Il Cristianesimo da menù di ristorante che sfugge la croce e trasforma Cristo Dio in un delizioso pasticcino altamente digeribile

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

IL CRISTIANESIMO DA MENÙ DI RISTORANTE CHE SFUGGE LA CROCE E TRASFORMA CRISTO DIO IN UN DELIZIOSO PASTICCINO ALTAMENTE DIGERIBILE 

Oggi più che mai sfugge, persino a noi consacrati, l’elemento sacrificale della vera esperienza di fede. Da tempo abbiamo ormai creato quello che potremmo definire come un cristianesimo da menù di ristorante in cui si entra, si legge la carta e si sceglie quel che piace. E così a farla da padrona è il peggio della emotività animata dall’umano egoismo.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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I tre Vangeli sinottici dei Beati Evangelisti Marco, Matteo e Luca, hanno caratteristiche diverse, proprio come la simbologia con la quale gli Evangelisti sono raffigurati sin dal primo medioevo, che prende vita sul finire del V secolo con la caduta dell’Impero Romano.

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L’Evangelista Matteo è raffigurato con l’immagine dell’uomo alato, perché la sua redazione inizia con la genealogia di Cristo Signore e Messia; il Beato Evangelista Marco con il leone alato, perché la sua redazione inizia con la narrazione della predicazione del Precursore, il Beato Giovanni detto il Battista, che predicava nel deserto, luogo abitato da bestie selvatiche; il Beato Evangelista Luca con il bue, perché la sua redazione inizia con la visione avuta da Zaccaria nel Tempio di Gerusalemme, dove si sacrificavano animali, tra i quali anche i buoi.

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Gli Autori dei tre Vangeli sinottici seguono uno schema simile e narrano le stesse vicende della vita di Cristo Dio, pur con le loro differenze stilistiche. Infine il così detto Quarto Vangelo, quello del Beato Evangelista Giovanni, raffigurato con l’immagine di un animale considerato all’epoca il più nobile tra tutte le specie della terra: l’Aquila, colei che sola poteva fissare a occhi aperti la luce del sole.

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Il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni, che si apre con un inno al mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio ― «E il Verbo si fece carne» ― è un mirabile inno alla luce del Cristo vero Dio e vero uomo, raffigurato appresso come sole vivo disceso dal cielo. Al Beato Evangelista Giovanni, definito dai grandi Padri e dottori della Chiesa come il teologo per antonomasia, è accompagnato il motto «Altius caeteris Dei patefecit arcana» [in modo più alto degli altri – Giovanni – rivelò gli arcani misteri di Dio].

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Una caratteristica del Vangelo del Beato Evangelista Matteo è la precisione narrativa dalla quale prende forma la figura del Gesù storico, da lui collegata a numerosi riferimenti vetero-testamentari. Il tutto, per dare testimonianza che il Cristo non era venuto sulla terra per abolire la Legge e i Profeti, ma per dare compimento [cfr. Mt 5, 17-20]. E il compimento era Lui, il Dio fatto uomo, la luce che brilla nelle tenebre, come lo definisce nel suo prologo l’Evangelista Giovanni, il «Dio da Dio luce da Luce», come lo definirono i Padri della Chiesa scrivendo nei Concilî di Nicea e di Costantinopoli il Credo che tra poco reciteremo. O il Christus totus, come lo definì Sant’Agostino, quella totalità nella quale Cristo Dio è il centro, l’inizio e il fine ultimo del nostro intero umanesimo.

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Dunque quattro personalità di uomini diversi, ciascuno illuminato dalla divina grazia, che annunciano il mistero con parole fisse e senza tempo, perché come rivela Cristo Dio mediante il racconto del Beato Evangelista Matteo: «I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno mai» [Mt 24, 32-35], perché sono fissate nell’eterno attraverso il mistero della passione, della morte e della risurrezione di Cristo Dio, nel corpo glorioso del quale sono tutt’oggi impressi i segni della passione; segno eterno del suo amore consumato per la redenzione dell’uomo sino al supplizio della croce, mutando il Verbo che si è fatto carne nell’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.

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E con questo siamo giunti al cuore di questo Santo Vangelo del Beato Evangelista Matteo nel quale Cristo Signore ci offre qualche cosa di terribile: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» [vedere Liturgia della Parola di questa XIII domenica del tempo ordinario, QUI].

