di smontare una falsa devozione eucaristica, ma, quanto al contrario, di minimizzare fino a quasi descrivere come obsoleta la concezione della presenza sostanziale di Cristo nelle specie eucaristiche. Sebbene questo non viene detto esplicitamente, il modus in rebus risulta eccessivo. Se davvero si voleva colpire solo una tendenza «eucaristolatrica», ritengo personalmente più giusto esaltare anche i passaggi di bontà dello stesso Acutis e del suo desiderio di far comunione in Cristo anche tramite internet. Saltando a più pari il riferimento al prossimo santo, ogni riferimento sembra proprio pensato per attaccare la dottrina della presenza reale, senza motivi dottrinalmente validi.

Per cui scherzosamente, rispetto alle posizioni del professore, scrivevo tempo fa che questa propensione ad usare Carlo Acutis come grimaldello per scardinare «i chiusi rimasti a concilio tridentino» o come un trampolino per saltare a piè pari tutta la bellezza della riflessione sulla contemplazione eucaristica, questa propensione è come avere grilli per la testa. Tre salti — in lungo, esagerati e fuori focus — di un grillo che penso vadano un po’ risistemati. Puntualmente adesso cercheremo di rispondere, documenti alla mano, alle posizioni del Professore.

Eucaristia «vecchia» e «fuori moda»? La verità sull’Eucaristia come presenza reale non ha età e non può essere “fuori moda” come probabilmente diventerà una coca cola zero fra quindici anni. La dottrina della Presenza Reale di Gesù nel Santissimo Sacramento è il cuore della nostra fede e un pilastro immutabile, non una «moda» passeggera. Il Concilio di Trento ha solennemente affermato che Cristo è «veramente, realmente e sostanzialmente» presente nell’Eucaristia [4]. Il Concilio Vaticano II, lungi dal negare questa verità, l’ha approfondita, esortandoci a una partecipazione più piena e consapevole al Sacrificio eucaristico [5] .Carlo Acutis, con la sua vita, ci ha semplicemente tentato di ricordarci la bellezza e la potenza di questa verità eterna, dimostrando che essa può infiammare il cuore di ogni generazione. Ha cercato di fare comunione digitale e virtuale a partire dalla comunione reale con Cristo Eucaristico. Se l’Eucaristia è davvero «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» [6] allora non è affatto inessenziale, ma il centro di tutto.

Miracoli Eucaristici vs. il «Vero Miracolo»? I miracoli eucaristici riconosciuti dalla Chiesa, pur non essendo «oggetto di fede» come i dogmi, possono essere un grande aiuto per la nostra fede. Monsignor Raffaello Martinelli, in uno dei testi che presenta la mostra di Carlo, spiega che possono «costituire un utile e fruttuoso aiuto alla nostra fede». Essi sono segni straordinari che Dio, nella Sua infinita sapienza, ci offre per rafforzare la nostra adesione al Mistero. San Tommaso d’Aquino stesso ha spiegato come nelle specie eucaristiche si esprimono sostanzialmente le proprietà della carne e del sangue, anche se tale proprietà ineriscono a Dio per un miracolo [7]. Questo richiamo è davvero necessario per noi che quelle proprietà non potemmo adorarle nel corpo glorioso di Cristo, perché nati secoli e millenni dopo la presenza del Verbo Incarnato sulla terra. Questi fenomeni non eliminano il vero miracolo della Transustanziazione, ma possono aiutare a sottolinearlo in modo visibile, guidando molti a una fede più profonda nella Presenza Reale. Carlo Acutis non ha «trascurato» il vero miracolo, ma ha usato questi segni per condurre altri al cuore di quel Mistero che per lui era «la mia autostrada per il Cielo».

“Maleducazione eucaristica” e «cattivi maestri»? Queste proposizioni del Professore ci sembrano poco prudente. Nessun articolo teologico autorizza a processare le intenzioni di altri teologi. Padre Roberto Coggi, Monsignor Paolo Martinelli e il Cardinale Angelo Comastri sembrano quasi descritti come dei cattivi maestri portatori di una teologia obsoleta e stantia, che, per come descritta, sembra quasi lontana dalla dottrina cattolica. Questo non ci sembra. Leggiamo insieme cosa ci dice la Chiesa. Le parole della consacrazione, come ci insegna il Catechismo (n. 1353), hanno il loro fulcro nelle parole di Cristo: «Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…». Il Messale riformato nel 1970 ha ripreso questa formula traducendola dal latino: e infatti ha così provato le parole essenziali che operano il Sacramento rimangono quelle istituite dal Signore. Come tutto questo possa entrare nel novero della «maleducazione» o della «fantasia», o della cattiva maestria, mi sfugge completamente. Nessuno degli autori succitati, inoltre, ha mai negato l’importanza dell’Eucarestia come Comunione del Nuovo Popolo di Dio, e in particolare il padre Coggi, nel suo bel libro La Chiesa, frutto delle sue meditazioni a Radio Maria, scrive;

«La Chiesa non è presentata dal Concilio solo come il Corpo mistico di Cristo, ma anche come il nuovo Popolo di Dio. Anzi, si può dire che il Concilio ha sottolineato in modo particolare questo aspetto della Chiesa, che cioè la Chiesa è il Popolo di Dio. Lo dimostra il fatto che il Concilio dedica a questo argomento un intero capitolo fra gli otto di cui è costituita la Lumen Gentium. Infatti il secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa è intitolato: Il Popolo di Dio. Vedere la Chiesa come Popolo di Dio apre molte prospettive. Innanzitutto sottolinea la continuità del Nuovo Testamento con l’Antico Testamento: come Israele era il Popolo di Dio dell’Antica Alleanza, così la Chiesa è il Popolo di Dio della Nuova Alleanza. Inoltre sottolinea l’aspetto storico della Chiesa. Le denominazioni che abbiamo esaminato nelle passate trasmissioni, quando abbiamo detto che la Chiesa è il Regno di Dio, il Tempio di Dio, il Corpo mistico di Cristo, concentrano la nostra attenzione sul legame della Chiesa con Dio, con la Santissima Trinità, con Gesù risorto e glorioso, cioè sottolineano la dimensione eterna della Chiesa. Ma la Chiesa non ha soltanto questo aspetto, che in un certo senso la sottrae al mondo e alla storia. La Chiesa è anche inserita nella storia umana, la Chiesa cammina nel tempo. Dire che la Chiesa è il Popolo di Dio, il Popolo di Dio pellegrinante nella storia verso il traguardo dell’eternità – come l’antico Popolo di Israele peregrinava nel deserto verso la terra promessa -, dire questo è cogliere un aspetto essenziale della Chiesa» [8].

È davvero un passaggio splendido per comprendere anche la Chiesa come popolo di Dio. Insomma l’attenzione alla Presenza Reale non è disattenzione verso i fedeli: ma di un’attenzione al nucleo del Mistero che arriva ai fedeli. Accusare di «cattiva teologia» chi cerca di comunicare la centralità della Presenza Reale, anche attraverso la devozione popolare e i miracoli, significa non comprendere la pluralità e la ricchezza delle vie attraverso cui la fede viene trasmessa e vissuta.

CONCLUSIONI

Il futuro santo Carlo Acutis è un modello di santità proprio per la sua ardente fede eucaristica, un esempio luminoso per tutti noi e per i giovani. Una fede non devozionistica e ancorata a retaggi semipagani o protestanti. Quella di Acutis è una fede eucaristica che ci aiuta a ripetere l’azione del piccolo apostolo Giovanni nell’ultima cena. Egli cioè di fronte a Gesù appoggiò il suo capo sul petto di Gesù sul suo Sacro Cuore. E in quel «accoccolarsi» abbandonò tutto sé stesso a Dio. Così anche noi durante l’adorazione al Santissimo, possiamo appoggiare il nostro capo sul Suo Sacro Cuore. Abbandonare tutte le nostre ansie, tutte le nostre paure, e anche offrendo tutto quello che abbiamo a Lui. Un bel momento di preghiera che, di cuore, auguro anche al Professor Andrea Grillo.

Santa Maria Novella in Firenze, 23 luglio 2025

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Per approfondire

– Concilio di Trento, Sessione XIII, Decreto sull’Eucaristia, Canone 1. Cfr. Denzinger-Hünermann, Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 1651.

– Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 14.

– Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 11.

– San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 77, a. 1.

– Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

– R.Coggi, La Chiesa, ESD, Bologna, 2002, 81.

NOTE

[1] Sintetizzo da qui https://biografieonline.it/biografia-carlo-acutis

[2] Si veda

https://www.cittadellaeditrice.com/munera/il-giovane-carlo-acutis-e-la-maleducazione-eucaristica/

[3] Non esiste la comunione dei fedeli in Cristo senza la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, sebbene anche questo, en passant, sembra essere assunto dal professore.

[4] Denzinger-Hünermann, n. 1651

[5] Sacrosanctum Concilium, n. 14.

[6] Lumen Gentium, n. 11

[7] Summa Theologiae, III, q. 77, a. 1, Somma Teologica III, q.76,a.8.

[8] R.Coggi, La Chiesa, ESD, Bologna, 2002, 81.

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Carlo Acutis. La fabbrica dei Santi passata al vaglio delle critiche dal teologo Andrea Grillo

CARLO ACUTIS. LA FABBRICA DEI SANTI PASSATA AL VAGLIO DELLE CRITICHE DAL TEOLOGO ANDREA GRILLO

Di recente è stato sollevato un dibattito per certi versi interessante, perfino con qualche punta polemica, scaturito dagli interventi del Professor Andrea Grillo. Le sue puntuali critiche e perplessità erano rivolte a come il Beato Carlo Acutis viene ufficialmente presentato e sulla pubblicità ecclesiastica che si è sviluppata attorno a lui, la quale, a suo dire, risentirebbe di una sensibilità religiosa arretrata, che terrebbe di nessun conto tutto il cammino fatto dalla Chiesa negli anni del post Concilio in tema di Eucarestia.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il popolare detto, «scherza coi fanti, lascia stare i Santi», negli ultimi tempi pare abbia perso di valore nei riguardi di colui che è considerato il beato moderno per eccellenza: Carlo Acutis; prossimamente innalzato agli onori degli altari insieme all’altro giovane beato Piergiorgio Frassati.

Poco tempo fa sono iniziati a circolare commenti circa l’opportunità della canonizzazione di Carlo Acutis; essi provenivano perlopiù ― e lo dico esemplificando molto ―, dagli ambienti cosiddetti conservatori. Gli appunti si addensavano intorno alla velocità del processo di canonizzazione, che appariva a costoro più una promozione della politica ecclesiastica che un invito alla santità. Di seguito sono emerse domande sulla figura del prossimo Santo che poco avrebbe da proporre ai giovani di oggi, i quali viaggiano sulla rete molto più velocemente del Beato ritenuto «genio dell’informatica», solo per aver creato un semplice sito internet sui miracoli eucaristici. E ancora, critiche sono state mosse alla presenza costante della famiglia Acutis; anche questa una novità tollerata dalla Chiesa che invece, in passato, proibiva ogni intervento pubblico dei familiari, come nel caso della madre e dei fratelli della giovane Santa Maria Goretti. Diversa invece la situazione odierna dove le mamme promuovono il figlio santo, oppure i figli e i nipoti che girano a tenere conferenze sul padre, la madre, il nonno o la nonna elevati agli onori degli altari.

Più di recente, da un fronte diverso, è stato sollevato un dibattito per certi versi interessante, perfino con qualche punta polemica, scaturito dagli interventi del Professor Andrea Grillo, docente di Liturgia presso l’Ateneo romano di Sant’Anselmo, riportati sulla sua pagina facebook e sul suo blog. Le sue puntuali critiche e perplessità erano rivolte invece a come il Beato Acutis viene ufficialmente presentato e sulla pubblicità ecclesiastica che si è sviluppata attorno a lui, la quale, a suo dire, risentirebbe di una sensibilità religiosa arretrata, che terrebbe di nessun conto tutto il cammino fatto dalla Chiesa negli anni del post Concilio in tema di Eucarestia. In particolare, egli ha usato l’espressione «mala educazione» riferendosi alla debordante attrazione verso il miracoloso, sottolineata nella presentazione del Beato Carlo. Afferma Grillo:

«Come è possibile che tutto il cammino che la Chiesa ha fatto negli ultimi 70 anni, sul piano della comprensione del valore ecclesiale dell’Eucaristia e della sua celebrazione, sia stato comunicato in modo così distorto al giovane ardente comunicatore, tanto da suggerirgli una comprensione tanto lacunosa, tanto difettosa, tanto unilaterale?».

Egli muove perciò una critica, più che al Beato, mai messo in discussione, piuttosto alla presentazione che di lui viene fatta e, riguardo all’Acutis, se la sua fu una passione verso i miracoli eucaristici, secondo il professore questa non fu ben indirizzata. Da queste affermazioni che ho molto sintetizzato, ne è nato un dibattito che, come sempre accade, prevede favorevoli e contrari. Forse alcune affermazioni del docente sono potute apparire a tratti pungenti, mi riferisco a quelle rivolte ai celebri motti del Beato, che ne hanno decretato la fortuna: «Non io ma Dio» e «Tutti nascono originali ma molti muoiono fotocopie». Ciononostante, alcune domande sollevate sono difficilmente aggirabili, rivolte soprattutto ai promotori della causa di canonizzazione e non al Santo, i quali si sono «fermati» troppo unilateralmente sull’aspetto miracolistico della presentazione dell’Eucarestia.

È probabile che alcune problematiche prima o poi sarebbero emerse, indipendentemente dalla canonizzazione del giovane Beato Acutis, a seguito delle nuove norme emanate da Giovanni Paolo II, anch’egli precoce Santo, le quali hanno permesso di accelerare i tempi per far si che si potessero presentare figure contemporanee, a scapito però della perdita di una prospettiva storica e dell’impossibilità di valutare la permanenza di una memoria e di un’ispirazione. Il discorso in questa circostanza si fa ancor più delicato perché parliamo, fra l’altro, di un ragazzo morto in giovanissima età che, secondo le concordi testimonianze, ha umanamente mostrato grande entusiasmo, generosità e coraggio e che la Chiesa Cattolica ha deciso, con procedure semplificate rispetto al passato, ma non per questo superficiali, di proporre come possibile modello per tutti, soprattutto per i giovani.

Il processo che porta alla canonizzazione di un Santo è complesso e delicato insieme. Alla fine, è come una consegna o un dono che la Chiesa fa a tutti i fedeli, quando riconosce le virtù di uno dei suoi figli. Ma i fedeli ― e questo spesso non accade ―, dovrebbero avere quella necessaria maturità che viene dalla formazione teologica e non solo, quel sensus fidei che porta a un sano discernimento e spirito critico. Pensiamo, per fare un esempio, alla tendenza attuale di considerare tutti i canonizzati come dottori della Chiesa, dando ai loro scritti un valore esorbitante. Mentre invece bisognerebbe sapere che la canonizzazione di un Santo non vuol dire, ipso facto, che tutto quello che egli ha scritto o detto sia da considerarsi oro colato. A maggior ragione quando siamo di fronte alla canonizzazione di un adolescente, che certamente avrà avuto una formazione non completa o esaustiva. Un tempo, per dire, venivano presi in considerazione come santi solo i bambini o gli adolescenti martiri, come nel famoso caso limite degli inconsapevoli, eppure veneratissimi, Santi Innocenti.

