«Credo per capire». Un viaggio dentro la Professione di Fede che restituisce al Credo la sua potenza originaria

«CREDO PER CAPIRE». UN VIAGGIO DENTRO LA PROFESSIONE DI FEDE CHE RESTITUISCE AL CREDO LA SUA POTENZA ORIGINARIA

L’autore, Ariel S. Levi di Gualdo, in questo suo libro dato alle stampe in occasione dei 1700 anni del Concilio celebrato a Nicea nel 325, restituisce al Simbolo di Fede la sua forza primigenia come parola da vivere. Il Credo cessa di essere il “riassunto” della fede e diventa ciò che nella tradizione è sempre stato: la grammatica spirituale dell’esistenza cristiana, il codice che introduce al mistero e che permette all’uomo di ritrovare se stesso nel volto del Dio incarnato.

— Libri e recensioni—

Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos 

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Nel tempo in cui la fede si dissolve nei sentimenti emotivi e la verità nel consenso, Credo per capire si presenta come un’opera necessaria e coraggiosa: un ritorno alla roccia da cui si riconosce la Chiesa.

L’autore, Ariel S. Levi di Gualdo, in questo suo libro dato alle stampe in occasione dei 1700 anni del Concilio celebrato a Nicea nel 325, restituisce al Simbolo di Fede la sua forza primigenia come parola da vivere. Il Credo cessa di essere il “riassunto” della fede e diventa ciò che nella tradizione è sempre stato: la grammatica spirituale dell’esistenza cristiana, il codice che introduce al mistero e che permette all’uomo di ritrovare se stesso nel volto del Dio incarnato.

In un’epoca di linguaggi frammentati e di identità liquide, il testo riafferma — con rigore e respiro patristico — che la verità cristiana non è un sentimento vago né un’impressione personale, ma un atto di libertà che nasce dall’incontro con Cristo. La parola «credo» riacquista così il suo significato più alto: non l’opinione del credente, ma la comunione dell’uomo con la verità che salva.

L’Autore propone un viaggio teologico e spirituale alle radici della fede dentro la rivelazione che Dio fa di sé; dentro la storia del dogma che custodisce la verità; dentro il dramma dei Concili ecumenici, che difesero l’identità cristiana dal pericolo di essere ridotta a filosofia; dentro la vita dell’uomo credente, che ritrova nell’atto di fede l’unità della propria persona.

Il Lettore avverte immediatamente il respiro grande dei Padri della Chiesa, l’eco dei martiri che professavano il Credo prima di offrirsi al sacrificio, la forza luminosa della Tradizione che, lungi dal soffocare, libera.

Il testo è attraversato da un filo rosso: solo la verità rende liberi e solo una fede consapevole permette di comprendere ciò che si professa, ciò che si vive e ciò che si annuncia.

L’Autore mostra al tempo stesso come la perdita di un rigoroso linguaggio teologico abbia condotto alla perdita del senso stesso del mistero e come molte crisi contemporanee nascano dalla rimozione di ciò che la Chiesa ha sempre proclamato: che la verità non nasce dall’uomo, ma gli viene incontro come dono. In questo senso, Credo per capire appare anche come un libro pastorale, perché restituisce al popolo cristiano la possibilità di capire per credere e credere per capire, secondo il grande insegnamento di Sant’Agostino e di Sant’Anselmo d’Aosta.

Il volume si inserisce così nel percorso già avviato dall’Autore con altri lavori teologico-dottrinali che uniscono la dimensione della verità e quella della libertà con la radice della fede.

È un libro che si pone in continuità con tutto il cammino redazionale della rivista L’Isola di Patmos: fondata nel 2014 e da cui sono nate nel 2018 le omonime edizioni per rendere un servizio alla Chiesa, un atto di chiarificazione dottrinale e, al tempo stesso, una chiamata alla responsabilità personale del credente.

In un panorama editoriale spesso dominato da testi spirituali generici, questo volume restituisce al lettore il gusto dell’autenticità teologica e la gioia dell’intelligenza della fede. È un invito a riscoprire il Credo come gesto, come atto, come voce che attraversa i secoli e che continua a dire — oggi come ieri — chi è Dio e chi è l’uomo alla luce del suo volto.

Un libro destinato a restare, da meditare lentamente e a lungo, perché conduce non solo alla comprensione del Simbolo, ma al cuore stesso della vita cristiana. Un libro che costituisce anche un atto di gratitudine da parte dell’Autore che ha voluto dedicarlo alla memoria del teologo gesuita Peter Gumpel (Hannover 1923 – Roma †2022), «al quale devo», scrive nella dedica: «la mia formazione nella teologia dogmatica e nella storia del dogma».

dall’Isola di Patmos, 21 novembre 2025

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La sostituzione del peccato con il reato d’opinione nella società contemporanea – The replacement of sin with the crime of opinion in contemporary society – La sustitución del pecado por el delito de opinión en la sociedad contemporánea

Italian, english, español 

 

LA SOSTITUZIONE DEL PECCATO CON IL REATO D’OPINIONE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

La morale pubblica, svincolata dal peccato ma ossessionata dalla colpa, finisce per produrre una nuova forma di puritanesimo, più crudele di quella che essa credeva di aver superato. Perché il puritanesimo moderno non nasce più da un eccesso di religione, ma da un difetto di fede; non mira alla santità, ma alla conformità. E in questa nuova ortodossia civile, il peccatore non può più convertirsi: può solo tacere.

— Theologica —

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Nel momento in cui il concetto di peccato viene espulso dal linguaggio e dal pensiero collettivo, la società — privata della sua dimensione teologica — non smette tuttavia di giudicare. Anzi, paradossalmente giudica più di prima.

Rifiutato il giudizio di Dio, l’uomo si pone come misura assoluta del bene e del male. E così, nel nome della libertà, si erigono nuovi tribunali morali che non ammettono appello. Oggi basta affermare che l’aborto non è una «grande conquista sociale» ma una vile strage degli innocenti, per essere accusati di odio; basta mettere in discussione la cultura omosessualista per essere dichiarati nemici della libertà e del progresso, o bollati come oscurantisti per avere osato difendere l’istituzione della famiglia naturale, o semplicemente esprimere la verità che la vita umana è dono di Dio per essere sospettati di fanatismo religioso.

In questo modo, alla teologia del peccato inteso come atto della volontà che separa l’uomo da Dio e da cui deriva la volontaria e libera privazione della grazia, la società sostituisce la sociologia della colpevolezza. Non è più il peccato a offendere Dio, ma l’opinione “eretica” ad offendere la sensibilità collettiva. Si crea così un sistema di sanzioni simboliche che, pur non avendo la forma del diritto, agisce con la medesima forza coercitiva: l’emarginazione, la censura, la perdita di parola. Un docente che osi discutere criticamente i “dogmi” del pensiero unico viene sospeso o isolato; un artista che rappresenti la fede cristiana fuori dai canoni dell’estetica laicista viene tacciato di provocazione; un sacerdote che ricordi la necessità del giudizio morale viene accusato di fomentare odio. Anche una semplice citazione evangelica — come «io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) — può essere letta come un atto di presunzione o di offesa. I processi non si svolgono più nei tribunali, ma negli studi televisivi e nei social network, dove la colpa si misura in secondi e la condanna si pronuncia in massa.

I talk show televisivi sono ormai una vera piaga: in essi non si dibatte, neppure attraverso confronti, volendo anche polemici, ma articolati su domande e risposte. Tutt’altro: si sollevano temi — spesso anche molto delicati e complessi — per scatenare risse al termine delle quali non si giunge ad alcuna conclusione. Tutto ciò è studiato e voluto. Si invitano esperti e studiosi nei vari campi del sapere, ai quali i conduttori chiedono, senza pena d’umano ridicolo, di rispondere in mezzo minuto a questioni controverse che le scienze e la filosofia dibattono da secoli. Se lo studioso osa superare i trenta o quaranta secondi, giunge l’inderogabile stacco pubblicitario; terminato il quale inizia un nuovo blocco di programma e lo studioso invitato è scomparso frattanto dal parterre televisivo. In compenso, però, a inizio serata, il conduttore adesso pacato — in un atteggiamento di deferenza quasi genuflessa — lascia parlare senza alcun contraddittorio il politico in carica particolarmente gradito a quell’azienda, al quale è concesso un monologo di quaranta minuti ininterrotti, con cinque o sei quesiti posti in modo amabile e sommesso, palesemente concordati in anticipo onde evitare domande sgradite.  In queste circostanze non esistono impellenze pubblicitarie di alcun genere, le stesse giustificate sino a poco prima con la necessità di sostenere l’azienda televisiva che vive di proventi pubblicitari. Tutto è rinviato ai blocchi successivi, dove sono mandati in onda giornalisti particolarmente aggressivi che rincorrono privati o pubblici amministratori periferici con microfoni e telecamere intimando in severo tono perentorio: «Lei deve rispondere … lei deve rispondere!». Ignorando che la facoltà di non rispondere — e non a un giornalista, ma a un magistrato inquirente —, è uno dei fondamentali diritti costituzionali riconosciuto all’indagato e all’imputato. Segue poi il blocco successivo nel quale non si esita a chiedere a un filosofo di spiegare in quattro parole — per un massimo di trenta secondi — i principi della metafisica “in modo comprensibile a tutti”, o a un astrofisico di chiarire in pochi istanti le dinamiche dell’espansione dell’universo.

In un simile contesto, lo schermo televisivo diventa la nuova cattedra morale del mondo: da esso si pronunciano assoluzioni e condanne, si decide chi è degno di parola e chi deve essere ridotto al silenzio. Nella modernità non si cerca più il perdono, ma l’esposizione pubblica del colpevole. La penitenza non è più il frutto della conversione, ma la cancellazione sociale. Apparentemente sembra una forma di giustizia, ma in realtà è solo un nuovo rituale sacrificale senza redenzione. È il confessionale rovesciato della modernità, dove non si cerca il perdono ma l’esposizione pubblica del colpevole. E la penitenza non è più la conversione, ma la cancellazione. In apparenza, sembra una conquista di libertà: eliminato il peccato, l’uomo si crede sciolto da ogni giudizio morale. Ma in realtà, proprio negando il peccato, egli ha cancellato la possibilità stessa del perdono. Infatti, se non esiste più un Dio che giudica e redime, non esiste più nemmeno un atto di misericordia che possa perdonare e cancellare il peccato. Resta soltanto il senso di colpa come condizione permanente, un marchio sociale che non si cancella, perché nessuno ha più l’autorità né la volontà di perdonare.

Purtroppo, negli ultimi anni, anche all’interno della Chiesa si è talvolta ceduto alla medesima logica mondana, assumendo espressioni e criteri propri delle piazze mosse da emotività forcaiola. Dopo i gravi scandali che hanno coinvolto e spesso travolto vari membri del nostro clero — scandali che il diritto canonico definisce propriamente delictis gravioribus — si è cominciato a usare, persino ai più alti livelli, una formula che suona come un insulto alla fede cristiana: «tolleranza zero». Un simile linguaggio, mutuato dal lessico politico e mediatico, rivela una mentalità estranea al Vangelo e alla tradizione penitenziale della Chiesa. È ovvio che dinanzi a certi crimini — come gli abusi sessuali su minori — l’autore debba essere immediatamente neutralizzato e posto nella condizione di non nuocere più, quindi sottoposto a una pena giusta, proporzionata e, secondo la dottrina canonica, medicinale, ossia orientata al suo recupero e alla sua conversione. Per questo l’espressione «tolleranza zero» risulta aberrante sul piano dottrinale e pastorale, perché non appartiene al linguaggio della Chiesa, ma a quello delle campagne populiste che puntano e giocano sugli umori di pancia delle masse.

Dichiarando che ad avere bisogno del medico sono i malati e non i sani (cfr. Mt 9, 12), Gesù ci indica e affida una precisa missione, non ci invita alla «tolleranza zero».

Dinanzi a queste nuove tendenze emerge un paradossale corto circuito morale: le stesse coscienze che per anni hanno nascosto la sporcizia sotto i tappeti con rara e omertosa malizia clericale, oggi si mostrano zelanti nel proclamare pubblicamente la loro severità, quasi a purificarsi davanti al mondo. Si colpiscono talvolta gli innocenti o i semplicemente sospettati per dimostrare rigore, mentre i veri colpevoli — in altri tempi protetti — restano spesso impuniti e, talvolta, promossi ai più alti vertici ecclesiali ed ecclesiastici, perché è proprio lì che li troviamo tutti «per giudicare i vivi e i morti», quasi come se il loro regno ― quello della falsità e dell’ipocrisia ― «non avrà fine», in una sorta di Credo al contrario. Tutto questo viene presentato come prova di una «nuova Chiesa» che avrebbe finalmente abbracciato la politica della fermezza. E la tanto decantata misericordia, che fine ha fatto? Se andiamo a vedere scopriremo che per poter beneficiare della misericordia pare sia necessario essere neri che commettono violenze nelle zone più centrali delle città, comprese aggressioni alle stesse Forze dell’Ordine, pur malgrado prontamente giustificati che non commettono delitti perché violenti e propensi a delinquere, ma a causa della società rigorosamente colpevole di non averli adeguatamente accolti e integrati. Chiediamoci: quale credibilità può avere un annuncio evangelico che predica la misericordia solo per certe “categorie protette” e nello stesso tempo adotta la logica della cosiddetta «tolleranza zero» per chi, al proprio interno, ha gravemente sbagliato? È qui che si manifesta l’esito più drammatico della secolarizzazione interna: la Chiesa che per compiacere il mondo rinuncia al linguaggio della redenzione per assumere quello della vendetta forcaiola, mostrandosi misericordiosa solo con ciò che corrisponde alle tendenze sociali del politicamente corretto.

