La Lega Santa Felina in difesa della tradizione del presepe dall’ideologia del politicamente corretto e del … “famolo strano”!

— il cogitatorio di Ipazia  —

LA LEGA SANTA FELINA IN DIFESA DELLA TRADIZIONE DEL PRESEPE DALL’IDEOLOGIA DEL POLITICAMENTE CORRETTO E DEL … FAMOLO STRANO !

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A spingere alla istituzione di questa Lega Santa Felina è stato anche uno sventato attentato presso l’aeroporto romano di Fiumicino, quando un gatto siriano appartenente al gruppo terroristico Gattisis  ha tentato di lanciarsi sul presepe allestito dall’Associazione degli operatori di volo al grido di «Miao akbar ».

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Autore Ipazia Gatta Romana

Autore
Ipazia Gatta Romana

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Attraverso la Via di Emmaus delle corsie dell’ospedale: il Cappellano come discepolo e compagno di viaggio nella malattia

— pastorale sanitaria —

ATTRAVERSO LA VIA DI EMMAUS DELLE CORSIE DELL’OSPEDALE: IL CAPPELLANO COME DISCEPOLO E COMPAGNO DI VIAGGIO NELLA MALATTIA

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… nella parabola del Buon Samaritano, è chiaro il riferimento a Gesù come colui che si prende cura dell’uomo bastonato dai briganti e versa sulle sue ferite olio e vino simboli della grazia sacramentale che da Cristo scaturisce con abbondanza e potenza. L’uomo maltrattato dai briganti è preso in carico da Gesù affinché passi dalla condizione di moribondo a quella di risorto.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Ivano Liguori, Ofm. Capp. in visita al reparto di pediatria dell’Ospedale Brotzu di Cagliari con i folletti e Babbo Natale

Il fatto che «soli si muore» ci guida a capire, attraverso l’esperienza quotidiana, che nella vita tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci affianchi e insieme a noi condivida i momenti spensierati e di prova. La constatazione divina di Genesi 2,18 «Non è bene che l’uomo sia solo», a mio parere non si deve leggere solo come riferimento dell’unione sponsale tra uomo e donna, ma come imperativo alla socialità e alla comunione. L’uomo è chiamato a fare esperienza di Dio solo nella comunione con il fratello. Il mistero stesso della Trinità, è mistero di comunione, non esiste in Dio solitudine.

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Nel momento della prova e della malattia la dinamica dell’essere con è essenziale affinché si verifichi un vero accompagnamento che sia di supporto e di stimolo per non sentirsi soli e per gustare così la provvidenza di Dio che mette al nostro fianco qualcuno che ci ama. Già la sapienza del salmista ci fa cantare: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme» [cf Sal 133,1].

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Due sono gli episodi del Vangelo che meglio di altri incarnano il dovere di prossimità del cristiano verso l’uomo sofferente nel corpo e nell’anima: la parabola del Buon Samaritano [cf. Lc 10,23-37] ed il racconto dei Discepoli di Emmaus [cf. Lc 24,13-35]. In questi brani evangelici l’evangelista Luca, maestro di tenerezza e di compassione, rivela l’amore preferenziale di Cristo per l’uomo infermo. Da qui nasce lo stimolo al coraggio di non passare oltre.

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foto ricordo dopo la Santa Messa di Natale nel reparto di pediatria

Nella parabola del Buon Samaritano è chiaro il riferimento a Gesù come colui che si prende cura dell’uomo bastonato dai briganti e versa sulle sue ferite olio e vino simboli della grazia sacramentale, che da Cristo scaturisce con abbondanza e potenza. L’uomo maltrattato dai briganti è preso in carico da Gesù affinché passi dalla condizione di moribondo a quella di risorto. La figura dell’uomo bastonato sulla strada, esprime con vividezza:

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«la ferita inguaribile da cui siamo stati colpiti […] e che solo il Signore poteva guarire. È per questo che egli è venuto di persona, perché nessuno degli anziani, né la Legge, né i profeti, erano capaci di porvi rimedio. Solo lui, venendo, ha guarito questa inguaribile ferita dell’anima» [cf. Macario il Grande, Omelie, (Coll. II), XXX, 8].

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Gesù buon samaritano compie un passaggio di stato nella vita di ogni uomo: dall’orizzontalismo dell’infermità al verticalismo della nuova vita [cf. Lc 4,38-39]. Gesù è colui che risana e guarisce poiché è il Signore. La potestà del Risorto e la sua signoria si manifestano attraverso una nuova creazione che si compie nell’uomo attraverso un passaggio dalla condizione di infermità alla condizione di salute che diventa attestazione di salvezza e quindi di risurrezione.

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Natale nel reparto di pediatria

Davanti all’azione risanante di Gesù, si avverte la necessità di essere collaboratori di una cura che si esprime nel tempo e che viene portata avanti grazie all’opera del padrone della locanda a cui viene affidato il compito di custodire e proseguire il lavoro di risanamento iniziato da Cristo. Così,  nella cura e nell’assistenza degli infermi, la figura del cappellano ospedaliero incarna colui al quale Gesù affida la custodia del moribondo, obbedendo al mandato di aver cura di lui, mutandolo in ministro dell’annuncio pasquale che Gesù è risorto e che è il Signore [cf. At 3,1-16], da questo annuncio scaturisce la potenza della guarigione.

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Nel ministero di consolazione e di cura che viene svolto in ospedale, il cappellano è chiamato a imitare gli atteggiamenti del Buon Samaritano che vede l’infermo ma non passa oltre. Nel medesimo tempo, il cappellano è anche ministro di diaconia nella misura in cui è capace di assumere e progettare realtà concrete di assistenza nel tempo della malattia di tanti uomini poveri e disagiati. 

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Possiamo dire allora che il ministero ospedaliero verso gli infermi è un servizio missionario, che nell’annuncio, nella cura e nell’accudimento edifica la Chiesa volto di Cristo tra i sofferenti. Ecco allora che il compito di cura e di compassione si coniuga nell’accompagnamento dello sfiduciato, dell’uomo senza speranza, perciò infermo nell’anima.

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Natale nel reparto di pediatria

Alla luce della prossimità e dell’impulso al cammino comune, l‘episodio del Vangelo di Luca dei Discepoli di Emmaus ci mostra Gesù che si rende compagno di viaggio dell’uomo che ha perso la speranza e la gioia. Infatti la malattia, la paura della morte e la solitudine, distruggono la gioia nell’uomo, così come mettono a dura prova la fede. Domande come: «perché proprio a me?» e «dove è Dio in tutto questo?» provano l’infermo e la sua famiglia e richiedono una risposta che non può mai essere scontata o facilona. Allora, contemporaneamente al prendersi cura del malato, c’è bisogno di un camminare insieme con lui, aprire il suo cuore al messaggio gioioso di Pasqua: Dio è vincitore della morte, della malattia, della solitudine dell’uomo.

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Natale lungo la Via di Emmaus dell’ospedale …

L’annuncio della Parola di Dio, la vicinanza umana del cappellano e della comunità cristiana che visita di frequente l’infermo, realizzano quel miracolo della inclusione e dell’accompagnamento che predispone poi l’infermo a dismettere il volto triste della delusione e della tristezza per vestire l’esultanza e la riconoscenza in Gesù vivo. Per questo il camminare vicino al malato all’interno della realtà ospedaliera significa attuare con costanza e spirito missionario la visita quotidiana ai reparti di degenza, l’incontro con le famiglie dei malati, la cura sacramentale delle anime inferme.

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Il cappellano è chiamato per dovere di giustizia a incontrare il malato, non solo per obbedire al comando di Cristo [cf. Mt 25,36], ma per farsi viaggiatore con lui dentro la malattia, amico che asciuga le lacrime e riempie un vuoto, profeta che annuncia che Dio è fedele e realizza le sue promesse.

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i discepoli lungo la Via di Emmaus [vedere testo lucano QUI].

Cristo Signore, attraverso la mediazione umana e sacramentale del sacerdote cappellano, spezza ancòra il pane della Parola e dell’Eucaristia affinché i ciechi riacquistino la vista, gli zoppi camminino, i lebbrosi siano purificati, i sordi  tornino ad udire, i morti siano richiamati alla vita, i poveri siano immersi nella buona novella del Regno [cf. Lc 7,22].

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Un ministero di questo tipo è senza dubbio faticoso, lento e meticoloso e si presta a condivide la stessa pazienza divina, affinché l’uomo malato nel corpo e nello spirito sia, giorno dopo giorno, curato e amato affinché possa raggiungere la salute e la salvezza che sono condizioni normali per ogni figlio di Dio.

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Cagliari, 28 dicembre 2018

Nell’Ottava di Natale

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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

«Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità»… E il Verbo si fece carne

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«QUANDO AVRAI ELIMINATO L’IMPOSSIBILE, CIÒ CHE RIMANE, ANCHE SE POCO PROBABILE, DEVE ESSERE LA VERITÀ» … E IL VERBO SI FECE CARNE

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Sherlock Holmes, acuto investigatore, risolve i casi più intricati e misteriosi di assassinio, scoprendo con arguta sagacia l’omicida. Questo personaggio, è così in grado di rivelarci qualcosa di nascosto, portando alla luce ciò che non è subito visibile. Egli ha come proprio motto: «Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità» … E il Verbo si fece carne.

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Autore
Gabriele Giordano Scardocci, O.P.

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Buon Natale a tutti voi!

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Shelock Holmes, vignetta d’epoca

Anche quest’anno abbiamo la gioia di vivere insieme questa solennità del Signore. La nascita di Gesù, Figlio di Dio, è uno dei principali misteri della nostra fede, sintetizzato nel Vangelo di Giovanni appena proclamato [vedere testo, QUI]. Proviamo ad addentrarci in questo grande mistero a partire da un’opera letteraria.