Anche se non si vogliono esasperare i problemi dottrinali messi in luce dal prof. Andrea Grillo, di comprensione dell’Eucaristia soprattutto, ma anche riguardo al destino eterno ― mi riferisco alle affermazioni del nostro Beato circa il desiderare di saltare il purgatorio grazie alle sofferenze ospedaliere ― è indubbio che si addice ai pastori e a seguire ai fedeli la capacità di saper discernere sapientemente ogni cosa, sapendo tirar fuori, secondo il detto evangelico: «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

A mio avviso, il dono che il Beato Carlo Acutis sta facendo alla Chiesa è proprio questo. Egli purtroppo, come sappiamo, non ha avuto il tempo per sviluppare una conoscenza strutturata della teologia eucaristica o di altri aspetti del mistero cristiano e si è fermato a una intuizione che è divenuta in lui passione e devozione. Certo, è facile per noi citare San Tommaso d’Aquino, insigne teologo, lì dove discute dei miracoli eucaristici e ne limita il significato (cfr. Summa Theologiae, III, 76, 8)  e metter ciò a confronto di quella che può apparire una fissazione adolescenziale del nostro Beato. Ma il fatto è appunto questo: che così confronteremmo un discorso teologico con qualcosa che non è discorso teologico e non vuole esserlo. È appunto passione e devozione. Non tutto può essere perfetto come lo vorremmo o ci aspetteremmo. Lo abbiamo visto nel caso emblematico di Medjugorje, dove la Santa Sede ha preferito alla fine promuovere l’esperienza religiosa che in quel luogo si vive, mentre ha declassato la saldezza dei messaggi mariani che da lì sono partiti, ritenendoli solamente presunti, di fatto non riconoscendoli autentici.

Casomai possiamo chiederci — e in questo ci aiuti il Beato Carlo Acutis — come mai dopo il Concilio di Trento sono nate tante devozioni che hanno arricchito l’esperienza cristiana, che mettevano al centro la semplicità di vita, l’interiorità, la vita comune? Era un movimento molto più laicale che clericale, che non aveva di per sé una sua teologia elaborata e strutturata, eppure traduceva la fede cristiana in una sensibilità, in pratiche, in modi di vivere. E invece questo non è avvenuto a seguito dell’ultimo Concilio. Non siamo stati capaci di rinnovare quelle devozioni, né farne nascere di altre, nonostante tutto lo sforzo teologico ed ecclesiologico del movimento liturgico che, se da un lato aveva ridimensionato molte devozioni, dall’altro offrì contenuti, approfondimenti e nuove occasioni per cammini rinnovati. Come è possibile che una comprensione così ricca e vitale non sia diventata anche devozione, sensibilità e forma di linguaggio? Così oggi ci troviamo di fronte a un adolescente Beato moderno che si è gettato con passione tutta giovanile su aspetti dell’Eucarestia considerati devozionali, come i miracoli eucaristici, al quale non sono pervenute tutte le acquisizioni più recenti su quell’importante Mistero. E, stando alla presentazione che viene fatta di quel Beato, sembra che tutta quella ricchezza non sia passata neanche ai promotori della causa di Carlo Acutis, finanche a coloro che promuovono forme che lasciano, per così dire, perplessi, come quella di una trasmissione youtube 24h su 24h del sepolcro del Beato Carlo.

La domanda sul perché non abbiamo oggi devozioni che tengano conto della ricchezza delle ultime acquisizioni, che sappiano legare vita liturgica e testimonianza di fede improntata al Vangelo, con al suo centro l’Eucarestia che insieme è approdo e sorgente della vita del credente e delle comunità, non è così peregrina. Alla luce di altri due fatti, il secondo dei quali alquanto doloroso. Il primo è che tutto il corso del processo che ha portato alla beatificazione e ora alla canonizzazione del Beato Acutis, come pure alla diffusione del suo culto, si sono svolti durante il pontificato di Papa Francesco. In Carlo troviamo l’esempio, infatti, di quella «santità della porta accanto» a cui accenna l’esortazione papale Gaudete et exultate del 2018. Addirittura, l’esortazione post sinodale del 2019, Christus vivit, nomina esplicitamente il Beato, pur essendo all’epoca ancora venerabile e gli dedica persino più di un rimando (nr. 104-107). Qualcuno ha chiesto: Come è possibile, anche da questo punto di vista, che nulla di «conciliare» sia stato trasmesso; visto che Papa Francesco è stato salutato come primo Pontefice figlio del Concilio?

Il secondo fatto è che oggi, stando alle inchieste sulla religiosità in Italia e in particolare quella dei giovani, si deve ammettere che se abbiamo da un lato un ragazzo prossimo Santo con una passione e devozione verso l’Eucarestia, forse poco formate; dall’altro c’è una grande maggioranza di ragazzi e giovani che non hanno alcuna devozione verso l’Eucarestia, tantomeno al «valore ecclesiale dell’Eucaristia e della sua celebrazione». E questo, per quasi tutti di loro, dopo anni e anni di catechismo e formazione in gruppi specifici. Anche qui qualcuno ha detto, probabilmente esagerando, ma senza andare troppo lontano dal vero, che è rimasta loro solo un «qualche valore umanitario ed ecologico».

Perché tutte queste domande e i dibattiti scaturiti dalla canonizzazione del Beato Carlo Acutis non rimangono uno sterile esercizio o, come spesso accade ultimamente anche dentro la comunità ecclesiale, un segnare il proprio campo, prendendo ancora le distanze dagli altri che pensano diversamente, sarebbe utile farne tesoro.  E quindi sarebbe importante una riflessione a tutti i livelli, cominciando dai più alti nella Chiesa, su come riprendere un cammino di formazione alla vita cristiana dei giovani che sia serio, che tenga conto dei vissuti molteplici, ma anche di ricominciare a offrire un cibo solido ai ragazzi, senza tediarli certo, ma neanche prendendoli semplicemente per il pelo, perché altrimenti scappano o si annoiano. Certo qualcosa si sta facendo, ma credo sia giunto il momento di non perdere altro tempo. I tesori della Parola di Dio, della vita liturgica, la comprensione della Chiesa rispetto a questi e alla sua Tradizione, le mille e più esperienze e testimonianze della vita cristiana hanno bisogno di essere di nuovo posti al centro per farli diventare cultura e perché no, anche devozione, passione per la vita cristiana vissuta in tempi moderni. Per l’impegnativo compito immagino che la Chiesa si aspetti la consistente intercessione dei due prossimi Santi.

Dall’Eremo, 23 luglio 2023

 

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Social media e ignoranza. Se la storia è scritta dai vincitori, dei vili terroristi assassini diventano martiri della libertà

SOCIAL MEDIA E IGNORANZA. SE LA STORIA È SCRITTA DAI VINCITORI, DEI VILI TERRORISTI ASSASSINI DIVENTANO MARTIRI DELLA LIBERTÀ

I terroristi possono essere tali se l’ideologia da loro seguita perde e finisce sconfitta, come nel caso delle Brigate Rosse, ma possono diventare eroi e martiri della libertà se l’ideologia da loro seguita vince e si impone come potere di governo. Se infatti l’islamismo radicale avesse vinto e soggiogato gli Stati Uniti d’America, oggi a New York l’abbattimento delle due Torri Gemelle verrebbe celebrato allo stesso modo in cui si celebra in Francia la presa della Bastiglia e il rovesciamento del governo di Luigi XVII.

— Storia e attualità —

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Più si abbassa nella società il quoziente intellettivo medio, più è necessario spiegare anche le cose ovvie. L’errore che spesso noi studiosi facciamo in ambito teologico come nelle sfere di tutte le più disparate scienze, dalla medicina all’astrofisica, è dare per scontate cose che riteniamo ovvie e che di fatto lo sono pure, trattandosi degli elementi più rudimentali delle varie scienze o del semplice e basilare umano buonsenso. Purtroppo, è necessario tenere conto che oggi si è più propensi a seguire gli influencer analfabeti e i tiktoker, inclusi certi preti che si sono lanciati in questi giochi demenziali (cfr. QUI).

Come sempre spieghiamoci con un esempio: numerosi influencer convinti che «un nano ha il cuore troppo vicino al buco del culo» perché non hanno capito la iperbole ironica della canzone Un Giudice di Fabrizio de André (testo QUI), usano in senso dispregiativo la parola medioevo, ignorando che il bagaglio d’arte, scienza e tecnologia di cui oggi noi disponiamo lo dobbiamo tutto al medioevo. Non solo, perché se oggi conosciamo gli autori classici; se la cultura, la letteratura e la filosofia greca e romana è stata tramandata sino a noi è solo grazie al medioevo, incluse le poesie più lussuriose di Valerio Gaio Catullo, che non solo la Chiesa si è ben guardata dal censurare o distruggere, perché se oggi le conosciamo è grazie a essa e ai monaci amanuensi che le hanno trascritte e tramandate nei secoli.

