Nella signoria di Cristo Re dell’Universo per essere piccoli re
/in Omiletica/da Padre Gabriele
Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos
NELLA SIGNORIA DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO PER ESSERE PICCOLI RE
Scriveva Oscar Wilde: «L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi»

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.
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Cari lettori dell’Isola di Patmos,
si conclude l’Anno Liturgico, è il nostro ultimo dell’anno cattolico. L’anno liturgico si compie con una grande festa, quella di Gesù Cristo che è Re dell’Universo.
Oggi la monarchia non è più una forma di governo tipicamente adottata in tutto il mondo, dove invece si preferisce la repubblica. Per questo che la figura del “re” ci sfugge, se non forse per la recente incoronazione di Re Carlo d’Inghilterra. Gesù è Re dell’intero universo e delle nostre vite. Ma non come il Re d’Inghilterra, di Svezia o del Belgio. La sua monarchia non si esercita in un governo politico. È una monarchia d’amore che esprime il suo trono della gloria, la sua esposizione di massima visibilità nella croce; oggi questo trono di gloria si concretizza per noi, nella compassione di Gesù. Lo leggiamo all’inizio del brano del Vangelo di oggi:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria […] siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Qui l’immagine del re è accostata a quella del pastore. In effetti, il pastore, ha un ruolo anch’esso di governo all’interno del mondo della fattoria. Era un mondo e una cultura vicini all’immaginario in cui Gesù parla. Ecco allora che quelli alla destra sono i benedetti del Padre. Quelli alla sinistra no. In effetti, i benedetti del Padre, sono coloro che hanno accolto i poveri e i bisognosi nelle diverse situazioni di necessità che Gesù esprime. Mentre coloro che saranno nel fuoco eterno, non sono stati attenti e compassionevoli di queste povertà materiali e spirituali. Così Gesù ci mostra e ci chiede di imitarlo come Re nell’Amore concreto, nella carità operante, che Lui ha voluto fare nei confronti di tutte le persone che ha incontrato: Nicodemo, il cieco di Gerico, l’indemoniato di Gerasa e gli altri incontri. Tutte queste grandi opere il Signore le ha sempre compiute con un atto di compassione e tenerezza, con un cuore veramente umano e veramente divino. Un cuore piccolo cristologico per un grande amore.
Da questo viene per noi il fondamento delle opere di misericordia materiali e corporali. Il Signore, dunque, ci chiede di seguire Lui, il nostro Re, nella vita cattolica proprio perché operiamo con un amore concreto e attento al prossimo cercando di guardalo con tenerezza. Cercando di guardare il prossimo come se fosse Gesù stesso che in quanto piccolo ci chiede questo servizio. Diventiamo piccoli re in Gesù piccolo re dell’Universo.
Al contrario invece troviamo coloro che andranno nel fuoco eterno. Perché sono sfuggiti completamente alla logica dell’amore e della compassione. Dunque, i capri alla sinistra sono le persone chiuse nell’egoismo, nella dimensione dell’attenzione unica dei propri bisogni e delle proprie necessità. Il rischio che si corre quando si dimentica la pratica delle opere di misericordia è di non riconoscere più non solo l’altro, ma di non riconoscere la necessità di Dio nella vita. Ecco allora che i malvagi nel fuoco eterno sono coloro che non riconosco la centralità della Signoria di Dio nella vita, del Re dei re, senza il quale non possiamo fare nulla. La tensione all’egoismo è dunque una sostituzione, un incoronarsi da soli re pretendendo che l’Universo e Dio si prostrino a noi.
Scriveva Oscar Wilde: «L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi».
Chiediamo al Signore di essere accolti al suo trono e alla sua monarchia d’amore, ed essere già da adesso testimoni che l’Amore autentico esiste, e si vive nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Così sia!
Santa Maria Novella in Firenze, 25 novembre 2023
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I Padri dell’Isola di Patmos
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Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo: una regalità eretta sulla carità
/in Omiletica/da monaco eremita
Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos
NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO: UNA REGALITÀ ERETTA SULLA CARITÀ
Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione
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Autore
Monaco Eremita
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.https://youtu.be/4fP7neCJapw
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In un breve ma celebre apologo dal titolo Il Natale di Martin lo scrittore russo Lev Tolstòj1 raccontò di uomo, un ciabattino di nome Martin, che aveva misteriosamente incontrato il Signore nelle persone bisognose che durante la giornata erano passate davanti la sua bottega e citò espressamente la pagina del Vangelo di questa domenica.

San Martino dona parte del mantello al povero (dipinto, elemento d’insieme) di Bartolomeo Vivarini (sec. XV)
La letteratura non è stata l’unica arte che questa mirabile pagina di Matteo ha ispirato, basti pensare agli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina. Leggiamola:
«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».
Con il brano di oggi finisce non solo, per quanto riguarda la liturgia, l’anno liturgico in corso, che lascia il passo all’Avvento, ma anche l’insegnamento di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Subito dopo la nostra pericope infatti l’evangelista da inizio al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, con queste parole: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli» (Mt 26,1). Gesù insegnerà d’ora in poi in un altro modo, soprattutto con i gesti e l’obbedienza al Padre nella prova suprema della croce. Per questa ragione è rivestita di particolare importanza la pericope di oggi, l’ultimo discorso fatto da Gesù in Matteo, senza contare, l’invito del Risorto a fare discepoli e a battezzare in 28,18-19, e le poche ma importanti parole dette durante la passione, a partire dall’ultima cena.