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Tutti conosciamo il personaggio letterario Sherlock Holmes, nato dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle nel secolo scorso nel romanzo Uno Studio in Rosso. Holmes, investigatore privato londinese, è accompagnato dall’amico medico, il dottor Watson. Holmes, acuto investigatore, risolve i casi più intricati e misteriosi  di assassinio, scoprendo con arguta sagacia l’omicida. Questo personaggio, è così è in grado di rivelarci qualcosa di nascosto, portando alla luce ciò che non è subito visibile. Egli ha come proprio motto: «Quando avrai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, anche se poco probabile, deve essere la verità».

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Con la sua nascita e venuta al mondo, Gesù bambino aiuta tutti noi ad entrare nella luce del mistero di Dio; con questa sua missione, che in teologia è chiamata missione visibile della Trinità, ci aiuta ad eliminare l’impossibile ed a trovare quella verità che, a prima vista, può sembrare persino poco probabile.

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Il Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato poco fa ci aiuta dunque a cogliere il grande mistero. Per comprenderlo, bisogna partire dalla fine del brano:

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«Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» [cf. v. 18]. 

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Il desiderio forte che ci rende uomini in uno stato più elevato consiste nel vedere, conoscere e scoprire. Perciò il desiderio di conoscere e scoprire Dio è quello più alto in assoluto. È una scintilla di umanità che vuole diventare fuoco. Questo ce lo permette il Figlio unigenito, Gesù, che è Dio insieme al Padre seppure distinto da Lui. Gesù esaudisce il nostro desiderio più profondo di aprirci alla verità e all’amore più grande. Ciò è possibile perché ci ha donato, in questo Natale tutto sé stesso: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» [cf. v. 16].

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Diventando uomo, Gesù accoglie tutta l’umanità e tutto l’uomo senza eccezione e senza condizioni: questa è la sua pienezza. L’averci accolto incondizionatamente ha permesso una cascata di amore e accoglienza: questa cascata è la Sua grazia che, innanzitutto, noi riceviamo nei sacramenti.

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Tramite la grazia che apre la nostra conoscenza profonda di Dio, possiamo esseri certi che

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« Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […]» [cf. v. 16].

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Nella cultura attuale questo sembra davvero improbabile e inaccettabile. Perché il Verbo che è Dio, spirituale e invisibile, farsi carne [dal greco σάρξ, sarx]? Perché Dio è amore e vuole chiamarci ad un’intimità e tenerezza profonda con Lui, sino a permettere il miracolo di assumere la natura umana ed un corpo vero, reale e fisico. Esattamente come una gocciolina d’acqua viene assunta in una più ampia parte di vino, così natura umana e divina esistono insieme in Gesù. Fra poco vedrete questo mistero della duplice natura, mostrato nella liturgia quando io stesso, adempiendo alla mia funzione di diacono, mescolerò nel calice insieme al vino con qualche gocciolina d’acqua, seguita dalle sommesse parole:

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«L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione, con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana».

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Perciò ora che sappiamo che Gesù ci ha rivelato Dio, ci ha spalancato le porte della grazia e ci ha permesso di contemplare la gloria della sua bellissima duplice natura, con occhi scintillanti di felicità e serenità possiamo dire con fede: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» [cf. v. 1].

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Il Verbo, dal greco λόγος, logos [Parola] è Dio stesso: è la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo ed è intimamente unito al Padre, e vuole trasportarci alla intima unione con la Trinità stessa e dunque ad essere piccola Trinità anche noi.

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Questo mistero, dall’alto della sua intangibilità, ora scende nella concretezza della vita quotidiana: adesso che tornerete a casa per radunarvi assieme con chi più amate per il pranzo di Natale, chiediamo al Signore la forza e la determinazione di essere testimoni di fronte ai nostri parenti e amici dell’amore di Gesù che oggi nasce. Affinché noi stessi, una volta ricevuto Gesù nella comunione eucaristica e uniti in Lui, possiamo condurre anche i più lontani alla grotta di Betlemme. Affinché anche noi tramandiamo la purezza, la bellezza e la verità con cui viviamo la fede cattolica.

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Così sia.

 

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Roma, 25 dicembre 2018

Natività del Signore

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Qualche chiarimento affinché il nostro Natale sia meno povero e meno ideologico: in verità, a Betlemme era solo tutto esaurito, Gesù Cristo non è nato da due immigranti …

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

QUALCHE CHIARIMENTO AFFINCHÉ IL NOSTRO NATALE SIA MENO POVERO E MENO IDEOLOGICO: IN VERITÀ, A BETLEMME ERA SOLO TUTTO ESAURITO, GESÙ CRISTO NON È NATO DA DUE IMMIGRANTI …

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Tra il 25 e il 26 dicembre dovremo sorbirci i resoconti giornalistici stillanti correttezza politica che c’informeranno in quante gloriose cattedrali e basiliche, durante la Santa Messa della Notte di Natale, è stato fatto riferimento ad un Gesù povero e profugo. E più la cattedrale o la basilica sarà prestigiosa, più l’omileta avrà alzato il tiro …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

 

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Puer natus est, alleluja !

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non c’era un posto, a Bethlehem …

Dedicheremo l’omelia al Vangelo di questa Santa Notte al legame che unisce l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo al mistero della Santissima Eucaristia [vedere testo della Liturgia della Parola, Lc 2, 1-14, QUI].

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Nei giorni precedenti questo Santo Natale, ed in quelli che seguiranno, il divino mistero di questa nascita è stato definito in tanti modi dal mondo sempre più mondano e laicista, solo qualche esempio: il Natale indicato come «festa della pace», «festa della solidarietà», «festa dell’amore tra i popoli e dell’accoglienza delle diversità», ovviamente «festa dei poveri» e «festa degli immigranti». Sia chiaro: io non sono turbato né dai poveri né dagli immigranti, credo anzi sia nostro dovere umano e cristiano aiutare i poveri ad uscire dal loro stato di povertà, ed ai veri profughi che fuggono da guerre e carestie ad avere una patria: «Ero straniero e mi avete accolto» [cf. Mt 25, 31-46].

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A turbarmi, non è quindi il dramma della povertà, né il problema della immigrazione; da cinque anni a questa parte a turbarmi è altro, ed in specie quando in occasione del Santo Natale e della Santa Pasqua, queste due categorie ormai ideologiche ― poveri e migranti veri o sedicenti tali ―, prendono il posto del Verbo di Dio incarnato e del Cristo Risorto.

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Tra il 25 e il 26 dicembre dovremo così sorbirci i resoconti giornalistici stillanti correttezza politica che c’informeranno in quante gloriose cattedrali e basiliche, durante la Santa Messa della Notte di Natale, è stato fatto riferimento ad un Gesù povero e profugo. E più la cattedrale o la basilica sarà prestigiosa, più l’omileta avrà alzato il tiro. E così, come ad ogni 1° gennaio avremo il tradizionale resoconto dato da giornali e telegiornali sugli incidenti di capodanno avvenuti a Napoli, altrettanto accadrà nella nostra Chiesa sempre più incidentata dalla mondanità, ed il 26 dicembre potremo festeggiare la memoria di Santo Stefano Protomartire con tutti i resoconti più dettagliati sui pranzi che si sono tenuti nelle nostre chiese alla vigilia di Natale e sulle omelie a base di poveri e profughi che nelle stesse si sono tenute tra la notte del 24 ed il giorno del 25 dicembre, tra presepi divenuti ormai un monotono e conformistico tripudio di barconi e di ciambelle di salvataggio usate per adagiarvi sopra il Divin Bambinello appena sbarcato nell’Isola di Lampedusa.

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In questa Santa Notte desidero ricordare che a Natale, la orbe catholica, festeggia il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo [cf. Gv 1, 1-18], non festeggia una non meglio precisata “festa della solidarietà” svuotata del divino mistero e riempita di laicismo mondano. E le parole sono importanti, perché il modo più diabolico per distruggere la fede, è svuotare i misteri della fede del loro vero significato per poi riempirli di altro. Non più quindi memoria del grande mistero della Incarnazione del Verbo di Dio che si fa uomo assumendo la nostra stessa natura umana come illustra il Beato Apostolo Paolo nel suo celebre Inno Cristologico [cf. II Fil 2, 6-11 testo QUI], ma «festa della pace», «festa della solidarietà», «festa dell’amore tra i popoli e dell’accoglienza delle diversità» … il tutto con improbabili e non veritieri riferimenti ad un Gesù povero e profugo.

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Vediamo allora cosa narrano le cronache storiche dei Santi Vangeli: la Beata Vergine Maria, dopo avere risposto in piena libertà con il proprio «fiat» al messaggero del Signore [cf. Lc 1, 26-38], dà alla luce mesi dopo il Figlio unigenito di Dio, lo avvolge in fasce e lo depone in una mangiatoia. Questa nascita e questa deposizione in una mangiatoia non accadde nei modi narrati perché Giuseppe era povero e profugo, ma perché i due, come ci narra il Santo Vangelo che abbiamo appena proclamato [Lc 2, 1-14], erano in viaggio da Nazareth verso Betlemme per adempiere l’obbligo del censimento ordinato da Cesare Augusto [cf. Lc 2, 1-14]. Giuseppe era un artigiano che svolgeva il nobile e redditizio mestiere di ebanista, mentre Maria proveniva da una famiglia forse ancor più benestante di quella di Giuseppe, basti pensare che il marito di sua cugina Elisabetta era un Sacerdote della antica casta di Abìa [cf. Lc 1, 57-80]. Pertanto, se Gesù nasce in un luogo di fortuna è perché, come narrano i Santi Vangeli, non c’era un posto libero in alcun albergo [cf. Lc 2, 1-6]; non perché Giuseppe non avessero di che pagare l’alloggio quando la beata Vergine fu colta dalle doglie del parto durante quel viaggio, intrapreso non per scelta volontaria, ma per un dovere giuridico imposto dall’obbligo di farsi censire [cf. Lc 2,1].