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Oggi più che mai sfugge, persino a noi consacrati, l’elemento sacrificale della vera esperienza di fede. Da tempo abbiamo ormai creato quello che potremmo definire come un cristianesimo da menù di ristorante in cui si entra, si legge la carta e si sceglie quel che piace. E così a farla da padrona è il peggio della emotività animata dall’umano egoismo. È la tragedia della fede annacquata da cuoricino che batte, per esempio dinanzi alle tenere immagini popolari struggenti di Gesù Bambino durante il Santo Natale, ignari però che quello è solo l’inizio di un percorso che giunge poi nel dolore dell’Orto degli Ulivi, per proseguire con l’immane strazio della via dolorosa e della crocifissione.

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La fede è sacrificio, ma molti l’hanno mutata in un diritto mondano a ciò che a me piace. Ecco allora i cattolici che da una parte si dicono tali, dall’altra si dichiarano favorevoli all’aborto, o che affermano «… è giusto che due uomini vivano assieme se si amano, perché quel che importa è l’amore, anzi è giusto dargli anche un bambino in adozione». E qui bisognerebbe chiarire cosa è l’amore e cosa invece non è quello che alcuni chiamano amore. Come vi sono altri cattolici che affermano che è giusto, anzi è caritatevole praticare l’eutanasia a un malato terminale, per quale motivo lasciarlo soffrire? È disumano. E proprio a questi ultimi risposi: «Forse non sapete che cosa sia lo strazio di una crocifissione, ma se parlate con un clinico anatomo-patologo, vi spiegherà lui il dolore e anche le umilianti reazioni che siffatto supplizio generava nel corpo dei condannati esposti nudi alla vista di tutti. Ebbene, vi risulta forse che la Beata Vergine Maria abbia supplicato di porre fine ai patimenti del suo Divino Figlio?».

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Oggi abbiamo creata una società mostruosa che insegue una falsa felicità nella quale la vita è senza la malattia e senza il decadimento fisico; la giovinezza senza vecchiaia e la vita senza la morte. A questo modo si è creata una società dell’irreale che rifiuta Cristo, o una comunità cattolica che annacqua il messaggio di Cristo che ci invita ad assimilarci al suo dolore. A quel punto la stessa Santa Messa viene confusa con un incontro tra amici che si ritrovano assieme per fare festa, per rallegrarsi attorno alla mensa. Eppure basterebbe ascoltare le parole della sacra liturgia per comprendere che attraverso il mistero del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo si rinnova il divino memoriale della passione, morte e risurrezione, perché l’Eucaristia è il sacrificio vivo e santo … e quando io mi dirigo verso l’altare, non vado a fare un gioioso festino, ma salgo sul Monte Calvario, perché sull’altare si rinnova il sacrificio incruento della passione di Cristo Dio.

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Il Santo Pontefice Giovanni Paolo II scrisse nel 1984 una splendida lettera apostolica in occasione del Giubileo della Redenzione intitolata Salvifici doloris, che significa: il valore salvifico della sofferenza. All’epoca, il futuro Santo Pontefice aveva appena 62 anni, era un uomo sportivo e pieno di energie. Come mai quella Lettera dedicata al valore salvifico della sofferenza scritta da un uomo che pareva il ritratto della bellezza e della salute? Ebbene, pensiamo al Giovanni Paolo II non del 1984, ma a quello del 2000, quando si ostinava a inginocchiarsi dinanzi al Santissimo Sacramento anche se era ormai sfiancato dalla malattia, tremante e privo di forze, con i cerimonieri pontifici che gli sudavano attorno quando in tutti i modi voleva genuflettersi, ossequioso fino in fondo al monito del Beato Apostolo Paolo «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» [Fil 2, 10]. Giovanni Paolo II aveva compreso da subito, nello splendore della sua salute, molto prima della sua malattia, l’elemento salvifico del dolore che ci assimila alla croce di Cristo …

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… Quando io fui consacrato sacerdote, inginocchiato dinanzi al vescovo ricevetti il sacro calice e la patena con queste parole: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Non mi fu detto … adesso vai a fare festa con gli amici gioiosi attorno alla mensa tra schitarrate, danze e tamburelli. Nella sostanza mi fu detto: adesso sali sul Monte Calvario e mediante il tuo sacrificio conformati al sacrificio di Cristo. Questa, è l’essenza della nostra fede e, se vogliamo veramente seguirlo, dobbiamo essere consapevoli ― come sta scritto nel Vangelo del Beato Evangelista Luca ― non c’è altra strada che quella indicata da Cristo stesso: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» [Lc 9, 22-25].