Solo en passant occorre anche dire che nonostante una prassi interpretativa consolidata che prende l’avvio dai Padri della Chiesa e che porta a definire la scena come il giudizio “universale”, a partire dal XVIII secolo vengono sottolineati i tanti e buoni indizi nel testo, non solo di tipo lessicale, per ritenere che anziché di un giudizio per tutta l’umanità, il testo implichi, al contrario, un giudizio solo per i pagani, ma non è possibile in questo contesto esplicitare questa interpretazione che richiederebbe troppo spazio.
La scena del giudizio è esclusivamente matteana, ed è costruita in modo magistrale, con l’uso di vari espedienti quali ad esempio la ripetizione, utili per la memorizzazione. Molti sono i confronti che possiamo fare con il linguaggio e la simbologia di stampo apocalittico correnti al tempo di Gesù che appaiono di volta in volta nella letteratura canonica ― Daniele e Apocalisse ― ma anche in quella apocrifa. Il dato originale, rivoluzionario, invece, la novità che apporta il discorso di Gesù è che lo stesso giudice, il Re, si consideri oggetto di tali azioni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», oppure, «non mi avete dato da mangiare». Questo crea un effetto di sorpresa sia in quelli che gli hanno usato misericordia sia in quelli che gliel’hanno negata. Mentre nell’Antico Testamento il giorno del Signore è decretato da Dio stesso ed è quindi Lui l’unico che giudica, nella logica del Nuovo Testamento è Gesù, il Messia, che può intervenire in questo giudizio. Di conseguenza Dio compirà il giudizio, ma questo in nuce avviene già nel modo in cui ci siamo rapportati al suo Figlio in questo mondo, al Gesù presente nei poveri che hanno avuto fame e sete e che sono stati assistiti o meno da noi. Ecco perché alla fine dei tempi, sarà Cristo, l’Agnello, a prendere in mano il libro della nostra vita, quello che nemmeno noi siamo capaci di leggere e comprendere fino in fondo, e ad aprirne i sigilli (cfr. Ap 5).
Colpisce poi che la grandiosa visione che abbraccia l’intera umanità si accompagni allo sguardo posato su ciascuno e, in particolare, su quelle persone che normalmente sono le più invisibili: poveri, malati, carcerati, affamati, assetati, stranieri, ignudi. Non a caso il nostro testo li chiama «minimi» (vv. 40.45). La carità verso il bisognoso, il gesto di condivisione che è così semplice, umano, quotidiano, alla portata di tutti, credenti e non credenti, diviene ciò su cui si esercita il giudizio finale. L’esempio di Martino di Tours, secondo la narrazione agiografica di Sulpicio Severo2, è emblematico. Dopo aver diviso con la spada il suo mantello per coprire la nudità di un povero mendicante alle porte di Amiens, in un rigido inverno, Martino ebbe la visione in sogno di Cristo che gli diceva: «Martino, tu mi hai rivestito con il tuo mantello». Cristo è identificato con il povero, come nella nostra pagina evangelica.
Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione3. Gli altri, soprattutto se bisognosi, non costituiranno per me l’inferno quanto una benedizione: «Venite benedetti perché…». Due celebri pieces teatrali, una di Sartre4 con all’interno la famosa espressione: «L’inferno sono gli altri»; l’altra di Pirandello, Vestire gli ignudi5, che nel titolo fa diretto riferimento al nostro brano evangelico, ci hanno raccontano drammaticamente che non escludendo l’Altro dal proprio mondo il problema sarebbe facilmente risolvibile e l’inferno cesserebbe di esistere. Quegli autori hanno inteso, al contrario, constatare l’impossibilità di un’esistenza che escluda l’Altro. In altri termini, l’enfer, c’est les autres, perché dall’alterità non si può uscire, ci si rende conto che l’Altro detiene il segreto del proprio essere e, nel contempo, che senza l’Altro questo essere non sarebbe possibile.
Così il Signore Gesù, anche nell’ultimo suo discorso, ci ha sorpreso ancora una volta dando un nuovo significato alle ‘opere di misericordia’, già note nel giudaismo coevo, dove erano, però, intese come una sorta di imitatio Dei, nel senso di un fare agli altri ciò che Dio stesso ha fatto per l’uomo. Non prevedevano invece che il giudice eterno si celasse dietro esistenze umilissime, disagiate e sconfitte. Nell’altro, nel fratello, c’è Gesù il quale aveva detto ai suoi discepoli: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato… Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Mentre ora estende questa visione all’intera umanità – panta ta ethne, πάντα τὰ ἔθνη del v.22: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Perché come recita un antico inno adoperato nella liturgia del Giovedì Santo: «Ubi caritas et amor, Deus ibi est».
Buona Domenica a tutti!
