Dal disorientamento dottrinale della Chiesa al peccato dei preti e al riciclo dei laici. Prospetto di una cultura intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna

DAL DISORIENTAMENTO DOTTRINALE DELLA CHIESA  AL PECCATO DEI PRETI E AL RICICLO DEI LAICI. PROSPETTO DI UNA CULTURA INTRANSIGENTE CHE MENTRE CONDANNA SANTIFICA E SANTIFICANDO CONDANNA

Il “tollerante” moderno, invece, non si sacrifica per le proprie idee come farebbe l’idealista, anzi non si fa scrupoli a immolare chi ha idee contrarie alle sue, così come farebbe un dittatore nei riguardi dei suoi oppositori. Quanti martiri della tolleranza e dei diritti oggi esistono? Ma forse i martiri più numerosi sono coloro che vengono additati quali inconsapevoli seminatori d’odio proprio perché divergenti, portatori di un odio che non si vede perché presente solo nello sguardo del tollerante di turno che ha interesse a usare l’odio come strumento ideologico di controllo delle masse. 

— Le Pagine di Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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I.   UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO

Credo di non rivelare segreti inconfessabili se affermo che mantenersi cristiani cattolici, di questi tempi, non è affatto un’impresa semplice. Non si tratta tanto di conservare solamente una apparente identità tradizionale – per lo meno per quanto concerne il continente europeo – quanto il manifestare che Dio possiede ancora un certo diritto di cittadinanza nella vita degli uomini e che Cristo sia riconosciuto come evento fondativo e definitivo della rivelazione divina.

il crollo della volta della basilica di San Francesco in Assisi nel 1997 [cliccare sull’immagine per aprire il video]

Secondo un sondaggio del Pew Research Center [cf. QUI] condotto nel 2017 su un campione di 1.804 rispondenti, l’80% degli italiani si dichiara cristiano, il dato preoccupante riguarda invece la frequenza, infatti il 23% partecipa alle funzioni religiose almeno una volta a settimana, il 20% una volta al mese e il 34% ha una pratica molto meno assidua. Secondo altri dati relativi a una ricerca Ipsos del 2017, sempre in Italia, su 60.000 intervistati, i cattolici sono in diminuzione. Si passa dall’85,4% del 2007 al 74,4% del 2017. Uno studio più recente del 2018 dell’European Values Study l’84,4% degli italiani afferma genericamente di credere in Dio senza ulteriori utili specificazioni.

Dati alla mano stiamo subendo una diminuzione drastica della fede cristiana ma quello che un sondaggio non potrà mai dire riguarda la motivazione teologica che rappresenta il vero motivo di tale diminuzione. La motivazione teologica che diventa pietra di scandalo su cui si infrangono le impietose statistiche risiede nel fatto che non si è più in possesso dello specifico del cristianesimo, cosicché siamo spesso smarriti, in balia di una forma di Alzheimer che ci rende incapaci di riconoscere la fede e di riconoscerci come credenti pronti a darne ragione, come esprime San Pietro nella sua prima epistola [cfr. 1Pt 3,15-16].

Faccio un esempio per essere più chiaro. Nessun ebreo, di ieri come di oggi, si sognerebbe mai di disconoscere l’Alleanza tra Dio e Abramo e soprattutto l’evento fondativo che ha unificato il popolo eletto durante la Pasqua di liberazione in Egitto. Nessun ebreo, sano di mente, metterebbe in dubbio che Dio è il Goel liberatore e riscattatore del popolo e che in Mosè ha reso possibile la salvezza contro il dominio del faraone d’Egitto. Sebbene questa fede sia stata messa a dura prova davanti ai terribili fatti di Auschwitz, la fede dei nostri fratelli in Abramo resta sostanzialmente immutata da secoli e diventa motivo di identità etnica e religiosa da celebrare con orgoglio in ogni nucleo familiare.

Per noi cristiani, invece, avere una fede certa non è motivo di orgoglio ma di imbarazzo, spesso siamo i primi a considerarci intransigenti e fanatici quando proviamo ad elevarci al di sopra dalla mediocrità. Allora, per essere più digeribili agli occhi di chi ci guarda, preferiamo piuttosto colorarci di rosa e ostentare un amore universale che possiamo bellamente giustificare attraverso il discorso escatologico di Matteo 24,31-46 che — per inciso — secondo una corretta esegesi, non dovrebbe mai essere avulso dai successivi brani — narrati dal Santo Evangelista Matteo, prima la parabola delle Dieci Vergini [cfr. Mt 25,1-13] e poi quella dei Talenti [cfr. Mt 25,14-29] — con il rischio di far dire al testo sacro quello che proprio non intende dire.

A testimonianza di ciò, porto un esempio a sostegno delle mie parole. Quante volte ci è capitato di sentire predicare dai pulpiti sull’amore? Quante volte l’amore è stato usato come slogan e passe-partout per giustificare tutto anche l’ingiustificabile e l’irragionevole? Quante volte nel nome dell’amore si sono operate scelte del tutto scellerate espressione del più emotivo sentimentalismo e della più seducente passionalità? Il termine cristiano di charitas rimanda a Dio, secondo l’insegnamento dell’apostolo Giovanni: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» [cfr. 1Gv 4,7-8]. Triste è la consapevolezza nel verificare che questo “amore” così fortemente pubblicizzato oggi viene deprivato della presenza di Dio Trinità e utilizzato come alibi attraverso cui si normalizza il peccato fino ad esaurirsi in atteggiamento esclusivamente filantropico e utilitaristico. Questo atteggiamento d’impoverire la charitas dalla persona di Dio non è un vizio moderno infatti, forti di quel detto sapienziale nihil novum sub sole [nulla di nuovo sotto il sole] la storia del Cristianesimo ha già conosciuto questa degenerazione del concetto di amore fin dai suoi primi secoli.

Nel 361 d.C. l’imperatore Giuliano l’Apostata, si oppone strenuamente al Cristianesimo operando una politica di paganizzazione del popolo e di ritorno al pensiero neoplatonico. Del cristianesimo conserverà solo l’attività caritatevole e l’attenzione al prossimo che cerca di innestare all’interno dell’anti-Chiesa pagana da lui progettata. La storia ci dice che il tentativo risultò inattuabile, il paganesimo decadente, così come l’ateismo moderno assunto a religiosità d’élite, non poté competere con l’autentico amore di Dio che in Cristo consta della caratteristica dell’eroicità fino al sacrificio della vita e nello Spirito Santo della caratteristica della missionarietà che è la causa prima di ogni azione virtuosa. L’amore, affinché sia autenticamente cristiano, non deve fare solo il bene, ma deve condurre al dono totale di sé, anche con quelle persone e in quelle situazioni non amabili, in virtù del fatto che se la giustizia del discepolo non supera quella del mondo, non c’è quel di più che è indice di perfezione e garanzia della presenza dello Spirito del Padre, come indica il Santo Evangelista Matteo [cfr. Mt 5,20]. L’amore cristiano è quella virtù teologale che si riconosce in Dio e conduce a Lui, annuncia la salvezza all’anima, converte dal peccato e spalanca le porte del paradiso.

Dopo questa necessaria divagazione sulla relazione Dio-amore, ritorniamo alla ricerca delle domande di senso che interpellano la nostra fede. Chi è Gesù? Cosa è venuto a fare nel mondo? Sono le domande fondamentali eppure, nella maggioranza dei casi, restano degli interrogativi inevasi per tanti ragazzi che frequentano il catechismo e per tanti giovani cristiani. La situazione non muta di molto se dovessimo sottoporre tale quesito agli adulti, ai genitori di questi ragazzi, oppure ai loro nonni che, tragico a dirsi, si stanno avviando verso un analfabetismo religioso di ritorno che sfocia verso un vero e proprio ateismo pratico.

Ormai per sapere chi è Gesù Cristo ci rassegniamo ad interrogare i vari laicisti di tendenza che sui social e in televisione con aria sussiegosa dettano la nuova Cristologia à la page con l’aggravante che la Chiesa, quella ufficiale, quella deputata al controllo della retta dottrina, che dovrebbe confermare i fratelli nella fede, tace. E anche quando parla, cercando di mettere assieme una raffazzonata e pallida smentita, lo fa con poco convincimento tanto da far sospettare che certe affermazioni eretiche si siano guadagnate una certa simpatia anche all’interno dei sacri palazzi.

Possiamo dire, a questo punto, che il dogma è andato in crisi? Assolutamente no. Chi è andato in crisi è un certo établissement ecclesiastico fatto di pastori e teologi che hanno perso — loro sì — la bussola della fede e che fanno sempre più ricorso alla categoria di “mistero” cercando di nascondersi dietro a un paravento, visto che non sanno più dare ragione della fede e della speranza che è in loro, il tutto è racchiuso nella prima e seconda epistola di San Pietro e nel Vangelo di San Giovanni [cfr. 1Pt 3,15; 2Pt 1,16-19; 1 Gv1, 1-4]. In questo modo, perse le due virtù teologali di fede e speranza, ciò che rimane, l’amore, assume i connotati della modernità e della ricerca del consenso a qualunque costo. Avete mai fatto caso che l’ammodernamento della persona di Cristo, della Chiesa, del Magistero, della morale, della formazione del clero e della sua identità è sempre stato portato avanti dai paladini dell’amore e nel nome dell’amore? Siamo arrivati al paradossale, in cui la corruzione dottrinale della Chiesa è all’insegna del vessillo dell’amore! Quell’Amore che, è necessario ribadire, si è fatto carne e ha dato la sua vita per l’uomo peccatore, insomma al danno anche la beffa. Al culmine di questo sbandamento dottrinale si somma anche l’atto sacrilego di voler confondere o associare Dio con il peccato. Ma se intendiamo restare fedeli a Cristo e alla Chiesa Cattolica, così come ha fatto San Thomas Becket con il suo martirio, dobbiamo resistere e la resistenza cristiana non si realizza al canto di “Bella Ciao”, ma dell’Exultet Pasquale che ci ricorda che Cristo è Dio, Signore e Sovrano, vincitore del peccato.