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L’evento più grande della storia, l’incarnazione del Verbo di Dio, è descritto attraverso la successione di alcune fondamentali parole chiave: dare alla luce, avvolgere in fasce, porre in una mangiatoia. Con queste parole semplici e chiare si narra la nascita del Figlio Unigenito di Dio Padre, Gesù, la Luce del mondo. Perché «Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce» [Fil 2, 6-11]. Lui, che è Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato della stessa sostanza del Padre [Simbolo Niceno-Costantinopolitano], vede la luce con gli occhi di un vero uomo nascendo dal ventre di una donna, la Beata Vergine Maria.

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Il Figlio Unigenito di Dio posto nella mangiatoia, costituisce per noi un grande valore mistagogico. Nella mangiatoia si depone infatti il cibo per gli animali: il fieno e la paglia, tenendoli elevati da terra affinché non si sporchino. Gesù, ponendosi nella mangiatoia, rivela al mondo sin dalla nascita qual è la sua vera essenza: il Verbo di Dio fatto uomo viene per farsi nutrimento reale degli uomini.

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Anche oggi Cristo è deposto nella mangiatoia dell’altare o del tabernacolo affinché tutti possano accostarsi a Lui per adorarlo come lo adorarono i festanti pastori accorsi [cf. Lc 2, 15-20] ed i Maghi Astronomi detti Re Magi [cf. Mt 2, 1-12], affinché tutti possano nutrirsi di Lui nella Santissima Eucaristia, che è il mistero del suo corpo donato e del suo sangue versato. E nell’Eucaristia Cristo non è presente simbolicamente o metaforicamente, ma realmente; Egli è presente vivo e vero in anima corpo e divinità.

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Cristo redime e salva l’umanità col sacrificio della croce, immolandosi come agnello di Dio che lava il peccato dal mondo [cf. Gv 1, 29-34], facendosi vero cibo, vero nutrimento dell’uomo. La Santissima Eucaristia è il mistero della mutua trasformazione: Dio si è fatto uomo come noi, affinché noi, lavati dal peccato col suo sangue, attraverso Cristo cibo di vita eterna possiamo trasformarci in Lui, con Lui e per Lui. Ricordate che cosa recita il celebrante quanto fa memoria dei defunti nelle Santa Messe di suffragio? Noi sacerdoti, agendo in quel momento in persona Christi ― non certo come dei meri “presidenti dell’assemblea gioioso-giocosa” ―, recitiamo questa bella orazione: «Egli trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso» [cf. Messale Romano, III Preghiera Eucaristica]. Questo, s’intende per mistero della mutua trasformazione.

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Ma qual è il vero Cristo Signore gioia viva ed eterna dell’umanità deposto in fasce nella mangiatoia? La gioia dell’uomo è Cristo accolto e ascoltato che diviene nostro cibo di vita eterna: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» [cf. Gv 6, 51]. Se Cristo non diviene nostro cibo vivo e nostra vita reale, l’uomo non potrà mai conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32]. Non saranno mai le parole fini a se stesse a dare all’uomo quella gioia che pervade il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni; meno che mai lo saranno quelle parole vuote che anziché condurre ai misteri della fede e della salvezza, svuotano questi misteri e li riempiono di altro, spesso di mondanità e di moderna paganità.

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Finché l’uomo non mangia in spirito di fede e verità Cristo nella sua carne immolata per la nostra salvezza, nessuna vera gioia nascerà per lui. E la carne viva e palpitante di Cristo Dio, prende sì vita in una tenera mangiatoia, ma poi finisce immolata su una croce per la nostra redenzione. Infine, il corpo glorioso di Cristo, risorge dalla morte. Perché l’epilogo finale della natività è la risurrezione. Ce lo dice il Beato Apostolo Paolo: «Se Cristo non fosse veramente risorto, vana sarebbe la nostra fede, vana la nostra speranza» [cf. I Cor 15,14].

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La nostra fede nasce con l’Incarnazione del Verbo di Dio deposto in una mangiatoia, ma è suggellata dalla pietra rovesciata di un sepolcro vuoto, dinanzi al quale l’Angelo dice alle donne: «Non cercate tra i morti colui che vive» [cf. Lc 24,5]. La tenera mangiatoia è solo l’inizio del grande annuncio cristologico, mentre il Cristo risorto è l’eterno, colui che affiancandoci nel cammino lungo la Via di Emmaus [cf. Lc 24, 13-53], ci guiderà attraverso i secoli verso il suo regno che non avrà fine, verso l’eterno.

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Dall’Isola di Patmos, 24 dicembre 2018

Notte di Natale – Natività del Signore

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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Il Verbo di Dio incarnato per la nostra salute: il Natale come percorso terapeutico alla luce dei Padri della Chiesa

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL VERBO DI DIO INCARNATO PER LA NOSTRA SALUTE: IL NATALE COME PERCORSO TERAPEUTICO ALLA LUCE DEI PADRI DELLA CHIESA

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Appare chiaro, come il mistero della venuta di Cristo sulla terra, presenta una nuova strategia terapeutica che la provvidenza divina rende fruibile per ogni uomo. L’incarnazione conduce a una profonda affinità tra il Salvatore e l’uomo. L’affinità di Cristo nei confronti dell’uomo si costituisce nel rivestire una natura fragile e segnata dal peccato pur senza assumerne la colpa originaria.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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il Verbo di Dio si è fatto uomo per divenire medico celeste sulla terra

La nascita di Cristo costituisce l’evento più grande dell’intera storia umana: in questa venuta, Dio si riveste della natura dell’uomo rendendosi con lui solidale. Tale serena immersione dell’Altissimo  nella nostra fragilità, attua il progetto di redenzione atteso da tutti i profeti.

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Conformemente a questa volontà di Dio «i Padri e tutta la tradizione ecclesiale vedono in lui un medico inviato dal Padre per guarire gli uomini malati dalle conseguenze del peccato originale e per far ritrovare alla natura umana la sua salute originaria» [cf. Jean-Claude Larchet, Terapia delle malattie spirituali, ed. San Paolo, 2003, pg 2699].

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In questo agire divino, dobbiamo scorgere chiaramente ciò che costituisce il fulcro della nostra dignità che non può essere offuscata da nessuna persona e da nessuna cosa, segno quanto mai eloquente del valore intrinseco di ogni persona, anche se inferma.

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Essere resi degni — per grazia — della natura divina del Figlio di Dio, costituisce nell’uomo la vera identità personale che il Santo Pontefice Leone Magno spiega proprio a partire dal mistero della natività:

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«Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna» [cf. Leone Magno, Discorsi, Omelia I per il Natale, 1-3; PL 54, 190-193].

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L’incarnazione di Cristo determina così una profonda liberazione di tutto l’uomo che diventa il paradigma della sympátheia divina [cf. Pietro Crisologo, Sermones, 50; PL 52, 340], attitudine che coniuga in sé la capacità che Dio ha di assumere la sofferenza umana insieme alla capacità di risanarla. 

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Questo concetto lo troviamo espresso in modo chiaro in diverse guarigioni compiute da Gesù e testimoniate dagli evangelisti. Abbiamo di fronte il paradigma del guaritore ferito, colui che è capace di risanamento perché si rende malato con l’infermo.

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Appare chiaro, come il mistero della venuta di Cristo sulla terra, presenta una nuova strategia terapeutica che la provvidenza divina rende fruibile per ogni uomo. L’incarnazione conduce a una profonda affinità tra il Salvatore e l’uomo. L’affinità di Cristo nei confronti dell’uomo si costituisce nel rivestire una natura fragile e segnata dal peccato pur senza assumerne la colpa originaria, dice il Concilio:

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«Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per l’umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato”…» [cf. Concilio di Calcedonia, Symbolum: DS 301-302].

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Il principio di affinità tra Cristo e l’uomo, congiunge il divario tra il divino e l’umano e questo permette alla natura divina di guarire in profondità la natura umana attraverso una compromissione radicale e del tutto nuova, infatti: «un sano può curare chi non lo è solo se è anch’egli malato con il malato. È l’antica cura che offriva il centauro Chirone alla gente ferita che andava a visitarlo, di essere curante perché a sua volta ferito» [cf. Lucio Coco, a cura di: Io ti guarirò, ed. Abbazia di Praglia, 2013].

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Cristo realizza veramente la speranza di risanamento totale che gli antichi hanno rappresentato nel mito del centauro guaritore Chirone, così

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«ogni cosa che Cristo aveva messo nel corpo umano di natura celeste, vedendo che era consumata da una malvagità corrosiva e che il sinuoso serpente era signore dei mortali, poiché voleva risollevare la sua parte, non lasciò il morbo agli altri medici – infatti è sufficiente per i gravi morbi un piccolo rimedio –, ma svuotandosi della sua gloria, essendo celeste e immutabile immagine del divino, da uomo e contro le leggi mortali, nelle viscere sante di una vergine donna si è incarnato, o miracolo incredibile per gli uomini sfiniti» [cf. Gregorio di Nazianzo, Pœmata moralia: 1,2,38 vv. 140-148; PG 37, 533].

         

La condizione dell’uomo, nei confronti del medico celeste, necessita di una quotidiana fiducia che è il sentimento umano che – illuminato dalla grazia – conduce alla virtù teologale della fede.

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Così, come l’infermo guarisce solo se ripone la sua fiducia in chi lo cura, la fiducia in Dio è necessaria per comprendere come l’intera vita cristiana è un percorso di risanamento in cui noi siamo condotti tra le braccia del Signore per riavere la salute. Senza questa fiducia, mai possiamo ritenerci del tutto al sicuro da qualche infermità.