Dall’Eremo, 25 novembre 2023
NOTE
[1] La rielaborazione di Tolstòj apparve per la prima volta anonima sulla rivista “Russkij rabocij” (L’operaio russo), nr. 1 del 1884, col titolo “Djadja Martyn” (Zio Martyn). Nel 1886 il racconto, col titolo “Dove c’è amore c’è Dio”, fu inserito in un volume edito a Mosca da Posrednik assieme ad altri otto, tutti con la firma di Lev Tolstòj
[2] Severo Sulpicio,Vita di Martino, EDB, 2003
[3] Michel de Certeaux, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, 1983
[4] J.P. Sartre, Porta chiusa, Bompiani, Milano 2013
[5] Pirandello L., Maschere nude. Vol. 5: Enrico IV – La signora Morli, una e due – Vestire gli ignudi, Mondadori, 2010

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Dovremmo riflettere maggiormente sul peccato del perdere tempo
/1 Commento/in Omiletica/da monaco eremita
Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos
DOVREMMO RIFLETTERE MAGGIORMENTE SUL PECCATO DEL PERDERE TEMPO
Comunque si voglia intenderli, poiché ogni racconto parabolico è aperto a una pluralità di interpretazioni, i talenti rimarranno un dono gratuito che non si tiene per sé, né si nasconde, ma va fatto moltiplicare. Rivelano che Dio, più che un padrone si dimostra Padre verso noi figli e fa nel corso del tempo molte di queste grazie a ognuno di noi e alle nostre comunità.
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Autore
Monaco Eremita
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Un dono può esser offerto con mille motivazioni, anche non nobili a volte. Ma ha dalla sua una caratteristica inconfondibile: rivela l’identità di chi offre e di chi lo riceve. Il Vangelo di questa Domenica presenta un Donatore molto speciale, il quale non elargisce un solo singolo dono, bensì ogni suo bene. Leggiamo:
«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». (Mt 25,14-30).
Il brano evangelico di questa domenica aggiunge una specificazione al significato della vigilanza che già era stato presentato nella parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13). Lì vigilare significava essere previdenti, essere pronti, preparati, dotarsi del necessario mettendo in conto una lunga attesa. Ora, nella parabola dei talenti, la vigilanza viene specificata come attenzione e responsabilità nel quotidiano e declinata come fedeltà nelle piccole cose («sei stato fedele nel poco»: Mt 25,21.23).
Innanzitutto ricordiamo quale funzione abbia la parabola. Tale forma comunicativa prevede spesso l’uso di un linguaggio iperbolico, un’ambientazione paradossale, con volute esagerazioni che possono anche arrivare a scandalizzare per la violenza che vi è implicata. Ci colpisce, qui, la punizione del servo malvagio. Ma sorprende anche il finale che, come spesso accade nei racconti fittizi parabolici, presenta un vero e proprio colpo di scena: il talento viene tolto a chi ne ha solo uno e dato a chi già ne ha molti. Nel lettore sorge la domanda: che padrone è colui che si permette di umiliare in tal modo un suo servo, che in fondo ha agito prudentemente?
Si diceva che la vigilanza non riguarda solo l’attesa escatologica ma investe in pieno il rapporto con il quotidiano, con le sue realtà di ogni giorno. La parabola di Matteo, che ha un parallelo un po’ differente e più complesso con Luca 19,11-27, è certamente inserita in un contesto escatologico ― il v.30 la situa nell’orizzonte del giudizio finale: «Il servo inutile gettatelo nelle tenebre, là sarà pianto e stridor di denti» ― ma questo non fa che ribadire che tale giudizio finale lo si prepara qui e ora, nell’oggi della storia, cosa che si mostrerà in tutta la sua evidenza nella parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46) domenica prossima. Là apparirà chiaramente l’autorità escatologica dei piccoli e dei poveri. Il giudizio finale si baserà sulle azioni di carità e di giustizia compiute in loro favore oppure omesse. Il quotidiano si rivela così come il luogo escatologico per eccellenza, perché è il tempo che ci è dato. Così la parabola dopo la ripartizione dei talenti[1] in modo personalizzato, commisurata con le capacità dei riceventi, si dispiega fra il «subito» (v.15) di coloro che li fanno fruttare e il dopo «molto tempo» (v.19) del ritorno del padrone. Del resto non appare importante, almeno in questo racconto, la quantità dei doni ricevuti, poiché i due servi operosi, nonostante abbiano ricevuto talenti in misura diversa, percepiranno però la stessa ricompensa. Importante piuttosto è il tempo la cui durata fa emergere la verità delle persone, dei loro comportamenti, della loro tenuta e della loro responsabilità. Il trascorrere del tempo è rivelatore; infatti i primi due servi hanno saputo cogliere subito che esso era il primo grande dono di cui potevano usufruire e non lo sprecarono gettandolo via.