Se, in ultima analisi, essere cristiani significa entrare dentro la vita intima di Gesù Cristo, e lasciare che sia Lui a regnare come sovrano indiscusso della mia esistenza – verità ribadita ogni anno durante la solennità di Cristo Re al termine dell’anno liturgico – forse è bene riconoscere che qualche cosa è andato storto oppure ci troviamo davanti a un grande fraintendimento. La fede è innanzi tutto una adesione dell’uomo a Dio e al tempo stesso e in modo inseparabile, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato e che trova in Gesù Cristo la piena, definitiva e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio [cfr. Dominus Iesus].

Perciò, riconosciamo candidamente che sia noi sacerdoti, così come i cosiddetti cristiani impegnati — quelli che per intenderci militano in movimenti ecclesiali, si riconoscono come attivisti all’interno della vita sociale e politica del paese, che aiutano in parrocchia, che praticano una certa carità — nella migliore delle ipotesi stiamo perseguendo un cristianesimo secondario, di confine o di periferia che agli occhi dei più maliziosi si palesa come un cristianesimo di facciata.

Con questo termine individuiamo una certa cultura cristiana estremamente variegata e complessa che trascura il fine ultimo e soprannaturale della fede che consta della salvezza dell’anima, ignora la lotta spirituale al peccato e l’apertura alla grazia divina insieme alla necessità di permanere all’interno di una fede divina cattolica osservata all’interno di una comunità di fede che si riconosce all’interno della Chiesa di Roma.

Tale cristianesimo secondario dissipa largamente la figura del sacerdote reinventandolo come manager, un solerte curatore di museo e impiegato sociale regolarmente retribuito e con orari di lavoro variabili. Stessa dissipazione si riscontra tra i laici, in coloro che non si identificano più nella categoria dei fedeli (fedeli poi a chi e a che cosa? mah!) e che per questo scelgono di ibridarsi in modelli di cristianesimo che trasformano tutti in figure mitologiche difficilmente conciliabili all’interno di un cammino di fede e di una vita che nel battesimo e stata consegnata a Dio.

È senza dubbio urgente ribadire una questione di principio: l’essenza del cristianesimo risiede all’interno di quella parolina che Gesù pronuncia diverse volte nel Vangelo di Giovanni [cfr. Gv 8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5] per designare sé stesso: è quell’Io Sono — in greco ἐγὼ εἰμί, ego eimi, che è garanzia di identità divina [cfr. Es 3,14-15] e di salvezza per ogni creatura.

È la scelta totalizzante di quell’Io divino che mette in crisi e che, come si evince dalla lettura di Jacob Neusner nel suo libro «Un rabbino parla con Gesù», costituisce la grande differenza tra l’Israele Eterno e il Nuovo Israele costituito dal popolo dei battezzati redenti dalla Passione di Cristo e dalla sua Risurrezione.

Il mio io identitario deve essere in grado di riconoscere il mistero di Dio, quell’Io Sono a cui spetta il primo posto [cfr. Lc 14,25-33] e che mi disarciona al suolo [cfr. At 22,8] e atterrisce ogni qual volta presumo di possederlo e gestirlo a mio piacimento [cfr. Gv 18,6], il tutto, si trova racchiuso nei vangeli di San Luca e San Giovanni.

Chi è Gesù? Gesù è Dio, come ci indicano vari passi delle sacre scritture, in particolare il Santo Evangelista Luca, per seguire con il Vangelo di San Giovanni e l’epistolario paolino [cfr. Lc 22,70; Gv 1,1.14; Gv 5,18; Gv 8, 58; Fil 2,6; Col 2, 9; Col 1,15; Eb 1,3], è il Signore [cfr. Rm 10,9; Gv 20, 28; Lc 23,39-43; Fil 2,11], è il rivelatore autentico del Padre [cfr. Gv 10, 30; Gv 5,22-23; Gv 14,8-11], e per tali motivi nessuno può prescindere da tali verità rivelate senza consumare un tradimento, operare un rinnegamento, senza sentirsi scandalizzato o iniziare una guerra santa; il tutto sempre con riferimento al Vangelo di San Giovanni. Questo Uomo-Dio è venuto per salvare il mondo dai peccati [cfr. Mt 1,21], affinché l’uomo abbia la vita bella e non una bella vita [cfr. Gv 10,10] e nel vivere sul serio sia definitivamente privato dal cancro del peccato [cfr. Eb 2,14-15] e reso giusto nel sangue di Lui [cfr. Rm 5,9; 8,33]. Non ci sono alternative, la gelosia divina dell’Antico Testamento [cfr. Dt 5,6-10] si coniuga con la scelta totalizzante di Cristo e la sua persona è l’unica scelta di comunione possibile che produce frutti di novità di vita [cfr. Mt 12,30; Lc 5,38].

Gesù Cristo è così ingombrante che non è possibile metterlo a tacere, da duemila anni il suo nome risuona sulla terra e la sua fedeltà si dimostra stabile quanto il cielo [cfr. Sal 89,3]. Tutto ancora parla di Lui: dal calendario alle feste, dalle tradizioni civili all’etica, dall’arte alla musica; la storia, la geografia, il modo di computare il tempo e perfino il vasto cosmo e la natura testimoniano che Egli è Dio e che è Signore. Anche davanti a coloro che intendono perniciosamente negarlo, rifiutarlo, fino a farlo scomparire del tutto si deve ammettere il merito involontario – così come è stato per i demoni [cfr. Mc 5,6; Lc 4,34; At 19,15] – di un riconoscimento kerigmatico, in cui la sua maestà e potenza non vengono minimamente messe in discussione.

E mentre Cristo si proclama e si afferma, viene ribadita la sua maestà, il suo ruolo chiave che Egli svolge nella storia dell’uomo, sebbene quest’ultimo il più delle volte si nasconda dalla sua presenza come fece Adamo [cfr. Gn 3,9-10] o desideri come Nietzsche compiere un parricidio che spezzi l’angosciosa dipendenza dal partner divino, promettendo più ampie libertà.   

.II. CRISI DI FEDE, CRISI DOTTRINALE, CRISI MORALE

.La questione di principio che ho voluto affrontare nel primo paragrafo di questo articolo ci aiuta a capire meglio la condizione di crisi cronica che da cinquant’anni a questa parte intacca come tarlo la solidità della Chiesa. È una crisi su diversi fronti quella che interessa gli aspetti del credere nell’attuale contingenza storica. Dalla dottrina alla pastorale, dalla morale alla spiritualità, dalla testimonianza quotidiana al modo di interpretare il martirio, tutto poggia su una fede traballante, dove Cristo non è più Dio e il suo ruolo non è più quello di Salvatore. Attenzione bene, affermare l’esistenza di una fede malferma non equivale a dire che non esista più una fede in generale o che coloro che credono lo fanno in modo malizioso o interessato. Le statistiche ci testimoniano come ancora circa l’80% delle persone si dichiara cristiana, ma il fatto di dichiararsi non è ancora ragion sufficiente che conduce al credere. I beati apostoli Pietro, Andrea e Giovanni si sono visti più volte redarguire da Nostro Signore per la loro fede in Lui non ancora sufficientemente matura e aperta alla grazia. E tutti gli altri, sebbene identificati come i discepoli del Nazareno, non hanno esitato ad abbandonarlo al momento della Passione, sconfessando con le opere quello che proclamavano apertamente. Con altre parole possiamo dire che la registrazione del nome sul registro parrocchiale dei battesimi non ci rende cristiani credenti e credibili. Tali considerazioni ci conducono a capire come una fede di tal fatta e un credo di tal genere non aggiungono nulla e non tolgono nulla all’esistenza dell’uomo. Con le parole del Vangelo di Giovanni possiamo dire che la fede conduce essenzialmente verso un dimorare là dove Gesù è presente [cfr. Gv 1,38; 15,4-ss]. Nel dimorare in Lui si verifica quel di più che conduce verso una cristificazione della vita che, sebbene opera della grazia, ha bisogno comunque del concorso umano e dell’esercizio del libero arbitrio.

Come non riconoscere in Karl Rahner e nella trovata dei “cristiani anonimi” la magistrale furbizia di una moderna religiosità apparente che, di fronte a una malferma proposta di fede, ha portato molti a ritenere che è molto meglio tenersi quanto più lontano possibile da tutto ciò che è cristiano (e forse anche cattolico) preferendo impiegare il tempo in modo più fruttuoso invece di ricorrere ad un Dio che non si conosce più per nome e che si è conservato solo come presenza formale. Queste persone più che “cristiani anonimi” — anonimi poi per chi visto che Dio chiama sempre tutti per nome [cfr. Is 43,1; 45,4] — dovrebbero essere detti “atei dogmatici”, in quanto non sentendo l’esigenza di credere nel Dio di Gesù Cristo vivono già dentro una fede atea che si alimenta e campa di dogmatisti propri. Fateci caso, nessuno è più dogmatico e intransigente dell’ateo convinto, che afferma strenuamente ciò che per lui non dovrebbe esistere, e combatte ciò in cui non crede più. Così come nessuno e più attaccato alle tradizioni cristiane di colui che ha dismesso la pratica religiosa da anni e vive di lontani ricordi e nostalgie. Dogmatismi, rigidità, nostalgie e stili sclerotici di fede sono gli alimenti di scarto di cui il cristianesimo secondario voracemente si nutre, ma poiché indigesti vengono quanto prima rigurgitati all’approssimarsi di ogni evangelica novità.

Bisogna ribadire che la fede cristiana tout court è una pia illusione, se non consta di una teologia della salvezza ben consolida. Cristo non è solo il Dio verso cui credere ma è il Salvatore e il Redentore dell’uomo, colui per il quale la salvezza entra nel mondo e l’uomo si affranca dalla schiavitù del peccato [cfr. Mt 1,21; Mc 2,7]. La fede priva della salvezza è mutilata e per sopravvivere viene indirizzata e identificata verso altre discipline del sapere umano, come la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la medicina, verso un nuovo umanesimo di impronta atea che manifesta la sua hýbris nel presumere di salvare la fisicità dell’individuo ― lotta alla povertà, alla fame, alle malattie, alle guerre ― e di conservare il creato ― gretinismo, ecologismo, pseudo francescanesimo comunista ― ricostituendo una verginità primigenia oramai perduta, tutto a scapito di un’anima divina immortale che è stata creata da Dio e che a Dio ritornerà dopo la morte. Anzi se vogliamo dirla tutta, questa falsa hýbris che ha combattuto in passato il peccato originale e ancora oggi lo combatte, sottrae all’uomo il senso stesso del peccato introducendo dei luoghi di controllo esterni in cui ricercare il capro espiatorio buono a giustificare ogni avversità e contrarietà. Purtroppo, l’uomo è creato per Dio e senza di lui il suo cuore non trova la pace [cf. Agostino, Le Confessioni, 1,1.5], senza senso del peccato e senza bisogno di redenzione, quello che avanza è il senso di colpa che schiaccia e deprime la povera umanità moderna. Molti deresponsabilizzati, sono incapaci di operare un vero e sincero esame di coscienza — anche in vista di una confessione sacramentale — che induca al riconoscimento della colpa e alla ricerca di redenzione dall’unico che è in grado di darla.