Nel Cristianesimo, il peccato era una ferita che poteva essere guarita; nell’antropologia secolarizzata, la colpa è una macchia indelebile. Il peccatore poteva convertirsi e rinascere, il colpevole contemporaneo può soltanto essere punito o rieducato. La misericordia, privata del suo fondamento teologico, diventa un gesto amministrativo, una concessione paternalista, un atto di clemenza pubblica che non rigenera ma umilia. Perché la vera misericordia non nasce da un moto d’animo o da un atto di indulgenza, ma dalla giustizia redentrice di Dio, che si manifesta nel sacrificio del Figlio e trova compimento nella Croce, dove la giustizia e la misericordia si abbracciano. Essa non è il contrario della giustizia, ma la sua pienezza, come afferma il Salmo: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11).

Quando questo fondamento viene smarrito, la misericordia si riduce a tolleranza, la giustizia a vendetta, il perdono perde la sua forza salvifica e la giustizia si fa spietata perché è priva di grazia e l’uomo, che credeva di liberarsi dal peccato, scopre di essere prigioniero della colpa.

È la logica rovesciata del Vangelo: dove Cristo diceva «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11), il mondo secolarizzato dice «Hai peccato, dunque non meriti più di parlare». Là dove la Chiesa annunciava la possibilità della redenzione, la nuova morale civile proclama l’irredimibilità del colpevole. È questo il vero dramma della modernità: non aver sostituito Dio con l’uomo, ma aver sostituito la misericordia con la vendetta. E la misericordia divina non è debolezza ma la forma più sublime della giustizia[1]. Senza la misericordia, la giustizia degenera in punizione e la verità si trasforma in strumento di condanna. San Tommaso d’Aquino aveva colto questa verità essenziale: misericordia veritatis — la misericordia della verità — è la sola che salva, perché non sopprime la giustizia, ma la compie nella carità. Quando la verità viene separata dalla misericordia, resta soltanto la crudeltà del giudizio umano.

Sant’Agostino ammoniva che eliminando Dio resta il peccato, ma senza perdono»[2]. Quando si rimuove questa verità, resta soltanto il potere di alcuni di dichiarare reato ciò che un tempo si chiamava peccato. È l’esito ultimo di quella “libertà senza verità” che costituisce la più pericolosa delle illusioni moderne[3].

Non si tratta, dunque, di un superamento del giudizio morale, bensì della sua secolarizzazione estrema. L’uomo moderno non ha smesso di distinguere tra ciò che ritiene giusto e ciò che reputa ingiusto; ha solo mutato il fondamento e la sanzione di tale distinzione. Là dove un tempo il peccato veniva confessato e redento, oggi l’errore di pensiero dev’essere denunciato e punito. La redenzione cristologica è sostituita dalla rieducazione sociale. E questo passaggio è stato graduale, ma inesorabile. La cultura della colpa senza Dio ha generato un sistema morale chiuso, che funziona con la stessa logica inquisitoria delle eresie antiche, ma con segni rovesciati. Il tribunale non è più quello della Chiesa che mirava a includere l’errante nel cammino di salvezza, ma quello dei media che condannano all’esclusione senza appello; la penitenza non è più la conversione del cuore, ma la pubblica abiura delle proprie idee; il perdono non è più grazia, ma reintegrazione condizionata nella comunità ideologicamente corretta. In tal modo, la società post-cristiana ha creato una nuova teologia civile, fatta di dogmi inviolabili e di liturgie collettive. Chi li contesta diviene apostata della nuova religione secolare, un deviante da espellere. È qui che il concetto di libertà subisce il suo rovesciamento: ciò che un tempo era libertà di coscienza diviene oggi libertà vigilata dell’opinione. Si può dire tutto, purché si dica nel linguaggio autorizzato.

La morale pubblica, svincolata dal peccato ma ossessionata dalla colpa, finisce per produrre una nuova forma di puritanesimo, più crudele di quella che essa credeva di aver superato. Perché il puritanesimo moderno non nasce più da un eccesso di religione, ma da un difetto di fede; non mira alla santità, ma alla conformità. E in questa nuova ortodossia civile, il peccatore non può più convertirsi: può solo tacere.

 

dall’Isola di Patmos, 16 novembre 2025

 

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Note

[1] Cfr. San Giovanni Paolo II, Dives Misericordia, n. 14.

[2] Cfr. Sant’Agostino, Confessiones, II, 4,9

[3] Cfr. San Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, 84.

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THE REPLACEMENT OF SIN WITH THE CRIME OF OPINION IN CONTEMPORARY SOCIETY

Public morality, detached from sin yet obsessed with guilt, ends by producing a new form of puritanism, more cruel than the one it believed it had overcome. For modern puritanism no longer arises from an excess of religion, but from a defect of faith; it no longer aims at holiness, but at conformity. And in this new civil orthodoxy, the sinner can no longer convert; he can only remain silent.

—Theologica—

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At the very moment when the concept of sin is expelled from language and from collective thought, society — stripped of its theological dimension — does not cease to judge. On the contrary, paradoxically, it judges more than before. Having rejected God’s judgement, man places himself as the absolute measure of good and evil. Thus, in the name of freedom, new moral tribunals are erected—tribunals that admit of no appeal. Today it is enough to affirm that abortion is not a “great social achievement” but a vile massacre of the innocent, to be accused of hatred; it is enough to question the homosexualist culture to be declared an enemy of freedom and progress; or to be branded as obscurantist for having dared to defend the institution of the natural family; or simply to express the truth that human life is a gift of God, to be suspected of religious fanaticism.

In this way, to the theology of sin understood as an act of the will that separates man from God and from which there follows the voluntary and freely chosen deprivation of grace, society substitutes a sociology of guilt. It is no longer sin that offends God, but the “heretical” opinion that offends collective sensitivity. Thus a system of symbolic sanctions is created which, although it does not have the form of law, acts with the same coercive force: marginalisation, censorship, and the loss of the right to speak. A lecturer who dares to discuss critically the “dogmas” of single thought is suspended or isolated; an artist who represents the Christian faith outside the canons of secularist aesthetics is accused of provocation; a priest who recalls the necessity of moral judgement is charged with fomenting hatred. Even a simple Gospel quotation — such as “I am the way, the truth, and the life” (Jn 14:6) — can be read as an act of presumption or of offence. Trials are no longer held in courts of law, but in television studios and on social networks, where guilt is measured in seconds and condemnation is pronounced by the crowd.

Television talk shows have by now become a veritable plague: in them there is no real debate, not even through exchanges that, even if polemical, are articulated in questions and answers. Quite the contrary: topics are raised — often very delicate and complex ones — in order to trigger brawls at the end of which no conclusion is ever reached. All this is studied and intended. Experts and scholars from various fields of knowledge are invited, and the presenters ask them, without the slightest sense of human absurdity, to respond in half a minute to controversial questions that the sciences and philosophy have been debating for centuries. If the scholar dares to exceed thirty or forty seconds, the unavoidable commercial break arrives; once it is over, a new segment of the programme begins and the invited scholar has in the meantime disappeared from the television panel.

By contrast, at the beginning of the evening, the now calm presenter — in an attitude of almost genuflecting deference — allows the politician in office particularly favoured by that network to speak without any contradiction, granting him a forty-minute uninterrupted monologue, with five or six questions posed in a pleasant and subdued manner, clearly agreed in advance so as to avoid unwelcome questions. In such circumstances there are no advertising emergencies of any sort, the very same that only a short while before were justified by the alleged necessity of supporting the television company that lives on advertising revenue. Everything is postponed to the subsequent segments, where particularly aggressive journalists are put on air, chasing private citizens or local public administrators with microphones and cameras, commanding them in a stern and peremptory tone: “You must answer… you must answer!” They ignore the fact that the faculty of not answering — and not to a journalist, but to an investigating magistrate — is one of the fundamental constitutional rights recognised to the person under investigation and to the defendant. Then there follows yet another segment in which one does not hesitate to ask a philosopher to explain in four words — for a maximum of thirty seconds — the principles of metaphysics “in a way that everyone can understand,” or to ask an astrophysicist to clarify, in a few moments, the dynamics of the expansion of the universe.

In such a context, the television screen becomes partly the chair of modern non-knowledge and partly the new moral chair of the world: from it are pronounced absolutions and condemnations, and it is decided who is worthy of speech and who must be reduced to silence. In modernity one no longer seeks forgiveness, but the public exposure of the guilty. Penance is no longer the fruit of conversion, but social erasure. In appearance, it seems a form of justice, but in reality it is only a new sacrificial ritual without redemption. It is the inverted confessional of modernity, where one does not seek forgiveness but the public exposure of the guilty. And penance is no longer conversion, but erasure. In appearance, it seems a victory for freedom: with sin eliminated, man believes himself freed from all moral judgement. Yet in reality, precisely by denying sin, he has erased the very possibility of forgiveness. For if there is no longer a God who judges and redeems, there is no longer any act of mercy that can forgive and wipe away sin. What remains is only guilt as a permanent condition, a social brand that cannot be erased, because no one any longer possesses either the authority or the will to forgive.

Unfortunately, in recent years, even within the Church there has at times been a yielding to this same worldly logic, adopting expressions and criteria proper to squares moved by a lynch-mob emotionality. After the grave scandals that have involved — and often overwhelmed various members of our clergy — scandals that canon law properly defines as delicta graviora, a formula has begun to be used, even at the highest levels, which sounds like an insult to the Christian faith: “zero tolerance.” Such language, borrowed from the political and media lexicon, reveals a mentality foreign to the Gospel and to the Church’s penitential tradition. It is obvious that in the face of certain crimes — such as sexual abuse of minors — the perpetrator must be immediately neutralised and placed in the condition of no longer being able to cause harm, and therefore subjected to a punishment that is just, proportionate and, according to canonical doctrine, medicinal, that is, directed to his recovery and conversion. For this reason, the expression “zero tolerance” is aberrant on the doctrinal and pastoral plane, because it does not belong to the language of the Church, but to that of populist campaigns that aim at and play upon the gut instincts of the masses.

By declaring that it is the sick and not the healthy who are in need of a physician (cf. Mt 9:12), Jesus indicates and entrusts to us a precise mission; He does not invite us to “zero tolerance.”

Before these new tendencies, a paradoxical moral short circuit emerges: the very same consciences that for years have hidden the filth under the carpets with rare and conspiratorial clerical malice now show themselves zealous in publicly proclaiming their severity, as though purifying themselves before the world. At times the innocent, or the merely suspected, are struck down in order to demonstrate rigour, while the true guilty — once protected — often remain unpunished and, at times, are promoted to the highest ecclesial and ecclesiastical positions, for it is precisely there that we find them all, “to judge the living and the dead,” almost as though their kingdom — the kingdom of falsehood and hypocrisy — “will have no end,” in a kind of inverted Creed. All this is presented as proof of a “new Church” that would at last have embraced the politics of firmness.

And what of the much-vaunted mercy, what has become of it? If we look closely, we shall discover that, in order to be able to benefit from mercy, it seems necessary to be black people who commit acts of violence in the most central areas of the cities, including assaults against the very Forces of Order, yet who are promptly justified, not because they do not commit crimes, but because, being violent and inclined to delinquency, it is said that they act on account of a society strictly guilty of not having adequately welcomed and integrated them.

Let us ask ourselves: what credibility can a Gospel proclamation have that preaches mercy only for certain “protected categories” and at the same time adopts the logic of so-called “zero tolerance” towards those who, within its own ranks, have gravely erred? It is here that the most dramatic outcome of internal secularisation is manifested: the Church which, in order to please the world, renounces the language of redemption to assume that of lynch-mob vengeance, showing herself merciful only with that which corresponds to the social tendencies of political correctness.

In Christianity, sin was a wound that could be healed; in secularised anthropology, guilt is an indelible stain. The sinner could convert and be reborn; the contemporary culprit can only be punished or re-educated. Mercy, deprived of its theological foundation, becomes an administrative gesture, a paternalistic concession, a public act of clemency that does not regenerate but humiliates. For true mercy is not born from an emotion or from an act of indulgence, but from the redemptive justice of God, which is manifested in the sacrifice of the Son and finds its fulfilment in the Cross, where justice and mercy embrace. It is not the opposite of justice, but its fullness, as the Psalm affirms: “Love and truth will meet, justice and peace will kiss” (Ps 85:11).

When this foundation is lost, mercy is reduced to tolerance, justice to vengeance; forgiveness loses its saving power and justice becomes pitiless because it is deprived of grace, and man, who believed he was freeing himself from sin, discovers that he is a prisoner of guilt.

It is the inverted logic of the Gospel: where Christ said, “Go, and from now on do not sin any more” (Jn 8:11), the secularised world says, “You have sinned, and therefore you no longer deserve to speak”. Where the Church once proclaimed the possibility of redemption, the new civil morality proclaims the irredeemability of the guilty. This is the true drama of modernity: not having replaced God with man, but having replaced mercy with vengeance. And divine mercy is not weakness, but the most sublime form of justice¹. Without mercy, justice degenerates into punishment and truth becomes an instrument of condemnation. Saint Thomas Aquinas had grasped this essential truth: misericordia veritatis — the mercy of truth — is the only mercy that saves, because it does not suppress justice but fulfils it in charity. When truth is separated from mercy, there remains only the cruelty of human judgement. Saint Augustine warned that, by eliminating God, sin remains — but without forgiveness². When this truth is removed, what remains is only the power of some to declare as a crime what was once called sin. This is the ultimate outcome of that “freedom without truth” which constitutes the most dangerous of modern illusions³.

It is not, therefore, a surpassing of moral judgement, but its extreme secularisation. Modern man has not ceased to distinguish between what he considers just and what he deems unjust; he has only changed the foundation and the sanction of that distinction. Where once sin was confessed and redeemed, today error of thought must be denounced and punished. Christological redemption is replaced by social re-education. And this passage has been gradual, but inexorable. The culture of guilt without God has generated a closed moral system, which functions with the same inquisitorial logic as the ancient heresies, but with reversed signs. The tribunal is no longer that of the Church, which aimed to include the erring within the path of salvation, but that of the media, which condemn to exclusion without appeal; penance is no longer the conversion of the heart, but the public recantation of one’s own ideas; forgiveness is no longer grace, but conditional reintegration into the ideologically correct community. In this way, post-Christian society has created a new civil theology, made up of inviolable dogmas and collective liturgies. Whoever contests them becomes an apostate of the new secular religion, a deviant to be expelled. It is here that the very concept of freedom is overturned: what was once freedom of conscience becomes today supervised freedom of opinion. One may say everything, provided it is said in the authorised language.