Dovremmo riflettere maggiormente sul peccato del perdere tempo. Se il terzo servo avesse riflettuto su questo ne avrebbe approfittato, perché alla fine la ricompensa sarebbe stata la medesima dei primi due servi che avevano ricevuto di più. Ma come si diceva più sopra il dono è, al pari del tempo impiegato, rivelativo dei personaggi di questa parabola. Così il donatore, anche se Gesù lo cela inizialmente dietro un anonimo uomo (v.14), è chiaramente Dio che infatti più avanti verrà chiamato ‘Signore’ (Kyrie, Κύριε dei v.20.22.24). Solo Lui è capace di fare dono di ogni cosa sua [2], in maniera preveniente e inaspettata soprattutto verso dei destinatari che per quanto intraprendenti sono pur sempre dei servi. Alcuni padri della chiesa hanno voluto vedere dietro al dono dei talenti quello della Parola di Dio, in ricordo della parabola del buon seme che porta frutto a secondo del terreno che trova. Ireneo di Lione, morto nel 202 d.C., vi vide il dono della vita, accordato da Dio agli uomini. Comunque si voglia intenderli, poiché ogni racconto parabolico è aperto a una pluralità di interpretazioni, i talenti rimarranno un dono gratuito che non si tiene per sé, né si nasconde, ma va fatto moltiplicare. Rivelano che Dio, più che un padrone si dimostra Padre verso noi figli e fa nel corso del tempo molte di queste grazie a ognuno di noi e alle nostre comunità. La capacità di riconoscerle e di farle fruttare è la qualità dei servi non pavidi che sanno correre anche dei rischi.
Il punto della parabola però non è di natura economica, cioè nella capacità di trarre profitti dall’investimento di un capitale, perché la ricompensa, in tale senso, avrebbe dovuta essere commisurata al merito e alla grandezza del patrimonio accumulato. Esso invece è incentrato sull’agire istantaneo e sul non rimanere inerti nel tempo che viene concesso. Tenendo conto che il padrone-Signore tornerà e chiederà ragione («ponit rationem» traduce la Vulgata) di come avranno agito i servi. Essi scopriranno che ai suoi occhi ciò che contava era la bontà e la fedeltà nell’agire e quel che sembrava tanto in verità era molto poco rispetto alla ricompensa: «Bene, servo buono e fedele ― gli disse il suo padrone ―, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».
La parabola diviene così un invito ai discepoli e alle comunità a non rimanere immobili e incantati davanti alle difficoltà dei tempi che corrono, pronti invece ad agire in ogni momento, consapevoli dei doni ricevuti e che questo che ci è dato è il tempo propizio. Le sfide che esso pone e le mutate condizioni culturali non dovrebbero impaurirci o farci rimanere contenti solo di quello che già si fa oppure inebriati da un attivismo solo fine a se stesso. La parabola chiede ai cristiani consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività, tutte realtà condensate nelle parole: essere buoni e fedeli.
Infine ci chiedevamo prima perché il padrone, protagonista della parabola, trattò così male il terzo servo. Ciò che colpisce in questa vicenda è proprio l’idea che il servo si era fatta di lui. Mentre i primi due servi non hanno avuto bisogno di riflettere su questo, quasi fosse automatico per loro che se il padrone ti da un dono esso vada subito fatto fruttare, l’altro servo invece elabora una sua idea, potremmo dire una sua teologia, che ne blocca l’azione, perché a dominarla è l’idea di paura. Intrappolato in questa immagine che egli ha del padrone, quella di un uomo duro e pretenzioso, pur avendo nella sua disponibilità il dono grande di un talento non riesce a fidarsi di lui. È questo sarà il suo vero dramma.
Il suo non agire verrà giudicato in modo parallelo al buono e fedele, però come malvagio e pigro. Se avesse almeno aperto un conto di deposito ne avrebbe riscosso gli interessi attivi, ma preferì seppellire il suo dono e per questo, quando non ci sarà più tempo per agire, al momento del giudizio, verrà consegnato al pianto e allo stridere dei denti, un’espressione biblica che indica il fallimento della propria vita[3].
La fede che opera è importante nel vocabolario del primo Vangelo. Gesù parla della fede di coloro che credono in lui per poter essere guariti, quella del centurione (8,10), del paralitico (9,2), della donna emorroissa (9,22), dei due ciechi (9,29), della Cananea (15,28), e incita i suoi, mai criticati perché hanno «poca fede», ad averne di più (cfr. 6,30).
La nostra parabola potrebbe dunque voler dire qualcosa sul credere o non credere in Dio nel tempo intermedio che separa dal giudizio. Il terzo servo, malvagio, non ha più fede, l’ha persa col tempo: si è dimenticato che quanto gli era stato affidato doveva essere investito perché portasse frutto per il padrone, ma anche a suo favore: è divenuto perciò inutile (v.30). Che la parabola tratti del dono della fede, si può indirettamente evincere anche da un altro testo del Nuovo Testamento, dove San Paolo dice che questo dono è misteriosamente personalizzato, proprio come nella parabola che racconta Gesù:
«Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12,3).
Per concludere potremmo chiederci: Quale visione abbiamo di Dio? Quella vendicativa, esigente e dura che incute paura o quella liberante, positiva che ci fa agire nella fiducia e nel non timore, come l’ha vissuta e ci ha insegnato Gesù?