Alcuni preferiscono scaricare sul Diavolo la colpa di tutti i rovesci personali, liquidando ingenuamente la questione sulle spalle dello spirito del male ― che qui si assume come luogo di controllo esterno ― senza ricordarsi che il tentatore [cfr. Gn 3, ss] per consumare la caduta dell’uomo ha avuto bisogno del suo consenso. Insomma, attenuanti su attenuanti, facili e improbabili per una umanità oltre il limite dello sbando.

Per distogliere l’attenzione da questa triste verità che conduce verso un pessimismo che definire leopardiano suonerebbe come un eufemismo, si inventano delle opposizioni, delle distrazioni di massa in lotta tra loro. E come al tempo degli antichi romani si gareggiava nel Colosseo per tenere buono il popolo affamato, così oggi si gareggia tra fazioni contrapposte per divagare le menti: i tradizionalisti contro progressisti, i papisti contro i sedevacantisti, i lefebvriani contro i modernisti, i guelfi contro ghibellini, i cristiani di destra contro i cristiani di sinistra, i sacerdoti secolari contro i sacerdoti regolari, insomma l’elenco potrebbe ancora allungarsi e continuare all’infinito con l’inclusione dei movimenti ecclesiali che concorrono per aggiudicarsi la palma del migliore se già la questione non fosse di per sé stessa sufficientemente tragica.

Davanti a questo panorama la Chiesa gerarchica, quella dei pastori con l’odore delle pecore, dei sacerdoti pauperisti, delle lobby che speculano su migranti, integrazione e accoglienza spinta cosa fa? L’esercizio della leadership più avvalorata oggi dal clero non poggia più sull’autorevolezza della fede ragionevole, che apporta motivazioni fondate sulla necessità credere e del perché è necessario credere. La leadership di molti tra noi sacerdoti — basta ascoltare qualche omelia o catechesi per rendersene conto — è infarcita da buonismo democratico e da uno stile che definirei “parlamentare” in cui le cose vengono decise per elezione attraverso l’autorità della maggioranza e se qualche cosa mette in pericolo il pensiero dominante è subito pronta una mozione o una interpellanza per ribaltare la situazione a proprio favore.

Stile politico parlamentare è anche quello dei nostri vescovi che sono pronti a dissociarsi dai propri sacerdoti, visti come battitori da inquisizione, quando cercano di educare i fedeli ai principi della dottrina e della morale, anche semplicemente citando il catechismo. Accanto agli atti di dissociazione spinta si annoverano le scuse facili verso tutte quelle categorie di persone che non collimano con il pensiero del Vangelo. La tecnica di tramutare il nemico in amico attraverso un love bombing [bombardamento d’amore] che si fa carico dell’assunzione di colpe facili e inesistenti è il nuovo paradigma per essere inclusivi nella carità. Poco importa se l’apostolo ci ricorda che la carità deve fuggire le finzioni [cfr. Rm 12,9] ed esercitarsi nella Verità anche quando questa risulta scomoda e inopportuna ai più.

Noi sacerdoti 3.0 nella nuova versione aggiornata, assorbiti dal ruolo manageriale di curatori di museo con stipendio fisso, senza la paternità da parte dei nostri pastori e senza una fede solida che ci contraddistingua come profeti davanti al mondo, siamo facile preda del fomite della sensualità. I sensi obnubilati da una vita più in sintonia con il mondo che con Cristo Salvatore del mondo, ci espongono a delle criticità che si individuano attraverso l’esercizio di una sessualità disordinata, di una possessività che esprime il peggio di sé nella gestione del denaro, e nell’incapacità di portare avanti relazioni significative con le persone senza contare il mantenimento dispotico del potere che si avvicina molto alla conservazione dei privilegi della peggior casta.

Parlando di sessualità è necessario fare un distinguo. Ho parlato di sessualità proprio per diversificarla dalla genitalità, infatti i due termini nella morale cristiana si ascrivono a due aspetti diversi. Sebbene gli aggettivi sessuale e genitale vengono oggi usati come sinonimi, non lo sono. Identifichiamo con il termine sessuale la persona nel suo essere maschio o femmina, nei suoi comportamenti maschili o femminili, nel suo modo di esprimere la mascolinità o la femminilità e nel differente e originale stile di comunicare l’amore. Con il termine genitale, invece, si intende ciò che si riferisce più propriamente agli apparati genitali, alla loro anatomia e fisiologia, al compito unitivo e procreativo che la dottrina cattolica continua risolutamente a considerare uniti.

La realtà genitale, così osannata dalla modernità, è compresa in quella sessuale la quale è più ampia, completa e tipicamente umana. Siamo troppo preoccupati di cogliere in fallo i sacerdoti per un abuso riguardante la genitalità da non accorgerci che esiste un grande scollamento nella pratica di quella sessualità che è parte integrante e imprescindibile della figura del presbitero. Tanto è vero che il termine “padre”, con cui chiamiamo comunemente i sacerdoti del clero regolare, è indice proprio dell’esercizio di una sana sessualità maschile come dimostrazione di una paternità spirituale che è tesa all’accompagnamento e alla santificazione del popolo di Dio. Ecco perché dai sacerdoti si richiede anzitutto una acclarata e comprovata mascolinità che permetta loro di esprimere al meglio l’esercizio della loro sessualità nell’essere padri amorosi e autorevoli.

Il modo di amare che conosce nella sessualità e nella mascolinità il proprio linguaggio, può esprimersi attraverso due modi differenti e antitetici: attraverso una possessività asfissiante che vuole consumare l’altro e operarne un controllo oppure attraverso una libertà dialogante che non teme l’altro e si propone di amarlo così com’è, tanto da farlo maturare e crescere così come vediamo accadere nell’incontro tra Gesù e la Samaritana [cfr. Gv 4,1-26]. Gesù nel relazionarsi con il sesso femminile è diverso dalla maggioranza degli uomini del suo tempo che usano, abusano e oggettivizzano la donna per avere da lei qualcosa in cambio. In Cristo si concretizza quell’amore libero e liberante del Padre che testimonia il vero amore per ogni realtà creata. Il prete, come alter Christus, non può mortificare questo amore liberante e libero che è costituzionale alla propria sessualità e natura. È necessario evitare i compromessi che alternano tra sublimazioni compensative, disordini e deviazioni patologiche. La libertà del sacerdote nell’amore, che è esplicitazione di una vita celibataria, casta, povera e obbediente ad immagine del Redentore, è condizione teologica e profetica che non si può comprendere se non in funzione del Regno e di quella vita escatologica piena in cui tutte le relazioni saranno assunte e trasfigurate in Dio [cfr. Mt 19,12; Mc 12,25].

Anche nell’utilizzo del denaro e nell’esercizio del potere è possibile rintracciare un’espressione della sessualità umana che può rivelarsi equilibrata, matura e informata dalla grazia oppure dispotica, narcisistica e assoggettata ai desideri egoistici del mondo. Il modo di gestire e custodire i beni che ci sono stati affidati — dalla cura del creato al modo di lavorare all’interno del creato — comunica o meno l’incontro totalizzante con Dio che si ama e serve a partire da tutto ciò che c’è stato affidato in funzione del bene comune. Ostentare il successo e il potere, attraverso un uso disumano e strumentale delle ricchezze, è una costante che ritroviamo abbastanza diffusa nella storia dell’uomo, a volte si tratta di una gratificazione immediata, altre volte di un vero e proprio culto idolatrico verso le cose e verso il proprio io. Tra i discepoli di Gesù Cristo, però, non vige la logica del regno umano ma sovrasta incontrastato l’imperativo: «Fra voi non è così» [cfr. Mc 10,43]. Non dobbiamo essere così ingenui da pensare che la ricchezza e il potere costituiscano oggettivamente dei mali in sé — così come è avvenuto in alcuni movimenti pauperistici o in certe ideologie dell’Ottocento e del Novecento —, è necessario valutare con attenzione l’utilizzo che se ne fa. Il Vangelo non accusa mai il ricco in quanto tale, se non in riferimento a una non condivisione e a un uso solipsistico che dimentica i gemiti del povero [cfr. Lc 16,19-31], e gli stenti della vedova [cfr. Mc 12,41-44]. Così, mentre la ricchezza umana diviene funzionale all’onesto sostentamento e mantenimento, la ricchezza del Regno spalanca le porte del paradiso e assicura il possesso di Dio [cfr. Lc 12,16-21].

Ogni potere e autorità deriva da Dio ed è dono suo [cfr. Sir 33,23; Ger 1,10; Gv 19,10-11; Rm 13,1-2; Ap 2,28]. Questo concetto era piuttosto conosciuto nell’antichità tanto da avvalorare la tesi — che alcuni autori hanno sostenuto [cfr. S. Paolo, S. Agostino, De Civitate Dei, Jacques-Bénigne Bossuet] — secondo la quale era possibile costruire un vero e proprio principio giuridico che legittimasse i governanti a governare sugli uomini facendo le veci di Dio. Sia nel governo civile come in quello religioso l’obbedienza a colui che deteneva il potere era interpretata come obbedienza diretta a Dio. Questa tesi così formulata consta di due imprecisioni. La prima consiste nel non considerare il fatto che qualunque potere e autorità terrena non è immune da quella ferita del peccato originale che corrompe ogni potere e autorità in dispotismo e dittatura. La seconda imprecisione consiste nel tralasciare l’aspetto trinitario della questione considerando solamente la persona del Padre come detentore esclusivo dell’autorità e del potere escludendo la partecipazione del Figlio e dello Spirito Santo.