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La fiducia in Dio è necessaria per non presumere di noi stessi e per non cadere nella patologica scontentezza lamentosa, che è figlia dalla vanità e dell’affanno mondano. Sant’Agostino approfondisce il tema dell’avvento di Cristo, in relazione alla fiducia e alla disponibilità che l’uomo dimostra verso Dio, affermando:

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«Al genere umano giacente infermo nel gran letto del mondo venne in soccorso quel nostro gran medico. Un medico valente osserva e studia il corso della malattia, fa una prognosi sui suoi sviluppi e, quando è ancora lieve la sofferenza del malato, fa intervenire i suoi aiutanti; allo stesso modo il nostro medico mandò prima a visitarci i Profeti che ci portarono la loro parola, la loro predicazione, ed egli guarì alcuni per mezzo loro. Essi annunciarono un aggravamento del male in prossimità della fase finale, che avrebbe richiesto l’intervento del medico in persona a cui potesse direttamente ricorrere il malato. Era stato annunciato che avrebbe consolato e sanato chi avesse avuto fede in lui: «Io percuoto e guarisco» [cf. Dt 32,39]: e così avvenne. Egli è venuto, si è fatto uomo assumendo la nostra condizione di uomini mortali perché noi possiamo condividere la sua immortalità. Ma gli uomini sono ancora travagliati dalla malattia e, riarsi dalla febbre, con il respiro affannoso, si lamentano che da quando è arrivato il medico, le febbri sono diventate più violente, più grave il tormento, insostenibili i patimenti. Da qualunque parte sia giunto il medico, non sembra loro sia stata salutare la sua venuta. Questi i lamenti di chi è ancora immerso nella malattia delle vanità mondane, avendo rifiutato di ricevere dal medico, la medicina della sobrietà» [cf. Sant’Agostino, Sermones: 346/A,8; NBA 34, pg 101].

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Ogni anno il Natale è preceduto da un congruo tempo di preparazione affinché la nostra vita cristiana si renda sobria da tante distrazioni e ubriacature che ci distraggono dalla fiducia in Dio. La venuta di Cristo nel mondo è motivo di grande gioia [cf. Lc 2,10], proprio perché il Padre

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«nel corso del tempo ha convinto la nostra natura della propria impotenza nell’ottenere la vita; ora egli ci ha mostrato il Salvatore che ha la potenza di salvare anche ciò che non poteva esserlo: attraverso questo duplice mezzo, ha voluto che noi avessimo fede nella sua bontà e che vedessimo in lui […] un medico» [cf. Lettera a Diogneto, IX, 6].

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Rinfrancati da questa certezza, accogliamo il Natale del Signore come la visita del medico celeste e accantoniamo la paura e la vergogna di farci visitare, presentando anche quelle piaghe più nascoste e infette che ci fanno orrore. I nostri occhi così, come quelli del santo vegliardo Simeone, contempleranno la salvezza e con il salmista saremo lieti di cantare «Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito» [cf. Sal 30,3].

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Cagliari, 24 dicembre 2018

Vigilia di Natale

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Questa è la mistica cristiana: l’anima della Vergine Maria che si magnifica nel Signore e che ci ricorda che nel Nome di Cristo Redentore ogni ginocchio si pieghi

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

QUESTA È LA MISTICA CRISTIANA: L’ANIMA DELLA VERGINE MARIA CHE SI MAGNIFICA NEL SIGNORE E CHE CI RICORDA CHE NEL NOME DI CRISTO REDENTORE OGNI GINOCCHIO SI PIEGHI

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Taluni eccessi di devozione popolare da un lato, vecchi eccessi di cautela ecclesiastica dal lato opposto, hanno indotto a dimenticare a lungo un’altra figura straordinaria quanto quella di Maria: quella di Giuseppe. Prudentemente dipinto come un vecchietto messo più o meno in un angolo in disparte, o variamente chiamato nelle giaculatorie col titolo di “castissimo sposo”. Giuseppe non è divenuto santo perché era “castissimo”, ma perché ha accolto e fatto sua la libertà di Maria. Appoggiando e proteggendo con la propria libera scelta di fede il si di Maria. Il Verbo si è potuto incarnare perché quest’uomo di grande fede — che era un giovanotto, non quel vecchietto decrepito posto accanto alla mangiatoia, quasi come se la stalla di Bethlehem fosse per lui la succursale di un reparto di geriatria — ha protetto Maria e il mistero. In caso contrario, la fine di questa giovane rimasta incinta senza marito, senza la fede e l’amore di Giuseppe sarebbe stata la lapidazione.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
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Laudetur Jesus Christus !

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Visitazione della Beata Vergine Maria alla cugina Elisabetta. Opera di Domenico Ghirlandaio, XV secolo, refurtiva d’arte conservata presso la celebre Casa Francese delle Rapine d’Arte nota anche come Museo del Louvre di Parigi

L’amabile figura della Beata Vergine Maria proposta dal Santo Vangelo di questa IV domenica d’Avvento [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] è stata letta è interpretata in tutti i modi nel corso dei secoli, dalla letteratura popolare alla letteratura colta. Si pensi alla monumentale ode con la quale Dante apre il XXXIII canto del Paradiso con la preghiera di San Bernardo alla Vergine: 

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Vergine madre, figlia del tuo Figlio,
Umile ed alta più che creatura,
Termine fisso d’eterno consiglio.

Tu se’ colei che l’umana natura
Nobilitasti sì, che il suo Fattore
Non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore
Per lo cui caldo nell’eterna pace
Così è germinato questo fiore […]

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Nel mondo teologico l’attenzione rivolta alla Beata Vergine ha dato vita a una disciplina di ricerca e di studio: la mariologia, nata anche per correggere e riportare entro i ranghi della fede cattolica un problema che ha sempre pervaso certe sacche di fedeli, principalmente noi mediterranei e i vari popoli latinoamericani, animati sovente da quella cosiddetta fede più o meno popolare che non di rado ha mutato i culti mariani in forme di mariolatria; autentiche deviazione dalla fede che è nostro dovere pastorale e sacerdotale correggere, sempre e comunque, anche quando attorno a certi fenomeni circola molto denaro, anzi, soprattutto se attorno a certi fenomeni comincia a circolare troppo danaro …

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A predicare un passo del Vangelo che parla di Maria non c’è che l’imbarazzo della scelta: possiamo avviare il discorso partendo da mille strade diverse e dire altrettante mille cose diverse, ma le sintesi di Maria sono due, racchiuse in un principio e in una fine che segnerà il trionfo e l’inizio del mistero cristologico. L’inizio del cammino di Maria è un sì [cf. Lc 1, 26-38]; la fine del percorso di Maria proiettata per prima nel mistero del grande inizio, è quella croce che ci porterò sin davanti alla pietra divelta del sepolcro vuoto del Risorto.

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La fede e l’amore della Vergine Maria permettono a Dio Padre di realizzare il mistero dell’incarnazione. Dio bussa alle porte della libertà di questa giovinetta, poco più che adolescente, con una richiesta che supera ogni immaginario umano: Dio vuole farsi uomo. Come liberamente l’antica Eva disubbidì a Dio assieme all’antico Adamo, con altrettanta libertà Maria dice di si, divenendo a suo modo la nuova Eva dell’umanità. Senza molte parole, senza alcun discorso filosofico e teologico, il si di questa giovane ragazza cambiò la storia dell’umanità; e con quel sì «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi [Gv 1, 14].

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Taluni eccessi di devozione popolare da un lato, vecchi eccessi di cautela ecclesiastica dal lato opposto, hanno indotto a dimenticare a lungo un’altra figura straordinaria quanto quella di Maria: quella di Giuseppe. Prudentemente dipinto come un vecchietto messo più o meno in un angolo in disparte, o variamente chiamato nelle giaculatorie col titolo di “castissimo sposo”. Giuseppe non è divenuto santo perché era “castissimo”, ma perché ha accolto e fatto sua la libertà di Maria. Appoggiando e proteggendo con la propria libera scelta di fede il si di Maria. Il Verbo si è potuto incarnare perché quest’uomo di grande fede — che era un giovanotto, non quel vecchietto decrepito posto accanto alla mangiatoia, quasi come se la stalla di Bethlehem fosse per lui la succursale di un reparto di geriatria — ha protetto Maria e il mistero. In caso contrario, la fine di questa giovane rimasta incinta senza marito, senza la fede e l’amore di Giuseppe sarebbe stata la lapidazione. Non a caso, Giuseppe, prima di ricevere l’illuminazione divina, da uomo giusto e buono che era, aveva pensato a ripudiarla in segreto, salvandole così la vita [cf. Mt 1,16.18-21.24]

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Dicevo all’inizio che Maria può essere letta partendo da mille strade diverse, dicendo altrettante mille cose diverse. Vorrei scegliere la strada della mistica …

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… nella liturgia precedente al Concilio Vaticano II, la Preghiera Eucaristica veniva recitata dal sacerdote a bassa voce e le persone tenevano la testa chinata in segno di umiltà, quasi non osando guardare il grande mistero del pane e del vino che divengono corpo e sangue di Cristo, sua presenza viva e reale nella Chiesa. Dinanzi al mistero e al dono ineffabile del pane e del vino che divengono corpo e sangue di Cristo, il minimo che possiamo fare è stare in ginocchio, in segno di umiltà e di adorazione. Cosa questa che andrebbe ricordata ai nostri fedeli, soprattutto a quegli uomini che ritengono di potersene stare impettiti a testa alta con la mani incrociate sulla patta dei pantaloni, forse perché afflitti da gravi problemi di prostata? Animo, cari uomini, l’urologia ha fatto passi da gigante, il vostro problema è dunque risolto!

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Il valore, umile e adorante dell’inginocchiarsi, andrebbe non ultimo ricordato anche a certi nostri cerimonieri, che contro ogni tradizione e pedagogia ecclesiale danno talvolta pio esempio al Popolo di Dio ammaestrando giovani diaconi, accoliti, seminaristi e ministranti nel pieno possesso di tutte le loro migliori forze e funzioni fisiche a starsene in piedi attorno all’altare; il tutto — notate bene — in una società dove l’uomo, forse il vescovo e il presbìtero più ancora di tanti secolari, si inginocchia sempre più e sempre più spesso dinanzi agli idoli umani più diabolici, fuorché al mistero di Dio fatto uomo incarnato nel ventre della Beata Vergine, morto e risorto dalla morte, dopo averci lasciato il dono della sua ineffabile presenza nel Mistero dell’Eucaristia, dinanzi al quale inginocchiarsi è davvero il minimo “sindacale” che si possa fare.