Public morality, detached from sin yet obsessed with guilt, ends by producing a new form of puritanism, more cruel than the one it believed it had overcome. For modern puritanism no longer arises from an excess of religion, but from a defect of faith; it no longer aims at holiness, but at conformity. And in this new civil orthodoxy, the sinner can no longer convert; he can only remain silent.

From the Island of Patmos, 13 November 2025

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Notes
¹ St John Paul II, Dives in Misericordia, n. 14.
² St Augustine, Confessiones, II, 4, 9.
³ St John Paul II, Veritatis Splendor, 84.

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LA SUSTITUCIÓN DEL PECADO POR EL DELITO DE OPINIÓN EN LA SOCIEDAD CONTEMPORÁNEA

La moral pública, desligada del pecado pero obsesionada con la culpa, termina produciendo una nueva forma de puritanismo, más cruel que aquella que creía haber superado. Porque el puritanismo moderno ya no nace de un exceso de religión, sino de un defecto de fe; no apunta a la santidad, sino a la conformidad. Y en esta nueva ortodoxia civil, el pecador ya no puede convertirse: solo puede callar

— Theologica—

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En el momento en que el concepto de pecado hacido expulsado del lenguaje y del pensamiento colectivo, la sociedad — privada de su dimensión teológica — no deja, sin embargo, de juzgar. Es más, paradójicamente, juzga más que antes. Rechazado el juicio de Dios, el hombre se pone a sí mismo como medida absoluta del bien y del mal. Y así, en nombre de la libertad, se erigen nuevos tribunales morales que no admiten apelación. Hoy basta afirmar que el aborto no es una «gran conquista social» sino una vil matanza de inocentes para ser acusado de odio; basta poner en cuestión la cultura homosexualista para ser declarado enemigo de la libertad y del progreso, ser tachado de scurantista por haber osado defender la institución de la familia natural, o simplemente expresar la verdad de que la vida humana es don de Dios para ser sospechoso de fanatismo religioso.

A la teología del pecado entendido como acto de la voluntad que separa al hombre de Dios y del cual deriva la privación voluntaria y libre de la gracia, la sociedad sustituye la sociología de la culpabilidad. Ya no es el pecado el que ofende a Dios, sino la opinión “herética” la que ofende la sensibilidad colectiva. Así se crea un sistema de sanciones simbólicas que, aun sin tener forma jurídica, actúan con la misma fuerza coercitiva: la marginación, la censura, la pérdida de la palabra. Un docente que ose discutir críticamente los “dogmas” del pensamiento único es suspendido o aislado; un artista que representa la fe cristiana fuera de los cánones de la estética laicista es acusado de provocación; un sacerdote que recuerda la necesidad del juicio moral es acusado de fomentar el odio. Incluso una simple cita evangélica — como «Yo soy el camino, la verdad y la vida» (Jn 14,6) — puede ser leída como un acto de presunción o de ofensa. Los procesos ya no se celebran en los tribunales, sino en los estudios televisivos y en las redes sociales, donde la culpa se mide en segundos y la condena se pronuncia en masa.

Los talk show televisivos se han convertido en una verdadera plaga: en ellos no se debate, ni siquiera mediante confrontaciones que, aun siendo polémicas, se articulan en preguntas y respuestas. Todo lo contrario: se plantean temas — a menudo muy delicados y complejos — para desencadenar riñas al término de las cuales no se llega a conclusión alguna. Todo ello está estudiado. Se invita a expertos y estudiosos de los diversos campos del saber, a los cuales los presentadores piden, sin el menor reparo de humano ridículo, que respondan en medio minuto a cuestiones controvertidas que las ciencias y la filosofía debaten desde hace siglos. Si el estudioso se atreve a superar los treinta o cuarenta segundos, llega el inaplazable corte publicitario; concluido este, comienza un nuevo bloque del programa y el estudioso invitado ha desaparecido entretanto del estudio televisivo.

En compensación, sin embargo, al inicio de la velada, el presentador, ahora sosegado — en una actitud de deferencia casi genuflexa — deja hablar sin ningún tipo de contradicción al político en ejercicio particularmente grato a aquella cadena, al cual se le concede un monólogo de cuarenta minutos ininterrumpidos, con cinco o seis preguntas formuladas de modo amable y en tono sumiso, evidentemente acordadas de antemano para evitar cuestiones incómodas. En estas circunstancias no existen urgencias publicitarias de ningún género, las mismas que poco antes se justificaban con la necesidad de sostener la empresa televisiva que vive de los ingresos publicitarios. Todo se remite a los bloques sucesivos, donde se emiten periodistas particularmente agresivos que persiguen a privados o a administradores públicos periféricos con micrófonos y cámaras, intimándoles en tono severo y perentorio: «¡Usted debe responder … usted debe responder!». Ignorando que la facultad de no responder — y no a un periodista, sino a un magistrado instructor — es uno de los derechos constitucionales fundamentales reconocidos al investigado y al imputado. Sigue luego el bloque sucesivo en el cual no se vacila en pedir a un filósofo que explique en cuatro palabras — por un máximo de treinta segundos — los principios de la metafísica «de modo comprensible para todos», o a un astrofísico que aclare en pocos instantes las dinámicas de la expansión del universo.

En un contexto semejante, la pantalla televisiva se convierte en parte en la cátedra del moderno no-saber y en parte en la nueva cátedra moral del mundo: desde ella se pronuncian absoluciones y condenas, y se decide quién es digno de palabra y quién debe ser reducido al silencio. En la modernidad ya no se busca el perdón, sino la exposición pública del culpable. La penitencia ya no es fruto de la conversión, sino la cancelación social. En apariencia parece una forma de justicia, pero en realidad no es más que un nuevo ritual sacrificial sin redención. Es el confesionario invertido de la modernidad, donde no se busca el perdón, sino la exposición pública del culpable. Y la penitencia ya no es la conversión, sino la cancelación. En apariencia, parece una conquista de libertad: eliminado el pecado, el hombre se cree liberado de todo juicio moral. Pero en realidad, precisamente al negar el pecado, ha borrado la posibilidad misma del perdón. En efecto, si ya no existe un Dios que juzga y redime, tampoco existe ya un acto de misericordia que pueda perdonar y borrar el pecado. Solo queda el sentimiento de culpa como condición permanente, una marca social que no se borra, porque nadie posee ya la autoridad ni la voluntad de perdonar.

Por desgracia, en los últimos años, también dentro de la Iglesia se ha cedido a veces a la misma lógica mundana, adoptando expresiones y criterios propios de las plazas movidas por la emotividad de linchamiento. Tras los graves escándalos que han implicado y a menudo arrasado a varios miembros de nuestro clero — escándalos que el derecho canónico define propiamente como delictis gravioribus —, se ha comenzado a usar, incluso en los más altos niveles, una fórmula que suena como un insulto a la fe cristiana: «tolerancia cero». Un lenguaje semejante, tomado del léxico político y mediático, revela una mentalidad ajena al Evangelio y a la tradición penitencial de la Iglesia. Es obvio que ante ciertos crímenes —como los abusos sexuales a menores — el autor debe ser inmediatamente neutralizado y puesto en la condición de no poder hacer más daño, y por tanto sometido a una pena justa, proporcionada y, según la doctrina canónica, medicinal, es decir, orientada a su recuperación y conversión. Por ello, la expresión «tolerancia cero» resulta aberrante en el plano doctrinal y pastoral, porque no pertenece al lenguaje de la Iglesia, sino al de las campañas populistas que apuntan y juegan con las vísceras de las masas.

Al declarar que quienes necesitan del médico son los enfermos y no los sanos (cf. Mt 9,12), Jesús nos indica y confía una misión precisa, no nos invita a la «tolerancia cero».

Ante estas nuevas tendencias surge un paradójico cortocircuito moral: las mismas conciencias que durante años han escondido la suciedad bajo las alfombras con rara y omertosa malicia clerical hoy se muestran celosas al proclamar públicamente su severidad, casi como para purificarse ante el mundo. A veces se golpea a los inocentes o a los simplemente sospechosos para demostrar rigor, mientras que los verdaderos culpables — en otros tiempos protegidos — suelen quedar impunes y, en ocasiones, son promovidos a los más altos vértices eclesiales y eclesiásticos, porque es precisamente allí donde los encontramos a todos, «para juzgar a vivos y muertos», casi como si su reino — el de la falsedad y de la hipocresía — «no tuviera fin», en una suerte de Credo al revés. Todo esto se presenta como prueba de una «nueva Iglesia» que habría abrazado por fin la política de la firmeza.

¿Y la tan decantada misericordia, qué hasido de ella? Si vamos a ver, descubriremos que para poder beneficiarse de la misericordia parece necesario ser negros que cometen violencias en las zonas más céntricas de las ciudades, incluidas agresiones a las mismas Fuerzas del Orden, y sin embargo prontamente justificados, no porque no cometan delitos, sino porque, siendo violentos y propensos a delinquir, se afirma que la culpa recae en una sociedad rigurosamente culpable de no haberlos acogidos e integrados adecuadamente. Preguntémonos: ¿qué credibilidad puede tener un anuncio evangélico que predica la misericordia solo para ciertas “categorías protegidas” y al mismo tiempo adopta la lógica de la llamada «tolerancia cero» para quienes, en su propio seno, han errado gravemente? Aquí se manifiesta el resultado más dramático de la secularización interna: la Iglesia que, para complacer al mundo, renuncia al lenguaje de la redención para asumir el de la venganza de los linchamientos, mostrándose misericordiosa solo con aquello que corresponde a las tendencias sociales de lo políticamente correcto.

En el cristianismo, el pecado era una herida que podía ser curada; en la antropología secularizada, la culpa es una mancha indeleble. El pecador podía convertirse y renacer; el culpable contemporáneo solo puede ser castigado o reeducado. La misericordia, privada de su fundamento teológico, se convierte en un gesto administrativo, una concesión paternalista, un acto de clemencia pública que no regenera, sino que humilla. Porque la verdadera misericordia no nace de un movimiento del ánimo ni de un acto de indulgencia, sino de la justicia redentora de Dios, que se manifiesta en el sacrificio del Hijo y encuentra cumplimiento en la Cruz, donde la justicia y la misericordia se abrazan. No es lo contrario de la justicia, sino su plenitud, como afirma el Salmo: «El amor y la verdad se encontrarán, la justicia y la paz se besarán» (Sal 85,11).

Cuando se pierde este fundamento, la misericordia se reduce a tolerancia, la justicia a venganza; el perdón pierde su fuerza salvífica y la justicia se vuelve despiadada porque carece de gracia, y el hombre, que creía haberse liberado del pecado, descubre que es prisionero de la culpa.

Es la lógica invertida del Evangelio: donde Cristo decía «Vete, y de ahora en adelante no peques más» (Jn 8,11), el mundo secularizado dice: «Has pecado, y por tanto ya no mereces hablar». Allí donde la Iglesia anunciaba la posibilidad de la redención, la nueva moral civil proclama la irredimibilidad del culpable. Este es el verdadero drama de la modernidad: no haber sustituido a Dios por el hombre, sino haber sustituido la misericordia por la venganza. Y la misericordia divina no es debilidad, sino la forma más sublime de la justicia. Sin misericordia, la justicia degenera en castigo y la verdad se transforma en instrumento de condena. Santo Tomás de Aquino había captado esta verdad esencial: misericordia veritatis — la misericordia de la verdad — es la única que salva, porque no suprime la justicia, sino que la cumple en la caridad. Cuando la verdad se separa de la misericordia, solo queda la crueldad del juicio humano¹.

San Agustín advertía que, eliminando a Dios, permanece el pecado, pero sin perdón. Cuando se elimina esta verdad, solo queda el poder de algunos para declarar delito lo que en otro tiempo se llamaba pecado². Es el resultado último de esta “libertad sin verdad” que constituye la más peligrosa de las ilusiones modernas³.

No se trata, pues, de una superación del juicio moral, sino de su secularización extrema. El hombre moderno no ha dejado de distinguir entre lo que considera justo y lo que reputa injusto; solo ha cambiado el fundamento y la sanción de tal distinción. Allí donde en otro tiempo el pecado se confesaba y se redimía, hoy el error de pensamiento debe ser denunciado y castigado. La redención cristológica es sustituida por la reeducación social. Y este paso ha sido gradual, pero inexorable. La cultura de la culpa sin Dios ha generado un sistema moral cerrado, que funciona con la misma lógica inquisitorial de las herejías antiguas, aunque con signos invertidos. El tribunal ya no es el de la Iglesia, que buscaba incluir al errante en el camino de la salvación, sino el de los medios de comunicación, que condenan a la exclusión sin apelación; la penitencia ya no es la conversión del corazón, sino la abjuración pública de las propias ideas; el perdón ya no es gracia, sino readmisión condicionada en la comunidad ideológicamente correcta. De este modo, la sociedad poscristiana ha creado una nueva teología civil, hecha de dogmas inviolables y de liturgias colectivas. Quien los cuestiona se convierte en apóstata de la nueva religión secular, un desviado que debe ser expulsado. Es aquí donde el concepto de libertad sufre su inversión: lo que en otro tiempo era libertad de conciencia se convierte hoy en libertad vigilada de opinión. Se puede decir todo, con tal de que se diga en el lenguaje autorizado.

La moral pública, desligada del pecado pero obsesionada con la culpa, termina produciendo una nueva forma de puritanismo, más cruel que aquella que creía haber superado. Porque el puritanismo moderno ya no nace de un exceso de religión, sino de un defecto de fe; no apunta a la santidad, sino a la conformidad. Y en esta nueva ortodoxia civil, el pecador ya no puede convertirse: solo puede callar.

Desde la Isla de Patmos, 13 de noviembre de 2025

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Notas
¹ San Juan Pablo II, Dives in Misericordia, n. 14.
² San Agustín, Confesiones, II, 4, 9.
³ San Juan Pablo II, Veritatis Splendor, 84.