Se in quelle zone dell’Etruria che fu territorio dello Stato Pontificio fino al settembre del 1870, la Chiesa non avesse salvato e conservato affreschi murali e vasellami che raffigurano scene falliche, orge e rapporti omosessuali tra uomini, quei patrimoni etruschi e romani sarebbero andati perduti. Proprio come avvenne altrove, dove a governare non era la Chiesa, ma i governi liberali “illuminati” che giudicarono scandalose e immorali certe rappresentazioni e per questo le distrussero.

L’impianto del moderno diritto lo dobbiamo ai grandi glossatori bolognesi vissuti tra l’XI e il XII secolo e l’elemento fondamentale di civiltà giuridica della tutela e della legittima difesa dell’imputato lo dobbiamo proprio a quel processo inquisitorio sul quale sparano a raffica persone ignare e ignoranti circa il fatto che essere condannati dai Tribunali della Santa Inquisizione era difficilissimo. E furono proprio i tribunali dell’inquisizione a sancire un altro elemento che oggi fa parte delle giurisprudenze penali di tutti i paesi cosiddetti civili del mondo: la pena mirata al recupero, non alla punizione dettata da istinti di vendetta, perché attraverso la pena il condannato non va punito ma recuperato. Pronta la replica dell’ignorante: «Erano date condanne a morte!». E qui bisogna ribadire che le condanne a morte non erano rare ma rarissime, precisando che vanno collocate e lette in contesti storici ai quali non sono applicabili i criteri di giudizio di oggi, basterebbe spiegare che persino la condanna a morte era un atto estremo teso al recupero del condannato. Per questo i condannati erano vestiti di bianco, segno della purezza, perché con la morte pagavano il proprio debito ed estinguevano la loro colpa riacquistando quella che in linguaggio cristiano si chiama “purezza battesimale”. E i loro corpi, dopo la morte, dovevano essere trattati con rispetto e seppelliti con riguardo.

Alle spiegazioni storiche ribatte tosto l’ignorante: Giordano Bruno è stato bruciato al rogo, altro che ucciso e sepolto con rispetto!». Certo. E secondo quella che era la logica sociale, politica, giuridica e religiosa dell’epoca fecero bene a bruciarlo al rogo. Fu lui che sbagliò con rara ostinazione. Fu sottoposto a due processi, uno a Venezia e uno a Roma. Col secondo processo romano fu dato nuovamente avvio ex novo all’intero iter processuale che durò in totale otto anni, nel corso dei quali intervennero due annullamenti per risibili difetti di forma, allo scopo di dare al Bruno quanto più tempo possibile per potersi ravvedere. Per anni fu tentato di indurlo al ravvedimento, che ostinatamente rifiutò. Inutile dire e spiegare a certa gente che si nutre e abbevera di leggende nere che non si può valutare e giudicare il caso Bruno con i criteri di giudizio del nostro presente sociale, politico, giuridico e anche religioso. Sarebbe come condannare con grida di scandalo, mediante l’applicazione del pensiero contemporaneo, certe pratiche degli uomini della preistoria ritenute a nostro parere disumane e criminali.

Molti sono i fatti storici manipolati dal XVI secolo per opera di autori protestanti e dalla fine del XVIII inizi XIX da liberali-anticlericali nel periodo successivo la Rivoluzione Francese. Tutt’oggi rimane cosa ardua, se non pressoché impossibile smentire certe leggende nere ormai assurte a verità impresse persino su testi scolastici di storia. Come nel caso della vicenda che vide protagonisti nella Roma pontificia del 1867 Gaetano Tognetti, 23 anni, Giuseppe Monti, 33 anni, oggi celebrati come indiscussi eroi e patrioti del Risorgimento. I due sedicenti eroi, nella sera del 22 ottobre 1867 piazzarono e fecero esplodere una potente carica di esplosivo che distrusse quasi completamente la caserma di Serristori, ubicata in una traversa della attuale Via della Conciliazione, a poche decine di metri dalla Papale arcibasilica di San Pietro. In questa caserma alloggiava una compagnia di zuavi pontifici. L’esplosione causò la morte di venticinque militari e di due civili. Se poco prima una numerosa compagnia non fosse uscita dallo stabile, il numero di morti sarebbe stato assai maggiore. L’ispiratore di questo attentato fu principalmente Francesco Cucchi, deputato al Parlamento di Firenze, che con altri sodali si servirono dell’opera dei due attentatori, finiti poi scoperti, arrestati, processati e condannati a morte. 

Due anni dopo la loro esecuzione, a unità d’Italia avvenuta e con Roma diventata sua capitale, i due attentatori furono celebrati come eroi e fatti passare alla storia come “martiri della libertà”. Nel 1977 il regista italiano Luigi Magni scrisse e diresse un film di becera matrice anticlericale esaltando queste due figure e falsando totalmente il quadro storico dell’ultimo squarcio di vita dello Stato Pontificio, ormai ridotto al solo territorio di Roma e di parte della attuale Regione Lazio.

Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti non furono degli eroici patrioti ma dei vili terroristi che uccisero in un attentato dei giovani in fascia d’età compresa tra i 18 e i 25 anni, tutti perlopiù componenti la banda musicale. Molte più di ventisette in totale avrebbero potuto essere le vittime, se un’intera compagnia non fosse uscita d’improvviso da quello stabile.

Nessuno dei regnanti europei, a partire dai Savoia, offrì diplomatico aiuto a Pio IX, chiedendo la grazia dei condannati e la commutazione della condanna alla pena capitale in carcerazione, pur sapendo che in quel momento il Romano Pontefice doveva fare i conti con i genitori delle giovani vittime e la popolazione romana ferita e arrabbiata per la loro morte, inclusa quella di una bimba di cinque anni, Rosa, morta sul colpo assieme al padre Francesco Ferri, mentre la madre, Giuseppa Cecchi, si salvò cadendo a terra stordita. Una volta ripresi i sensi impazzì completamente, tanto che fu necessario internarla nel manicomio di Santa Maria della Pietà, dove in seguito morì.

Questa reale narrativa dei fatti non è mai passata nei leggendari racconti del glorioso Risorgimento Italiano, come provano libri pseudo-storici, romanzi e persino produzioni cinematografiche di registi anticlericali.

In virtù di quella che fu la reale vicenda storica, ci saremmo dovuti guardare dal mutare a posteriori questi due terroristi in leggendari eroi per opera della propaganda liberale-anticlericale, con tanto di strade, quartieri e monumenti a loro dedicati. Ciò equivarrebbe a erigere oggi a Roma, in Via Fani, dove fu rapito nel 1978 il primo ministro Aldo Moro e uccisi i suoi agenti di scorta, un monumento celebrativo in onore delle eroiche e patriottiche Brigate Rosse. Imprimendo a seguire sui libri di storia che le Brigate Rosse non costituirono un pericoloso movimento terroristico che si macchiò di omicidi e attentati nel corso degli anni Settanta del Novecento, ma un eroico gruppo di liberatori, intitolando al nome di ciascun terrorista strade e piazze.

I terroristi e gli attentatori possono divenire eroi ed essere celebrati come tali a seconda di chi vince la guerra e a seguire scrive le cronache, mutando ideologie e leggende in falsi storici presentati ai posteri come storia-patria, con tanto di film di grande diffusione, scopo dei quali è instillare nelle masse sempre più incolte disprezzo e odio verso la Chiesa Cattolica e il Papato, nello spregio totale delle verità storiche. I terroristi possono essere tali se l’ideologia da loro seguita perde e finisce sconfitta, come nel caso delle Brigate Rosse, ma possono diventare eroi e martiri della libertà se l’ideologia da loro seguita vince e si impone come potere di governo. Se infatti l’islamismo radicale avesse vinto e, sempre per esempio, soggiogato gli Stati Uniti d’America, oggi a New York l’abbattimento delle due Torri Gemelle verrebbe celebrato allo stesso modo in cui si celebra in Francia la presa della Bastiglia e il rovesciamento del governo di Luigi XVII, senza cenno alcuno alle esecuzioni sommarie o ai processi farseschi interamente basati su false delazioni che dettero poi vita a un immane bagno di sangue sulle ghigliottine.

Lo storico olandese Pieter Geyl (1887-1966) affermò che «La storia è sempre scritta dai vincitori». Molti secoli prima, il filosofo greco Aristotele scrisse nella sua opera politica: «Le bugie dei vincitori diventano storia mentre quelle dei vinti vengono scoperte».