Solo facendosi obbedienti al Padre, così come lo è stato Cristo, è possibile trovare la strada sicura per evitare le corruzioni del potere e le deviazioni dell’autorità [cf. Mt 4,1-11]. Il sacerdote, partecipando dell’autorità di Cristo derivante dalla sacra ordinazione, è anch’esso ammesso al governo e all’esercizio di un potere che esprime un’autorità. Così come, dopo il battesimo, Cristo è condotto nel deserto dallo Spirito Santo per divenire messia di salvezza secondo lo Spirito del Padre e non secondo lo spirito del mondo, così il sacerdote nell’esercizio del potere e dell’autorità è chiamato ad imitare il Maestro che nel servire l’altro si è reso servo, culminando la sua diaconia con il sacrificio della vita a favore degli uomini [cfr. Mc 10,42-45] e rimettendo nell’orto degli ulivi qualsiasi potere nelle mani del Padre [cfr. Mt 26,39; 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42] dando compimento a quella kenosis che iniziò con l’incarnazione. L’autorità sacerdotale ripercorre la diaconia del Figlio, si alimenta della volontà del Padre e possiede l’unzione dello Spirito Santo per la santificazione dei fratelli e per la conferma della fede ricevuta con il battesimo.

III. UNA SOCIETÀ LIQUIDA, DEBOLE E IMPERFETTA

La società occidentale in cui viviamo, dove il cristiano è chiamato a compiere il suo pellegrinaggio terreno e dove manifesta la sua coraggiosa testimonianza di fede, assomiglia sempre più a un terribile Moloch che domanda l’appagamento di continui sacrifici e che si auto attribuisce il diritto di essere adorato come una divinità. Poco importa se poi tali sacrifici si pagano attraverso il prezzo di vite umane sconclusionate e di anime oramai frammentate e smarrite, perse nel non senso dell’esistenza. Una società strana, la nostra, che si compiace di essere narcisisticamente contemplata tanto da assomigliare a una terribile matrigna che pretende dai suoi figli molto di più di quanto riesce effettivamente a dare.

Una matrigna anaffettiva, perché di grembo sterile, che si adorna di parole così come farebbe con monili che sbrilluccicano di significati altisonanti come nel caso dell’amore, della tolleranza, della benevolenza, della comprensione e dei diritti. Tale visione fallimentare di mondo era stata già preannunziata da Cristo ai suoi discepoli nel Vangelo: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia» [cfr. Gv 15,18-19]. Cristo e i suoi discepoli non sono del mondo, pur vivendo la dimensione temporale del mondo ma non la sua essenza. Il segno efficace consiste nel fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne [cfr. Gv 1,14], la Parola divina si è resa umana, al contrario di quanto capita oggi in cui molte delle parole umane vengono divinizzate e assolutizzate. Tuttavia, questo Moloch societario apparentemente invincibile e divinizzato possiede già un termine stabilito, proprio per il semplice fatto che il “principe e dio di questo mondo” [cfr. Gv 12,31; 2Cor 4,4] è stato definitivamente sconfitto.

A questo punto del discorso è utile introdurre il tema dell’idolatria, questo ci servirà a comprendere alcune criticità societarie importanti che quotidianamente viviamo. Parlare di idolatria, nel tessuto sociale, non è per nulla secondario, anzi possiamo dire che tale atteggiamento si ripresenta ciclicamente e sistematicamente proprio quando diminuisce il senso del “Sacro” che include orizzonti molto più ampi e diversificati rispetto al semplice riferimento al divino. A questo proposito sarebbe interessante studiare la decadenza dei popoli proprio in relazione alla crisi e alla scomparsa del “Sacro” dalla vita dell’uomo. Per il momento è sufficiente solo accennarlo in attesa di un più puntuale e competente approfondimento futuro.

Chiariamo subito un fatto: l’idolatria, in realtà, è una delle tante maschere con cui l’ateismo si dissimula davanti alla società e al mondo. Parlare di idolatria e ateismo sembra un controsenso ma non lo è. Nella Bibbia, per esempio, si conosce bene il peccato di idolatria ma non quello di ateismo, come mai? La risposta è semplice: l’uomo antico così come quello biblico non è assolutamente un uomo ateo. È necessario partire della lapalissiana constatazione che nessun’uomo nasce naturalmente ateo, la scintilla della sua origine divina pungola l’uomo dalla sua nascita, fino alla sua morte e lo spinge alla ricerca del senso della propria esistenza e di una verità che lo trascende.

L’ateismo visibile, quello praticato di questi tempi, è la degenerazione dell’idolatria che dismette le vesti del sacro. L’ateismo è il frutto ingannevole che si è costituito all’interno di alcune epoche storiche e che attraverso la Rivoluzione Francese, l’Età dei Lumi, il pensiero Positivista si è andato sempre più concretizzando attraverso le filosofie dell’Ottocento e del Novecento assieme a ben determinati movimenti gnostici che hanno dichiarato guerra al Cristianesimo e in modo specifico al Cristianesimo Cattolico.

L’ateismo, paradossalmente, si nutre di quel modo di vivere dissociato che è ben visibile ai nostri giorni e che sempre più assume dei tratti patologici, illudendosi di condurre tutti verso un progresso illimitato. L’uomo moderno occidentale si trova ad annaspare in questo modello societario ― illudendosi spesso e volentieri di aver raggiunto traguardi eccelsi di civiltà e di umanizzazione ― un volto di una comunità umana che si delinea sempre più nitidamente come il volto di una societas imperfecta e che ha già iniziato a presentare un conto salatissimo.

Questa società imperfetta che si definisce e si fa conoscere proprio a partire dai suoi dogmatisti così intransigenti e dalle sue consapevolezze marcatamente fideistiche da rivelarsi spesso scriteriate. Lo sdoganamento del relativismo gnoseologico ed etico con cui leggere e interpretare la realtà che ci circonda, l’ottimismo diffuso di una certa tipologia di scienza che pretende di rispondere ai gemiti di senso più intimi del cuore dell’uomo, le rivoluzioni nell’ambito della tecnologia e della comunicazione, insieme alla presunzione di costituire un nuovo ordine mondiale che possa unificare ogni credo, conducono inesorabilmente al fallimento poiché di fatto si ripercorre in chiave moderna quel peccato antico che commisero i costruttori della Torre di Babele [cfr. Gn 11,1-9]. L’ateismo è così il distillato di una volontà idolatrica privata del senso del sacro che pretende di farsi un nome prescindendo dal proprio Creatore [cfr. Gn 11,4].

Questa panoramica sociale, così dolorosamente concreta ma purtuttavia reale, si può spiegare attraverso una frase del teologo domenicano Réginald Garrigou-Lagrange [1877-1964] che dice: «La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono invece tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori, i nemici della Chiesa assolvono i peccati» [cf. Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725]. Quale senso dare a queste parole del buon Réginald Garrigou-Lagrange in relazione a una società liquida e destabilizzata come la nostra? Quale filo conduttore unisce i tratti della debolezza, dell’imperfezione, dell’idolatria atea tanto da produrre una realtà apparentemente liberale ma segretamente intransigente e a tratti spietata e contraddittoria?

Il ragionamento del teologo domenicano aiuta a comprendere come questa società prima di essere nemica di Dio e della Chiesa è anzitutto nemica di sé stessa. Difatti, è più propensa ad intraprendere più facilmente la ricerca di una tolleranza che uniforma e appiattisce i propri simili che non una ricerca della verità che conduce verso differenti alterità, fino a raggiungere l’alterità trascendentale che rappresenta l’autentico nucleo della fede e del rapporto con Dio. Oggi, se avete fatto caso al modo di condurre alcuni dibattiti e discussioni, il modo più sicuro per mettere l’avversario alle corde e quindi farlo tacere, consiste essenzialmente nel tacciarlo di intolleranza. L’accusa di mancata tolleranza è quel capo d’imputazione che non ammette verità oggettiva, che non tiene conto del vissuto personale, della storia e della tradizione dei popoli. L’accusa di intolleranza si declina attraverso la censura, il divieto su realtà che non possono essere dette, conosciute o semplicemente testimoniate. Oggi, è possibile essere considerati intolleranti in molti modi ed essere provocati su diversi ambiti quali ad esempio la fede e la religione, la razza e l’etnia, la sessualità e la genitalità, i costumi e le tradizioni, la politica e il mondo civile e tanto altro ancora.

Nel gioco delle contrapposizioni, escamotage che ho già avuto modo di analizzare in questo articolo, professare la fede mi rende ad esempio una persona intollerante e violenta. Affermare la legge morale naturale sul matrimonio mi dona una visibilità da fanatico integralista medievale, coltivare e potenziare le radici tradizioni e culturali di un popolo mi rende un pericoloso nemico della globalizzazione e dell’inculturazione. Coloro che noi oggi chiamiamo con l’appellativo di intolleranti sono in realtà dei divergenti, eroi che non si allineano al pensiero unico e perciò necessitano di essere visti come nemici da neutralizzare. Se ci fate caso i migliori esponenti del pensiero liberale, tollerante e garantista peccano innumerevoli volte di atteggiamenti illiberali, violenti e intransigenti degni del miglior regime dispotico dittatoriale.

Il “tollerante” moderno, invece, non si sacrifica per le proprie idee come farebbe l’idealista, anzi non si fa scrupoli a immolare chi ha idee contrarie alle sue, così come farebbe un dittatore nei riguardi dei suoi oppositori. Quanti martiri della tolleranza e dei diritti oggi esistono? Ma forse i martiri più numerosi sono coloro che vengono additati quali inconsapevoli seminatori d’odio proprio perché divergenti, portatori di un odio che non si vede perché presente solo nello sguardo del tollerante di turno che ha interesse a usare l’odio come strumento ideologico di controllo delle masse. La tolleranza moderna non rivendica perciò solo i diritti ma anche la dispersione dell’odio. Da meno di un decennio, la tolleranza ha contratto un felice matrimonio con il termine di derivazione greca fobìa. Attraverso questo termine vengono generati i migliori cavalli di battaglia della tollerante societas imperfecta quali l’omofobia, l’islamofobia, la xenofobia e altri ancora. Cito questi tre esempi solo perché sono quelli più praticati dai mezzi di comunicazione sociale, televisione, radio e giornali … Ci rendiamo conto che tutto questa impalcatura non ha il minimo senso è che non è possibile portare avanti un discorso di tolleranza che sia legato esclusivamente a un diritto deprivato dei doveri e di un timore che sia antidoto all’odio? Invocare la tolleranza facendo leva sui diritti ed escludendo i doveri costituisce una visione di mondo che si regge sull’egocentrismo, in cui tutto diventa lecito basta che assecondi i diritti personali veri o presunti.