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… ma come sarebbe a dire dolore … croce … il Cristianesimo è amore, è gioia! Certo, è l’amore di Cristo morto in croce per la nostra salvezza ed è la gioia della risurrezione del Verbo di Dio fatto uomo e asceso al cielo che siede oggi alla destra del Padre; il Cristianesimo è la gioia di quella risurrezione alla quale noi siamo assimilati, perché come recitiamo nella IIIª Preghiera Eucaristica quando facciamo memoria dei defunti: «Egli trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso». Questo, è il Cristianesimo, tutto il resto, per parafrasare il Libro del Qoelet che diceva «vanità di vanità», è solo emotività di emotività. E, tra la fede e l’emotività, la differenza che corre è profondamente sostanziale, perché di mezzo c’è quella croce che l’emotivo superficiale non vuole e che fugge per vivere una falsa fede da menù di ristorante, mentre l’uomo di vera fede è chiamato invece a conformare la sua vita alla croce di Cristo: «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» [Mt 10, 38].

Laudetur Jesus Christus!

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Zoverallo di Verbania, 28 giugno 2020

Casa delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

“Accoglienza” come spazio segreto da aprire a Dio perché diventi luogo di donazione

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

“ACCOGLIENZA” COME SPAZIO SEGRETO DA APRIRE A DIO PERCHÉ DIVENTI LUOGO DI DONAZIONE 

Gesù parla dell’accoglienza di un profeta e di un giusto. Chi li sa accogliere vuol dire che è lui il primo profeta e giusto. Lo dice perché Gesù è l’accogliente per eccellenza e vuole a sua volta essere accolto nelle nostre vite. Questo fa sì che noi riceviamo Gesù che è il dono per eccellenza. Dunque siamo in grado di donarci e di amare, come Lui ha fatto, portando le nostre croci, nei momenti più difficili e complessi della nostra vita.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Roma, 28 giugno 2019, Santa Maria Sopra Minerva, Gabriele Giordano Maria Scardocci, O.P. è consacrato sacerdote

qualche anno fa lessi la storia del Giardino Segreto della scrittrice Frances Hodgson Burnett. È la storia di Annie, una bambina che, in una tenuta inglese, scopre casualmente un giardino, di cui nessuno conosce l’esistenza, perché è stato reso segreto a causa di una vicenda tragica. Quel giardino, una volta aperto agli occhi di Annie diventa luogo di accoglienza, di crescita e di maturazione.

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Similmente, nelle letture di oggi [vedere Liturgia della Parola, QUI], il Signore ci parla innanzitutto dell’accoglienza di uno spazio segreto da aprire a Dio, perché diventi luogo fecondo di donazione. Nel Libro dei Re leggiamo:

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«Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere» [2Re 4, 9-10].

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In questa prima lettura, moglie e marito innominati aprono la loro casa ad Eliseo, dunque come se loro aprissero uno spazio fra lui e Dio. Eliseo prega e dopo profetizza; così viene un figlio per loro, inaspettato, e in un certo senso quasi disperato. Marito e moglie si schiudono a Dio poi sperimentano l’intervento di Dio. Dunque loro per primi sono aperti e sono in qualche modo fecondi.

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Questa è la bellezza di quando anche noi apriamo uno spazio per Dio e per chi ci manda. Questo accade anche oggi, per tutti noi, se sappiamo aprire il cuore e la nostra intimità al progetto di Dio, davvero ci riempirà di doni inattesi, di un centuplo inaspettato, di amicizie e gioie che mai ci saremmo aspettati. Dunque, dall’accoglienza del progetto di Dio su di noi, viene un essere fecondi. Scrive San Paolo:

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«Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» [Rm 6, 4].