Frase tutt’altro che facile da interpretare, quella di Aristotele, che il filosofo e politico italiano Rocco Buttiglione chiarì in modo lapidario interloquendo proprio sulle pagine dei social media:

«Esiste la scienza storica che ha le sue regole: il controllo delle fonti, la verifica della coerenza logica delle affermazioni, l’obbligo della completezza dell’informazione. La scienza storica vuole appurare “was eigentlich geschehen” (ciò che veramente è accaduto). Ciò non elimina ma pone un limite alla partigianeria. C’è la propaganda di guerra dei vincitori che cerca di affermarsi come verità ufficiale. C’è anche la propaganda di guerra dei vinti, che periodicamente viene riscoperta e opposta alle versioni ufficiali degli avvenimenti. C’è però anche la ricerca storica seria che valuta tutti i dati disponibili. Spesso la frase “la storia è scritta dai vincitori” è usata dai vinti per riabilitare la propria propaganda di guerra. È bene tenerlo a mente per distinguere fra il revisionismo storico serio e quello che serio non è» (cfr. QUI).

Oggi, dalla Russia all’Ucraina sino al Medio Oriente, la storia si sta ripetendo, con i peggiori prepotenti già all’opera per fabbricare i prossimi falsi eroi della patria da celebrare.

Dall’Isola di Patmos 12 luglio 2025

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Povertà è riconoscere e custodire quanto ricevuto: i piccoli passi di Leone XIV per un pensiero cristiano sulla povertà

POVERTÀ È RICONOSCERE E CUSTODIRE QUANTO RICEVUTO: I PICCOLI PASSI DI LEONE XIV PER UN PENSIERO CRISTIANO SULLA POVERTÀ

Ci piacerebbe assistere ad altri passi concreti nel cammino di una povertà teologica e pastorale che interessi, ad esempio, la dignità del culto e delle chiese, cosa che il Serafico Padre San Francesco curava molto e non disdegnava di togliere qualcosa alla propria mensa per onorare la casa e l’altare del Signore donando la giusta dignità.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Ironizzava Indro Montanelli: «La Sinistra ama talmente i poveri che ogni volta che va al potere li aumenta di numero», così scriveva riferendosi a un concetto ideologico di povertà appartenente ad alcune correnti politiche.

(Gli aforismi di Indro Montanelli)

Questo grande maestro del giornalismo italiano conosceva bene la vita delle persone e la storia d’Italia e si era accorto come taluni paladini sociali non custodiscono e accompagnano la povertà e il povero ma lo utilizzano, spesso creando delle riserve protette in cui i termini di “povero” e di “povertà” vengono innalzati come un paravento per coprire le proprie distorsioni di pensiero o di illeciti.

Questo pericolo di travisamento non appartiene al solo mondo della politica e del sociale ma è anche presente all’interno della fede, in cui una condizione come quella della povertà bene si presta a trasmutare in qualcosa di alienante da Dio e dall’uomo. La storia del francescanesimo, ad esempio, conosce bene il rischio di un uso ideologico della povertà, in nome della quale si sono reclamate riforme, si sono pretese revisioni di stili di vita, si sono sognate nuove fondazioni fino all’imposizione di quella povertà violenta e aggressiva che è sfociata nell’eresia. Ahimè, nulla di tutto questo ha poi portato i frutti sperati, se non quelli della dispersione e dell’ulteriore divisione. La bellezza del francescanesimo più puro — vicino non tanto all’idea del fondatore ma a quella che Cristo ci ha consegnato — sta nello scegliere liberamente con letizia la povertà del Figlio di Dio senza imporla. Senza sognare un’ideologica «Chiesa povera per i poveri» ma arricchendo la Chiesa e gli uomini di quella essenzialità dell’unico necessario che, pur essendo ricco si è fatto per noi povero per arricchirci, proprio in virtù del suo essere l’Eterno presente.

Riguardo poi alla tendenza a trasmutare il significato di un valore e la sua parola corrispondente al fine di colpire i propri nemici, oggi tale uso è piuttosto frequente. Stesso discorso possiamo fare con altre parole come amore, diritti, inclusione e sinodalità. Non si tratta di una sola questione semantica o demagogica ma anzitutto di quel peccato di superbia tutto umano e pagano di chi ha la sicura pretesa e sicurezza di poter eliminare un male oggettivo a prescindere dall’intervento di Dio usando la volontà unità ad accordi e compromessi. Come non ricordare, a tal proposito, quel presunto movimento politico italiano venuto dal basso che aveva la pretesa di aver finalmente abolito la povertà ponendosi come il paradigma del novum in ambito politico. Beh, conosciamo tutti bene l’epilogo, il movimento si è riciclato e la povertà che si era detta abolita è magicamente ricomparsa.

Non dobbiamo farci delle illusioni in fatto di povertà, lo sappiamo bene da Gesù (cfr. Mc 14,7), questa è una tra le tante macchie endemiche della nostra creaturalità peccatrice che ci accompagnerà nel pellegrinaggio terreno fino alla ricapitolazione di questo nostro mondo, fino a quando Colui che deve venire si manifesterà glorioso e avrà posto tutti i nemici sotto i suoi piedi (cfr. Mt 11,2; 1 Cor 15,21). Del resto, Gesù stesso durante il suo ministero pubblico non ha eliminato la povertà materiale e la miseria ma ha insegnato a soccorrerla e intervenire davanti alle innumerevoli tipologie di povertà umana: di cibo, di salute, di senso, di relazioni, di bene, di Dio. I suoi discepoli, nel corso dei secoli successivi, pur santificandosi dentro i diversi contesti di povertà non sono mai riusciti ad abolirla del tutto. E questo vorrà pur dire qualcosa, perché non appaia come una vittoria dell’uomo ma di Dio che nel Figlio sottomette ogni cosa. Gesù non ci ha detto solo che i poveri ci sono e ci saranno sempre, ci ha detto primariamente che Lui c’è e che bisogna necessariamente partire da questa presenza concreta del Risorto per poter portare avanti un pensiero teologico e pastorale che si possa contrapporre anche alla povertà e che realizzi nell’oggi quel già e non ancora escatologico in cui la povertà, la sofferenza, il peccato e la morte saranno definitivamente sconfitti.

Piccoli passi che partono dal Risorto e conducono a incontrare il Risorto, non moti ideologici e rivoluzionari della superbia umana ma strategie di speranza. Credo che possiamo tutti convenire in tal senso vedendo come il Pontefice Leone XIV ha messo in atto i primi segnali di un concetto teologico di povertà inteso come il riconoscimento di quanto ha ricevuto da Dio al fine di custodirlo per poterlo a sua volta tramandare.

La decisione di ritornare ad abitare presso il Palazzo Apostolico (vedi QUI, QUI). Questa decisione segue un concreto percorso di povertà e di valorizzazione di quella residenza che è stata tradizionalmente riservata al Pontefice dal 1870 fino al 2013. Si tratta certamente non solo di una localizzazione concreta all’interno dello Stato della Città del Vaticano ma di una storia che continua e della certezza di una presenza che i fedeli di tutto il mondo hanno imparato a conoscere e ad amare osservando quella finestra aperta alla domenica mattina e illuminata alla sera: stella polare che dona sicurezza e speranza ai tanti naviganti nel mare della fede. Una presenza consolatrice quella dell’appartamento papale, che nel lontano 2005 ha provocato in tutti i fedeli cristiani un tuffo al cuore in quella sera del 2 aprile quando la luce della camera del Papa si spense segno del consummatum est di Papa Giovanni Paolo II.