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Andrea Cionci e l’epilogo della penosa mezogna dalla quale non sa più come uscire fuori

ANDREA CIONCI E L’EPILOGO DELLA PENOSA MENZOGNA DALLA QUALE NON SA PIÙ COME USCIRE FUORI

Ha vilipeso per anni il Sommo Pontefice Francesco definendolo «invalidamente eletto», «antipapa», «falso papa», «usurpatore del trono di Pietro», «eretico», «apostata», «malvagio Bergoglio» … proseguendo poi a sostenere che non sappiamo se l’attuale Pontefice regnante sia veramente valido. Pur malgrado si sente legittimato — senza umana pena di ridicolo — a presentare persino fantomatiche denunce presso gli uffici giudiziari di Sua Santità.

– Le brevi dei Padri de L’Isola di Patmos –

Autore
Redazione de L’Isola di Patmos 

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I Padri de L’Isola di Patmos prendono atto che in seguito a un articolo del nostro Monaco Eremita (cfr. QUI), il Signor Andrea Cionci, cantante lirico, ma oggi grande esperto di diritto canonico, in un suo video dell’11 novembre corrente ha accusato il direttore responsabile di questa rivista d’essere un sedicente-sacerdote e sedicente-teologo. A questi insulti, non propriamente lievi, aggiunge d’aver presentato una denuncia a suo carico presso l’ufficio del Promotore di Giustizia dello Stato della Città del Vaticano (cfr. QUI).

Merita ricordare che il Signor Cionci ha vilipeso per anni il Sommo Pontefice Francesco definendolo «invalidamente eletto», «antipapa», «falso papa», «usurpatore del trono di Pietro», «eretico», «apostata», «malvagio Bergoglio» … proseguendo poi a sostenere che non sappiamo se l’attuale Pontefice regnante sia veramente valido. Pur malgrado si sente legittimato — senza umana pena di ridicolo — a presentare persino fantomatiche denunce presso gli uffici giudiziari di Sua Santità; uffici preposti a emanare sentenze di assoluzione o di condanna in Nome del Romano Pontefice validamente eletto, nonché succeduto ad altrettanto valido Predecessore.

La domanda logica è quindi di rigore: non si tratta forse degli uffici giudiziari dello stesso Romano Pontefice a cui riguardo il Signor Cionci va dicendo in giro che non sappiamo se è valido, vista la invalidità del Predecessore, da lui pubblicamente vilipeso come «eretico» e «apostata»? Non è forse egli stesso a sostenere in articoli e conferenze che se un pontefice è invalido sono invalidi ipso facto e ipso jure tutti i suoi atti? 

Il Signor Cionci si è incartato in un castello di menzogne e assurdità attraverso il suo surreale pamphlet “Codice Ratzinger”, dal quale oggi non sa più come uscire fuori, salvo seguitare a esporsi alla pubblica derisione, come provano i fatti senza facile pena di smentita, compresa la patetica minaccia di essersi rivolto alla giustizia di quella istituzione che lui oltraggia da anni colpendo e delegittimando il papato mediante il pubblico vilipendio della figura del Romano Pontefice, seguitando imperterrito, tutt’oggi, a recare oltraggio alla memoria del Santo Padre Francesco.

Però dice di essersi rivolto alla giustizia vaticana contro un sedicente-prete e sedicente-teologo. E con questo è detto tutto riguardo la logica e la coerenza del Signor Cionci.

 

Dall’Isola di Patmos, 15 novembre 2025

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Il tempo perduto e il presente eterno: Sant’Agostino per l’uomo contemporaneo affamato di tempo – The lost time and the eternal present: Saint Augustine for the contemporary man starved of time – El tiempo perdido y el presente eterno: San Agustín para el hombre contemporáneo hambriento de tiempo

Italian, english, español

 

IL TEMPO PERDUTO E IL PRESENTE ETERNO: AGOSTINO PER L’UOMO CONTEMPORANEO AFFAMATO DI TEMPO

Il passato non è più, il futuro non è ancora. Sembrerebbe esistere solo il presente. Ma anche il presente è problematico. Se avesse una durata, sarebbe divisibile in un prima e un dopo, dunque i non sarebbe più presente. Il presente, per essere tale, deve essere un istante senza estensione, un punto di fuga tra ciò che non è più e ciò che non è ancora. Ma come può qualcosa che non ha durata costituire la realtà del tempo?

— Theologica —

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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La società contemporanea vive una relazione schizofrenica con il tempo. Da un lato, esso è il bene più prezioso, una risorsa perennemente scarsa.

La nostra vita è scandita da agende fitte, scadenze incalzanti e dalla sensazione opprimente di «non avere mai tempo». L’efficienza, la velocità, l’ottimizzazione di ogni istante sono diventati i nuovi imperativi categorici di un’umanità che corre affannosamente, ansiosamente spesso senza conoscere la meta. L’uomo oggi è affamato di tempo, una fame che sembra oggi sempre di più prendere spazio nell’anima e nello spirito. Infatti, spesso proprio la fame di tempo colpisce visibilmente i più fragili, con le tante sindromi d’ansia generalizzate, gli attacchi di panico e altre patologie mentali. Paradossalmente, dall’altro lato, questo tempo così agognato e misurato ci sfugge, si dissolve in una sequela di impegni che lasciano un senso di vuoto, di incompiutezza. Nell’era della connessione istantanea, siamo sempre più disconnessi dal presente, proiettati verso un futuro che non arriva mai o ancorati a un passato che non si può cambiare. Siamo ricchi di istanti, ma poveri di tempo vissuto.

Questa esperienza di frammentazione e di angoscia è stata lucidamente analizzata dal filosofo Martin Heidegger, quasi un secolo fa. Per il filosofo tedesco, l’esistenza umana (il Dasein, l’esser-ci) è intrinsecamente temporale. L’uomo non «ha» il tempo, ma «è» tempo. La nostra esistenza è un «essere-per-la-morte», una continua proiezione verso il futuro, consapevoli di essere persone finite, limitate e non eterne. Il tempo autentico, per Heidegger, non è la sequenza omogenea di istanti misurata dall’orologio (chiamato il tempo «volgare»), ma l’apertura alle tre dimensioni dell’esistenza: il futuro (il progetto), il passato (l’essere-gettato) e il presente (la de-iezione nel mondo). L’angoscia di fronte alla morte e alle proprie limitazioni, quindi, non è un sentimento negativo da fuggire, ma la condizione che può rivelarci la possibilità di una vita autentica, in cui l’uomo si appropria della propria temporalità e del proprio destino finito[1].

Sebbene profonda, questa analisi rimane tuttavia orizzontale, confinata nell’immanenza di un’esistenza che termina con la morte. L’orizzonte è il nulla. È qui che la riflessione cristiana, e, in particolare, il genio di Sant’Agostino d’Ippona, apre una prospettiva radicalmente diversa: verticale, trascendente[2]. Agostino non si limita a descrivere l’esperienza del tempo, ma la interroga fino a farla diventare una via per interrogare Dio. In questa interrogazione, scopre che la soluzione all’enigma del tempo non si trova nel tempo stesso, ma al di fuori di esso, nell’Eternità che lo fonda e lo redime.

Nel Libro XI delle sue Confessioni, Agostino affronta con disarmante onestà una domanda apparentemente ingenua, ma teologicamente esplosiva: «Quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram?» (Cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?)[3]. La domanda presuppone un «prima» della creazione, un tempo in cui Dio sarebbe esistito in una sorta di ozio, aspettando il momento giusto per agire. La risposta di Agostino è una rivoluzione concettuale che smantella alla radice questo presupposto. Egli non risponde eludendo la domanda con una battuta («Preparava l’inferno per chi indaga misteri troppo alti», come suggerivano alcuni), ma la demolisce dall’interno. Non esiste un «prima» della creazione, perché il tempo stesso è una creatura. Dio non ha creato il mondo nel tempo, ma con il tempo: «Tu sei l’artefice di tutti i tempi», scrive il dottore D’Ippona[4]. Prima della creazione, semplicemente, non c’era tempo.

Questa intuizione apre la via alla comprensione della natura dell’eternità divina. L’eternità non è un tempo infinitamente esteso, un «sempre» che si prolunga senza fine nel passato e nel futuro. Questa sarebbe una concezione ancora “temporale» dell’eternità. L’eternità di Dio è l’assenza totale di successione, la pienezza perfetta e simultanea di una vita senza fine. Per usare un’immagine classica della teologia, Dio è un Nunc stans, un «eterno presente»[5]. In Lui non c’è passato (memoria) né futuro (attesa), ma solo l’atto puro e immutabile del Suo Essere. «I tuoi anni sono un solo giorno», dice Agostino rivolgendosi a Dio, «e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede il passo al domani e non succede all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità»[6].

La dottrina cattolica ha formalizzato questo concetto definendo l’eternità come uno degli attributi divini, uno degli elementi che compone il «dna» di Dio. Dio è immutabile, assolutamente perfetto e semplice. La successione temporale implica un cambiamento, un passaggio dalla potenza all’atto, che è inconcepibile in Colui che è «Atto Puro», come insegna San Tommaso d’Aquino[7]. Pertanto, ogni tentativo di applicare a Dio le nostre categorie temporali, che sono categorie di noi uomini che siamo nel tempo, è destinato a fallire. Egli è il Signore del tempo proprio perché non ne è prigioniero.

«Che cos’è dunque il tempo?». Una volta stabilita la «extraterritorialità» di Dio rispetto al tempo, Agostino si trova di fronte al secondo, e forse più arduo, problema: definire la natura del tempo stesso. È qui che emerge il celebre paradosso che ha affascinato generazioni di pensatori: «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio» (Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so)[8] . Questa affermazione non è una dichiarazione di ignoranza ed agnosticismo, ma il punto di partenza di una profonda indagine spirituale e fenomenologica. Agostino sperimenta la realtà del tempo, la vive, la misura, eppure non riesce a racchiuderla in un concetto. Inizia allora un processo di smontaggio delle convinzioni comuni del proprio secolo. Il tempo è forse il movimento dei corpi celesti, del sole, della luna e delle stelle? No, risponde, perché anche se i cieli si fermassero, un vaso di vasaio continuerebbe a girare, e noi misureremmo il suo movimento nel tempo. Il tempo, quindi, non è il movimento in sé, ma la misura del movimento. Ma come possiamo misurare qualcosa di così inafferrabile?

Il passato non è più, il futuro non è ancora. Sembrerebbe esistere solo il presente. Ma anche il presente è problematico. Se avesse una durata, sarebbe divisibile in un prima e un dopo, dunque i non sarebbe più presente. Il presente, per essere tale, deve essere un istante senza estensione, un punto di fuga tra ciò che non è più e ciò che non è ancora. Ma come può qualcosa che non ha durata costituire la realtà del tempo?

La soluzione agostiniana è tanto geniale quanto introspettiva. Dopo aver cercato il tempo nel mondo esterno, nei cieli e negli oggetti, Agostino lo trova all’interno, nell’anima dell’uomo. Il tempo non ha una consistenza ontologica fuori di noi; la sua realtà è psicologica. È una distentio animi, una «distensione» o «dilatazione» dell’anima. Come funziona? Vediamo …

L’anima umana ha tre facoltà che corrispondono alle tre dimensioni del tempo:

  1. La memoria (memoria): Attraverso di essa, l’anima rende presente ciò che è passato. Il passato non esiste più in re, ma esiste nell’anima come ricordo attuale.
  2. L’attesa (expectatio): Attraverso di essa, l’anima anticipa e rende presente ciò che non è ancora. Il futuro non esiste ancora, ma esiste nell’anima come aspettativa presente.
  3. L’attenzione (attentio o contuitus): Attraverso di essa, l’anima si concentra sull’istante presente, che è il punto in cui l’attesa si trasforma in memoria.

Quando cantiamo una canzone, spiega Agostino con un esempio bellissimo, la nostra anima è «distesa». L’intera canzone è presente nell’attesa prima di iniziare; man mano che le parole vengono pronunciate, esse passano dall’attesa all’attenzione e infine si depositano nella memoria. L’azione si svolge nel presente, ma è resa possibile da questa continua «distensione” dell’anima tra il futuro (che si accorcia) e il passato (che si allunga)[9].Il tempo, dunque, è la misura di questa impressione che le cose lasciano nell’anima e che l’anima stessa produce.

La speculazione agostiniana, pur essendo di altissimo livello filosofico e teologico, non è un semplice esercizio intellettuale. Essa offre a tutti noi oggi una chiave per redimere la propria esperienza del tempo e per vivere in modo più autentico e spiritualmente fecondo. Offro tre riflessioni dunque che scaturiscono dalla prospettiva agostiniana.

La nostra vita quotidiana è dominata dal Chronos, il tempo quantitativo, sequenziale, misurato dall’orologio. È il tempo dell’efficienza, della produttività, dell’ansia, dicevamo all’inizio. La riflessione di Agostino ci invita a scoprire il Kairòs, il tempo qualitativo, il «momento favorevole», l’istante carico di significato in cui l’eternità interseca la nostra storia. Se Dio è un «eterno presente», allora ogni nostro presente, ogni «adesso», è il luogo privilegiato dell’incontro con Lui. L’insegnamento agostiniano ci esorta a santificare il presente, a viverlo con attentio, con piena consapevolezza. Invece di fuggire costantemente nel futuro dei nostri progetti o nel passato dei nostri rimpianti, siamo chiamati a trovare Dio nell’ordinarietà del momento presente: nella preghiera, nel lavoro, nelle relazioni, nel servizio. È l’invito a vivere la spiritualità dell’«attimo presente», cara a tanti maestri di vita interiore.

C’è un luogo e un tempo in cui il Kairos irrompe nel Chronos in modo supremo: la Sacra Liturgia, e in particolare la celebrazione dell’Eucaristia. Durante la Messa, il tempo della Chiesa si connette all’eterno presente di Dio. Il sacrificio di Cristo, avvenuto una volta per tutte nella storia (ephapax), non viene «ripetuto», ma «ri-presentato», reso sacramentalmente presente sull’altare[10] Passato, presente e futuro convergono: facciamo memoria della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo (passato), celebriamo la Sua presenza reale in mezzo a noi (presente) e anticipiamo la gloria del Suo ritorno e il banchetto eterno (futuro)[11]. La Liturgia è la grande scuola che ci educa a vivere il tempo in modo nuovo, non più come una fuga inesorabile verso la morte, ma come un pellegrinaggio pieno di speranza verso la pienezza della vita nell’eternità di Dio.