D’altro canto, chiamare in causa la tolleranza davanti all’odio facendo leva sul sentimento del timore dell’altro è da stolti, in quanto questo significherebbe dire che basta generare un allarme per scongiurare un male. In questo imponente zibaldone è difficile riuscire a trovare il bandolo della matassa tanto da ricondurre tutto a un’origine certa e sicura. Il prospetto di una cultura sociale intransigente che mentre condanna santifica e santificando condanna appare più simile a un paradosso che rammenta il dio romano Giano il quale, avendo una “doppia faccia”, è l’immagine perfetta del compromesso, del trasformismo, dell’unione degli opposti.

Oggi la maschera di Giano trionfa sui volti del mondo che percorrono le strade delle nostre città e paesi, delle nostre piazze e centri commerciali, dei palazzi del potere e delle chiese. Un Giano senza età che si veste in abiti maschili e femminili o all’occorrenza neutri, che indossa il velo, la talare, il saio, la sottana filettata di viola o di rosso ma che è sempre lui, il serpente antico che non si stanca di muovere guerra con l’empia pretesa di dimostrare che Dio si è sbagliato nel dare fiducia all’uomo.

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Sanluri, 27 novembre 2023

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Nella signoria di Cristo Re dell’Universo per essere piccoli re

Omiletica dei Padri de  L’Isola di Patmos

NELLA SIGNORIA DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO PER ESSERE PICCOLI RE

Scriveva Oscar Wilde: «L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi»

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari lettori dell’Isola di Patmos,

si conclude l’Anno Liturgico, è il nostro ultimo dell’anno cattolico. L’anno liturgico si compie con una grande festa, quella di Gesù Cristo che è Re dell’Universo.

Oggi la monarchia non è più una forma di governo tipicamente adottata in tutto il mondo, dove invece si preferisce la repubblica. Per questo che la figura del “re” ci sfugge, se non forse per la recente incoronazione di Re Carlo d’Inghilterra. Gesù è Re dell’intero universo e delle nostre vite. Ma non come il Re d’Inghilterra, di Svezia o del Belgio. La sua monarchia non si esercita in un governo politico.  È una monarchia d’amore che esprime il suo trono della gloria, la sua esposizione di massima visibilità nella croce; oggi questo trono di gloria si concretizza per noi, nella compassione di Gesù. Lo leggiamo all’inizio del brano del Vangelo di oggi:

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria […] siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».

Qui l’immagine del re è accostata a quella del pastore. In effetti, il pastore, ha un ruolo anch’esso di governo all’interno del mondo della fattoria. Era un mondo e una cultura vicini all’immaginario in cui Gesù parla. Ecco allora che quelli alla destra sono i benedetti del Padre. Quelli alla sinistra no. In effetti, i benedetti del Padre, sono coloro che hanno accolto i poveri e i bisognosi nelle diverse situazioni di necessità che Gesù esprime. Mentre coloro che saranno nel fuoco eterno, non sono stati attenti e compassionevoli di queste povertà materiali e spirituali. Così Gesù ci mostra e ci chiede di imitarlo come Re nell’Amore concreto, nella carità operante, che Lui ha voluto fare nei confronti di tutte le persone che ha incontrato: Nicodemo, il cieco di Gerico, l’indemoniato di Gerasa e gli altri incontri. Tutte queste grandi opere il Signore le ha sempre compiute con un atto di compassione e tenerezza, con un cuore veramente umano e veramente divino. Un cuore piccolo cristologico per un grande amore.

Da questo viene per noi il fondamento delle opere di misericordia materiali e corporali. Il Signore, dunque, ci chiede di seguire Lui, il nostro Re, nella vita cattolica proprio perché operiamo con un amore concreto e attento al prossimo cercando di guardalo con tenerezza. Cercando di guardare il prossimo come se fosse Gesù stesso che in quanto piccolo ci chiede questo servizio. Diventiamo piccoli re in Gesù piccolo re dell’Universo.

Al contrario invece troviamo coloro che andranno nel fuoco eterno. Perché sono sfuggiti completamente alla logica dell’amore e della compassione. Dunque, i capri alla sinistra sono le persone chiuse nell’egoismo, nella dimensione dell’attenzione unica dei propri bisogni e delle proprie necessità. Il rischio che si corre quando si dimentica la pratica delle opere di misericordia è di non riconoscere più non solo l’altro, ma di non riconoscere la necessità di Dio nella vita. Ecco allora che i malvagi nel fuoco eterno sono coloro che non riconosco la centralità della Signoria di Dio nella vita, del Re dei re, senza il quale non possiamo fare nulla. La tensione all’egoismo è dunque una sostituzione, un incoronarsi da soli re pretendendo che l’Universo e Dio si prostrino a noi.

Scriveva Oscar Wilde: «L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi».

Chiediamo al Signore di essere accolti al suo trono e alla sua monarchia d’amore, ed essere già da adesso testimoni che l’Amore autentico esiste, e si vive nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Così sia!

Santa Maria Novella in Firenze, 25 novembre 2023

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Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo: una regalità eretta sulla carità

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO: UNA REGALITÀ ERETTA SULLA CARITÀ  

Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione

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In un breve ma celebre apologo dal titolo Il Natale di Martin lo scrittore russo Lev Tolstòj1 raccontò di uomo, un ciabattino di nome Martin, che aveva misteriosamente incontrato il Signore nelle persone bisognose che durante la giornata erano passate davanti la sua bottega e citò espressamente la pagina del Vangelo di questa domenica.

San Martino dona parte del mantello al povero (dipinto, elemento d’insieme) di Bartolomeo Vivarini (sec. XV)

La letteratura non è stata l’unica arte che questa mirabile pagina di Matteo ha ispirato, basti pensare agli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina. Leggiamola:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».

Con il brano di oggi finisce non solo, per quanto riguarda la liturgia, l’anno liturgico in corso, che lascia il passo all’Avvento, ma anche l’insegnamento di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Subito dopo la nostra pericope infatti l’evangelista da inizio al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, con queste parole: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli» (Mt 26,1). Gesù insegnerà d’ora in poi in un altro modo, soprattutto con i gesti e l’obbedienza al Padre nella prova suprema della croce. Per questa ragione è rivestita di particolare importanza la pericope di oggi, l’ultimo discorso fatto da Gesù in Matteo, senza contare, l’invito del Risorto a fare discepoli e a battezzare in 28,18-19, e le poche ma importanti parole dette durante la passione, a partire dall’ultima cena.

Solo en passant occorre anche dire che nonostante una prassi interpretativa consolidata che prende l’avvio dai Padri della Chiesa e che porta a definire la scena come il giudizio “universale”, a partire dal XVIII secolo vengono sottolineati i tanti e buoni indizi nel testo, non solo di tipo lessicale, per ritenere che anziché di un giudizio per tutta l’umanità, il testo implichi, al contrario, un giudizio solo per i pagani, ma non è possibile in questo contesto esplicitare questa interpretazione che richiederebbe troppo spazio.

La scena del giudizio è esclusivamente matteana, ed è costruita in modo magistrale, con l’uso di vari espedienti quali ad esempio la ripetizione, utili per la memorizzazione. Molti sono i confronti che possiamo fare con il linguaggio e la simbologia di stampo apocalittico correnti al tempo di Gesù che appaiono di volta in volta nella letteratura canonica ― Daniele e Apocalisse ― ma anche in quella apocrifa. Il dato originale, rivoluzionario, invece, la novità che apporta il discorso di Gesù è che lo stesso giudice, il Re, si consideri oggetto di tali azioni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», oppure, «non mi avete dato da mangiare». Questo crea un effetto di sorpresa sia in quelli che gli hanno usato misericordia sia in quelli che gliel’hanno negata. Mentre nell’Antico Testamento il giorno del Signore è decretato da Dio stesso ed è quindi Lui l’unico che giudica, nella logica del Nuovo Testamento è Gesù, il Messia, che può intervenire in questo giudizio. Di conseguenza Dio compirà il giudizio, ma questo in nuce avviene già nel modo in cui ci siamo rapportati al suo Figlio in questo mondo, al Gesù presente nei poveri che hanno avuto fame e sete e che sono stati assistiti o meno da noi. Ecco perché alla fine dei tempi, sarà Cristo, l’Agnello, a prendere in mano il libro della nostra vita, quello che nemmeno noi siamo capaci di leggere e comprendere fino in fondo, e ad aprirne i sigilli (cfr. Ap 5).

Colpisce poi che la grandiosa visione che abbraccia l’intera umanità si accompagni allo sguardo posato su ciascuno e, in particolare, su quelle persone che normalmente sono le più invisibili: poveri, malati, carcerati, affamati, assetati, stranieri, ignudi. Non a caso il nostro testo li chiama «minimi» (vv. 40.45). La carità verso il bisognoso, il gesto di condivisione che è così semplice, umano, quotidiano, alla portata di tutti, credenti e non credenti, diviene ciò su cui si esercita il giudizio finale. L’esempio di Martino di Tours, secondo la narrazione agiografica di Sulpicio Severo2, è emblematico. Dopo aver diviso con la spada il suo mantello per coprire la nudità di un povero mendicante alle porte di Amiens, in un rigido inverno, Martino ebbe la visione in sogno di Cristo che gli diceva: «Martino, tu mi hai rivestito con il tuo mantello». Cristo è identificato con il povero, come nella nostra pagina evangelica.

Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione3. Gli altri, soprattutto se bisognosi, non costituiranno per me l’inferno quanto una benedizione: «Venite benedetti perché…». Due celebri pieces teatrali, una di Sartre4 con all’interno la famosa espressione: «L’inferno sono gli altri»; l’altra di Pirandello, Vestire gli ignudi5, che nel titolo fa diretto riferimento al nostro brano evangelico, ci hanno raccontano drammaticamente che non escludendo l’Altro dal proprio mondo il problema sarebbe facilmente risolvibile e l’inferno cesserebbe di esistere. Quegli autori hanno inteso, al contrario, constatare l’impossibilità di un’esistenza che escluda l’Altro. In altri termini, l’enfer, c’est les autres, perché dall’alterità non si può uscire, ci si rende conto che l’Altro detiene il segreto del proprio essere e, nel contempo, che senza l’Altro questo essere non sarebbe possibile.