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La fecondatività è espressa da Paolo proprio nella vita nuova che viviamo, a cominciare dal Battesimo. Infatti dal Battesimo in poi, il Signore ha preso dimora, ha riempito lo spazio della nostra anima, permettendoci di camminare in un cammino di vita nuova, fino alla gloria, dunque fino a quando saremo insieme a Lui in Paradiso.  Il Battesimo è vita nuova feconda, perché permette a tutti noi di essere liberati dal peccato originale e riempiti dal carattere battesimale, dalla grazia e dai doni dello Spirito Santo. Così diviene feconda anche la nostra vita spirituale, perché in forza del battesimo viviamo la liturgia e una preghiera personale con cui chiediamo intercessione per gli altri battezzati. Quindi dall’accoglienza viene la fecondatività, e dalla fecondatività viene il dono di sé. Nel vangelo leggiamo:

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«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto» [Mt 10, 40-41].

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Gesù parla dell’accoglienza di un profeta e di un giusto. Chi li sa accogliere vuol dire che è lui il primo profeta e giusto. Lo dice perché Gesù è l’accogliente per eccellenza e vuole a sua volta essere accolto nelle nostre vite. Questo fa sì che noi riceviamo Gesù che è il dono per eccellenza. Dunque siamo in grado di donarci e di amare, come Lui ha fatto, portando le nostre croci, nei momenti più difficili e complessi della nostra vita.

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La ricompensa del giusto è allora l’imitazione di Gesù in un amore più grande, fino alla morte, un’imitazione che dopo la morte lo porterà a risorgere con Cristo stesso.

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Scriveva Voltaire «L’originalità non è altro che imitazione giudiziosa».

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Signore donaci il coraggio di imitarti nelle scelte decisive, la forza di aprire uno spazio in fondo al cuore, la tenerezza di donarci come te nella Trinità per amare fino alla fine.

Così sia.

Roma, 28 giugno 2020

Solennità dei Santi Pietro e Paolo

Anno I del mio sacro ministero sacerdotale

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Solo se ci lasciamo amare da Dio, senza facili ottimismi e pericolosi determinismi, «andrà tutto bene»

— la Chiesa e la grave emergenza coronavirus —

SOLO SE CI LASCIAMO AMARE DA DIO, SENZA FACILI OTTIMISMI E PERICOLOSI DETERMINISMI, «ANDRÀ TUTTO BENE»

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Andrà tutto bene, ma per chi? Dopo ogni epidemia, guerra o terremoto è andato sempre tutto bene? Ne siamo certi? Solo dopo svariati anni e a prezzo di perdite e sacrifici, non privi di quelle situazioni di corruzione che contraddistinguono le situazioni di destabilizzazione sociale, è andato tutto bene.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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la foto è una bufala [vedere QUI] ma l’immagine in sé potrebbe rendere tragicamente l’idea …

Il mio ruolo di sacerdote mi impone – con grande sacrificio – di discernere continuamente la realtà, partendo dalla Parola di Cristo e tralasciando la parola del mondo. Questo significa imparare a rimanere dentro una storia di salvezza che ha Cristo come origine e compimento, anziché perdersi dietro a miraggi di salvezza auto-prodotti che rivelano puntualmente tutti i limiti e le inefficienze del caso. E quando parlo di salvezza, mi riferisco a quella per antonomasia: la salvezza integrale che si è fatta rivelazione e che abbraccia il corpo e lo spirito dell’uomo.  

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Voglio partire analizzando un’espressione che nelle scorse settimane di quarantena è divenuta il leitmotiv della resistenza al coronavirus in Italia. A ben vedere la trovo al limite tra la bassa psicologia dell’ottimismo e il melenso senso civico. Inutile dire che in essa era racchiuso poco di cristiano. E l’espressione a cui mi riferisco ― e che trovo fuori luogo ― è la seguente: «andrà tutto bene». Ce ne sarebbe anche un’altra che dice «è mia responsabilità», ma già la prima dà sufficiente materiale per una riflessione critica.

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«Andrà tutto bene» è un’espressione umana suggerita dall’emergenza che abbiamo vissuto e che pare non sia terminata ― formulata anche con propositi buoni ― ma che ancora una volta risente di quella pretesa di auto-salvazione che esclude la grazia ed esalta l’innato desiderio prometeico dell’uomo. Espressione che ricorda molto da vicino quell’ottimismo cinematografico statunitense, quel pensiero positivo ma distraente dalla fede, un modo di essere e di apparire che brilla per lo spirito di iniziativa ma nulla più. Scusate, ma io non mi ci ritrovo, non ci credo tanto in questo: «Andrà tutto bene».