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Che dolore, entrare in certe chiese e trovare al posto delle panche con gli inginocchiatoi delle file di sedie o delle graziose poltroncine stile platea di cinema, costate peraltro molto più delle vecchie panche!

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La mistica si fa in ginocchio, altrettanto la liturgia si fa in ginocchio, perché la liturgia non è fatua estetica creativa ma centro e comunione del mistero divino. La liturgia non è uno spettacolo del prete attore o del prete regista, perché del sacro mistero e della liturgia che lo realizza noi siamo servi fedeli e strumenti devoti, non creatori, non padroni. E dinanzi al mistero divino ci si prostra, ed all’occorrenza il buon Popolo di Dio — spesso molto più sensibile e intelligente di quanto non lo siano certi suoi preti — dovrebbe ricordarlo anche a certi maestri di cerimonia, ossia che non ci si inginocchia per consuetudine o per vecchia tradizione, ma per ovvio, sensibile, adorante e cristiano buonsenso dinanzi all’ineffabile misterium fidei.

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Mentre la mistica non cristiana tende a essere individualista, a porsi dinanzi al mistero di Dio a testa alta e a esaltare l’individualismo in ogni sua forma, la dimensione mistica cristiana che nasce dalla comunione e dal comunitarismo, rifiuta ogni forma di individualismo ed ha sempre un aspetto sociale ed ecclesiale, una dimensione adorante e liberante che si genuflette per mostrare anche col corpo, tempio vivo dello Spirito Santo di Dio, quella dimensione di amore alla quale ci invita l’Apostolo con le sue parole: «Nel nome di Gesù  ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» [I Fil 2, 6-11].  

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L’atto della contemplazione e soprattutto dell’adorazione, non si restringe al rapporto privato, soggettivo e personale con Dio; la contemplazione e soprattutto l’adorazione, ha un profondo slancio inter soggettivo sulla Chiesa e sull’intera umanità.

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Mistica come mistero: ogni cristiano non solo vive nel mistero, ma è chiamato a vivere in comunione col mistero, in quanto egli stesso mistero e parte viva del mistero della creazione. E tra poco, dopo il canto del Sanctus, tutti entreremo in comunione col mistero del Corpo e del Sangue di Cristo.

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Pensare alla mistica e ai mistici come persone che vivevano più o meno sulle nuvole o che in modo prodigioso lievitavano in estasi da terra, in parte è sbagliato e in parte è riduttivo. Infatti, mentre certe forme orientali di mistica non cristiana cercano il distacco col corpo e con la materia, la mistica cristiana è strettamente legata alla terra, al corpo e alla materia, perché nei disegni di Dio le due sfere di cielo e terra non sono estranee ma si uniscono; e si uniscono nel corpo e nello spirito. Gli elementi mistici che realizzano il sacro mistero e che rendono il Cristo stesso presente tra noi, sono elementi della terra legati alla terra. Forse per questo sarebbe bene non sovrapporre canti e musiche alle importanti parole dell’offertorio che spesso, i nostri fedeli, tra un tamburello e una schitarrata rischiano di non ricordare più: «… dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna». Segue, subito appresso, altrettanta preghiera sul vino, mentre il popolo dovrebbe rispondere — se chitarre e tamburelli non lo impedissero — «Benedetto nei secoli il Signore».

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La Beata Vergine Maria che scandisce le parole del Magnificat è un esempio privilegiato della nostra mistica basata sulla materia, sul corpo e sulla dimensione terrestre, perché grazie a lei si compie il più grande e mistico mistero: il Verbo diviene carne per giungere ad abitare in carne e ossa in mezzo a noi. Un Verbo Incarnato grazie a questa giovinetta che si genuflette con l’anima e col cuore dicendo: «Ecco, io sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la sua parola» [cf. Lc 1, 26-38].

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Tra le tante cose Maria ci insegna a vivere col cuore al cielo e coi piedi per terra, perché nei misteri di Dio, Gerusalemme terrena e Gerusalemme celeste si fondono assieme; e si fondono oltre la pietra del sepolcro vuoto del Redentore, che è morto fisicamente e che è risorto altrettanto fisicamente per la salvezza del mondo.

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Tutto questo è stato possibile grazie al sì di una giovinetta la cui anima si è magnificata e genuflessa nel Signore, grazie al suo spirito che ha esultato in Dio nostro salvatore. Quindi grazie al sì di un santo uomo di Dio, Giuseppe, che anzitutto e avanti a tutto era e rimane per noi esempio mirabile di uomo vero e deciso, che con amore protesse il si di Maria dicendo a sua volta si al mistero di Dio, insegnandoci a essere uomini veri e decisi, ed a farci per amore, con lui e con Maria Madre di Dio, servi fedeli del Signore, affinché la nostra anima possa essere in Lui magnificata.

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dall’Isola di Patmos, 23 dicembre 2018

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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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Cari Lettori, aiutate i veri profughi: quelli che vivono su L’Isola di Patmos, giovanneo luogo dell’ultima rivelazione, dove la verità ci farà liberi

CARI LETTORI, AIUTATE I VERI PROFUGHI: QUELLI CHE VIVONO SU L’ISOLA DI PATMOS, GIOVANNEO LUOGO DELL’ULTIMA RIVELAZIONE, DOVE LA VERITÀ CI FARA LIBERI

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Se una volta al mese, un buon numero di Lettori decidesse di offrirci una pizza, un cappuccino e un cornetto, od anche e solo un caffè, il nostro lavoro potrebbe procedere serenamente senza dover vivere spesso con l’ansia del … «Speriamo di farcela!».

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Cari Lettori,

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il Padre Ariel sulla neve, che prima o poi si «disigilla» …

la nostra fede ci insegna che nella notte buia apparve una stella che guidò i pastori verso il mistero del Verbo Incarnato [cf. Mt 2, 9]. Sappiamo anche che la neve è destinata a sciogliersi al sole, dinanzi al quale il gelo cede al tepore. Scrive Dante Alighieri nel XXXIII Canto del Paradiso che si apre con la Preghiera di San Bernardo alla Beata Vergine Maria:

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Così la neve al sol si disigilla; 
così al vento ne le foglie levi 
si perdea la sentenza di Sibilla.

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Nel linguaggio di Dante, che pur poetando in “lingua volgare” rimane aderente alla etimologia latina, il termine «disigillare» non significa sciogliere, ma significa: perdere la propria forma.

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Seguendo la stella di Dio come i pastori, in questa notte gelida e buia che avvolge la Chiesa, noi camminiamo verso quel sole vivo che è Cristo, dinanzi al quale questa neve sarà infine disigillata e la sua forma innaturale e nociva dispersa.

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Con l’anno nuovo L’Isola di Patmos entra nel suo quinto anno di vita, che sarà compiuto il 20 ottobre 2019. Facendo un bilancio possiamo dire che i risultati sono stati a dir poco sorprendenti: nel corso degli ultimi tre anni abbiamo totalizzato quasi trenta milioni di visite. La nostra media oscilla tra le 800.000 e le 900.000 visite al mese per una media di circa 30.000 visite giornaliere. Non abbiamo mai conosciuto un momento di flessione, il grafico segna solo un progressivo aumento. Se vogliamo potremmo chiamare il tutto successo, a noi piace però chiamarlo grazia di Dio.

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Agli inizi del nuovo anno, dopo le feste saranno apportate alcune modifiche alla home-page ed inserita una pagina recante l’indicazione «note legali e amministrative», all’interno della quale saranno contenuti tutti i relativi dati. Infatti, il 30 novembre 2018 abbiamo costituito le Edizioni L’Isola di Patmos attraverso la forma legale della pia associazione. Allo stesso tempo L’Isola di Patmos è divenuta una rivista con regolare iscrizione presso L’Ordine dei Giornalisti ed il registro della stampa del Tribunale.

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Tutto ciò ha comportato notevoli spese che hanno implicato le spettanze del notaio e del consulente commerciale, più tutta una serie di relative tasse versate all’Agenzia delle Entrate, all’Ordine dei Giornalisti, al Tribunale, ecc …

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Non avendone i mezzi, tutte queste spese sono state sostenute da mia madre e da mio fratello, che hanno voluto contribuire a questa nostra opera apostolica, che vi ricordo non va certo a beneficio loro, ma di tutti voi che sempre più numerosi ci seguite e che potete beneficiare dei frutti del nostro lavoro, o se preferite: della nostra vita spesa interamente per il Popolo di Dio e per la diffusione della fides catholica.