Infine, la concezione del tempo come distentio animi ci offre una profonda consolazione. La «distensione»  dell’anima tra memoria e attesa, che per l’uomo senza fede può essere fonte di angoscia (il peso del passato, l’incertezza del futuro), per il cristiano diventa lo spazio della fede, della speranza e della carità. La memoria non è solo ricordo dei nostri fallimenti, ma è soprattutto memoria salutis, ricordo delle meraviglie che Dio ha operato nella storia della salvezza e nella nostra vita personale. È il fondamento della nostra fede. L’attesa non è l’ansia per un futuro ignoto, ma la speranza certa dell’incontro definitivo con Cristo, la beata visione promessa ai puri di cuore. E l’attenzione al presente diventa lo spazio della carità, dell’amore concreto a Dio e al prossimo, l’unico atto che «resta» per l’eternità (1 Cor 13,13).

La nostra vita si muove, come in un respiro spirituale, tra il ricordo grato della grazia ricevuta e l’attesa fiduciosa della gloria promessa. In questo modo, l’uomo agostiniano non è schiacciato dal tempo, ma lo abita come una tenda provvisoria, con il cuore già proiettato verso la patria celeste, dove Dio sarà «tutto in tutti» e dove il tempo si dissolverà nell’unico, eterno e beatificante oggi di Dio.

Santa Maria Novella, in Firenze, 12 novembre 2025

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NOTE

[1] M. Heidegger, Essere e Tempo,1927. In particolare, le sezioni dedicate all’analitica esistenziale della temporalità: Prima sezione § 27; Seconda Sezione. §§ 46-53; Seconda Sezione §§ 54-60 e §§ 65-69.

[2] Un tema così importante e sentito dalla cultura contemporanea che in questi giorni l’attore Alessandro Preziosi sta portando in giro per l’Italia uno spettacolo su Agostino e il tempo (QUI). 

[3]Agostino d’Ippona, Le Confessioni, XI, 12, 14. «Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?»

[4] Ibid., XI, 13, 15.

[5] La definizione classica dell’eternità si trova in Boezio, De consolatione philosophiae, V, 6: «Aeternitas est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio» («L’eternità è il possesso intero, simultaneo e perfetto di una vita interminabile»). Questa definizione è stata fatta propria da tutta la teologia scolastica.

[6]Le Confessioni, XI, 13, 16.

[7] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q. 9 («L’immutabilità di Dio») e q. 10 («L’eternità di Dio»).

[8]Le Confessioni, XI, 14, 17.«Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so»

[9] Le Confessioni, XI, 28, 38.

[10] Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1085, 1362-1367.

[11] Il termine ephapax (ἐφάπαξ) è una parola greca che si trova nel Nuovo Testamento, cruciale per comprendere la natura unica e definitiva del sacrificio di Cristo. La fonte principale di questo termineè la Lettera agli Ebrei. Questo scritto del Nuovo Testamento costruisce un lungo e profondo parallelo tra il sacerdozio levitico dell’Antico Testamento e il sommo sacerdozio di Cristo. I passi più significativi sono i seguenti:

  • Ebrei 7, 27: Parlando di Cristo come sommo sacerdote, l’autore dice che Egli «non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto infatti una volta per tutte (ephapax), offrendo se stesso». Qui si sottolinea che, a differenza dei sacerdoti ebraici che dovevano ripetere continuamente i sacrifici, il sacrificio di Cristo è unico e definitivo.
  • Ebrei 9, 12: «[Cristo] entrò una volta per sempre (ephapax) nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna». Il versetto evidenzia che l’efficacia del sacrificio di Cristo non è temporanea, ma eterna.
  • Ebrei 10, 10: «Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre (ephapax)». Qui si collega direttamente la nostra santificazione a questo evento unico e irripetibile.

Il concetto si trova anche in altri passi del Nuovo Testamento, come nella Lettera ai Romani (6, 10), dove San Paolo, parlando della morte e risurrezione di Cristo, dice: «Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per sempre (ephapax)».

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THE LOST TIME AND THE ETERNAL PRESENT: AUGUSTINE FOR THE CONTEMPORARY MAN STARVED OF TIME

The past no longer exists; the future is not yet. It would seem, then, that only the present exists. But even the present is problematic. If it had duration, it would be divisible into a before and an after — and thus it would no longer be the present. The present, to be what it is, must be an instant without extension, a vanishing point between what is no more and what is not yet. But how can that which has no duration constitute the reality of time?

— Theologica —

Author:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Contemporary society lives in a schizophrenic relationship with time. On the one hand, time has become our most precious possession, an ever-scarce resource. Our lives are ruled by crowded schedules, relentless deadlines, and the oppressive sensation of “never having enough time.” Efficiency, speed, and the optimisation of every instant have become the new categorical imperatives of a humanity rushing breathlessly forward, often without even knowing its destination. Modern man is starved of time¹ — a hunger that increasingly devours the soul and the spirit. Indeed, this hunger for time visibly afflicts the most fragile among us, manifesting itself in the many forms of generalised anxiety, panic attacks, and other mental disorders.

Paradoxically, however, this time so longed for and so precisely measured constantly escapes us. It dissolves into a sequence of tasks and commitments that leave behind only a sense of emptiness and incompleteness. In the age of instant connection, we are increasingly disconnected from the present — projected towards a future that never seems to arrive, or chained to a past that cannot be changed. We are rich in moments, yet poor in lived time.

This experience of fragmentation and anguish was lucidly analysed almost a century ago by the philosopher Martin Heidegger². For the German thinker, human existence (Dasein, the “being-there”) is intrinsically temporal. Man does not “possess” time — he is time. Our existence is a “being-toward-death,” a continual projection towards the future, fully aware of our finitude, limitation, and non-eternity.

Authentic time, for Heidegger, is not the homogeneous sequence of instants measured by the clock — what he calls vulgar time — but rather the openness to the three dimensions of existence: the future (as project), the past (as thrownness), and the present (as being-in-the-world). The anxiety that arises before death and our own limitations is therefore not a negative feeling to be avoided, but the very condition that can reveal to us the possibility of an authentic life, in which man takes possession of his own temporality and his finite destiny.

Profound as it is, this analysis nevertheless remains horizontal — confined within the immanence of an existence that ends with death. Its horizon is the nothingness. It is precisely here that Christian thought, and above all the genius of Saint Augustine of Hippo, opens a radically different perspective: a vertical and transcendent one. Augustine does not merely describe the experience of time; he interrogates it until it becomes a path by which he interrogates God Himself. And in this questioning he discovers that the solution to the enigma of time is not to be found within time itself, but beyond it — in the Eternity that grounds and redeems it.

In Book XI of his Confessions, Augustine confronts with disarming honesty a question that seems naïve yet is theologically explosive: «Quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram?» — “What was God doing before He created heaven and earth?”³. The question presupposes a before creation, a time in which God might have existed in a sort of divine idleness, waiting for the right moment to act. Augustine’s response is a conceptual revolution that dismantles this assumption at its very root. He does not evade the question with the witty remark attributed to some (“He was preparing hell for those who pry into mysteries too high for them”), but rather refutes it from within. There was no “before” creation, for time itself is a creature. God did not create the world in time but with time: “Thou art the maker of all times,” writes the Doctor of Hippo. Before creation, there simply was no time⁴.

This intuition opens the way to the understanding of the divine eternity. Eternity is not an infinitely extended duration — a “forever” stretching endlessly backward and forward. Such would still be a temporal notion of eternity. God’s eternity is the total absence of succession, the perfect and simultaneous fullness of life without end. To use a classical image of theology, God is a Nunc stans — an “eternal now”⁵. In Him there is neither past (memory) nor future (expectation), but only the pure and immutable act of His Being. “Thy years are one day,” says Augustine to God, “and Thy day is not every day, but today; for Thy today yields not to tomorrow, nor does it follow yesterday. Thy today is eternity”⁶.

Catholic doctrine has formalised this insight by defining eternity as one of the divine attributes — one of the essential elements that compose the very ‘DNA’ of God. God is immutable, absolutely perfect, and simple. Temporal succession implies change, a passage from potentiality to act, which is inconceivable in Him who is Pure Act, as taught by Saint Thomas Aquinas⁷.

Therefore, every attempt to apply our human temporal categories to God — categories that belong to us precisely because we are within time — is bound to fail. He is the Lord of time precisely because He is not its prisoner.

“What, then, is time?” Once Augustine has established God’s extraterritoriality in regard to time, he faces a second and perhaps even more arduous question: to define the nature of time itself. Here emerges the celebrated paradox that has fascinated generations of thinkers: «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio». — “What, then, is time? If no one asks me, I know; if I wish to explain it to one who asks, I do not know”⁸. This statement is not a confession of ignorance or agnosticism, but the point of departure for a profound spiritual and phenomenological inquiry.

Augustine experiences the reality of time — he lives it, he measures it — and yet he cannot enclose it within a concept. Thus begins a process of dismantling the common assumptions of his age. Is time perhaps the movement of the heavenly bodies, of the sun, the moon, and the stars? No, he answers, for even if the heavens were to stand still, the potter’s wheel would continue to turn, and we would still measure its motion in time. Time, therefore, is not movement itself but the measure of movement. Yet how can we measure something so elusive?

The past no longer exists; the future is not yet. It would seem, then, that only the present exists. But even the present is problematic. If it had duration, it would be divisible into a before and an after — and thus it would no longer be the present. The present, to be what it is, must be an instant without extension, a vanishing point between what is no more and what is not yet. But how can that which has no duration constitute the reality of time?

Augustine’s solution is as ingenious as it is introspective. After seeking time in the external world — in the heavens and in material things — he finds it within, in the depths of the human soul. Time has no ontological substance outside ourselves; its reality is psychological. It is a distentio animi, a “stretching” or “distension” of the soul. The human soul possesses three faculties corresponding to the three dimensions of time: memory (memoria), by which the soul makes the past present; expectation (expectatio), by which the soul anticipates and makes present what is not yet; and attention (attentio or contuitus), by which the soul focuses on the present instant, the point at which expectation is transformed into memory.

When we sing a hymn, Augustine explains in a beautiful example, our soul is “stretched.” The entire song is present in expectation before it begins; as the words are sung, they pass from expectation to attention, and finally they rest in memory. The action unfolds in the present, yet it is made possible by this continuous “stretching” of the soul between the future (which shortens) and the past (which lengthens). Time, therefore, is the measure of this impression that things leave upon the soul — and that the soul itself impresses upon them⁹.

Although Augustine’s speculation reaches the highest levels of philosophical and theological depth, it is far from being a mere intellectual exercise. It offers, rather, to each of us today a key by which to redeem our own experience of time and to live in a way that is more authentic and spiritually fruitful. Three reflections arise, therefore, from the Augustinian perspective.

Our daily life is dominated by Chronos — quantitative time, sequential, measured by the clock. It is the time of efficiency, productivity, and anxiety, as we noted at the beginning. Augustine’s reflection invites us to rediscover Kairos — qualitative time, the “favourable moment,” the instant filled with meaning in which eternity intersects our history. If God is an “eternal present,” then every present moment, every now, becomes the privileged place of encounter with Him. Augustine’s teaching urges us to sanctify the present, to live it with attentio, with full awareness. Instead of constantly fleeing into the future of our projects or the past of our regrets, we are called to find God in the ordinariness of the present moment: in prayer, in work, in relationships, in service. It is the invitation to live the spirituality of the “present moment,” so dear to many masters of the interior life.

There is a place and a time where Kairos breaks into Chronos in its most supreme form: the Sacred Liturgy, and in particular the celebration of the Eucharist. During the Holy Mass, the time of the Church is joined to the eternal present of God. The Sacrifice of Christ — accomplished once for all in history (ephapax)¹¹ — is not “repeated” but “re-presented,” made sacramentally present upon the altar. Past, present, and future converge: we recall the Passion, Death, and Resurrection of Christ (past); we celebrate His real presence in our midst (present); and we anticipate the glory of His return and the eternal banquet (future)¹⁰. The Liturgy is the great school that teaches us to live time in a new way — no longer as a relentless flight towards death, but as a hopeful pilgrimage towards the fullness of life in God’s eternity.

Finally, the conception of time as distentio animi offers profound consolation. The “stretching” of the soul between memory and expectation — which for the man without faith may be a source of anguish (the weight of the past, the uncertainty of the future) — becomes for the Christian the very space of faith, hope, and charity. Memory is not merely the recollection of our failures; it is above all memoria salutis — the remembrance of the wonders that God has wrought in the history of salvation and in our personal lives. It is the foundation of our faith. Expectation is not the anxiety of an unknown future, but the sure hope of the definitive encounter with Christ, the beatific vision promised to the pure of heart. And attention to the present becomes the space of charity — of concrete love of God and neighbour — the one act that “abides” for eternity (1 Cor 13:13).

Our life thus moves, as in a spiritual breath, between the grateful remembrance of grace received and the confident expectation of the glory promised. In this way, the Augustinian man is not crushed by time but dwells within it as within a provisional tent, his heart already turned towards the heavenly homeland where God shall be “all in all” — and where time itself shall dissolve into the single, eternal, and beatifying today of God.

 

Santa Maria Novella, Florence, on the 12th of November, 2025

NOTES

  1. M. Heidegger, Sein und Zeit (Being and Time), 1927, especially the sections devoted to the existential analysis of temporality: First Division § 27; Second Division §§ 46-53; Second Division §§ 54-60 and §§ 65-69.
  2. This theme is so present in contemporary culture that it is even the subject of recent Italian stage performances on Augustine and time.
  3. Augustine of Hippo, Confessiones, XI, 12, 14: «Quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram
  4. Ibid., XI, 13, 15.
  5. Boethius, De consolatione philosophiae, V, 6: «Aeternitas est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio».
  6. Confessiones, XI, 13, 16.
  7. Thomas Aquinas, Summa Theologiae, I, q. 9 (“On the Immutability of God”) and q. 10 (“On the Eternity of God”).
  8. Confessiones, XI, 14, 17.
  9. Confessiones, XI, 28, 38.
  10. Catechism of the Catholic Church, nn. 1085, 1362-1367.
  11. On the term ephapax (ἐφάπαξ), see Hebrews 7:27; 9:12; 10:10; Romans 6:10 — indicating the definitive and unrepeatable character of Christ’s sacrifice, “once for all.”