Dall’Eremo, 19 novembre 2023
NOTE
1 Il talento, che significava anche «ciò che è pesato, era un’unità di peso di circa 30-40 kg. corrispondente a seimila denari. Poiché un denaro, secondo quanto Matteo stesso spiega in 20,2 (Matteo è molto preciso nell’uso delle monete, e nel suo vangelo ne sono elencate diversi tipi), è il corrispettivo della paga per un giorno di lavoro, si intende qui una somma ingente data in gestione ai servi
2 Nella parabola dei vignaioli omicidi Egli non si perita di mandare anche suo Figlio (Mt 21,37)
3 «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,47-50).

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Non gettiamo via il bambino con l’acqua sporca: l’istituto del padrino nei Sacramenti del Battesimo e della Confermazione
/1 Commento/in Teologia e diritto canonico/da Padre TeodoroNON GETTIAMO VIA IL BAMBINO CON L’ACQUA SPORCA: L’ISTITUTO DEL PADRINO NEI SACRAMENTI DEL BATTESIMO E DELLA CONFERMAZIONE
Vista la situazione attuale, ritengo che nella prassi pastorale, varrebbe la pena di compiere ulteriori sforzi per ridare dignità e valore alla figura del padrino, tenuto conto della sua funzione pedagogica ma, ancor prima, della connotazione tipicamente ecclesiale della sua presenza.
– Teologia e diritto canonico –

Autore
Teodoro Beccia
L’istituzione dei padrini risale alla Chiesa primitiva, quando venne imposto il dovere di battezzare i bambini, anche se, presumibilmente, all’inizio i bambini venivano presentati direttamente dai genitori. Tertulliano fa riferimento agli sponsores o garanti, ma i termini usati in epoca antica sono diversi e molto evocativi: susceptores, gestantes, fideiussores, protestantes che assistono al battesimo dei bambini (cfr. De Baptismo, 18, 11, in PL I, 1221). L’esigenza dei padrini era forse correlata con il battesimo concepito come nuova nascita, che perciò esigeva nuovi padri.
In continuità con questa linea di riflessione, più tardi San Tommaso ricorderà che la rigenerazione spirituale operata dal battesimo assomiglia a quella carnale e, come in questa il bambino ha bisogno di una nutrice e di un pedagogo, così in quella spirituale c’è bisogno di qualcuno che lo istruisca nella fede e nella vita cristiana (Summa Th. III, q. 67, a. 7). L’istituto, o ministero del padrino, appare certamente in rapporto con il catecumenato degli adulti. Tenuto conto della situazione in cui si trovano i cristiani durante la persecuzione da parte dell’impero romano, onde evitare che nelle comunità penetrasse qualche intruso, si esigeva che il candidato al battesimo fosse presentato da qualche fedele conosciuto, il quale garantisse la serietà delle sue intenzioni e lo accompagnasse durante il catecumenato e il conferimento del Sacramento, come pure ne curasse in seguito la fedeltà all’impegno preso.
Venendo ai nostri giorni, spesso ormai i sacerdoti in cura d’anime si trovano in difficoltà quando debbono affrontare la questione della scelta dei padrini. La casistica è molto varia. Vi sono genitori che per non far torto a nessun parente vorrebbero fare a meno dei padrini in occasione del Battesimo o della Cresima dei figli. Talvolta ci si trova invece di fronte alla proposta di padrini che sono in una situazione “irregolare” e che quindi non possono essere ammessi. Inoltre, con l’intenso fenomeno migratorio che caratterizza la nostra epoca, capita anche di vedersi formulata la richiesta di accettare come padrino o madrina fedeli appartenenti a Chiese o a Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Chiesa Cattolica, con l’eccezione delle Chiese ortodosse (cfr. can. 685 § 3 del Codice orientale, Cceo et alia).
Tutto ciò conduce a porsi qualche domanda: sono proprio necessari i padrini e ha senso continuare a richiederne la presenza, visto che il loro ufficio sovente è divenuto una “menzogna liturgica” come l’ha chiamata qualcuno? Qual è la loro funzione? Quali sono i requisiti per essere ammessi a quest’incarico?
I padrini sono necessari? Cerchiamo di dare una risposta a questo interrogativo attraverso la normativa del Codice di diritto canonico, che tratta del padrino (o madrina) del battesimo ai cann. 872-874 e del padrino (o madrina) della cresima ai cann. 892-893. Sia il can. 872 che il can. 892, in riferimento all’obbligo di dare al battezzando o al cresimando un padrino, usano la stessa espressione: quantum fieri potest (per quanto è possibile): la norma non è tassativa o precettiva, come del resto non lo era nel Codice precedente del 1917, ma non deve essere neppure ritenuta meramente facoltativa.
Per quanto riguarda il Battesimo, le ragioni della presenza sono appropriatamente indicate in un breve ma denso passaggio dell’Introduzione generale del Rito del battesimo dei bambini (cfr. 8) e del Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti (cfr. 8):
«Il padrino amplia in senso spirituale la famiglia del battezzando e rappresenta la Chiesa nel suo compito di madre».