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Più volte, numerose persone, di fronte a certi nostri scritti ci hanno domandato: «Chi vi da il coraggio?». Non pochi altri ci hanno domandato: «Non temete che ve la faranno pagare?». Ebbene, il coraggio è null’altro che quell’aiuto che ci viene dal Signore che ha fatto cielo e terra [cf. Sal 120], mentre, per quanto riguarda il tributo che spesso è stato fatto ampiamente pagare, forse è meglio stendere un velo pietoso e procedere oltre …

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L’Isola di Patmos può esprimersi con piena libertà e nella legittima libertà dei figli di Dio, invitando chi ci segue a conoscere la verità, nella piena consapevolezza che la verità ci farà liberi [cf. Gv 8, 32], semplicemente perché non è alle dipendenze di nessun potentato, ma solo alle dipendenze di Cristo e della sua Santa Chiesa. E la libertà dei figli di Dio, per poter essere veramente esercitata, obbliga a non essere iscritti sul libro paga di nessun censorio prepotente. Infatti, noi non prendiamo soldi né dai Cavalieri di Colombo, né dal Principe del Liechtenstein, amorevolmente sollecitati dalla Segreteria di Stato a riversare generose somme di danaro su soggetti che non sono reputati leali servitori della verità, bensì solo reputati umoralmente graditi, se non addirittura premiati per il modo in cui nascondono o adulterano la verità. O, detta in altri termini: avrebbe mai potuto, San Giovanni Battista proteggere le condotte di vita di Erode Antipa, in cambio delle sue generose sovvenzioni profuse sulla sua opera di predicazione? In fondo, questo tiranno era solo convivente con la moglie di suo fratello ed aveva una passione erotica del tutto malsana per la nipotina Salomé. Volendo si sarebbe potuto fargli fare, con misericordioso spirito di amore e letizia, anche un blando percorso penitenziale per poi riammetterlo ai Sacramenti assieme alla propria concubina ed alla sua deliziosa nipotina, come non esiterebbero ad affermare coloro che pigliano soldi dai Cavalieri di Colombo e dal Principe del Liechtenstein dietro amorevole sollecitazione della Segreteria di Stato, presso la quale sono operosi gli arrotini che affilano la lama necessaria per il taglio della testa del Battista.

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Sappiamo però quanto il Battista non la pensasse così, infatti finì con la testa tagliata deposta su di un vassoio, perché il suo senso di misericordia si reggeva tutto quanto sulla verità e sulla giustizia.

Per questo noi abbiamo sempre camminato sul filo del rasoio, con tutti i disagi economici del caso, pur avendocela sin oggi fatta, seppur sempre pel cosiddetto rotto della cuffia, beneficiando unicamente delle offerte dei Lettori e delle offerte dagli stessi a me date per la celebrazione delle Sante Messe di suffragio per i defunti, interamente utilizzate per le spese de L’Isola di Patmos, sempre con rigorosa indicazione pubblica delle offerte ricevute e relativo bilancio su quanto ricevuto redatto alla fine di ogni anno [cf. QUI].

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Facevamo questo conto: se solamente cinquanta Lettori ci versassero agli inizi dell’anno 2019 l’importo di 120 euro, corrispondenti a 10 euro al mese, sarebbero interamente coperte le spese di circa 6.000 euro necessari al mantenimento del sito che ospita questa rivista. Purtroppo invece, coloro che nel 2018 hanno fatta questa sottoscrizione sono solo 12 Lettori, per un importo totale raccolto pari a 2.520 euro, di cui 1.200 versati da una singola Lettrice che predispose un versamento mensile di 100 euro.

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Alle porte di questo Santo Natale, invitiamo soprattutto coloro che ci scrivono per manifestare apprezzamento per la nostra opera e per la nostra lealtà alla Chiesa di Cristo ed alla fides catholica, a rendere questo apprezzamento concreto offrendoci il loro sostegno economico. Infatti, se solo coloro che ci contattano per ringraziarci, per mostrarci apprezzamento e stimolarci, ci versassero solo pochi euro, noi non dovremmo correre, ed a volte pure con una certa paura, sul filo del rasoio, né io dovrei ricorrere alla generosità dei miei familiari per avere quel danaro necessario per lavorare gratis et amor Dei a beneficio dei tanti che ci dicono e che ci scrivono «bravi!». Perché con mille «bravi» non si pagano i servizi di abbonamento del sito e le altre spese — che ripeto ammontano a 6.000 euro all’anno —, mentre, con un solo euro dato da mille persone, qualche cosa invece si paga, se i mille che ci dicono «bravi!» ci mandassero solo un euro di offerta a sostegno della nostra opera.

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Invitiamo i più affezionati e volenterosi a voler disporre un versamento mensile secondo le proprie generose possibilità tramite l’efficace e sicuro sistema Paypal che si trova a fondo di pagina, chi invece preferisce può farlo anche tramite conto corrente. Se infatti una volta al mese, un buon numero di Lettori decidesse di offrirci una pizza, un cappuccino ed un cornetto, od anche e solo un caffè, il nostro lavoro potrebbe procedere serenamente senza dover vivere spesso con l’ansia del … «Speriamo di farcela!».

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Il tutto mentre Giovanni Battista strilla nel deserto, mentre l’erotica Salomé danza per obnubilare il tiranno e mentre i camerieri di Erode lucidano il vassoio sul quale deporre la sua testa, già abbondantemente tagliata col generoso contributo finanziario del Principe del Liechtenstein e dei Cavalieri di Colombo, il tutto a lode e gloria di Cristo Dio!

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Possa Dio avere pietà per tutti coloro che, in virtù dei quattrini e della partecipazione al potere, assistono, o peggio partecipano attivamente a favorire il degrado della Santa Sposa di Cristo gettata sul marciapiede.

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«Dice il peccatore: “Dio è misericordia”. Ecco un inganno comune del Diavolo verso i peccatori, per cui molti rischiano di dannarsi. Scrive un dotto autore: “Ne manda più all’Inferno la misericordia di Dio, che non la sua giustizia”. Infatti, questi miserabili, confidando temerariamente nella misericordia non cessano di peccare, così si perdono. Iddio è misericordia, chi lo nega? Si, è misericordioso, però è anche giusto, per ciò castiga chi continua ad offenderlo. Egli usa misericordia, ma a chi lo teme» [Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa, in Pagine Alfonsiane sulla Misericordia, n. 105: Il paradosso della misericordia].

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A tutti voi, un felice Natale.

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dall’Isola di Partmos, 21 dicembre 2018

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Il penoso presepe del settimanale Fanghiglia Cristiana: e per le famiglie d’italiani che dormono in macchina, che posto c’è? Ridotti gli sprechi con la eliminazione dei bidet dagli alloggi papali

— il cogitatorio di Ipazia  —

IL PENOSO PRESEPE DEL SETTIMANALE FANGHIGLIA CRISTIANA: E PER LE FAMIGLIE D’ITALIANI CHE DORMONO IN MACCHINA, CHE POSTO C’È? RIDOTTI GLI SPRECHI CON LA ELIMINAZIONE DEI BIDET DAGLI ALLOGGI PAPALI

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Per ridurre tutto all’essenziale ed evitare inutili sprechi, sembra siano stati aboliti i bidet con Motu proprio summorum pontificum dagli alloggi papali […] d’artronne, come se po’, na ‘a Chiesa povera pe’ li poveri, spreca’ acqua preziosa pe’ lavasse er culo, quanno ner monno esisteno bambini che moiono de sete pe’ mancanza d’acqua?

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Autore
Ipazia gatta romana

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Rapsodia della fede. Una meditazione su musica, canto e teologia: l’essere umano come riverbero di gloria

catechesi & pastorale —

RAPSODIA DELLA FEDE. UNA MEDITAZIONE SU MUSICA, CANTO E TEOLOGIA: L’ESSERE UMANO COME RIVERBERO DI GLORIA.

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Come insegna la bellissima immagine platonica presente nel dialogo Ione : coltivare la tradizione musicale liturgica significa essere i rapsodi dell’amore divino incarnato e vivo sulla terra. Significa farsi sempre di più voce di Dio per l’uomo.

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Autore
Gabriele Giordano Scardocci, O.P.

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il Graduale Triplex, Hebdomada Tertia Adventus

Canto e musica sono una espressione spontaneamente umana e naturale. Dalla semplice esperienza quotidiana notiamo come i nostri giorni sono allietati dalla presenza di canzoni che diventano colonne sonore della routine quotidiana. Le radio, le televisioni, i lettori di musica mp3 e persino i telefoni cellulari Samsung ed Iphone, oggi sono veicoli di questa musica che ci accompagna; che esprime i nostri sentimenti, le nostre gioie, paure e anche desideri. Scriveva il letterato francese Marcel Proust:

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«La musica è l’esempio unico di ciò che si sarebbe potuta dire — se non ci fosse stata l’invenzione del linguaggio, la formazione delle parole, l’analisi delle idee — la comunicazione delle anime»  [La prigioniera].

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Ammetto francamente di non avere mai imparato l’arte della musica se non quando sono entrato in convento, perché proprio da quando ho cominciato la vita conventuale, c’è stata un’esperienza nuova che nella mia vita non avevo mai sperimentato. Modi di pregare ne conosciamo e ne mettiamo in pratica molti, eppure per me, il modo di pregare del tutto nuovo, entrando nell’Ordine dei Frati Predicatori, è stata la preghiera espressa nel canto, in modo particolare nel canto gregoriano. Non che non avessi mai cantato prima d’ora. Anzi, quand’ero nella mia parrocchia provavo i canti della messa fra chitarre, bonghi, cembali e volendo anche un po’ di organo. Ma lì, la mia voce, si assottigliava fino a nascondersi dietro ai cantori “professionisti”.

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Un sabato di metà inverno, noi postulanti ci trovavamo in chiesa. Silenzio, solitudine e tanta concentrazione. Dopo le prove delle varie antifone e di qualche sequenza, la voce comincia a venire meno. Siamo un po’ stanchi. A questo punto però, prima di andare via, ci avviciniamo alla statua della Madonna del Rosario, che col suo sguardo sereno e materno accoglie i pellegrini dallo stanco incedere quotidiano. A quel punto propose uno di noi:

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«Perché non la salutiamo come si deve?».

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Gabriele Giordano Scardocci, O.P. con il diapason

Fu così che abbracciati, cuore solo e anima sola, guardando Maria con tanto affetto intonammo l’ode Ave Regina Caelorum. E credo fu la prima volta che dentro di me non ebbi paura di stonare. Fu la prima volta che dentro di me pensai come Bach: Soli Deo Gloria! Fino a che qualcuno commentò qualcun altro sorridendo:

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«Avrà gradito!»