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EL TIEMPO PERDIDO Y EL PRESENTE ETERNO: SAN AGUSTÍN PARA EL HOMBRE CONTEMPORÁNEO HAMBRIENTO DE TIEMPO

El pasado ya no es, el futuro todavía no es. Parecería existir sólo el presente. Pero incluso el presente es problemático. Si tuviera duración, sería divisible en un antes y un después, y dejaría de ser presente. El presente, para serlo, debe ser un instante sin extensión, un punto de fuga entre lo que ya no es y lo que aún no es. Pero ¿cómo puede algo sin duración constituir la realidad del tiempo?

— Theologica —

Autor:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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La sociedad contemporánea vive una relación esquizofrénica con el tiempo. Por un lado, este se ha convertido en el bien más preciado, un recurso perpetuamente escaso. Nuestra vida está marcada por agendas saturadas, plazos apremiantes y la sensación opresiva de «no tener nunca tiempo». La eficiencia, la velocidad y la optimización de cada instante se han transformado en los nuevos imperativos categóricos de una humanidad que corre afanosamente, muchas veces sin conocer su meta. El hombre moderno está hambriento de tiempo², un hambre que cada vez más devora el alma y el espíritu. De hecho, esta hambre de tiempo golpea visiblemente a los más frágiles, manifestándose en las múltiples formas de ansiedad generalizada, ataques de pánico y otros trastornos mentales.

Paradójicamente, sin embargo, ese tiempo tan anhelado y tan minuciosamente medido se nos escapa. Se disuelve en una secuencia de compromisos que dejan tras de sí un sentimiento de vacío e incompletitud. En la era de la conexión instantánea, estamos cada vez más desconectados del presente: proyectados hacia un futuro que nunca llega o anclados en un pasado que no puede cambiarse. Somos ricos en instantes, pero pobres en tiempo vivido.

Esta experiencia de fragmentación y de angustia fue analizada con lucidez hace casi un siglo por el filósofo Martin Heidegger¹. Para el pensador alemán, la existencia humana (Dasein, el «ser-ahí») es intrínsecamente temporal. El hombre no «posee» el tiempo: él es tiempo. Nuestra existencia es un «ser-para-la-muerte», una continua proyección hacia el futuro, plenamente consciente de nuestra finitud, limitación y no eternidad.

El tiempo auténtico, para Heidegger, no es la secuencia homogénea de instantes medida por el reloj — lo que él llama el tiempo «vulgar» —, sino la apertura a las tres dimensiones de la existencia: el futuro (como proyecto), el pasado (como haber sido arrojado) y el presente (como estar-en-el-mundo). La angustia ante la muerte y las propias limitaciones no es, por tanto, un sentimiento negativo del que huir, sino la condición que puede revelarnos la posibilidad de una vida auténtica, en la que el hombre se apropia de su propia temporalidad y de su destino finito.

Por profunda que sea, esta reflexión permanece, sin embargo, en el plano horizontal, confinada en la inmanencia de una existencia que termina con la muerte. Su horizonte es la nada. Es precisamente aquí donde el pensamiento cristiano, y especialmente el genio de san Agustín de Hipona, abre una perspectiva radicalmente distinta: vertical y trascendente. Agustín no se limita a describir la experiencia del tiempo, sino que la interroga hasta convertirla en un camino para interrogar a Dios mismo. Y en esta búsqueda descubre que la solución al enigma del tiempo no se halla en el tiempo mismo, sino fuera de él: en la Eternidad que lo fundamenta y lo redime.

En el Libro XI de sus Confesiones, Agustín aborda con desarmante sinceridad una pregunta que parece ingenua, pero que es teológicamente explosiva: «Quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram?» — «¿Qué hacía Dios antes de crear el cielo y la tierra?»³. La pregunta presupone un “antes” de la creación, un tiempo en el que Dios habría existido en una especie de ocio divino, esperando el momento oportuno para actuar. La respuesta de Agustín es una revolución conceptual que desmantela de raíz esa suposición. No evade la cuestión con la respuesta ingeniosa atribuida a algunos («Preparaba el infierno para quienes indagan en misterios demasiado altos»), sino que la refuta desde dentro. No existe un “antes” de la creación, porque el tiempo mismo es criatura. Dios no creó el mundo en el tiempo, sino con el tiempo: «Tú eres el artífice de todos los tiempos», escribe el Doctor de Hipona. Antes de la creación, simplemente, no había tiempo⁴.

Esta intuición abre el camino hacia la comprensión de la eternidad divina. La eternidad no es una duración infinitamente extendida — un «siempre» que se prolonga sin fin hacia el pasado y el futuro —. Tal sería todavía una concepción temporal de la eternidad. La eternidad de Dios es la ausencia total de sucesión, la plenitud perfecta y simultánea de una vida sin fin. Para usar una imagen clásica de la teología, Dios es un Nunc stans, un «presente eterno»⁵. En Él no hay pasado (memoria) ni futuro (expectativa), sino sólo el acto puro e inmutable de su Ser.

«Tus años son un solo día», dice Agustín a Dios, «y tu día no es cada día, sino el hoy; porque tu hoy no cede el paso al mañana ni sigue al ayer. Tu hoy es la eternidad»⁶. La doctrina católica ha formalizado esta intuición definiendo la eternidad como uno de los atributos divinos, uno de los elementos que componen el “ADN” de Dios. Dios es inmutable, absolutamente perfecto y simple. La sucesión temporal implica cambio, un paso de la potencia al acto, lo cual es inconcebible en Aquel que es Acto Puro, como enseña santo Tomás de Aquino⁷.

Por tanto, todo intento de aplicar a Dios nuestras categorías temporales — categorías propias de nosotros, que estamos en el tiempo — está destinado al fracaso. Él es el Señor del tiempo precisamente porque no es su prisionero.

«¿Qué es, pues, el tiempo?» Una vez establecida la extraterritorialidad de Dios respecto del tiempo, Agustín se enfrenta al segundo, y quizá más arduo, problema: definir la naturaleza del tiempo mismo. Aquí surge la célebre paradoja que ha fascinado a generaciones de pensadores: «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio» — «¿Qué es, pues, el tiempo? Si nadie me lo pregunta, lo sé; si quiero explicárselo al que me lo pregunta, no lo sé»⁸. Esta afirmación no es una confesión de ignorancia o agnosticismo, sino el punto de partida de una profunda indagación espiritual y fenomenológica.

Agustín experimenta la realidad del tiempo: la vive, la mide, y sin embargo no logra encerrarla en un concepto. Así comienza un proceso de desmontaje de las convicciones comunes de su siglo. ¿Es el tiempo acaso el movimiento de los cuerpos celestes, del sol, la luna y las estrellas? No, responde, porque aun si los cielos se detuvieran, la rueda del alfarero seguiría girando, y mediríamos su movimiento en el tiempo. El tiempo, por tanto, no es el movimiento en sí, sino la medida del movimiento. Pero ¿cómo medir algo tan inasible?

El pasado ya no es, el futuro todavía no es. Parecería existir sólo el presente. Pero incluso el presente es problemático. Si tuviera duración, sería divisible en un antes y un después, y dejaría de ser presente. El presente, para serlo, debe ser un instante sin extensión, un punto de fuga entre lo que ya no es y lo que aún no es. Pero ¿cómo puede algo sin duración constituir la realidad del tiempo?

La solución agustiniana es tan genial como introspectiva. Después de buscar el tiempo en el mundo exterior, en los cielos y en los objetos, Agustín lo encuentra dentro, en el alma del hombre. El tiempo no tiene consistencia ontológica fuera de nosotros; su realidad es psicológica. Es una distentio animi, una «distensión» o «dilatación» del alma. El alma humana posee tres facultades que corresponden a las tres dimensiones del tiempo: la memoria (memoria), por la cual el alma hace presente lo pasado; la expectativa (expectatio), por la cual el alma anticipa y hace presente lo que aún no es; y la atención (attentio o contuitus), por la cual el alma se concentra en el instante presente, el punto en que la expectativa se transforma en memoria.

Cuando cantamos un himno, explica Agustín con un ejemplo bellísimo, nuestra alma está «extendida». Todo el canto está presente en la expectativa antes de comenzar; a medida que las palabras se pronuncian, pasan de la expectativa a la atención, y finalmente se depositan en la memoria. La acción se desarrolla en el presente, pero es posible gracias a esta continua «distensión» del alma entre el futuro (que se acorta) y el pasado (que se alarga). El tiempo, por tanto, es la medida de esta impresión que las cosas dejan en el alma y que el alma misma produce⁹.

Aunque la especulación agustiniana alcanza el más alto nivel filosófico y teológico, está lejos de ser un mero ejercicio intelectual. Ofrece, más bien, a cada uno de nosotros una clave para redimir la propia experiencia del tiempo y vivir de un modo más auténtico y espiritualmente fecundo. De la perspectiva agustiniana surgen, pues, tres reflexiones.

Nuestra vida cotidiana está dominada por el Chronos: el tiempo cuantitativo, secuencial, medido por el reloj. Es el tiempo de la eficiencia, la productividad y la ansiedad, como decíamos al comienzo. La reflexión agustiniana nos invita a descubrir el Kairós: el tiempo cualitativo, el «momento oportuno», el instante cargado de significado en el que la eternidad se cruza con nuestra historia. Si Dios es un «presente eterno», entonces cada presente, cada «ahora», se convierte en el lugar privilegiado del encuentro con Él. La enseñanza de Agustín nos exhorta a santificar el presente, a vivirlo con attentio, con plena conciencia. En lugar de huir constantemente hacia el futuro de nuestros proyectos o hacia el pasado de nuestros remordimientos, estamos llamados a encontrar a Dios en la cotidianidad del momento presente: en la oración, en el trabajo, en las relaciones, en el servicio. Es la invitación a vivir la espiritualidad del «instante presente», tan querida por muchos maestros de vida interior.

Hay un lugar y un tiempo en los que el Kairós irrumpe en el Chronos de modo supremo: la Sagrada Liturgia, y en particular la celebración de la Eucaristía. Durante la Santa Misa, el tiempo de la Iglesia se une al presente eterno de Dios. El Sacrificio de Cristo, cumplido una vez para siempre en la historia (ephapax)¹¹, no se «repite», sino que se «re-presenta», haciéndose sacramentalmente presente en el altar. Pasado, presente y futuro convergen: hacemos memoria de la Pasión, Muerte y Resurrección de Cristo (pasado); celebramos su presencia real en medio de nosotros (presente); y anticipamos la gloria de su retorno y el banquete eterno (futuro)¹⁰. La Liturgia es la gran escuela que nos enseña a vivir el tiempo de un modo nuevo: ya no como una huida inexorable hacia la muerte, sino como una peregrinación esperanzada hacia la plenitud de la vida en la eternidad de Dios.

Finalmente, la concepción del tiempo como distentio animi ofrece una profunda consolación. La «distensión» del alma entre la memoria y la expectativa — que para el hombre sin fe puede ser fuente de angustia (el peso del pasado, la incertidumbre del futuro)— se convierte para el cristiano en el espacio mismo de la fe, la esperanza y la caridad. La memoria no es sólo el recuerdo de nuestros fracasos, sino ante todo la memoria salutis: el recuerdo de las maravillas que Dios ha obrado en la historia de la salvación y en nuestra vida personal. Es el fundamento de nuestra fe. La expectativa no es la ansiedad por un futuro incierto, sino la esperanza segura del encuentro definitivo con Cristo, la visión beatífica prometida a los puros de corazón. Y la atención al presente se convierte en el espacio de la caridad, del amor concreto a Dios y al prójimo, el único acto que «permanece» para la eternidad (1 Cor 13,13).

Nuestra vida se mueve así, como en una respiración espiritual, entre el recuerdo agradecido de la gracia recibida y la espera confiada de la gloria prometida. De este modo, el hombre agustiniano no es aplastado por el tiempo, sino que lo habita como una tienda provisional, con el corazón ya orientado hacia la patria celestial, donde Dios será «todo en todos» y donde el tiempo se disolverá en el único, eterno y beatificante hoy de Dios.

Santa Maria Novella, Florencia, a 12 de noviembre de 2025

Notas

  1. M. Heidegger, Ser y tiempo, 1927, especialmente las secciones dedicadas al análisis existencial de la temporalidad: Primera sección § 27; Segunda sección §§ 46-53; Segunda sección §§ 54-60 y §§ 65-69.
  2. Tema tan presente en la cultura contemporánea que incluso ha sido objeto de representaciones teatrales en Italia sobre Agustín y el tiempo.
  3. San Agustín de Hipona, Confesiones, XI, 12, 14: «Quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram?»
  4. Ibid., XI, 13, 15.
  5. Boecio, De consolatione philosophiae, V, 6: «Aeternitas est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio».
  6. Confesiones, XI, 13, 16.
  7. Santo Tomás de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 9 («Sobre la inmutabilidad de Dios») y q. 10 («Sobre la eternidad de Dios»).
  8. Confesiones, XI, 14, 17.
  9. Confesiones, XI, 28, 38.
  10. Catecismo de la Iglesia Católica, nn. 1085, 1362-1367.
  11. Sobre el término ephapax (ἐφάπαξ), véanse Hebreos 7,27; 9,12; 10,10; Romanos 6,10: indica el carácter único y definitivo del sacrificio de Cristo, «una vez para siempre».