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Facendo una rapida ricerca di notizie sul web [1] sembra che in Lombardia, tra il 5 e il 6 marzo scorso, siano iniziate a circolare scritte su post-it con questo slogan e più tardi tale fenomeno si è andato estendendo al resto d’Italia. A questa frase si è pensato bene di aggiungere l’onnipresente arcobaleno sostenuto da due nuvolette, simbolo che oggi è stato arruolato dal pensiero unico, svuotato di qualunque connotazione biblica e di alleanza noachica [cf. Gen 9, 8- 12], per rieditarlo come simbolo di lobby e di lotta ai diritti. E a vedere come è stato confezionato l’arcobaleno antivirus, ci si aspetterebbe la comparsa di Lepricani e pentole di monete d’oro, e invece…

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Una modalità che forse riuscirà a distrarre i bambini ma che difficilmente riuscirà a convincere gli adulti. Anzi ― a tutt’oggi ― l’attuale crisi sanitaria, inizia a diffondere un certo sconforto generalizzato che non tarderà a tramutarsi in depressione traumatica. Invece, per quanto riguarda la genesi dell’annesso slogan antivirale, si possono scegliere diverse interpretazioni. C’è chi opta per l’origine laica, sostenendo che si tratti dell’intuizione letteraria di un’anonima poetessa lombarda [2]. Altri ancora [3], con la tendenza a battezzare ogni cosa, sostengono che si tratti invece di una frase detta da Gesù a Giuliana di Norwich, mistica inglese vissuta tra il XIV e il XV secolo.

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«Andrà tutto bene», cosa significa in realtà e qual è il soggetto di questa espressione? Fatemi capire, andrà tutto bene dopo che il virus si sarà fermato, dopo che ci saranno stati migliaia e migliaia di morti, dopo che in molti avranno perso il lavoro, dopo che l’economia nazionale sarà in ginocchio, dopo che la sanità sarà ridotta ai minimi storici, dopo che le famiglie non riusciranno più a pagare le bollette e a mettere insieme il pranzo con la cena? Andrà tutto bene, ma per chi? Dopo ogni epidemia, guerra o terremoto è andato sempre tutto bene? Ne siamo certi? Solo dopo svariati anni e a prezzo di perdite e sacrifici, non privi di quelle situazioni di corruzione che contraddistinguono le situazioni di destabilizzazione sociale, è andato tutto bene.

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A questo punto una domanda: è questo l’ottimismo che dovrebbe farsi carico di sostenere le persone, anche quelle credenti? Da sacerdote non posso assecondare un pensiero del genere, dispiacendomi per tutti coloro che deluderò e che vorrebbero vedere nel prete il dispensatore di una certa anestetizzazione di massa che tiene buono il gregge in attesa dell’inevitabile tosatura.

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Non voglio seguire l’ermeneutica dell’ottimismo ma della sicura speranza, risoluto nell’insegnamento paolino che dice: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» [cf. Rm 8,35]

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Così come hanno fatto tutti i Padri de L’Isola di Patmos con i loro ultimi scritti su questo tema, penso anch’io che sia decisamente più credibile e cristianamente più sensato il modo di vedere di San Paolo quando afferma sempre nella Lettera ai Romani, alcuni versetti prima dei precedenti che ho citato, «Tutto concorre al bene, per coloro che amano Dio» [cf. Rm 8,28].

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In questa frase capiamo immediatamente di che cosa stiamo parlando. Il bene cristiano è il risultato di un rapporto d’amore, cioè di un raffinato lavoro dello Spirito, che svela la weltanschauung in cui Dio si manifesta attraverso l’opera del Figlio [cf. Gv 5,17]. È in questo patto d’amore indissolubile e insostituibile che ogni cosa diventa veicolo che concorre al bene; tutto serve, tutto è interconnesso, non esiste realtà in cui Dio non faccia sentire la sua voce.