La scelta di Leone XIV di riprendere ad affacciarsi al balcone del Palazzo Apostolico ridisegna la vita del nuovo Pontefice e gli assicura una maggiore protezione e intimità, conforme al suo ruolo di leader politico e spirituale ma soprattutto perché quel vezzo di risiedere in Domus Sanctae Marthae stava diventando ormai troppo ingombrante anche in termini di costi. Dentro un pontificato appena trascorso che ha imbastito una buona parte della sua visibilità mediatica sulla povertà e sull’uso “altro” del denaro, come conciliare i 200 mila euro al mese necessari per la sicurezza del Pontefice? Come fa notare il vaticanista de Il Tempo in un suo contributo di domenica 25 maggio, i famosi cinquanta metri quadrati si sono dilatati fino ad occupare l’intero secondo piano della Domus (vedi QUI). Questo con un ingente adeguamento strutturale che ha richiesto degli oneri in termini monetari forse non indispensabili se si fosse mantenuto lo storico appartamento papale che adesso dovrà per forza essere ristrutturato dopo dodici anni di inutilizzo e con conseguenti spese aggiuntive. A essere rispettosi del defunto Pontefice e del suo entourage dirigenziale non possiamo non notare un palese corto circuito in tutto ciò o piuttosto un rigurgito di quella vecchia tentazione prometeica di chi vuole abolire la povertà per finire poi col cadere nell’eccesso opposto. Queste cose purtroppo si pagano doppiamente: anzitutto in senso monetario e poi come accuse pronte per essere scagliate addosso alla Chiesa e al suo Vicario.

Oltre alla ingente somma mensile di denaro per garantire la doverosa sicurezza alla persona del Papa, a ben rifletterci volendo c’è dell’altro. La Domus si affaccia su via Gregorio VII, di fronte a diversi palazzi in territorio italiano che potrebbero essere potenziali postazioni da cui far partire un’offensiva terroristica contro il Santo Padre. Non è pretestuoso pensare che il Governo italiano si sia da tempo affrettato — dal 2013 a oggi — a sventare questa possibilità non remota, pensando a un piano di sicurezza ben strutturato, magari facendo evacuare gli stabili interessati e piazzando reparti specializzati attorno alle zone più sensibili con ulteriore dispendio di denaro? E tutto questo in nome di cosa, forse della povertà? Da francescano e da parroco che ha dovuto amministrare e continua ad amministrare beni non suoi, sono certo che la vera povertà risieda nella gestione intelligente delle cose e delle strutture che già si hanno. Saper salvaguardare e mantenere efficienti le cose, non aggiungere spese non necessarie ma potenziare e migliorare quelle già esistenti: insomma partire dal minimo necessario piuttosto che dal massimo consentito.

Altro piccolo passo verso un cammino di povertà concreta è stato quello che possiamo definire come il Bonus Conclave, cioè la somma di 500 euro elargita ai dipendenti del Vaticano che venne sospesa nel 2013 in occasione dell’atto di rinuncia di Benedetto XVI e dell’elezione di Francesco. Un riconoscimento che premia il lavoro di tutti i dipendenti dello Stato della Città del Vaticano per le ulteriori fatiche in vista del Conclave e dell’elezione del nuovo Romano Pontefice. Cinquecento euro non sono molti, ma possono fare la differenza all’interno di una famiglia che può permettersi di affrontare il mese successivo con più serenità; ma più di tutto, quel che conta e viene apprezzato, è il gesto sensibile in sé verso i dipendenti. Anche in questo caso la povertà esercitata consiste nel riconoscere e premiare chi lavora per il Papa e per la Chiesa e che merita di avere una retribuzione equa e dignitosa, perché il cibo, le medicine e le varie utenze domestiche non possono essere pagate con i Pater Noster.

Concludendo, ci piacerebbe assistere ad altri passi concreti nel cammino di una povertà teologica e pastorale che interessi, ad esempio, la dignità del culto e delle chiese, cosa che il Serafico Padre San Francesco curava molto e non disdegnava di togliere qualcosa alla propria mensa per onorare la casa e l’altare del Signore donando la giusta dignità. Ci piacerebbe assistere a una carezza autentica di povertà verso i diseredati che vivono attorno al colonnato della Basilica di San Pietro che, bontà loro, ancora non sono capaci di usare i servizi igienici messi a loro disposizione e rendono via della Conciliazione con le immediate adiacenze dei veri e propri vespasiani a cielo aperto. Tante cose si potrebbero in verità fare, ma nutriamo la segreta speranza che il Sommo Pontefice Leone XIV le sappia già, perché il guaio di una povertà ideologica e gridata consiste nel rendersi conto degli immancabili disastri che qualcun altro dovrà riparare.

Sanluri, 7 giugno 2025

 

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Da Francesco a Leone XIV. Che cosa ci riserverà il futuro

DA FRANCESCO A LEONE XIV. CHE COSA CI RISERVERÀ IL FUTURO?

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Ad appena due settimane dall’elezione del Romano Pontefice Leone XIV non possiamo non notare nella Chiesa un clima di euforia generalizzata unita a quella sensazione di sollievo simile a colui che a fine giornata dismette le scarpe strette per mettersi comodamente in pantofole. Basta ripercorrere le immagini della Santa Messa di inizio pontificato per notare una piazza San Pietro molto affollata fino a tutta Via della Conciliazione, cosa che non accadeva da almeno un decennio a questa parte.

Erano presenti in molti. Non solo la gente comune ha voluto essere presente all’evento dell’inizio del ministero del nuovo Romano Pontefice ma anche diverse personalità di spicco provenienti da tutto il mondo hanno reso il loro omaggio, nutrendo in cuor loro la segreta speranza che il nuovo Capo della Chiesa potesse costituire un valido alleato politico e sociale nella scacchiera geopolitica attuale.

L’elezione di un Papa è qualcosa di straordinario, senza dubbio è un evento unico al mondo, che con una facile ironia avviene appunto a ogni morte di Papa”. Eppure, questa elezione in modo particolare si è caricata di numerose speranze e aspettative proprio per la singolarità del pontificato di Papa Francesco e di quella oggettiva eccentricità dell’uomo Jorge Mario Bergoglio di cui, all’occorrenza, abbiamo parlato con dispiacere e talora imbarazzo su questa nostra rivista, sempre con rispetto ma soprattutto a “papa vivo”, al contrario degli “eroi” che solo oggi, a “papa morto”, sollevano perplessità, critiche e persino ironie. Da qui il realistico commento del nostro redattore canonista Padre Teodoro Beccia:

«A noi che dinanzi a certe sue innegabili stravaganze, all’occorrenza abbiamo criticato il Santo Padre Francesco a viso aperto, con garbo e rispetto, adesso toccherà il compito di difenderlo da morto da coloro che in vita lo hanno esaltato, sino a sprofondare in forme di vera e propria papolatria, ovviamente tutt’altro che disinteressata, avendo poi ottenuto quanto sperato in benefici, nomine e cariche ecclesiastiche».

Facciamo attenzione, dopo ogni elezione papale c’è da parte di molti commentatori e giornalisti l’uso smodato di quel sostantivo femminile che è “continuità”, termine che significa e indica la ripresa di quella linea di governo — fatta di tradizione, idee, orientamenti e stili — che il defunto pontefice ha avuto nel suo governo della Chiesa e che il nuovo dovrebbe proseguire quasi come un lascito testamentario. A conferma del fatto, la maggior parte delle ultime previsioni sui possibili papabili vertevano tutte su profili simili al de cuius, così come insegna quella locuzione latina: Similes cum similibus. Ma la storia del papato e dei Conclavi riserva sempre sorprese e imprevisti.

Ricordo come nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, l’elezione di Benedetto XVI fu salutata come un segno di grande continuità col Predecessore. Il tempo ha poi evidenziato come i due pontificati si sono dimostrati differenti sia per storia personale, sia per stili e temperamenti e che l’unica continuità riscontrabile è stata quella presente nel comando del Signore risorto a Pietro: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17). Questi due Romani Pontefici sono stati accomunati dalla volontà di condurre la navicella della Chiesa e di pascere il popolo santo di Dio con fortezza e non senza i dolorosi calvari.

Questo per dire che regimentare un pontificato dentro aspettative personali ed eredità precedenti porta a delusioni e che la continuità che conta per un Papa è quella con Gesù Cristo e non con il suo predecessore, fosse anche un santo canonizzato. Questo è stato anche il pensiero che molti Cardinali hanno condiviso durante le ultime Congregazioni Generali in vista del Conclave ed è quello che in modo non tanto velato ha potuto esprimere anche il Cardinale Giovanni Battista Re durante la Santa Messa prima dell’ingresso in Conclave.