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La nuova Cionci’s story: dal Seraphicum romano al Nimby britannico

LA NUOVA CIONCI’S STORY: DAL SERAPHICUM ROMANO AL NIMBY BRITANNICO

Egregio Cavalier Cionci ― perché per inciso è pure Cavaliere della Repubblica Italiana ― lei è liberissimo di pensare quel che crede, di scriverlo, naturalmente, di avere un suo seguito. Ma non prenda per scema la Chiesa Cattolica o chi gestisce le sue strutture, con mezzucci di tal genere.

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Molti conoscono l’espressione inglese «Not In My Back Yard» (non nel mio giardino), abbreviata spesso con l’acronimo: «Nimby». Un detto che serve a designare l’opposizione di qualcuno a ospitare realizzazioni sul proprio territorio.

Ma esiste anche un proverbio, stavolta italiano, che tutti conosciamo e che inizia così: «Fra i due litiganti …»; che vorrei concludere modificando un po’ la forma classica con «… il terzo ride».

I due litiganti in questione sono Alessandro Minutella, sacerdote palermitano scomunicato e dimesso dallo stato clericale, ed il giornalista Andrea Cionci autore del libro «Codice Ratzinger» nel quale propugna la tesi che Papa Benedetto XVI non avrebbe mai rinunciato al papato, ricoverandosi in una fantomatica sede impedita, con la conseguenza che Papa Francesco sarebbe stato un antipapa. Per l’attuale Pontefice il giudizio è sospeso. Un tempo i due andavano d’amore e d’accordo, condividendo idee e proventi. Ma come succede nelle coppie anche le più affiatate che prima si amano e poi si detestano, così è avvenuto fra i nostri due. Non passa giorno che sui social si becchettino, rinfacciandosi cose e non nominandosi più. Minutella indica Cionci come «il giornalista romano», mentre per il Cionci il palermitano viene apostrofato con: «il grande prelato». In verità ambedue hanno una voglia matta di notorietà, ma soprattutto di essere presi in considerazione e sul serio. E dove se non nella Chiesa Cattolica e in una delle sue strutture per esempio?

Accade così che Cionci venga invitato a parlare in un incontro promosso da un’associazione su tematiche apocalittiche, nientedimeno che presso una sala appartenente alla Pontifica Università San Bonaventura, che fa parte del complesso del Seraphicum in Roma. Naturalmente in sordina: «avevo tenuto un profilo basso», dirà Cionci. Per poi promulgare ai quattro venti, cosa che i suoi commentatori sui social avevano capito benissimo, basta leggere i commenti, che aveva potuto parlare di quel che crede addirittura in un Ateneo Pontificio. Apriti cielo. Minutella subito alza i toni: «A lui si, a me no?». E per tutta la durata del consueto appuntamento mattutino coi suoi seguaci ci ritorna sopra, facendo vedere la locandina dell’evento, cerchiata per bene ad evidenziare il nome di Cionci e il costo di partecipazione.

Accade che l’evento venga annullato. L’università ci ripensa e non dà la disponibilità dei suoi spazi. Naturalmente, Cionci, si affretta a darne notizia in un video su Youtube incolpando Minutella, accusandolo di aver arrecato un danno non tanto a lui, ma a quella straordinaria possibilità di poter parlare delle sue tesi in una Pontificia università.

Caro Cionci, noi conosciamo Minutella, ma stavolta colpe non ne ha: è innocente. Il colpevole sono io, lo ammetto: venuto a conoscenza della cosa e prevedendo l’uso che poi se ne sarebbe fatto, ho preso carta e penna, anzi il computer, perché anche nel mio sperduto eremo abbiamo connessione, e ho scritto una mail al segretario generale della facoltà Teologica San Bonaventura, chiedendo se ritenessero opportuno ospitare un evento nel quale si sarebbero presentate idee così bislacche che ancora offendono la persona di Papa Francesco, di venerata memoria, e quella di Papa Benedetto, fatto passare per una sorta di carbonaro che mette in scacco la Chiesa tutta. La risposta non si è fatta attendere: «è stato immediatamente disdetto l’affitto dell’aula e annullato l’evento presso la nostra sede».

Forse ha pesato anche la seconda mail, stavolta inviata con toni più forbiti e consoni dalla nostra redazione de L’Isola di Patmos al Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, il Cardinale José Tolentino de Mendonça? Non lo so, ma tant’è.

Egregio Cavalier Cionci ― perché per inciso è pure Cavaliere della Repubblica Italiana ― lei è liberissimo di pensare quel che crede, di scriverlo, naturalmente, di avere un suo seguito. Ma non prenda per scema la Chiesa Cattolica o chi gestisce le sue strutture, con mezzucci di tal genere. Sa cosa le consiglio? Affitti un aereo, ecco, mi pare una buona idea. L’ha già provata? Oppure, come fa Minutella, andar per alberghi. Sarà costoso si, ma non credo che lei arriverà a comprare una ex palestra col tetto in eternit in una frazione della provincia di Padova, come il bi-dottore in teologia palermitano. Non ce la vedo.

Per rasserenarla concludo con le parole del professor Keating ad un suo studente, alias Robin Williams, nel celeberrimo film L’attimo fuggente: «Non ridiamo di lei, ridiamo con lei».  

Con stima.

Il Monaco Eremita de L’Isola di Patmos

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Le tifoserie di Maria co-redentrice, una grossolana contraddizione in termini teologici

LE TIFOSERIE DI MARIA CO-REDENTRICE, UNA GROSSOLANA CONTRADDIZIONE IN TERMINI TEOLOGICI

Qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

— Le pagine di Theologica —

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Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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In occasione dell’uscita della nota dottrinale Mater Populi Fidelis, riproponiamo l’ultimo articolo sul tema scritto da Padre Ariel S. Levi di Gualdo  il 3 febbraio 2024 su “Maria corredentrice”, all’interno del quale si rimanda ai seguenti articoli pubblicati in precedenza:

«Articolo del 3 aprile 2020 — Difendiamo il Sommo Pontefice Francesco dai lanciafiamme dei mariolatri assetati di nuovi dogmi mariani: “Maria non è corredentrice”»;

«Articolo del 14 agosto 2022 – Proclamare nuovi dogmi è più grave che de-costruire i dogmi di fede. Maria corredentrice? Una idiozia teologica sostenuta da chi ignora le basi della cristologia»;

«Articolo del 11 maggio 2023 – Bergoglio, eretico e apostata, bestemmia la Madonna». Parola di un eretico solare con l’ossessione di Maria corredentrice che chiederebbe la proclamazione del quinto dogma mariano»

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Articolo dedicato alla memoria del Gesuita Peter Gumpel (Hannover 1923 – Roma 2023) che fu mio formatore e prezioso maestro nell’ambito della storia del dogma

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Frequentando abbastanza i social media, leggendo e ascoltando sacerdoti e laici, su argomenti biblici e teologici, a volte si ha l’impressione che non sia intervenuto alcun progresso su certi temi. Accade così che su questioni che riguardano argomenti di fede sono messe in circolazione molte imprecisioni, oppure si continua su registri vecchi, devozionali ed emozionali.

Salvador Dalí, La Madonna di Port Lligat, 1949, Haggerty Museum of Art, Milwaukee, WI, USA. Dettaglio.

Il desiderio, forse un po’ utopico, sarebbe che i Lettori si rendano conto, con un minimo impegno, che potrebbero beneficiare di approfondimenti seri e precisi. Perlomeno è nella speranza mia e dei Padri di questa nostra Isola di Patmos, essere di aiuto a coloro che riescono ad andare oltre le quattro o cinque righe lette sui social media, dove oggi pontificano improbabili teologi e mariologi, con le conseguenze che spesso ben sappiamo: la deviazione dalla vera fede. E questo dispiace molto, perché i Social Media potrebbero essere per noi strumento straordinario per la diffusione della sana e solida dottrina cattolica.

Negli anni successivi al Concilio Vaticano II la scienza biblica ha compiuto passi importanti, offrendo contributi che ormai sono imprescindibili per la teologia nelle sue diverse branche e per la vita cristiana. Questo da quando, fin dall’epoca del Venerabile Pontefice Pio XII, nella Chiesa Cattolica è stato favorito lo studio della Bibbia dando la possibilità di utilizzare tutti quei metodi che di norma si applicano a un testo scritto. Per citare solo alcuni esempi: l’analisi retorica, la strutturale, la letteraria e la semantica hanno prodotto risultati che forse qualche volta saranno apparsi insoddisfacenti, ma hanno anche permesso di scandagliare in modo nuovo il testo della Sacra Scrittura e ciò ha portato a tutta una serie di studi che ci hanno fatto conoscere meglio e più approfonditamente la Parola di Dio. Oppure di riconsiderare acquisizioni antiche, della tradizione, dei Santi Padri della Chiesa, che pur risultando vere e profonde, nonché opere di alta teologia, tuttavia non avevano il supporto di uno studio moderno dei testi sacri, proprio perché ancóra, certi strumenti, all’epoca delle loro speculazioni mancavano.

Prima di proseguire è necessario un inciso: i “teologi” da social media hanno bisogno della lite, per scatenare la quale è necessario scegliersi e fabbricarsi un nemico. Per certi gruppi il nemico più gettonano è il Modernismo, definito a giusta ragione dal Santo Pontefice Pio X come sintesi di tutte le eresie» (cfr. Pascendi Dominici Gregis). Ciò non vuol dire, però, che l’agire di questo Santo Pontefice, prima ancóra quello del suo Sommo Predecessore Leone XIII, abbia sempre prodotto effetti benefici nei decenni a seguire. Ovviamente, per fare una analisi critica obbiettiva, è di rigore contestualizzare la condanna del Modernismo e i severi provvedimenti canonici che ne seguirono in quel preciso momento storico, non certo esprimere giudizi usando criteri legati al nostro presente, perché ne uscirebbero fuori solo sentenze fuorvianti e falsanti. Per sintetizzare in breve questo complesso problema al quale mi sono riservato di dedicare un mio prossimo libro, basti dire che la Chiesa di quegli anni, dopo la caduta dello Stato Pontificio avvenuta il 20 settembre 1870, era soggetta a violenti attacchi politici e sociali. Il Romano Pontefice si era ritirato come “volontario prigioniero” tra le mura vaticane dalle quali uscirà fuori solo sei decenni dopo. L’anticlericalismo di matrice massonica era elevato alla massima potenza e la Chiesa doveva fare seriamente i conti con la propria sopravvivenza e con quella della istituzione del papato. Non poteva certo permettersi lo sviluppo di correnti di pensiero che l’avrebbero attaccata e corrosa direttamente dal proprio interno. È in questo delicato contesto che si colloca la lotta del Santo Pontefice Pio X al Modernismo. Con tutte le conseguenze anche negative del caso: la speculazione teologica fu di fatto congelata tra mille paure e la formazione dei preti ridotta a quattro formulette della neo-scolastica decadente, che della scolastica classica di Sant’Anselmo d’Aosta e di San Tommaso d’Aquino non era neppure lontana parente. Ciò produsse nel clero cattolico una impreparazione e una tale ignoranza che per averne chiara prova basterebbe leggere l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii scritta nel 1935 del Sommo Pontefice Pio XI.

Le conseguenze della lotta al Modernismo furono per certi versi disastrose, basti dire che quando alle soglie degli anni Quaranta del Novecento, all’inizio del pontificato di Pio XII, i teologi e i biblisti cattolici cominciarono a mettere mano su certi materiali e a fare esegesi nell’ambito vetero e novo testamentario, furono costretti, in modo discreto e lavorando prudentemente sottobanco, a rifarsi ad autori protestanti, che su certe tematiche speculavano e portavano avanti già da decenni studi approfonditi, specie nell’ambito delle scienze bibliche. E così oggi, se vogliamo fare uno studio e una analisi del testo della Lettera ai Romani dobbiamo di necessità rifarci al commento del teologo protestante Carl Barth, che rimane fondamentale e soprattutto insuperato. Anche questi furono i frutti della lotta contro il Modernismo, di cui certo non parlano i “teologi” da social media che per esistere hanno bisogno di un nemico da combattere. Come però già detto, questo tema sarà oggetto di un mio prossimo libro, ma era necessario questo inciso per meglio introdurre il nostro tema.

Quello che tutt’oggi seguita a mancare è che questi risultati ottenuti attraverso la moderna esegesi o lo studio dei testi vetero e novo testamentari diventino appannaggio della maggioranza dei credenti. E qui torno a ribadire la straordinaria importanza che potrebbero avere i social media, per diffondere e rendere accessibili certi materiali. Troppo spesso rimangono invece confinati nei testi specialistici e non passano, se non sporadicamente, nella predicazione e nella catechesi, favorendo una consapevolezza nuova dei termini in gioco e quindi una fede cristiana più solida e motivata, non basata soltanto su dati acquisiti spesso fragili e confusi, sul devozionale, sul sentimentale, o peggio: su rivelazioni, su apparizioni vere o presunte, o sui pruriginosi “segreti” tremebondi della logorroica Gospa di Medjugorje (cfr. mia video conferenza, QUI)… e via dicendo a seguire.

Se certe tifoserie madonnolatriche avessero l’umiltà, forse anche la decenza di leggere libri e articoli di autorevoli studiosi, forse potrebbero comprendere che non solo, non hanno compreso, ma che della Maria dei Santi Vangeli non hanno capito proprio niente. Basterebbe prendere ― ne cito uno solo tra i tanti ― l’articolo scritto da Padre Ignace de la Potterie: «La Madre di Gesù e il mistero di Cana» (La Civiltà Cattolica, 1979, IV, pp. 425-440, testo integrale QUI), per comprendere così quale abissale differenza possa correre tra la mariologia e la mariolatria.  