Così il Signore Gesù, anche nell’ultimo suo discorso, ci ha sorpreso ancora una volta dando un nuovo significato alle ‘opere di misericordia’, già note nel giudaismo coevo, dove erano, però, intese come una sorta di imitatio Dei, nel senso di un fare agli altri ciò che Dio stesso ha fatto per l’uomo. Non prevedevano invece che il giudice eterno si celasse dietro esistenze umilissime, disagiate e sconfitte. Nell’altro, nel fratello, c’è Gesù il quale aveva detto ai suoi discepoli: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato… Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Mentre ora estende questa visione all’intera umanità – panta ta ethne, πάντα τὰ ἔθνη del v.22: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Perché come recita un antico inno adoperato nella liturgia del Giovedì Santo: «Ubi caritas et amor, Deus ibi est».

Buona Domenica a tutti!

Dall’Eremo, 25 novembre 2023

 

NOTE

[1] La rielaborazione di Tolstòj apparve per la prima volta anonima sulla rivista “Russkij rabocij” (L’operaio russo), nr. 1 del 1884, col titolo “Djadja Martyn” (Zio Martyn). Nel 1886 il racconto, col titolo “Dove c’è amore c’è Dio”, fu inserito in un volume edito a Mosca da Posrednik assieme ad altri otto, tutti con la firma di Lev Tolstòj

[2] Severo Sulpicio,Vita di Martino, EDB, 2003

[3] Michel de Certeaux, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, 1983

[4] J.P. Sartre, Porta chiusa, Bompiani, Milano 2013

[5] Pirandello L., Maschere nude. Vol. 5: Enrico IV – La signora Morli, una e due – Vestire gli ignudi, Mondadori, 2010

 

 

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Dovremmo riflettere maggiormente sul peccato del perdere tempo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DOVREMMO RIFLETTERE MAGGIORMENTE SUL PECCATO DEL PERDERE TEMPO

Comunque si voglia intenderli, poiché ogni racconto parabolico è aperto a una pluralità di interpretazioni, i talenti rimarranno un dono gratuito che non si tiene per sé, né si nasconde, ma va fatto moltiplicare. Rivelano che Dio, più che un padrone si dimostra Padre verso noi figli e fa nel corso del tempo molte di queste grazie a ognuno di noi e alle nostre comunità.

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Un dono può esser offerto con mille motivazioni, anche non nobili a volte. Ma ha dalla sua una caratteristica inconfondibile: rivela l’identità di chi offre e di chi lo riceve. Il Vangelo di questa Domenica presenta un Donatore molto speciale, il quale non elargisce un solo singolo dono, bensì ogni suo bene. Leggiamo:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». (Mt 25,14-30).

Il brano evangelico di questa domenica aggiunge una specificazione al significato della vigilanza che già era stato presentato nella parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13). Lì vigilare significava essere previdenti, essere pronti, preparati, dotarsi del necessario mettendo in conto una lunga attesa. Ora, nella parabola dei talenti, la vigilanza viene specificata come attenzione e responsabilità nel quotidiano e declinata come fedeltà nelle piccole cose («sei stato fedele nel poco»: Mt 25,21.23).

Innanzitutto ricordiamo quale funzione abbia la parabola. Tale forma comunicativa prevede spesso l’uso di un linguaggio iperbolico, un’ambientazione paradossale, con volute esagerazioni che possono anche arrivare a scandalizzare per la violenza che vi è implicata. Ci colpisce, qui, la punizione del servo malvagio. Ma sorprende anche il finale che, come spesso accade nei racconti fittizi parabolici, presenta un vero e proprio colpo di scena: il talento viene tolto a chi ne ha solo uno e dato a chi già ne ha molti. Nel lettore sorge la domanda: che padrone è colui che si permette di umiliare in tal modo un suo servo, che in fondo ha agito prudentemente?

Si diceva che la vigilanza non riguarda solo l’attesa escatologica ma investe in pieno il rapporto con il quotidiano, con le sue realtà di ogni giorno. La parabola di Matteo, che ha un parallelo un po’ differente e più complesso con Luca 19,11-27, è certamente inserita in un contesto escatologico ― il v.30 la situa nell’orizzonte del giudizio finale: «Il servo inutile gettatelo nelle tenebre, là sarà pianto e stridor di denti» ― ma questo non fa che ribadire che tale giudizio finale lo si prepara qui e ora, nell’oggi della storia, cosa che si mostrerà in tutta la sua evidenza nella parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46) domenica prossima. Là apparirà chiaramente l’autorità escatologica dei piccoli e dei poveri. Il giudizio finale si baserà sulle azioni di carità e di giustizia compiute in loro favore oppure omesse. Il quotidiano si rivela così come il luogo escatologico per eccellenza, perché è il tempo che ci è dato. Così la parabola dopo la ripartizione dei talenti[1] in modo personalizzato, commisurata con le capacità dei riceventi, si dispiega fra il «subito» (v.15) di coloro che li fanno fruttare e il dopo «molto tempo» (v.19) del ritorno del padrone. Del resto non appare importante, almeno in questo racconto, la quantità dei doni ricevuti, poiché i due servi operosi, nonostante abbiano ricevuto talenti in misura diversa, percepiranno però la stessa ricompensa. Importante piuttosto è il tempo la cui durata fa emergere la verità delle persone, dei loro comportamenti, della loro tenuta e della loro responsabilità. Il trascorrere del tempo è rivelatore; infatti i primi due servi hanno saputo cogliere subito che esso era il primo grande dono di cui potevano usufruire e non lo sprecarono gettandolo via.

Dovremmo riflettere maggiormente sul peccato del perdere tempo. Se il terzo servo avesse riflettuto su questo ne avrebbe approfittato, perché alla fine la ricompensa sarebbe stata la medesima dei primi due servi che avevano ricevuto di più. Ma come si diceva più sopra il dono è, al pari del tempo impiegato, rivelativo dei personaggi di questa parabola. Così il donatore, anche se Gesù lo cela inizialmente dietro un anonimo uomo (v.14), è chiaramente Dio che infatti più avanti verrà chiamato ‘Signore’ (Kyrie,  Κύριε dei v.20.22.24). Solo Lui è capace di fare dono di ogni cosa sua [2], in maniera preveniente e inaspettata soprattutto verso dei destinatari che per quanto intraprendenti sono pur sempre dei servi. Alcuni padri della chiesa hanno voluto vedere dietro al dono dei talenti quello della Parola di Dio, in ricordo della parabola del buon seme che porta frutto a secondo del terreno che trova. Ireneo di Lione, morto nel 202 d.C., vi vide il dono della vita, accordato da Dio agli uomini. Comunque si voglia intenderli, poiché ogni racconto parabolico è aperto a una pluralità di interpretazioni, i talenti rimarranno un dono gratuito che non si tiene per sé, né si nasconde, ma va fatto moltiplicare. Rivelano che Dio, più che un padrone si dimostra Padre verso noi figli e fa nel corso del tempo molte di queste grazie a ognuno di noi e alle nostre comunità. La capacità di riconoscerle e di farle fruttare è la qualità dei servi non pavidi che sanno correre anche dei rischi.

Il punto della parabola però non è di natura economica, cioè nella capacità di trarre profitti dall’investimento di un capitale, perché la ricompensa, in tale senso, avrebbe dovuta essere commisurata al merito e alla grandezza del patrimonio accumulato. Esso invece è incentrato sull’agire istantaneo e sul non rimanere inerti nel tempo che viene concesso. Tenendo conto che il padrone-Signore tornerà e chiederà ragione («ponit rationem» traduce la Vulgata) di come avranno agito i servi. Essi scopriranno che ai suoi occhi ciò che contava era la bontà e la fedeltà nell’agire e quel che sembrava tanto in verità era molto poco rispetto alla ricompensa: «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».

La parabola diviene così un invito ai discepoli e alle comunità a non rimanere immobili e incantati davanti alle difficoltà dei tempi che corrono, pronti invece ad agire in ogni momento, consapevoli dei doni ricevuti e che questo che ci è dato è il tempo propizio. Le sfide che esso pone e le mutate condizioni culturali non dovrebbero impaurirci o farci rimanere contenti solo di quello che già si fa oppure inebriati da un attivismo solo fine a se stesso. La parabola chiede ai cristiani consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività, tutte realtà condensate nelle parole: essere buoni e fedeli.

Infine ci chiedevamo prima perché il padrone, protagonista della parabola, trattò così male il terzo servo. Ciò che colpisce in questa vicenda è proprio l’idea che il servo si era fatta di lui. Mentre i primi due servi non hanno avuto bisogno di riflettere su questo, quasi fosse automatico per loro che se il padrone ti da un dono esso vada subito fatto fruttare, l’altro servo invece elabora una sua idea, potremmo dire una sua teologia, che ne blocca l’azione, perché a dominarla è l’idea di paura. Intrappolato in questa immagine che egli ha del padrone, quella di un uomo duro e pretenzioso, pur avendo nella sua disponibilità il dono grande di un talento non riesce a fidarsi di lui. È questo sarà il suo vero dramma.

Il suo non agire verrà giudicato in modo parallelo al buono e fedele, però come malvagio e pigro. Se avesse almeno aperto un conto di deposito ne avrebbe riscosso gli interessi attivi, ma preferì seppellire il suo dono e per questo, quando non ci sarà più tempo per agire, al momento del giudizio, verrà consegnato al pianto e allo stridere dei denti, un’espressione biblica che indica il fallimento della propria vita[3].

La fede che opera è importante nel vocabolario del primo Vangelo. Gesù parla della fede di coloro che credono in lui per poter essere guariti, quella del centurione (8,10), del paralitico (9,2), della donna emorroissa (9,22), dei due ciechi (9,29), della Cananea (15,28), e incita i suoi, mai criticati perché hanno «poca fede», ad averne di più (cfr. 6,30).

La nostra parabola potrebbe dunque voler dire qualcosa sul credere o non credere in Dio nel tempo intermedio che separa dal giudizio. Il terzo servo, malvagio, non ha più fede, l’ha persa col tempo: si è dimenticato che quanto gli era stato affidato doveva essere investito perché portasse frutto per il padrone, ma anche a suo favore: è divenuto perciò inutile (v.30). Che la parabola tratti del dono della fede, si può indirettamente evincere anche da un altro testo del Nuovo Testamento, dove San Paolo dice che questo dono è misteriosamente personalizzato, proprio come nella parabola che racconta Gesù:

«Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12,3).