Tali riflessioni sparse sono positive perché ci aiutano a maturare nella conoscenza che un Papa va amato sia nel suo ministero che come figura ma allo stesso tempo siamo ugualmente convinti che il Papa, qualunque esso sia, nella sua umanità fragile e fallimentare non è un outsider e quindi ha bisogno di tutto il sostegno e il consiglio possibile, perché siamo tutti passibili di quel fallimento che il nostro direttore Padre Ariel ha magistralmente espresso in un suo recente articolo (vedi QUI).

Il Consiglio è un dono dello Spirito Santo e non un compromesso umano, è quel dono che il Salmo 16 descrive così: «Il Signore mi ha dato consiglio, anche di notte il mio cuore mi istruisce» (Sal 16, 7). Il compito di consigliare e istruire il sommo Pontefice spetta primariamente a Dio attraverso il Figlio ma anche attraverso il suggerimento, la saggezza e la mediazione del Sacro Collegio al quale spetta esercitare con generosità il dono del Consiglio verso la persona del Sommo Pontefice.

L’8 maggio, dalla loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro, abbiamo potuto vedere un Pontefice affacciarsi con visibile commozione e consapevolezza del suo ruolo, le immagini televisive non potevano nascondere la commozione degli occhi e il nervosismo che increspava le labbra. Si è presentato al mondo da Pontefice, con l’aspetto proprio di un Pontefice, per chi desiderava vedere un Pontefice e non qualcos’altro. Quel dono del Consiglio avrà lavorato efficacemente nel cuore dei Cardinali in vista dell’elezione? Noi lo speriamo, ma desideriamo augurarci che continui a lavorare negli anni a venire sia nel Collegio Cardinalizio che dentro il Palazzo Apostolico. I presupposti sembrerebbero buoni — il condizionale è d’obbligo — fin dal momento in cui Leone XIV si è affacciato al balcone della loggia della basilica abbiamo potuto percepire la sua intenzionalità di ricentrare la Chiesa sulla persona di Cristo risorto e accompagnare tutti gli uomini all’interno di un cammino di consapevolezza pasquale.

Vogliamo coltivare la virtù teologale della speranza e nutrire una realistica fiducia, senza cadere in facili “anfibologie” complottiste o nella trappola di vedere nella mozzetta, nella stola pontificia e nella croce pettorale d’oro dei segni divisivi o polemici. La presenza di tali segni non è espressione di una farsa carnevalesca o di un retaggio rinascimentale, essi rappresentano gli elementi propri di un Papa e aiutano a delineare la sua figura ben chiara, che rispetta dei canoni che non sono modaioli o politici ma che si radicano dentro un linguaggio ben preciso e che significano realtà precise. A tutta quella gente che piace al mondo che piace, gioverà ricordare che è vero che l’abito non fa il monaco, tuttavia il monaco ha l’abito, che deve indossare e portare con dignità, quale segno visibile dell’ufficio al quale è chiamato a adempiere.

Il mondo della gente che piace, dipendente dai vari look e outfit si è scagliato contro Leone XIV per via del suo apparire smaccatamente come un Papa. Sui social tra i vari commenti, il più lusinghiero, sotto le varie notizie dell’elezione, è stato: «non mi piace», e questo perché? Semplice, da diverso tempo la figura del Papa e del papato è stata destrutturata e mortificata e questo non vuole essere un attacco al predecessore di Papa Leone XVI ma solo una lettura oggettiva. Con Papa Francesco abbiamo visto il successore del Beato Apostolo Pietro presentarsi al capolinea della sua esistenza terrena in carrozzina, con un poncho sdrucito, con dei pantaloni approssimativi (forse anche con il catetere vescicale) così come uno dei tanti anziani della peggiore Residenza Sanitaria Assistita. Che cosa ha detto questo modo di apparire a quel mondo fatto della gente che piace? Nulla, semplicemente nulla, non ci sono state levate di scudi perché l’obiettivo è apparso molto chiaro fin da subito, destrutturare l’anima del papato, normalizzarlo e forse portarlo ai minimi termini e Francesco è stato in questo l’uomo giusto al momento giusto, pedina inconsapevole (forse?) ma anche uomo fragile che non ha avuto la capacità di farsi tutelare, guidare e difendere.

Penso che nessuno di noi gradirebbe portare in giro il proprio genitore anziano in condizioni di trasandatezza e di fragilità. Io che ho servito per diversi anni come cappellano ospedaliero conosco bene la realtà degli ambienti sanitari e assistenziali e posso garantire che l’ammalato, anche se allettato o terminale, non ha piacere di manifestare la sua fragilità fisica agli estranei, spesso anche con alcuni familiari, ma cerca sempre di conservare la propria dignità; eppure, con Francesco è accaduto l’esatto contrario e di questo dobbiamo dispiacerci. 

Altra particolarità di Leone XIV è stato presentarsi al mondo con le parole del Cristo risorto: «La pace sia con tutti voi», è la parola di Cristo che vince il mondo e il Papa non può che appoggiarsi sul Risorto e lasciare a lui la supremazia. Basterebbe questo saluto per poter individuare già un possibile cammino pastorale per il nuovo pontificato di Leone XIV. Un pontificato di rappacificazione che deve toccare diversi fronti: dalla più immediata Curia Romana insieme al presbiterio di Roma — ampiamente bistrattato — fino alle relazioni internazionali tra i popoli in cui la Santa Sede con il suo capo non può che dimostrare quella autorevolezza morale e materna per ricondurre l’uomo alla ragionevolezza.

Una riappacificazione necessaria, dicevo, che non può che partire dal riconoscimento di quelle ferite che sono presenti anche in seno all’immagine del papato attuale. Del resto, lo stesso Beato Apostolo Pietro iniziò il suo ministero con ferite evidenti e un passato personale da ripacificare, questo è bene ricordarlo per sfuggire la mania della papolatria sempre in agguato.

Auguriamo al Beatissimo Padre Leone XIV di essere sé stesso, non più Robert Prevost ma Pietro, un guaritore ferito, di ricostituire in salute la figura del dolce Cristo in terra e di saper guarire la Chiesa che vive in una situazione traumatizzata. Bisogna almeno provarci, anche senza riuscirci, ma provarci. Questo costituirà già un merito di grazia e di salvezza, attraverso quella logica del cristologico fallimento che nella gloria della croce risplende e vince il mondo. Chissà che la figura della Chiesa come ospedale da campo non si realizzi in pienezza nell’attuale pontificato. C’è chi vuole vedere il novello Pontefice come colui che ricondurrà alla tradizione, c’è chi lo vuole vedere come un continuatore dell’opera di Francesco, chi un conservatore nella forma ma un novello Bergoglio nella sostanza.

Per il momento vogliamo esercitare il dubbio inteso come esercizio della prudenza e sospendere il giudizio dentro la cornice di un sano realismo. Certo di piacerebbe rivivere quello che nel libro apocrifo degli Atti di Pietro è conosciuta come la tradizione del Quo Vadis. Gesù insegna a Pietro che a Roma un Papa ci può stare solo e soltanto se si lascia crocifiggere. E con questa consapevolezza noi vogliamo fin da ora piegare le nostre ginocchia e pregare per il Santo Padre. Viva il Papa!  

Sanluri, 27 maggio 2025

 

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Leone XIV. Un inizio ruggente tra mass media, comunicazione e pace

LEONE XIV. UN INIZIO RUGGENTE TRA MASS MEDIA, COMUNICAZIONE E PACE

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri».

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Sembra che, almeno inizialmente, il mondo cattolico abbia accolto con attenzione e speranza le parole del nuovo Romano Pontefice, Leone XIV, specialmente nei suoi primi discorsi.

foto di Domenico Cippitelli European Affairs, edizione del 12.05.2025

Ad esempio, rivolgendosi ai giornalisti convenuti a Roma per il Conclave, il Santo Padre ha lanciato un messaggio di profonda semplicità e straordinaria rilevanza: un invito pressante ad abbracciare una «comunicazione disarmata», autentica e costruttiva, capace di edificare ponti di pace in un’epoca segnata da divisioni e conflitti. Questo appello non è rivolto solamente ai professionisti dell’informazione, ma a ogni uomo e donna, chiamati a riflettere sul potere trasformativo delle parole e sul loro impatto nella creazione di un futuro più sereno per l’intera umanità. Vorrei un po’ parlare di alcuni spunti che il Santo Padre ha avviato nella mia personale riflessione teologica e condividerli con tutti voi.