Quando ancora oggi si parla della Vergine Maria, purtroppo anche fra certi presbiteri — e a maggior ragione tra certi devoti fedeli — assistiamo alla trita ripetizione dei soliti discorsi devozionali ed emozionali, sino a giungere con il passo degli elefanti dentro una cristalleria al tema molto delicato e discusso di Maria co-redentrice, che come risaputo — e come più volte hanno puntualizzato anche gli ultimi Pontefici —, è un termine che di per sé crea enormi problemi teologici con la cristologia e il mistero stesso della redenzione. Affermare infatti che Maria, creatura perfetta nata senza peccato, ma pur sempre creatura creata, ha cooperato alla redenzione dell’umanità, non è propriamente come affermare che ha co-redento l’umanità. A operare la redenzione è stato Cristo, che non era una creatura creata ma il Verbo di Dio fatto uomo, generato non creato della stessa sostanza di Dio Padre, come recitiamo nel Simbolo di Fede, il Credo, dove professiamo «[…] e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». Nel Simbolo di Fede, la redenzione è tutta quanta incentrata sul Cristo. Ecco perché dire che la Beata Vergine “ha cooperato” e dire “ha co-redento” ha una valenza teologica sostanzialmente e radicalmente diversa. Uno solo è infatti il redentore: Gesù Cristo Dio fatto uomo «generato non creato della stessa sostanza del Padre», che come tale non ha bisogno di alcuna creatura creata che lo supporti o lo sostenga come co-redentore o co-redentrice, compresa la Beata Vergine Maria» (cfr. Ariel S. Levi di Gualdo, in L’Isola di Patmos, vedere QUI, QUI, QUI). Domanda: alle tifoserie della co-redentrice, come mai non basta che Maria sia colei che di fatto ha cooperato più di qualsiasi creatura affinché si realizzasse il mistero della redenzione? Per quale motivo, ma soprattutto per quale ostinazione, non contenti della sua figura di cooperatrice, vogliono a tutti i costi che sia proclamata co-redentrice con una solenne definizione dogmatica?

Dal punto di vista teologico e dogmatico, il concetto stesso di Maria co-redentrice crea anzitutto grossi problemi alla cristologia, col rischio di dare vita a una sorta di “quatrinità” e di elevare la Madonna, che è creatura perfetta nata senza macchia di peccato originale, a ruolo di vera e propria divinità. Cristo ci ha redenti col suo ipostatico sangue prezioso umano e divino, con il suo corpo glorioso risorto che porta tutt’oggi impressi su di sé i segni della passione. Maria invece, pur ricoprendo un ruolo straordinario nella storia della economia della salvezza, ha cooperato alla nostra redenzione. Dire co-redentrice equivale a dire che siamo stati redenti da Cristo e da Maria. E qui è bene chiarire: Cristo salva, Maria intercede per la nostra salvezza. Non è una differenza di poco conto “salvare” e “intercedere”, salvo creare in caso contrario una religione diversa da quella nata sul mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio (cfr. mio precedente articolo QUI).

La mariologia non è qualche cosa di a sé stante, quasi come se vivesse di vita autonoma. La mariologia non è altro che una appendice della cristologia ed è inserita in una precisa dimensione teologica di cristocentrismo. Se la mariologia è in qualche modo distaccata da questa centralità cristocentrica, si può correre il serio rischio di cadere nel peggiore e più deleterio mariocentrismo. Per non parlare della palese arroganza degli esponenti di qualche giovane e problematica Congregazione di impronta francescana-mariana, che non si sono limitati a fare ipotesi o studi teologici per supportare l’idea peregrina della cosiddetta co-redentrice, ma di fatto ne istituirono il culto e la venerazione.

Chi proclama dogmi che non esistono compie un delitto maggiore rispetto a coloro che i dogmi li negano, perché agisce ponendosi al di sopra dell’autorità stessa della Santa Chiesa mater et magistra, detentrice di un’autorità che le deriva da Cristo in persona. E quest’ultimo sì, che è un dogma della Fede Cattolica, al quale non si è giunti per logica deduzione dopo secoli di studi e speculazioni ― come nel caso del dogma della immacolata concezione e dell’assunzione al cielo di Maria ―, ma sulla base di chiare e precise parole pronunciate dal Verbo di Dio fatto Uomo (cfr. Mt 13, 16-20). E quando si proclamano dogmi che non esistono, in quel caso entra in scena la superbia nella sua manifestazione peggiore. L’ho scritto e spiegato in diversi miei precedenti articoli ma merita ripeterlo nuovamente: nella cosiddetta scala dei peccati capitali il Catechismo della Chiesa Cattolica indica la superbia al primo posto, con penosa pace di quanti si ostinano a concentrare nella lussuria l’intero mistero del male ― che ricordiamo non figura affatto al primo posto, ma neppure al secondo, al terzo e al quarto [Cfr. Catechismo n. 1866] ―, incuranti del fatto che i peggiori peccati vanno tutti quanti e di rigore dalla cintura a salire, non invece dalla cintura a scendere, come in tono ironico ma teologicamente molto serio scrissi anni fa nel mio libro E Satana si fece trino, spiegando in un mio libro del 2011 in qual modo si sia spesso esagerato oltre misura sul sesto comandamento, spesso dimenticando tutti i peggiori e più gravi peccati contro la carità.

Se poi tutto questo è filtrato attraverso emotività di stampo fideistico ― come se un tema così delicato incentrato nelle sfere più complesse della dogmatica fosse una sorta di tifoserie opposte composte da tifosi laziali e tifosi romanisti ―, in quel caso si può cadere nella vera e propria idolatria mariana o nella cosiddetta mariolatria, che equivale a dire: paganesimo allo stato puro. A quel punto Maria potrebbe assumere tranquillamente il nome di qualsiasi dea dell’Olimpo greco o del Pantheon romano.

Le tifoserie da social media della co-redenzione della Beata Vergine affermano come una sorta di prova incontrovertibile che sarebbe stata Maria stessa a chiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano (cfr. tra i tanti articoli, QUI). Cosa sulla quale a loro dire non si discute, lo avrebbe chiesto la Beata Vergine stessa apparendo ad Amsterdam a Ida Peerdeman. Premesso che nessuna apparizione mariana, incluse quelle riconosciute come autentiche dalla Chiesa, Fatima inclusa, può essere oggetto e materia vincolante di fede; premesso altresì che meno ancora lo sono le locuzioni di certi veggenti, possiamo solo sorridere su certe amenità da teologi dilettanti che rendono taluni soggetti difficilmente gestibili per noi preti e soprattutto per noi teologi, proprio perché la loro arroganza va di pari passo con quella loro ignoranza che li porta a trattare un simile tema come se davvero fosse uno scambio acceso tra tifosi della Lazio e tifosi della Roma che si urlano dalle opposte curve dello stadio. Anche in questo caso la risposta è semplice: qualcuno è disposto veramente a credere che la Beata Vergine, colei che si è definita «umile serva», la donna dell’amore donato, del silenzio e della riservatezza, colei che come finalità ha quella di guidare a Cristo, possa veramente domandare a dei veggenti o a dei visionari svalvolati di essere proclamata co-redentrice e messa quasi al pari del Divino Redentore? Verrebbe ragionevolmente da chiedersi: da quando, la «umile serva» del Magnificat, sarebbe diventata così pretenziosa e vanitosa da chiedere e rivendicare il titolo di co-redentrice?

Ecco infine la “prova delle prove”: «diversi Sommi Pontefici hanno fatto uso del termine co-redentrice», detto questo segue l’elenco dei loro vari discorsi, benché il tutto dimostri però l’esatto contrario di ciò che le tifoserie della co-redenzione vorrebbero provare. È sì vero che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, in un suo discorso dell’8 settembre 1982, affermò:

«Maria, pur concepita e nata senza macchia di peccato, ha partecipato in maniera mirabile alle sofferenze del suo divin Figlio, per essere co-redentrice dell’umanità».

Questa espressione dimostra però l’esatto contrario sul piano teologico e mariologico. Chiariamo perché: da allora a seguire Giovanni Paolo II ― che era indubitabilmente un Pontefice di profonda devozione mariana ―, dinanzi a sé ebbe altri 23 anni di pontificato. Come mai, in questo lungo lasso di tempo, oltre a non proclamare il quinto dogma mariano della co-redenzione di Maria, respinse in modo deciso la richiesta, quando per due volte gli fu presentata? La respinse perché tra il 1962 e il 1965, l’allora giovane Vescovo Karol Woytila fu una figura partecipe e attiva al Concilio Vaticano II che in una delle sue costituzioni dogmatiche chiarì come Maria avesse «cooperato in modo unico all’opera del Salvatore» (Lumen gentium, 61). Affermazione introdotta dal precedente articolo dove si precisa che L’unica mediazione del Redentore «non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte» (Lumen gentium 60; CCC 970). E la cooperazione più alta e straordinaria è stata quella della Vergine Maria. Ciò dovrebbe bastare per comprendere che i Sommi Pontefici, quando alcune volte hanno fatto ricorso al termine co-redentrice in loro discorsi, mai in encicliche o atti solenni del sommo magistero, intendevano esprimere con esso il concetto di cooperazione di Maria al mistero della salvezza e della redenzione.

Il termine stesso di co-redentrice è in sé e di per sé una assurdità teologica che crea enormi conflitti con la cristologia e il mistero della redenzione operata unicamente da Dio Verbo incarnato, che non necessita di co-redentori e co-redentrici, lo ha ripetuto per tre volte, nel 2019, 2020 e 2021 anche il Sommo Pontefice Francesco:

«[…] Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola. E c’è un Santo Padre che dice in giro che è più degno il discepolato della maternità. Questioni di teologi, ma discepola. Non ha mai rubato per sé nulla di suo Figlio, lo ha servito perché è madre, dà la vita nella pienezza dei tempi a questo Figlio nato da una donna (cfr. Omelia del 12 dicembre 2019, testo integrale QUI) […] la Madonna non ha voluto togliere a Gesù alcun titolo; ha ricevuto il dono di essere Madre di Lui e il dovere di accompagnare noi come Madre, di essere nostra Madre. Non ha chiesto per sé di essere una quasi-redentrice o una co-redentrice: no. Il Redentore è uno solo e questo titolo non si raddoppia. Soltanto discepola e Madre (cfr. Omelia del 3 aprile 2020, testo integrale QUI) […] la Madonna che, come Madre alla quale Gesù ci ha affidati, avvolge tutti noi; ma come Madre, non come dea, non come corredentrice: come Madre. È vero che la pietà cristiana sempre le dà dei titoli belli, come un figlio alla mamma: quante cose belle dice un figlio alla mamma alla quale vuole bene! Ma stiamo attenti: le cose belle che la Chiesa e i Santi dicono di Maria nulla tolgono all’unicità redentrice di Cristo. Lui è l’unico Redentore. Sono espressioni d’amore come un figlio alla mamma, alcune volte esagerate. Ma l’amore, noi sappiamo, sempre ci fa fare cose esagerate, ma con amore» (cfr. Udienza del 24 marzo 2021, testo integrale QUI).

Il mistero della redenzione è un tutt’uno con il mistero della croce, sulla quale è morto come agnello immolato Dio fatto uomo. Sulla croce non è morta inchiodata come agnello immolato la Beata Vergine Maria, che alla fine della sua vita si è addormentata ed è stata assunta in cielo, non è morta e risorta il terzo giorno sconfiggendo la morte. La Beata Vergine, prima creatura dell’intero creato al di sopra di tutti i Santi per sua immacolata purezza, non perdona i nostri peccati e non ci redime, intercede per la remissione dei nostri peccati e per la nostra redenzione. Se quindi non ci redime, perché si insiste affinché sia dogmatizzato un titolo mirato a definire solennemente che ci co-redime?

È probabile che molti tifosi della co-redenzione non abbiano mai prestato attenzione alle invocazioni delle Litanie Lauretane, che non furono certo opera di qualche recente pontefice in odore di modernismo, come direbbero alcuni, furono aggiunte alla recita del Santo Rosario dal Santo Pontefice Pio V dopo la vittoria della Lega Santa a Lepanto nel 1571, sebbene già in uso da diversi decenni nel Santuario della Casa di Loreto, dalla quale traggono nome. Eppure basterebbe porsi questa domanda: come mai, quando all’inizio di queste litanie si invocano Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, diciamo «miserere nobis» (abbi pietà/msericordia di noi)? Mentre appena s’inizia, con l’invocazione Sancta Maria, a enunciare tutti i titoli della Beata Vergine, da quel momento in poi diciamo «Ora pro nobis» (prega per noi)? Semplice: perché Dio Padre che ci ha creati e che ha donato all’umanità sé stesso mediante l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, i quali hanno fatto poi giungere lo Spirito Santo che «procede dal Padre e dal Figlio», con pietosa misericordia donano la grazia del perdono dai peccati mediante una azione trinitaria del Dio uno e trino, la Vergine Maria no, i peccati non ce li rimette e non ce li perdona, perché nella economia della salvezza il suo ruolo è quello di intercedere. Questo il motivo per il quale, quando ci rivolgiamo a lei attraverso la preghiera, sia nella Ave Maria che nel Salve Regina, da sempre, nell’intera storia e tradizione della Chiesa la invochiamo dicendo «prega per noi peccatori», non le chiediamo di rimettere i nostri peccati né di salvarci (cfr. mio precedente articolo, QUI). Solo questo dovrebbe di per sé bastare e avanzare per comprendere che il termine stesso co-redentrice è una grossolana contraddizione a livello teologico, quanto basta purtroppo a rendere grossolani quei teologi che insistono nel richiedere la proclamazione di questo quinto dogma mariano, caricando e usando come tifoseria frange di fedeli gran parte dei quali hanno profonde e serie lacune sui fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica.

La persona della Vergine Maria, la Madre di Gesù, viene guardata e indicata con una profondità teologica che la colloca in stretto rapporto con la missione del suo Figlio e unita a noi discepoli, perché questo è il suo ruolo che i Vangeli ci hanno voluto comunicare e ricordare, il tutto con buona pace di quanti pretendono, a volte persino in modo arrogante, di relegare la Donna del Magnificat in un microcosmo di devozionismi emotivi che spesso lasciano persino percepire il fumus del neo-paganesimo. Ha quindi ragione il Sommo Pontefice Francesco, che con il suo stile molto semplice e diretto, a volte persino volutamente provocatorio e per taluni persino indisponente, ma proprio per questo capace a farsi intendere da tutti, ha precisato che Maria «[…] non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice». E non si è presentata come tale perché Maria è la Donna del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata»; beata perché mi sono fatta serva, non certo perché ho chiesto, a qualche veggente svalvolato, di essere proclamata co-redentrice.

 

dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2024

 

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