Per concludere potremmo chiederci: Quale visione abbiamo di Dio? Quella vendicativa, esigente e dura che incute paura o quella liberante, positiva che ci fa agire nella fiducia e nel non timore, come l’ha vissuta e ci ha insegnato Gesù?

Dall’Eremo, 19 novembre 2023

 

NOTE

1 Il talento, che significava anche «ciò che è pesato, era un’unità di peso di circa 30-40 kg. corrispondente a seimila denari. Poiché un denaro, secondo quanto Matteo stesso spiega in 20,2 (Matteo è molto preciso nell’uso delle monete, e nel suo vangelo ne sono elencate diversi tipi), è il corrispettivo della paga per un giorno di lavoro, si intende qui una somma ingente data in gestione ai servi

2 Nella parabola dei vignaioli omicidi Egli non si perita di mandare anche suo Figlio (Mt 21,37)

3 «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,47-50).

 

 

 

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Non gettiamo via il bambino con l’acqua sporca: l’istituto del padrino nei Sacramenti del Battesimo e della Confermazione

 NON GETTIAMO VIA IL BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA: L’ISTITUTO DEL PADRINO NEI SACRAMENTI DEL BATTESIMO E DELLA CONFERMAZIONE

Vista la situazione attuale, ritengo che nella prassi pastorale, varrebbe la pena di compiere ulteriori sforzi per ridare dignità e valore alla figura del padrino, tenuto conto della sua funzione pedagogica ma, ancor prima, della connotazione tipicamente ecclesiale della sua presenza.

– Teologia e diritto canonico –

AutoreTeodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’istituzione dei padrini risale alla Chiesa primitiva, quando venne imposto il dovere di battezzare i bambini, anche se, presumibilmente, all’inizio i bambini venivano presentati direttamente dai genitori. Tertulliano fa riferimento agli sponsores o garanti, ma i termini usati in epoca antica sono diversi e molto evocativi: susceptores, gestantes, fideiussores, protestantes che assistono al battesimo dei bambini (cfr. De Baptismo, 18, 11, in PL I, 1221). L’esigenza dei padrini era forse correlata con il battesimo concepito come nuova nascita, che perciò esigeva nuovi padri.

In continuità con questa linea di riflessione, più tardi San Tommaso ricorderà che la rigenerazione spirituale operata dal battesimo assomiglia a quella carnale e, come in questa il bambino ha bisogno di una nutrice e di un pedagogo, così in quella spirituale c’è bisogno di qualcuno che lo istruisca nella fede e nella vita cristiana (Summa Th. III, q. 67, a. 7). L’istituto, o ministero del padrino, appare certamente in rapporto con il catecumenato degli adulti. Tenuto conto della situazione in cui si trovano i cristiani durante la persecuzione da parte dell’impero romano, onde evitare che nelle comunità penetrasse qualche intruso, si esigeva che il candidato al battesimo fosse presentato da qualche fedele conosciuto, il quale garantisse la serietà delle sue intenzioni e lo accompagnasse durante il catecumenato e il conferimento del Sacramento, come pure ne curasse in seguito la fedeltà all’impegno preso.

Venendo ai nostri giorni, spesso ormai i sacerdoti in cura d’anime si trovano in difficoltà quando debbono affrontare la questione della scelta dei padrini. La casistica è molto varia. Vi sono genitori che per non far torto a nessun parente vorrebbero fare a meno dei padrini in occasione del Battesimo o della Cresima dei figli. Talvolta ci si trova invece di fronte alla proposta di padrini che sono in una situazione “irregolare” e che quindi non possono essere ammessi. Inoltre, con l’intenso fenomeno migratorio che caratterizza la nostra epoca, capita anche di vedersi formulata la richiesta di accettare come padrino o madrina fedeli appartenenti a Chiese o a Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Chiesa Cattolica, con l’eccezione delle Chiese ortodosse (cfr. can. 685 § 3 del Codice orientale, Cceo et alia).

Tutto ciò conduce a porsi qualche domanda: sono proprio necessari i padrini e ha senso continuare a richiederne la presenza, visto che il loro ufficio sovente è divenuto una “menzogna liturgica” come l’ha chiamata qualcuno? Qual è la loro funzione? Quali sono i requisiti per essere ammessi a quest’incarico?

I padrini sono necessari? Cerchiamo di dare una risposta a questo interrogativo attraverso la normativa del Codice di diritto canonico, che tratta del padrino (o madrina) del battesimo ai cann. 872-874 e del padrino (o madrina) della cresima ai cann. 892-893. Sia il can. 872 che il can. 892, in riferimento all’obbligo di dare al battezzando o al cresimando un padrino, usano la stessa espressione: quantum fieri potest (per quanto è possibile): la norma non è tassativa o precettiva, come del resto non lo era nel Codice precedente del 1917, ma non deve essere neppure ritenuta meramente facoltativa.

Per quanto riguarda il Battesimo, le ragioni della presenza sono appropriatamente indicate in un breve ma denso passaggio dell’Introduzione generale del Rito del battesimo dei bambini (cfr. 8) e del Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti (cfr. 8):

«Il padrino amplia in senso spirituale la famiglia del battezzando e rappresenta la Chiesa nel suo compito di madre».

La sua funzione, quindi, non è soltanto liturgica ― né tanto meno può ridursi a una presenza meramente coreografica ― ma anche pedagogica, come ricorda il can. 872 §1, che, oltre al compito di assistere il battezzando adulto e presentare il battezzando infante, richiama alla cooperazione affinché il figlioccio conduca una vita cristiana conforme al Sacramento e adempia fedelmente gli obblighi ad esso inerenti.

Un’efficace descrizione del compito del padrino, nel caso del battesimo di un adulto, ma che ci suggerisce criteri di giudizio applicabili per analogia anche ai padrini dei neonati, è indicata al n. 43 dei Praenotanda al Rito della Iniziazione Cristiana degli Adulti:

«Il padrino, scelto dal catecumeno per il suo esempio, per le sue doti e la sua amicizia, delegato dalla comunità cristiana locale ed approvato dal sacerdote, accompagna il candidato nel giorno dell’elezione, nella celebrazione dei sacramenti e nella mistagogia. È suo compito mostrare con amichevole familiarità al catecumeno la pratica del Vangelo nella vita individuale e sociale, soccorrerlo nei dubbi e nelle ansietà, rendergli testimonianza e prendersi cura dello sviluppo della sua vita battesimale. Scelto già prima della “elezione”, quando rende testimonianza del catecumeno davanti alla comunità; il suo ufficio conserva tutta la sua importanza anche quando il neofita, ricevuti i Sacramenti, ha ancora bisogno di aiuto e di sostegno per rimanere fedele alle promesse del Battesimo».

Anche per la Cresima, a esigere la presenza del padrino non è la celebrazione in quanto tale, ma la formazione cristiana del cresimando, come ricorda il can. 892, che si riferisce alla duplice funzione di provvedere che il confermato si comporti come vero testimone di Cristo e adempia fedelmente gli obblighi inerenti allo stesso Sacramento (can. 892). Non quindi una mera comparsa ornamentale accanto al cresimando al momento della celebrazione, ma un ministero che si fonda nel Sacramento e che chiede anche al padrino continuità di presenza spirituale, come consigliere e guida chiamato alla responsabilità educativa nei confronti di un fratello, il quale deve esprimere nella fede e nelle opere la maturità ricevuta in dono e da acquisire esistenzialmente.

L’indicazione del Codice si orienta quindi non per scelte minimali, ma per una pastorale da rinnovare. Al di fuori dei casi straordinari il padrino della Cresima deve esserci (si veda, in proposito, una risposta della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti (cfr. Notitiae 11 [1975], pp. 61-62).

I requisiti. Il can. 874 si incarica di presentare i requisiti necessari per essere ammesso all’ufficio di padrino/madrina sia di battesimo che di Cresima (cfr. can. 893 § 1). Limitiamoci qui a focalizzare soltanto alcuni punti, a partire dalla legislazione pregressa:

1) per entrambi i Sacramenti, il padrino deve aver ricevuto tutti e tre i Sacramenti dell’iniziazione (a significare l’intima unione tra di essi), non soltanto quello per il quale funge da padrino;

2) il can. 893§ 2 ricorda l’opportunità (expedit) che il padrino della cresima sia il medesimo del battesimo (per sottolineare il profondo nesso tra i due Sacramenti), mentre in precedenza ciò era proibito;

3) non è più prescritto il padrino dello stesso sesso del battezzando/cresimando;

4) non esiste più la proibizione ai chierici e ai religiosi/e di fungere da padrini e madrine, senza espressa licenza dell’ordinario o del superiore almeno locale. Tuttavia gli istituti religiosi potrebbero stabilire norme proprie.

5) Per quanto concerne l’età (16 anni), con legge particolare il vescovo ne può fissare una diversa, ma anche il parroco o il ministro, per giusta causa, possono introdurre l’eccezione, tenendo conto di un criterio piuttosto ampio ma che mai dovrebbe oscurare la ragione ecclesiologica motivante la presenza del padrino.

6) Il padrino sia un fedele cattolico. Il motivo di questa apparente “restrizione ecumenica” è da ricercare non solo nel pericolo dell’indifferentismo, da cui ha messo in guardia lo stesso Concilio (cfr. Ad Gentes 15 e Orientalium Ecclesiarum 26), ma ancor più nel valore ecclesiale del munus di padrino: ex natura rei non si può rappresentare una comunità ecclesiale con cui non si sia in piena comunione, né tanto meno esprimerne la fede. In questa prospettiva, la disposizione codiciale risulta coerente con la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, e quindi è anche profondamente ecumenica. Stando così le cose, sono esclusi dall’incarico di padrini gli appartenenti a comunità ecclesiali separate dalla Chiesa Cattolica, i quali possono fungere da testimoni insieme a un padrino cattolico.