La sua funzione, quindi, non è soltanto liturgica ― né tanto meno può ridursi a una presenza meramente coreografica ― ma anche pedagogica, come ricorda il can. 872 §1, che, oltre al compito di assistere il battezzando adulto e presentare il battezzando infante, richiama alla cooperazione affinché il figlioccio conduca una vita cristiana conforme al Sacramento e adempia fedelmente gli obblighi ad esso inerenti.
Un’efficace descrizione del compito del padrino, nel caso del battesimo di un adulto, ma che ci suggerisce criteri di giudizio applicabili per analogia anche ai padrini dei neonati, è indicata al n. 43 dei Praenotanda al Rito della Iniziazione Cristiana degli Adulti:
«Il padrino, scelto dal catecumeno per il suo esempio, per le sue doti e la sua amicizia, delegato dalla comunità cristiana locale ed approvato dal sacerdote, accompagna il candidato nel giorno dell’elezione, nella celebrazione dei sacramenti e nella mistagogia. È suo compito mostrare con amichevole familiarità al catecumeno la pratica del Vangelo nella vita individuale e sociale, soccorrerlo nei dubbi e nelle ansietà, rendergli testimonianza e prendersi cura dello sviluppo della sua vita battesimale. Scelto già prima della “elezione”, quando rende testimonianza del catecumeno davanti alla comunità; il suo ufficio conserva tutta la sua importanza anche quando il neofita, ricevuti i Sacramenti, ha ancora bisogno di aiuto e di sostegno per rimanere fedele alle promesse del Battesimo».
Anche per la Cresima, a esigere la presenza del padrino non è la celebrazione in quanto tale, ma la formazione cristiana del cresimando, come ricorda il can. 892, che si riferisce alla duplice funzione di provvedere che il confermato si comporti come vero testimone di Cristo e adempia fedelmente gli obblighi inerenti allo stesso Sacramento (can. 892). Non quindi una mera comparsa ornamentale accanto al cresimando al momento della celebrazione, ma un ministero che si fonda nel Sacramento e che chiede anche al padrino continuità di presenza spirituale, come consigliere e guida chiamato alla responsabilità educativa nei confronti di un fratello, il quale deve esprimere nella fede e nelle opere la maturità ricevuta in dono e da acquisire esistenzialmente.
L’indicazione del Codice si orienta quindi non per scelte minimali, ma per una pastorale da rinnovare. Al di fuori dei casi straordinari il padrino della Cresima deve esserci (si veda, in proposito, una risposta della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti (cfr. Notitiae 11 [1975], pp. 61-62).
I requisiti. Il can. 874 si incarica di presentare i requisiti necessari per essere ammesso all’ufficio di padrino/madrina sia di battesimo che di Cresima (cfr. can. 893 § 1). Limitiamoci qui a focalizzare soltanto alcuni punti, a partire dalla legislazione pregressa:
1) per entrambi i Sacramenti, il padrino deve aver ricevuto tutti e tre i Sacramenti dell’iniziazione (a significare l’intima unione tra di essi), non soltanto quello per il quale funge da padrino;
2) il can. 893§ 2 ricorda l’opportunità (expedit) che il padrino della cresima sia il medesimo del battesimo (per sottolineare il profondo nesso tra i due Sacramenti), mentre in precedenza ciò era proibito;
3) non è più prescritto il padrino dello stesso sesso del battezzando/cresimando;
4) non esiste più la proibizione ai chierici e ai religiosi/e di fungere da padrini e madrine, senza espressa licenza dell’ordinario o del superiore almeno locale. Tuttavia gli istituti religiosi potrebbero stabilire norme proprie.
5) Per quanto concerne l’età (16 anni), con legge particolare il vescovo ne può fissare una diversa, ma anche il parroco o il ministro, per giusta causa, possono introdurre l’eccezione, tenendo conto di un criterio piuttosto ampio ma che mai dovrebbe oscurare la ragione ecclesiologica motivante la presenza del padrino.
6) Il padrino sia un fedele cattolico. Il motivo di questa apparente “restrizione ecumenica” è da ricercare non solo nel pericolo dell’indifferentismo, da cui ha messo in guardia lo stesso Concilio (cfr. Ad Gentes 15 e Orientalium Ecclesiarum 26), ma ancor più nel valore ecclesiale del munus di padrino: ex natura rei non si può rappresentare una comunità ecclesiale con cui non si sia in piena comunione, né tanto meno esprimerne la fede. In questa prospettiva, la disposizione codiciale risulta coerente con la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, e quindi è anche profondamente ecumenica. Stando così le cose, sono esclusi dall’incarico di padrini gli appartenenti a comunità ecclesiali separate dalla Chiesa Cattolica, i quali possono fungere da testimoni insieme a un padrino cattolico.
Per quanto riguarda invece gli “ortodossi”, uniti a noi da strettissimi vincoli (UR 15) il can. 685 § 3 del Codice orientale (Cceo) ammette che un loro fedele possa assolvere l’incarico di padrino, ma sempre assieme a un padrino cattolico. Nel battesimo di un cattolico, in forza della stretta comunione esistente tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, è consentito quindi, per un valido motivo, ammettere un fedele orientale con il ruolo di padrino congiuntamente a un padrino cattolico (o una madrina), a condizione che sia riconosciuta l’idoneità del padrino. Tuttavia l’educazione cristiana competerà in primo luogo al padrino cattolico, in quanto rappresenta la comunità cristiana ed è garante della fede e del desiderio di comunione ecclesiale del battezzato e/o dei suoi genitori (cfr. Vademecum per la Pastorale delle Parrocchie Cattoliche Verso gli Orientali non Cattolici, Cei, n. 16).