«Beati gli Operatori di Pace»: Il Fondamento Teologico. L’appello di Papa Leone XIV alla comunicazione di pace affonda le sue radici nel cuore del Vangelo. Il suo discorso si è aperto con una potente citazione della beatitudine: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Questa non è una semplice esortazione, ma una promessa di felicità e una definizione di coloro che sono veramente figli di Dio. Il Successore di Pietro ha chiarito che la pace di Cristo non è un’assenza di conflitto o il risultato della sopraffazione, ma un «dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita». È una pace fatta di riconciliazione, perdono e del coraggio di ricominciare.

In questa luce, la comunicazione disarmata si rivela uno strumento essenziale per costruire attivamente questa pace dinamica e trasformativa. Le nostre parole hanno il potere di sanare ferite, di ricostruire relazioni spezzate e di infondere speranza in coloro che l’hanno perduta. Essere “operatori di pace” nel nostro comunicare quotidiano significa quindi rispondere a una chiamata divina, contribuendo attivamente alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra.

Un Appello Speciale ai Giornalisti: Custodi della Verità e Seminatori di Pace. Il Sommo Pontefice Leone XIV ha rivolto un’attenzione particolare ai giornalisti, agli operatori di Mass Media, riconoscendo il loro ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica e nel raccontare la complessità del nostro tempo. Li ha ringraziati per il loro servizio alla verità, specialmente in momenti delicati come il Conclave. Tuttavia, a questo riconoscimento si accompagna una chiara esortazione alla responsabilità. Egli ha chiesto ai giornalisti di abbracciare una «comunicazione di pace», rifuggendo da un linguaggio aggressivo e dalla logica della «guerra delle parole e delle immagini». Un momento particolarmente toccante del discorso è stato il ricordo dei giornalisti incarcerati per aver cercato e riportato la verità. Papa Leone XIV ha espresso la solidarietà della Chiesa e ha chiesto la loro liberazione, sottolineando come solo un popolo informato possa compiere scelte libere e consapevoli. In questo modo, il Pontefice non solo riconosce il ruolo fondamentale dei media, ma li investe di una missione etica di primaria importanza nella costruzione di una società più giusta e pacifica.

L’Intelligenza Artificiale: potenziale immenso che richiede discernimento. Nel suo sguardo attento alle sfide del mondo contemporaneo, Papa Leone XIV ha posto una particolare ed iniziale attenzione il tema dell’intelligenza artificiale. Ha riconosciuto il suo «potenziale immenso», capace di trasformare la comunicazione e di offrire benefici all’umanità. Tuttavia, ha anche sottolineato la necessità di un «discernimento» e di una «responsabilità» condivisa nel suo utilizzo, affinché questo strumento rimanga al servizio del bene comune e non diventi «disumano».

Questo richiamo evidenzia la consapevolezza della Chiesa di fronte alle rapide evoluzioni tecnologiche e la sua volontà di guidare queste trasformazioni con saggezza e attenzione ai valori fondamentali della dignità umana. La tecnologia, quindi, non è vista come una minaccia, ma come un nuovo «spazio da evangelizzare con intelligenza e amore».

La tecnologia finalizzata alla carità sfugge alla algocrazia: al potere degli algoritmi di elaborare dati per controllare le menti e gli uomini. Una IA è macchina lavoratrice per l’uomo che in Dio cerca l’amore. Non c’è  logica di controllo e di dominio, ma servizio.

«Noi Siamo i Tempi»: L’Esortazione di Sant’Agostino alla Responsabilità Personale. A conclusione del suo discorso, Papa Leone XIV ha citato una frase di Sant’Agostino di grande profondità: «Viviamo bene, e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». Questa affermazione ci ricorda che non siamo semplici spettatori del nostro tempo, ma protagonisti attivi nella sua costruzione. La qualità del tempo che viviamo è direttamente connessa al modo in cui viviamo, alle nostre scelte, alle nostre parole.

Questo richiamo alla responsabilità individuale è particolarmente significativo nel contesto dell’appello alla comunicazione di pace. Ogni volta che scegliamo di comunicare con verità, amore e rispetto, contribuiamo a rendere i tempi «buoni». Non dobbiamo attendere passivamente un futuro migliore, ma impegnarci nel presente per costruirlo attraverso le nostre azioni e il nostro modo di relazionarci con gli altri.

La Comunicazione come Creazione di Cultura e Atto di Carità. La visione di Papa Leone XIV sulla comunicazione va oltre la semplice trasmissione di informazioni. Egli la considera uno strumento potente per la creazione di una cultura di dialogo, di incontro e di pace.1 Il Pontefice ha affermato che «la comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». In questa prospettiva, l’atto di comunicare diventa quasi una «missione», una «forma di carità».

Questo eco del pensiero del suo predecessore, Papa Francesco, che ha più volte sottolineato l’importanza di «disarmare la comunicazione» e di costruire una «cultura dell’incontro», ci invita a considerare la comunicazione non come un’attività neutrale, ma come un impegno morale e spirituale che ha il potere di edificare ponti di fraternità e di diffondere i valori del Vangelo nel mondo.

Un Cammino Insieme Verso la Pace. Un cammino verso la pace di Cristo ci insegna che anche parlare è una missione, è una forma di carità. E allora, come dice il Papa: disarmiamo la comunicazione… e costruiamo pace. Questo è solo l’inizio di un cammino che Papa Leone XIV ci invita a percorrere insieme: quello della comunicazione disarmata, evangelica, vera.

Abbiamo ascoltato parole profetiche, che non sono solo indirizzate ai professionisti dell’informazione, ma a ciascuno di noi. Perché tutti, oggi, comunichiamo. Lo facciamo in famiglia, al lavoro, sui social, nelle comunità. E ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio… è un frammento di cultura, è una scelta di pace o di conflitto. Il Papa ci ha detto che «la pace comincia da come guardiamo, ascoltiamo, parliamo degli altri». Questa è una rivoluzione spirituale. Un cambio di sguardo che può trasformare le nostre relazioni, le nostre parrocchie, i nostri ambienti di lavoro. Non si tratta di essere «buonisti», ma di essere «buoni secondo il Vangelo», capaci di uno stile che non urla, non aggredisce, ma semina fiducia.

E allora, quale comunicazione vogliamo costruire? Una comunicazione che difende la verità con amore, che non è ideologica né superficiale, ma profonda e libera. Una comunicazione «che non separa mai la verità dalla carità», come dice san Paolo. Una comunicazione che sa farsi voce di chi non ha voce, che non si lascia sedurre dal potere, ma sceglie la debolezza della Croce come linguaggio di salvezza.

Il Santo Padre Leone XIV ci parla anche della «tecnologia», e in particolare dell’intelligenza artificiale, che definisce uno «strumento immenso». Anche qui, non si tratta di avere paura, ma di esercitare «discernimento». L’evangelizzazione passa anche da questi nuovi spazi: ma deve farlo con sapienza, custodendo la dignità della persona. E poi … quel passaggio finale, così agostiniano: «Noi siamo i tempi». Non dobbiamo aspettare tempi migliori. «Siamo noi a renderli tali», ogni volta che scegliamo la verità, il perdono, la speranza.

Allora domandiamoci, davvero, con sincerità: «quali tempi vogliamo costruire oggi nel mondo?» Un tempo di paura o di fiducia? Un tempo sterile o generativo? Il Papa ci chiede di essere «testimoni di una cultura nuova», di una Chiesa che non si chiude ma dialoga, che non combatte ma accompagna, che non impone ma illumina. Una Chiesa che comunica pace perché vive di pace. E anche noi, vogliamo camminare in questa direzione: offrire contenuti che nutrano la fede, che costruiscano una comunità pensante e orante, capace di abitare il mondo con lo stile del Vangelo.

Ricordiamolo sempre: «per andare in Paradiso, dobbiamo cominciare a costruirlo insieme, qui e ora». Facciamolo insieme a Papa Leone.

Santa Maria Novella in Firenze, 22 maggio 2025

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