Per quanto riguarda invece gli “ortodossi”, uniti a noi da strettissimi vincoli (UR 15) il can. 685 § 3 del Codice orientale (Cceo) ammette che un loro fedele possa assolvere l’incarico di padrino, ma sempre assieme a un padrino cattolico. Nel battesimo di un cattolico, in forza della stretta comunione esistente tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, è consentito quindi, per un valido motivo, ammettere un fedele orientale con il ruolo di padrino congiuntamente a un padrino cattolico (o una madrina), a condizione che sia riconosciuta l’idoneità del padrino. Tuttavia l’educazione cristiana competerà in primo luogo al padrino cattolico, in quanto rappresenta la comunità cristiana ed è garante della fede e del desiderio di comunione ecclesiale del battezzato e/o dei suoi genitori (cfr. Vademecum per la Pastorale delle Parrocchie Cattoliche Verso gli Orientali non Cattolici, Cei, n. 16).

Anche gli altri requisiti indicati dal can. 874 § 1, 3° sono assai qualificanti per definire il profilo del padrino. Doverosamente rispettati, incidono profondamente sia sulla designazione della persona, sia sul modo di intendere l’incarico.

Spetta alla legislazione particolare determinare che cosa significhi “condurre una vita conforme alla fede”: ambienti e situazioni diverse comportano determinazioni diverse. La casistica è quanto mai ampia: si va da tutto il ventaglio di possibilità relative a chi si trova in situazione matrimoniale irregolare, a chi fa professione di ateismo e agnosticismo; da chi è dedito ad arti magiche a chi è notoriamente membro di una setta, di un’associazione che trama contro la Chiesa Cattolica (cfr. can. 1374: così ad esempio la Massoneria), o risulta appartenere a qualche gruppo criminale (come la Mafia, la N’drangheta, la Camorra o altri gruppi criminali di stampo mafioso).

Infine, contro la prassi di sostituire i padrini con i genitori, priva di fondamento e giustificazione, si ricorda (can 874, § 1,5) che né padre né madre possono fungere da padrini, poiché sarebbe assurdo pensare ai genitori come aiutanti di sé stessi in qualità di padrini dei loro figli. A proposito del numero, il can. 873 afferma che è sufficiente un solo padrino, mentre nel caso siano due, devono essere di sesso diverso. Il can. 892, che tratta del padrino della confermazione, prescrive invece un solo padrino o madrina.

Il ruolo del testimone: non si può dimenticare che tra i compiti del padrino vi è anche quello di provare l’avvenuta celebrazione del Battesimo o della Cresima. A tale funzione fa riferimento il can. 875: esso introduce la figura di testimone del battesimo che, a differenza di quella del padrino, non è sottoposta a nessuna condizione e svolge un ruolo simile a quello dei testimoni del matrimonio (cfr. can. 1108 §2) sia pure senza essere, come in questo caso, ad validitatem. Al fine di ottenere un consenso matrimoniale valido, ad validitatem occorre la presenza concomitante di due testimoni, l’assistente come teste qualificato e il valido consenso dei nubendi. Nel caso del Battesimo o della Cresima il testimone ha il compito solo di attestare l’avvenuto conferimento, dunque non occorre per la validità del Sacramento (cfr. cann. 875-877). Di conseguenza la figura del testimone non è sottoposta a nessuna condizione. L’unico requisito richiesto è che la persona scelta come testimone sia fornito di uso di ragione e che sia capace di testimoniare.

Viene così offerta la possibilità di far fronte ad alcune situazioni particolari in cui la persona scelta non potrebbe altrimenti ricoprire l’incarico di padrino: così ad esempio nel caso di un fedele appartenente a una Comunità ecclesiale protestante (cfr. can. 874 §2), oppure sia convivente, divorziato risposato o in altra situazione matrimoniale irregolare, ovvero si dichiari agnostico o ateo, o abbia formalmente e pubblicamente abbandonato la fede cattolica tramite il cosiddetto “sbattezzo”. Trattandosi di una soluzione che potenzialmente può generare ambiguità, malintesi e interpretazioni fuorvianti, essa dovrà essere adottata con prudenza e cautela, mentre, d’altro canto, sarà necessario spiegare con assoluta chiarezza che il testimone di battesimo non è in nessun modo “una specie di padrino”, ma una figura completamente diversa.

Il documento della CEI Incontriamo Gesù, del 29 giugno 2014, afferma:

«Si demanda alle Conferenze episcopali regionali il discernimento in materia e la valutazione dell’opportunità pastorale di affiancare – solo come testimoni del rito sacramentale – quelle persone indicate dalla famiglia che, pur non avendo requisiti prescritti, esprimono pur sempre una positiva vicinanza parentale, affettiva ed educativa».

A tal proposito si possono reperire in rete diversi pronunciamenti in merito. Citiamo ad esempio quanto statuito della Conferenza Episcopale Sarda e della Diocesi di Aosta. Perciò, per quanto possibile, occorre dare una formazione ai Padrini\Testimoni per accompagnare i Battezzati nella scelta di vita cristiana, fatta salva la libertà del Testimone il quale non può essere obbligato a condividere o abbracciare tale scelta di vita.

L’utilità della figura del Testimone è meramente giuridica ovvero risponde alla necessità di attestazione dell’avvenuto conferimento del Battesimo o della Cresima. Dal punto di vista pastorale il documento la presenta anche come una possibile soluzione per venire incontro a quelle situazioni di incompatibilità dei requisiti dovuti per il ruolo di padrino.

L’età del testimone del Battesimo o della Cresima non viene specificata come nel caso del Matrimonio, dove è richiesta la maggiore età, o nel caso dei padrini dove è richiesta l’età dei 16 anni. A rigor di logica per l’età del Testimone potrebbe essere applicato come criterio la valutazione del Parroco o del Vescovo Diocesano, come nel caso dei Padrini can. 847 §1 n.2. Durante la celebrazione, differentemente dal Padrino e dalla Madrina, al Testimone non deve essere data alcuna attiva partecipazione poiché il loro ruolo è unicamente quello di garanti per l’attestazione dell’avvenuto conferimento del Sacramento. Ogni Vescovo diocesano potrà dare ulteriori disposizioni nel merito del contesto celebrativo

Per ciò che concerne la registrazione dell’atto di Battesimo nel registro parrocchiale occorre sottolineare che, nel caso del testimone di un Battesimo previsto dal can. 874 §2, dovranno essere annotati il nome e cognome del testimone e le generalità come prevede il can. 877 [5].

Il problema del certificato. Il Codice di Diritto Canonico, nei canoni dedicati al padrino del battesimo e della confermazione, non menziona mai la necessità di produrre, da parte del padrino, o del parroco, di un qualsiasi tipo di certificato / attestato / autocertificazione. Ci troviamo di fronte ad un caso nel quale la prassi ormai ha assunto un significato praeter legem, spesso legato al fatto che il sacerdote in cura d’anime non ha piena contezza per stabilire l’ammissibilità di una persona all’ufficio di padrino, perché non lo conosce, proviene da un’altra parrocchia spesso lontana ecc. ecc…

“Canonizzando” l’ordinamento civile, possiamo osservare come già in diverse diocesi e parrocchie, il “certificato di idoneità” è stato sostituito con una “autocertificazione di idoneità”. Ma vediamo che cos’è la autocertificazione: la legge civile ha introdotto la possibilità di fornire alla Pubblica Amministrazione ed ai privati una dichiarazione resa e firmata da un cittadino che sostituisce in modo completo e definitivo alcune certificazioni amministrative. Ecco perché si chiama anche «dichiarazione sostitutiva». È, quindi, un modo per evitare burocrazia e inutili perdite di tempo, soprattutto quando si sceglie di fare l’autocertificazione online. In base alla legge, gli uffici pubblici sono obbligati ad accettare l’autocertificazione per le pratiche previste. In caso contrario, incorrerebbero nella violazione dei doveri d’ufficio. Diverso il discorso per quanto riguarda i privati: l’accettare o meno questa dichiarazione resta per loro un fatto discrezionale. Pertanto, l’autocertificazione ha lo stesso valore legale e amministrativo del certificato o dell’atto che sostituisce. Purché si dica il vero: se i dati contenuti nell’autocertificazione si rivelano falsi, l’interessato perde ogni beneficio.

L’autocertificazione, essendo una dichiarazione resa personalmente dall’interessato potrebbe rivelarsi, qualora recepita nella legislazione locale della diocesi, una sostanziale semplificazione del lavoro per i sacerdoti in cura d’anime: l’interessato potrà dichiarare egli stesso l’esistenza dei requisiti previsti per l’accesso all’ufficio di padrino e impegnarsi in questo senso di fronte alla Chiesa direttamente davanti al parroco che dovrà amministrare il Sacramento, senza richiedere al parroco di residenza un certificato che spesso lo stesso parroco non potrebbe rilasciare proprio per i motivi suesposti, e cioè l’impossibilità per il sacerdote di poter certificare una situazione di cui potrebbe non essere a conoscenza per tutta una serie di motivi che ben conosciamo.

Vista la situazione attuale, ritengo che nella prassi pastorale, varrebbe la pena di compiere ulteriori sforzi per ridare dignità e valore alla figura del padrino, tenuto conto della sua funzione pedagogica ma, ancor prima, della connotazione tipicamente ecclesiale della sua presenza. Non ci si può nascondere che le deviazioni del passato pesano sulla figura del padrino, ma ciò non può giustificare la reazione emotiva né di chi la ritiene ormai inutile, né di chi accede facilmente alla comoda soluzione di non urgere la presenza dei padrini, perché non ne trova di idonei. Se non ve ne sono, vanno formati, mediante appropriati percorsi che valorizzino questo ufficio, il quale ha le caratteristiche e la dignità di un vero e proprio ministero laicale (cfr. Christifideles laici 23).

Tra le varie proposte, vi è chi suggerisce di impegnare i padrini a vegliare, sia pure discretamente, sulla formazione dei figliocci, avvertendo il parroco su deficienze e deviazioni, in modo da provvedere, nell’ambito delle possibilità e dei limiti, per un ritorno al bene. Qualcun altro, poi, ritiene che essi potrebbero essere investiti del compito di prendersi cura del figlioccio in caso di orfanezza precoce. Forse un richiamo a quella parentela spirituale che, di fatto, viene a instaurarsi tra padrino e figlioccio, e alla quale il Codice del 1917, riconoscendone l’elevato valore sacramentale e pastorale, connetteva un impedimento matrimoniale, oggi non più in vigore nel codice latino ma pienamente compreso e recepito come dirimente del matrimonio dal Codice dei canoni delle Chiese Orientali.

 

Velletri di Roma, 11 novembre 2023 

                                                            

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