Anche gli altri requisiti indicati dal can. 874 § 1, 3° sono assai qualificanti per definire il profilo del padrino. Doverosamente rispettati, incidono profondamente sia sulla designazione della persona, sia sul modo di intendere l’incarico.
Spetta alla legislazione particolare determinare che cosa significhi “condurre una vita conforme alla fede”: ambienti e situazioni diverse comportano determinazioni diverse. La casistica è quanto mai ampia: si va da tutto il ventaglio di possibilità relative a chi si trova in situazione matrimoniale irregolare, a chi fa professione di ateismo e agnosticismo; da chi è dedito ad arti magiche a chi è notoriamente membro di una setta, di un’associazione che trama contro la Chiesa Cattolica (cfr. can. 1374: così ad esempio la Massoneria), o risulta appartenere a qualche gruppo criminale (come la Mafia, la N’drangheta, la Camorra o altri gruppi criminali di stampo mafioso).
Infine, contro la prassi di sostituire i padrini con i genitori, priva di fondamento e giustificazione, si ricorda (can 874, § 1,5) che né padre né madre possono fungere da padrini, poiché sarebbe assurdo pensare ai genitori come aiutanti di sé stessi in qualità di padrini dei loro figli. A proposito del numero, il can. 873 afferma che è sufficiente un solo padrino, mentre nel caso siano due, devono essere di sesso diverso. Il can. 892, che tratta del padrino della confermazione, prescrive invece un solo padrino o madrina.
Il ruolo del testimone: non si può dimenticare che tra i compiti del padrino vi è anche quello di provare l’avvenuta celebrazione del Battesimo o della Cresima. A tale funzione fa riferimento il can. 875: esso introduce la figura di testimone del battesimo che, a differenza di quella del padrino, non è sottoposta a nessuna condizione e svolge un ruolo simile a quello dei testimoni del matrimonio (cfr. can. 1108 §2) sia pure senza essere, come in questo caso, ad validitatem. Al fine di ottenere un consenso matrimoniale valido, ad validitatem occorre la presenza concomitante di due testimoni, l’assistente come teste qualificato e il valido consenso dei nubendi. Nel caso del Battesimo o della Cresima il testimone ha il compito solo di attestare l’avvenuto conferimento, dunque non occorre per la validità del Sacramento (cfr. cann. 875-877). Di conseguenza la figura del testimone non è sottoposta a nessuna condizione. L’unico requisito richiesto è che la persona scelta come testimone sia fornito di uso di ragione e che sia capace di testimoniare.
Viene così offerta la possibilità di far fronte ad alcune situazioni particolari in cui la persona scelta non potrebbe altrimenti ricoprire l’incarico di padrino: così ad esempio nel caso di un fedele appartenente a una Comunità ecclesiale protestante (cfr. can. 874 §2), oppure sia convivente, divorziato risposato o in altra situazione matrimoniale irregolare, ovvero si dichiari agnostico o ateo, o abbia formalmente e pubblicamente abbandonato la fede cattolica tramite il cosiddetto “sbattezzo”. Trattandosi di una soluzione che potenzialmente può generare ambiguità, malintesi e interpretazioni fuorvianti, essa dovrà essere adottata con prudenza e cautela, mentre, d’altro canto, sarà necessario spiegare con assoluta chiarezza che il testimone di battesimo non è in nessun modo “una specie di padrino”, ma una figura completamente diversa.
Il documento della CEI Incontriamo Gesù, del 29 giugno 2014, afferma:
«Si demanda alle Conferenze episcopali regionali il discernimento in materia e la valutazione dell’opportunità pastorale di affiancare – solo come testimoni del rito sacramentale – quelle persone indicate dalla famiglia che, pur non avendo requisiti prescritti, esprimono pur sempre una positiva vicinanza parentale, affettiva ed educativa».
A tal proposito si possono reperire in rete diversi pronunciamenti in merito. Citiamo ad esempio quanto statuito della Conferenza Episcopale Sarda e della Diocesi di Aosta. Perciò, per quanto possibile, occorre dare una formazione ai Padrini\Testimoni per accompagnare i Battezzati nella scelta di vita cristiana, fatta salva la libertà del Testimone il quale non può essere obbligato a condividere o abbracciare tale scelta di vita.
L’utilità della figura del Testimone è meramente giuridica ovvero risponde alla necessità di attestazione dell’avvenuto conferimento del Battesimo o della Cresima. Dal punto di vista pastorale il documento la presenta anche come una possibile soluzione per venire incontro a quelle situazioni di incompatibilità dei requisiti dovuti per il ruolo di padrino.