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Il canto e la musica, sono dunque un fenomeno puramente umano; un fenomeno bello e affascinante. Il Signore, avendo redento l’intera umanità ed elevata ad uno stato di grazia, ha elevato anche il canto e la musica dell’uomo per essere veicolo di preghiera; essi allora divengono uno specialissimo strumento di relazione e intimità con Dio. Vediamo in che modo …

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Sin dalle liturgie dell’Antico Israele, il Popolo Ebraico celebra la sua alleanza con Dio mediante canti e inni ispirati, un esempio su tutti:

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«Ecco coloro ai quali Davide affidò la direzione del canto nel tempio dopo che l’arca aveva trovato una sistemazione. Essi esercitarono l’ufficio di cantori davanti alla Dimora della tenda del convegno finché Salomone non costruì il tempio in Gerusalemme. Nel servizio si attenevano alla regola fissata per loro» [1].

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Il primo dato biblico è la presenza del canto anche nel Popolo Ebraico. In questo passo si sottolinea la presenza di cantori ufficiali voluti da Dio nell’attesa che Salomone concluda il tempio in Gerusalemme. E da questo proponiamo dunque una prima fonte di riflessione: il ruolo di cantori assolve non solo a un’istanza tipica dell’uomo in quanto essere vivente pensante e romantico. L’essere “cantore” rientra nella stessa Antica alleanza del Signore in cui è prevista una cerchia di bravi esecutori di brani liturgici. La celebrazione del mistero di Dio richiede, quindi, un’elevazione dell’anima che arde della presenza misterica di Dio. Questa elevazione, è possibile grazie al mezzo della musica e del canto. Ecco dunque il primo ruolo del canto: essere veicolo di elevazione alla presenza di Dio.

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il Graduale Triplex

Già da ora siamo certi che il canto è quell’aliante trascendente che permette di unirci a Dio in uno slancio di puro amore. Analisi questa sulla quale sembra concordare un discorso tenuto dal Sommo Pontefice Benedetto XVI nel luglio 2015:

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«Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende? Penso si possano localizzare tre “luoghi” da cui scaturisce la musica. Una sua prima scaturigine è l’esperienza dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo. La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione della vita» [Cf. testo, QUI].

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Consideriamo ora due concordanze bibliche neotestamentarie. Alla fine dell’Ultima Cena, due evangelisti si soffermano su un dettaglio non secondario:

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«E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» [2].

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Il canto che gli Apostoli e Gesù eseguono — un inno tipico della tradizione ebraica — qui fa da preludio ai drammatici eventi della Passione di Gesù Cristo. Ma allo stesso tempo l’inno citato dai Vangeli sinottici è inserito all’interno della Nuova ed Eterna Alleanza Eucaristica che Dio opera mediante la gloriosa opera di Cristo, con l’umanità. Il legame musica, sofferenza e gloria di Dio, si fa così forte: proprio nel momento della sofferenza profonda, Gesù canta insieme agli apostoli.

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Noteremo di nuovo insieme al Sommo Pontefice Benedetto XVI:

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«Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’essere toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi». [Cf. testo, QUI]

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Frati Domenicani nel coro conventuale

Il canto qui eseguito è così uno speciale segno che vuole mostrare, col suo linguaggio composto di suoni, armonie e melodie, la gloria del Dio Cristo che, soffrendo, offre la sua vita per la redenzione [3]

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Ecco il secondo ruolo del canto: esso è dunque mezzo per mostrare la gloria a Dio, dirgli un grazie gioioso per averci donato la redenzione. È in questo senso che anche il Sommo Pontefice Francesco ha sottolineato recentemente questo ruolo nel suo recente Discorso ai partecipanti al III incontro internazionale delle corali in Vaticano il 24 novembre 2018, riproponendo la tematica in una sfumatura eucaristica:

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«La vostra musica e il vostro canto sono un vero strumento di evangelizzazione nella misura in cui voi vi rendete testimoni della profondità della Parola di Dio che tocca il cuore delle persone, e permettete una celebrazione dei sacramenti, in particolare della santa Eucaristia, che fa percepire la bellezza del Paradiso» [Cf. testo, QUI].

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Un’ultima riflessione che propongo, si spinge invece a concentrarsi non solo sul momento e sul luogo redentivo in cui viene eseguito l’inno, ma anche su chi lo esegue. Abbiamo detto: Gesù insieme gli apostoli. Ogni apostolo ha eseguito quell’inno con una propria tonalità e melodia, ed al tempo stesso lo ha eseguito con tutto sé stesso, dando il meglio di sé a Dio e unendosi così con Dio. Dunque, con linguaggio post pentecostale, diremo che tramite il canto gli apostoli si sono santificati. E così anche noi, quando facciamo lo stesso.

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Il terzo ruolo del canto, quello di essere segno della nostra santificazione e unione con Dio, ci porta a concludere con queste parole del Sommo Pontefice Benedetto XVI :

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«Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi. Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti – l’amore e la morte – il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica» [Cf. testo, QUI].

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un gruppo di Frati Domenicani nella basilica romana di Santa Maria sopra Minerva

Nella nostra tradizione domenicana non dobbiamo mai svalutare o dimenticare l’importanza del canto corale. Basti solo ricordare il motivo per il quale è stato istituito il canto del Salve Regina — e la contemporanea processione — dal Beato Giordano di Sassonia, che succedette alla guida dell’Ordine dei Frati Predicatori dopo San Domenico di Guzmàn. Infatti, il Diavolo continuava a tormentare i frati, ed allora essi si unirono nel coro mariano per eccellenza per porsi sotto il manto protettivo della Beata Vergine Maria. Per questo oggi più che mai necessario riprendere la nostra tradizione musicale e liturgica. Affinché i nostri cuori ardano come quelli del Santo Padre Domenico e, da futuri predicatori, potremmo così incendiare tutto il mondo con la Parola di Dio, Armonia Celestiale di quinte parallele che formano il coro della Chiesa Cattolica.

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Il canto è espressione più forte e vivida delle corde dell’anima, che come una chitarra strimpellata con maestria, eleva i suoi accordi d’amore al Signore. La sinfonia ha la sua chiave nel Si che diciamo all’inizio di ogni nostra scelta vocazionale, mentre il resto del pentagramma ce lo suggerisce Gesù stesso. Noi, che invece eseguiamo, siamo dal canto nostro strumenti scordati e voci stonate, non facciamo altro che lasciarci arpeggiare da Lui. L’elevazione del canto ci porta allora ad Altezze d’Amore che finora non avevamo mai pensato neanche di sfiorare. Quando poi riscendiamo sulla terra, abbiamo così ricevuto un tesoro inestimabile. Più saliamo con la voce cantante verso Dio, più possiamo penetrare i cuori degli uomini con la voce predicante. È adesso che realizziamo, con la nostra carità operativa, il mistero della Chiesa Congregante. Il riverbero, che viene a crearsi quando incrociamo le voci con due accordi diversi come in un canto per quinte parallele, genera un effetto sonoro che fa letteralmente esplodere i cuori di chi è presente alla Santa Messa. È il riverbero della Gloria, il riverbero come profusione di un affetto fortissimo. Con il Sant Padre Francesco mi sento invece di concludere:

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«La musica, dunque, sia uno strumento di unità per rendere efficace il Vangelo nel mondo di oggi, attraverso la bellezza che ancora affascina e rende possibile credere affidandosi all’amore del Padre» [Cf. testo, QUI].

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Per ciò, come insegna la bellissima immagine platonica presente nel dialogo Ione : coltivare la tradizione musicale liturgica significa essere i rapsodi dell’amore divino incarnato e vivo sulla terra. Significa farsi sempre di più voce di Dio per l’uomo.

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«Gesù dolce, Gesù amore» [Santa Caterina da Siena]

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Roma, 18 dicembre 2018

III Settimana di Avvento

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[1] Cr: 6, 16-17

[2] Mt 26:30; Mc 14: 26.

[3] Catechismo della Chiesa Cattolica 1156 «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della Liturgia solenne» [Conc. Ecum. Vat. II, Sacrosanctum concilium, 112]. La composizione e il canto dei Salmi ispirati, frequentemente accompagnati da strumenti musicali, sono già strettamente legati alle celebrazioni liturgiche dell’Antica Alleanza. La Chiesa continua e sviluppa questa tradizione: Intrattenetevi «a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5,19) [Cf Col 3,16-17]. «Chi canta prega due volte» [Cf. Sant’Agostino, Enarratio in Psalmos, 72, 1]. Ricordiamo altri due documenti del magistero pontificio a proposito della musica: Musicae Sacra Disciplina, Pio XII – enciclica 25 dicembre 1955. Musica Sacra San Paolo VI – istruzione 5 marzo 1967

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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«Io sono il Signore, colui che ti guarisce». La vita cristiana è un percorso terapeutico alla luce dell’obbedienza alla Parola

— pastorale sanitaria —

«IO SONO IL SIGNORE, COLUI CHE TI GUARISCE». LA VITA CRISTIANA È UN PERCORSO TERAPEUTICO ALLA LUCE DELL’OBBEDIENZA ALLA PAROLA.

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Nella venerazione del nome di Dio si esprime la volontà dell’uomo a sperimentare la sua presenza salvatrice e risanatrice. Ecco perché sia nell’Antico Testamento sia nell’opera di Gesù nel Vangelo la guarigione è conseguente a un ascolto obbediente della Parola che salva

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Miracolo della guarigione del cieco, narrato nel Vangelo di Giovanni: 9, 1-41

Oggi si fa un gran parlare di guarigione e metodi che conducono alla guarigione di diversi mali. Non è raro imbattersi in turlupinatori che millantano doti da guaritori a scapito di poveri ammalati che combattono con infermità gravi e invalidanti. C’è poi anche un certo mondo pseudo spirituale che dispone di un vasto arsenale di energie ed entità spiritiche che sono evocate per porre in essere guarigioni e risanamenti. Coloro che si sottomettono alla loro influenza e autorità, finiscono in un fitto ginepraio che presenta tutta una serie di terapie alternative che sono però slegate dal principio di causalità e conducono con molta sicurezza verso un sistema tecnico che sfocia nella mentalità magica e nel superstizioso [cf. Jacques Ellul, The Technological Society, 1954; Il sistema tecnico, 1977]. 