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Quanti santi, fedeli cristiani e uomini comuni hanno scoperto Dio a partire da situazioni di sofferenza, in quelle realtà apparentemente distanti da Lui. È il caso del giovane Christoph Probst, fiero oppositore del regime nazista e di Hitler, che durante la sua prigionia, prima di essere condannato a morte e ghigliottinato, riceverà il santo Battesimo, la Comunione e l’Unzione degli infermi. Farà in tempo però a scrivere una lettera alla madre, con queste parole: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. A pensarci bene, non è stata che un cammino verso Dio» [4].

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Ecco la felix culpa del preconio pasquale, un lento e inarrestabile cammino verso Dio, in cui la colpa antica – origine di ogni male – diventa il felice paradosso della Provvidenza, attraverso cui Dio salva coloro che lo amano, sperano e si affidano a Lui.

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Da questa pandemia possiamo uscirne solo amando Dio e lasciandoci amare da lui, è il Signore che in queste circostanze ci sta parlando, anzi sta urlando al nostro cuore attraverso il suo Spirito, così come fece con il beato apostolo Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami? […] mi vuoi bene?» [cf. Gv 21,15-17]. E Pietro dovette rispondere proprio dopo il rinnegamento, dopo quella colpa consumata nella paura, dopo quella malattia spirituale che aveva reso vani i suoi giuramenti [cf. Mc 14,29-31]. Quel rinnegamento, fatto nel cortile del sommo sacerdote [cf. Mc 14,66-72], è stato per lui una felice colpa che gli ha permesso di riscattarsi amando maggiormente il Signore e lasciandosi amare da Lui pur nella consapevolezza della propria debolezza.

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«Tutto concorre al bene, per coloro che amano Dio», scriviamolo in ogni cuore, non come pericoloso determinismo per cui qualunque cosa si volgerà comunque al bene ma nella corrispondenza di quell’amore crocifisso che ha vinto il mondo e ancora oggi lo vince.

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Senza l’amore di Dio, nulla, a ben rifletterci, potrà mai andare bene.

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Laconi, 18 giugno 2020

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[1] https://www.corriere.it/tecnologia/20_marzo_05/coronavirus-spuntano-lombardia-decine-biglietti-solidali-anonimi-tutto-andra-bene-a29b7edc-5ed0-11ea-bf24-0daffe9dc780.shtml?refresh_ce-cp

[2] https://www.animafaarte.it/andra-tutto-bene-significato-archetipico/

[3] https://it.aleteia.org/2020/03/24/non-andra-tutto-bene-ma-dio-e-sempre-con-noi/

[4] http://liceogbruno.edu.it/docum/giornata_memoria/giornata_2016/La%20Rosa%20Bianca-Documenti.pdf

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Cristo Pio Pellicano è il cuore della solennità del Corpus Domini

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

CRISTO PIO PELLICANO È IL CUORE DELLA SOLENNITÀ DEL CORPUS DOMINI   

L’inno Adoro te devote esprime nei suoi versi la tenerezza di Gesù, perché ci descrive il Signore come un pellicano che si strappa il cuore per cibare i suoi piccoli.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Pie pellicáne, Jesu Dómine, Me immúndum munda tuo sánguine, Cujus una stilla salvum fácere, Totum mundum quit ab ómni scélere (O pio pellicano Signore Gesù, purifica me, peccatore, col tuo sangue, che, con una sola goccia, può rendere salvo tutto il mondo da ogni peccato).

oggi celebriamo un’altra meravigliosa festa del Signore, il Corpus Domini. Mistero grande, donatoci dal Signore nell’Ultima Cena, ultimo atto di tenerezza per l’uomo.

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Il bellissimo testo di san Tommaso D’Aquino Adoro te devote esprime nei suoi versi la tenerezza di Gesù, perché ci descrive il Signore come un pellicano:

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«Oh pio Pellicano, Signore Gesù, / Purifica me, immondo, col Tuo sangue / Del quale una sola goccia può salvare / Il mondo intero da ogni peccato».