L’età del testimone del Battesimo o della Cresima non viene specificata come nel caso del Matrimonio, dove è richiesta la maggiore età, o nel caso dei padrini dove è richiesta l’età dei 16 anni. A rigor di logica per l’età del Testimone potrebbe essere applicato come criterio la valutazione del Parroco o del Vescovo Diocesano, come nel caso dei Padrini can. 847 §1 n.2. Durante la celebrazione, differentemente dal Padrino e dalla Madrina, al Testimone non deve essere data alcuna attiva partecipazione poiché il loro ruolo è unicamente quello di garanti per l’attestazione dell’avvenuto conferimento del Sacramento. Ogni Vescovo diocesano potrà dare ulteriori disposizioni nel merito del contesto celebrativo
Per ciò che concerne la registrazione dell’atto di Battesimo nel registro parrocchiale occorre sottolineare che, nel caso del testimone di un Battesimo previsto dal can. 874 §2, dovranno essere annotati il nome e cognome del testimone e le generalità come prevede il can. 877 [5].
Il problema del certificato. Il Codice di Diritto Canonico, nei canoni dedicati al padrino del battesimo e della confermazione, non menziona mai la necessità di produrre, da parte del padrino, o del parroco, di un qualsiasi tipo di certificato / attestato / autocertificazione. Ci troviamo di fronte ad un caso nel quale la prassi ormai ha assunto un significato praeter legem, spesso legato al fatto che il sacerdote in cura d’anime non ha piena contezza per stabilire l’ammissibilità di una persona all’ufficio di padrino, perché non lo conosce, proviene da un’altra parrocchia spesso lontana ecc. ecc…
“Canonizzando” l’ordinamento civile, possiamo osservare come già in diverse diocesi e parrocchie, il “certificato di idoneità” è stato sostituito con una “autocertificazione di idoneità”. Ma vediamo che cos’è la autocertificazione: la legge civile ha introdotto la possibilità di fornire alla Pubblica Amministrazione ed ai privati una dichiarazione resa e firmata da un cittadino che sostituisce in modo completo e definitivo alcune certificazioni amministrative. Ecco perché si chiama anche «dichiarazione sostitutiva». È, quindi, un modo per evitare burocrazia e inutili perdite di tempo, soprattutto quando si sceglie di fare l’autocertificazione online. In base alla legge, gli uffici pubblici sono obbligati ad accettare l’autocertificazione per le pratiche previste. In caso contrario, incorrerebbero nella violazione dei doveri d’ufficio. Diverso il discorso per quanto riguarda i privati: l’accettare o meno questa dichiarazione resta per loro un fatto discrezionale. Pertanto, l’autocertificazione ha lo stesso valore legale e amministrativo del certificato o dell’atto che sostituisce. Purché si dica il vero: se i dati contenuti nell’autocertificazione si rivelano falsi, l’interessato perde ogni beneficio.
L’autocertificazione, essendo una dichiarazione resa personalmente dall’interessato potrebbe rivelarsi, qualora recepita nella legislazione locale della diocesi, una sostanziale semplificazione del lavoro per i sacerdoti in cura d’anime: l’interessato potrà dichiarare egli stesso l’esistenza dei requisiti previsti per l’accesso all’ufficio di padrino e impegnarsi in questo senso di fronte alla Chiesa direttamente davanti al parroco che dovrà amministrare il Sacramento, senza richiedere al parroco di residenza un certificato che spesso lo stesso parroco non potrebbe rilasciare proprio per i motivi suesposti, e cioè l’impossibilità per il sacerdote di poter certificare una situazione di cui potrebbe non essere a conoscenza per tutta una serie di motivi che ben conosciamo.
Vista la situazione attuale, ritengo che nella prassi pastorale, varrebbe la pena di compiere ulteriori sforzi per ridare dignità e valore alla figura del padrino, tenuto conto della sua funzione pedagogica ma, ancor prima, della connotazione tipicamente ecclesiale della sua presenza. Non ci si può nascondere che le deviazioni del passato pesano sulla figura del padrino, ma ciò non può giustificare la reazione emotiva né di chi la ritiene ormai inutile, né di chi accede facilmente alla comoda soluzione di non urgere la presenza dei padrini, perché non ne trova di idonei. Se non ve ne sono, vanno formati, mediante appropriati percorsi che valorizzino questo ufficio, il quale ha le caratteristiche e la dignità di un vero e proprio ministero laicale (cfr. Christifideles laici 23).
Tra le varie proposte, vi è chi suggerisce di impegnare i padrini a vegliare, sia pure discretamente, sulla formazione dei figliocci, avvertendo il parroco su deficienze e deviazioni, in modo da provvedere, nell’ambito delle possibilità e dei limiti, per un ritorno al bene. Qualcun altro, poi, ritiene che essi potrebbero essere investiti del compito di prendersi cura del figlioccio in caso di orfanezza precoce. Forse un richiamo a quella parentela spirituale che, di fatto, viene a instaurarsi tra padrino e figlioccio, e alla quale il Codice del 1917, riconoscendone l’elevato valore sacramentale e pastorale, connetteva un impedimento matrimoniale, oggi non più in vigore nel codice latino ma pienamente compreso e recepito come dirimente del matrimonio dal Codice dei canoni delle Chiese Orientali.
Velletri di Roma, 11 novembre 2023
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