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Gesù è il pellicano che dona il suo sangue per noi suoi piccoli, per tenerci in vita. Sicché, le letture di oggi [vedere Liturgia della Parola, QUI] ci introducono a questo mistero di presenza, comunione e dimora con Gesù. Innanzitutto, in Deuteronomio, troviamo già delle tracce della presenza viva e forte del Signore:

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«Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

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L’invito di Mosè al popolo ebraico è di non dimenticare e, dunque, di ricordare che il Signore ha nutrito con la manna il suo popolo, mentre era in situazioni di grande pericolo. Era sempre con loro, mentre li conduceva fuori dalla schiavitù egizia. La manna è una prefigurazione del cibo eucaristico, con cui ancora oggi il Signore ci è vicino e ci dona nutrimento nelle difficoltà della vita. Questo invito è allora per noi: non dimentichiamoci di Gesù Eucaristico, quando tutto sembra buio, quando sembra non ci sia via di uscita.  Il Signore stesso aiuta, mediante l’Eucarestia, a riconoscere le nostre schiavitù morali ed esistenziali e a uscirne. Mentre San Paolo espone in modo forte e chiaro questo mistero di presenza e comunione:

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«Vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane».

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Questo è un insegnamento grandissimo. Ogni volta che facciamo la comunione, entriamo in comunione con Gesù; e questo, ci rende comunione fra noi. Diventiamo uno solo, senza perdere la nostra distinzione personale. Il grande insegnamento di questa festa è di provare a vivere ogni messa, ogni partecipazione alla comunione come fonte di unità, ecclesiale ma anche interpersonale: l’Eucarestia ci aiuti a superare le divisioni e le spaccature che possono nascere.  Infatti da questa comunione c’è l’esperienza di Dio che dimora in noi. È questo allora il centro dell’insegnamento di Gesù:

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«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».

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Nell’originale greco, quel “rimane” si può tradurre anche con dimorare, prendendo proprio una sfumatura di luogo. Adesso che faremo la comunione, Dio prenderà dimora in noi. Questo dimorare ha un significato importantissimo: infatti è accogliere un altro punto di vista, quello di Dio che entra nelle pieghe più intima dell’anima, del cuore e dunque della vita. Il rimanere di Gesù in noi permette allora di aprirci ad una visione contemplativa, profonda, con lo sguardo di Dio su tutte le persone che incontriamo, su tutti gli eventi che ci accadono.

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Scriveva il poeta William Blake: «Le rovine del tempo costruiscono dimore nell’eternità».

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Chiediamo al Signore di sentire il bellissimo tocco di Gesù nei nostri cuori tramite le specie eucaristiche, affinché al di là del tempo che scorre fra minuti e secondi e della storia che si dipana fra anni e secoli, possiamo continuare a camminare fino al raggiungimento della vita Eterna e a costruire la dimora eterna per gustare il banchetto finale del Paradiso.

Così sia

Roma, 14 giugno 2020

Solennità del Corpus Domini

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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La Sapienza: antidoto al cancro della emotività di preti e laici

— I video delle lectiones magistrales —

LA SAPIENZA: ANTIDOTO AL CANCRO DELLA EMOTIVITÀ DI PRETI E LAICI 

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Il sentimentalismo emotivo è la negazione della sapienza, perché il sentimentale emotivo è chiuso alla trascendenza nella misura in cui è ripiegato nella dimensione ottusa del … “ma io sento …”. E ripiegando l’uomo nel culto del proprio “io”, in nome di una non meglio precisata apertura, non si creano affatto società aperte, ma società chiuse che finiscono poi col divenire società schizofreniche, all’interno delle quali la emotività diviene elemento di violenza e di ingiustizia.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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La Sapienza di Re Salomone

In questa lectio spiego che per penetrare gli arcani misteri di Dio e della Rivelazione, si procede attraverso la ragione che ci guida sino alla porta dei grandi misteri di Dio. A quel punto, dalla ragione si procede attraverso la fede. Per questo, alla ragione e alla fede, si è soliti accompagnare la parola sapienza: sapientia fidei, sapientia mentis, sapientia cordis, tutti elementi che danno vita alla giustizia, perché Dio è giusto in quanto misericordioso e misericordioso in quanto giusto. Una misericordia senza giustizia, non è neppure pensabile, salvo trasformare Dio in altro, in qualche cosa di diverso da ciò che egli è e che si è rivelato all’uomo, ad esempio mutandolo in una melassa misericordista […]

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Dall’Isola di Patmos, 1° giugno 2020

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