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DIO HA UN NOME CHE GUARISCE

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miracolo della guarigione del paralitico alla piscina di Betsaida, narrato nel Vangelo di Giovanni: 5, 1-18.

Per il fedele cristiano il discorso è assai diverso. Infatti, parlare di guarigione e di risanamento non è nient’altro che riconoscere la potestà di Dio sul mondo, quindi sulle leggi naturali che lo governano, ed esprimere così la sua autorità di creatore esercitata liberamente a beneficio di tutti i suoi figli:

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«Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!» [cf. Ap 1,8]

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A questo proposito, voglio citare un passo del libro dell’Esodo che recita:

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«Se tu darai ascolto alla voce del Signore, tuo Dio, e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!» [cf. Es 15,26].

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La cosa che colpisce maggiormente in questo versetto è il nome di Dio che viene presentato in virtù di una chiara azione terapeutica di risanamento: «io sono colui che ti guarisce!»

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La terapeuticità del nome divino sottende un ascolto attento che conduce a un cammino di santità ben chiaro. Il riferimento alle infermità dell’Egitto attesta la conseguenza di una vita malsana che ha ripudiato Dio e si è staccata da lui. Dio non è solo il trascendente, il numinoso, l’onnipotente, l’esistente, ma è colui che si rende conoscibile e comunicabile proprio trasmettendo il suo nome. Egli dice infatti a Mosè nel roveto ardente:

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«Io sono colui che sono!» [cf. Es 3,14].

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che non è solo l’espressione indicante un mistero — nel senso teologico del termine — ma anzitutto garanzia di una presenza che accompagna il Popolo di Israele e che protegge da ogni sciagura e libera da ogni male [cf. Sal 20,2; Pr 18,8]. Dio, comunicando il suo nome, realizza salvezza [cf. Sal 124,8], garantendo così la salute a coloro che si rivestono di questo nome:

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«Fece uscire il suo popolo […], fra le tribù non c’era alcun infermo» [cf. Sal 105, 37].

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Dobbiamo però rifuggire decisamente dall’uso magico del nome di Dio! Nel linguaggio della Sacra Scrittura il nome ha un rapporto intimo con la realtà significata, non solo si usa per designare la persona ma per esprime tutta la personalità, sicché possiamo dire che il nome  manifesta il cuore, il destino che quella persona è chiamato a compiere: il nome realizza la vocazione.

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La persona di Dio è inscindibilmente legata all’Alleanza sancita con i Padri del Popolo di Israele. Dio è anzitutto il dio di un popolo, di una nazione che si lega a lui con profondi vincoli di amore e fedeltà:

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«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» [ cf. Es. 3,15].

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L’Alleanza con il Popolo di Israele che trova in Abramo, Isacco e Giacobbe gli interlocutori privilegiati di un rapporto di amore e fedeltà ci spingono a comprendere che solo nell’obbedienza a Dio — e quindi nell’ascolto attivo della sua Parola — l’Alleanza si compie, la salvezza trova concretezza e la salute diventa manifestazione di un cammino di grazia che ricrea l’uomo a partire da un rapporto nuovo con il suo Signore.

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L’obbedienza alla Parola e l’ascolto della stessa — nella pienezza dei tempi — si specificano con l’incarnazione di Gesù Cristo, Parola fatta carne [cf. Gv 1,3]. Dio attraverso l’opera del Figlio, ricrea l’uomo ristabilendo nel suo cuore un patto nuovo [cf. Ger 31,33], non più basato sulla debolezza dei Padri d’Israele ma sulla docile volontà del Figlio che si rende obbediente e risoluto alla volontà del Padre fino alla morte e alla morte di croce [cf. Fil 2,8].

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L’OBBEDIENZA ALLA PAROLA FATTA CARNE È PRINCIPIO DI OGNI RISANAMENTO NELLO SPIRITO

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miracolo della risurrezione di Lazzaro, narrato nel Vangelo di Giovanni: 11, 1-45

Nella venerazione del nome di Dio si esprime la volontà dell’uomo a sperimentare la sua presenza salvatrice e risanatrice. Ecco perché sia nell’Antico Testamento sia nell’opera di Gesù nel Vangelo la guarigione è conseguente a un ascolto obbediente della Parola che salva [cf. Sal 81, 12-16].

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Nel suo ministero pubblico Gesù annuncia il Regno di Dio, questo diventa il momento favorevole in cui la Parola proclamata diventa anche farmaco. Infatti molte delle guarigioni compiute da Gesù avvengono nella cornice della predicazione [cf. Mc 1, 29-32; Mc 1, 40-45; Mc 2,1-12; Mc 3, 1-6; Mt 9, 14-31; Lc 13, 10-17]. La Parola di Dio — così come all’origine della creazione — è generatrice di una condizione di ordine e di salute laddove il caos del peccato e della disobbedienza umana hanno causato infermità e morte.  Allo stesso modo, nella comunità cristiana post pasquale, l’obbedienza alla Parola è sottolineata dalla presenza ordinatrice dello Spirito Santo che scende con abbondanza sopra gli apostoli il giorno di Pentecoste e conferisce loro autorevolezza nel predicare e potenza di risanamento fisico e spirituale. Dice a tal proposito il Cabasilas:

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«Chi ha il dono di […] guarire gli infermi […] lo ha ricevuto dal myron» [cf. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, 3, 2].

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Ossia: dal sacro olio del Crisma che è segno liturgico e veicolo dell’effusione dello Spirito Santo conferita ai sacri ministri. In virtù della sacra ordinazione e della intima conformazione a Cristo, i Pastori della Chiesa non solo sono costituiti maestri autorevoli di fede ma anche medici esperti con il dovere di curare le pecore inferme del proprio gregge [cf. Ez 34,4].

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La comunità apostolica post pasquale è comunità carismatica nel senso pieno del termine poiché proclamando nella predicazione che Dio opera salvezza nel Cristo risorto [cf. At 3] conferma con il carisma delle guarigioni la missione di nuova comunità ecclesiale illuminata dalla grazia, obbediente alla Parola e sempre rinnovata dall’azione vivificante dello Spirito Santo [cf At 2, 42 ss]. La Chiesa, perciò, memore di questa storia di salvezza è chiamata ogni giorno a predicare e a guarire.

         

Questo discorso lo ritroviamo affrontato dai Padri della Chiesa con il concetto teologico di rifusione ontologica, cioè di quella trasformazione di tutto l’uomo attraverso l’azione della grazia divina  che avviene — come per la Vergine Maria — in un cuore obbediente e disponibile all’azione dello Spirito Santo.

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Le virtù teologali che lo Spirito di Dio infonde in noi nel battesimo, realizzano un risanamento continuo e progressivo della nostra umanità: la fede ci guarisce perché libera l’uomo dall’angoscia dell’esistenza trasformandosi in fiducia [cf. Giovanni Crisostomo, Homilia in 1 Tm. 1,2,3; e Agostino, Enarrationes in Psalmos, 118,18,3]; la speranza ci guarisce dall’ansia della morte e anticipa un destino di immortalità in vista della risurrezione dei corpi che già opera in noi nei segni sacramentali; la carità è il grande medicamento offerto da Cristo, che guarisce ogni male e ogni dolore [cf. Barsanufio di Gaza, Lettera 62].

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VUOI ESSERE GUARITO?

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miracolo della guarigione del figlio unico della vedova, narrato nel Vangelo di Luca: 7, 11-17.

La domanda che apre questo III paragrafo appare quasi scontata, ma non è così. Anzitutto poiché essendo una domanda presente nel Vangelo non possiamo liquidarla come semplice e banale. Essa viene pronunziata, quasi come sferzata, da Gesù stesso nei riguardi del paralitico infermo alla piscina di Betzaetà [cf. Gv 5,6]. Infine perché tale domanda intende verificare il desiderio reale del malato di guarire, lasciando lavorare nella sua persona la grazia dello Spirito Santo.

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Nel Vangelo vediamo come diverse volte Gesù interroga il malato sulla volontà di voler essere collaboratore di Dio nel suo risanamento. Questa domanda interpella fondamentalmente la fede: «credi tu questo?» [cf. Gv 11,25]; «la tua fede ti ha guarito … salvato» [cf. Mt 9,22; Mt 15,28; Mc 5,34; Mc 10,52; Lc 18,42]. Avere fede per l’uomo biblico significa sostanzialmente credere nella fedeltà divina. L’avvento stesso del Messia è preceduto da promesse in cui Dio espone la sua credibilità realizzando definitivamente ciò che in diversi modi attraverso i tempi aveva annunciato  per mezzo dei profeti.

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Il cammino terapeutico di guarigione, che vediamo narrato dagli evangelisti e che resta valido anche per noi oggi, è possibile attraverso tre passi: il primo, è l’accettazione della propria condizione personale — di infermità o di peccato — alla luce del progetto salvifico di Dio [cf. Lc 7,36-50; Lc 18,13; Lc 18,39]. Il secondo, è la illimitata fiducia nella grazia divina e la volontà a collaborare con essa [cf. Mt 8,5-13; Mt 15,21-28]. Il terzo, è il concreto desiderio di conversione e di rottura definitiva con il peccato in tutti gli ambiti della propria vita [cf. Gv 4,16-19.29; 5,14; 8,11].

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Il cammino che conduce alla guarigione può esser poi più o meno veloce, istantaneo o a tappe [cf. Mc 8,22-26; Lc 17,11-19] ma quello che lo definisce è sempre l’obbedienza dell’infermo alla Parola proclamata e insegnata che diventa terreno fertile dentro il quale nasce una nuova esistenza risanata. Poiché l’uomo è un essere complesso, il suo risanamento è sempre duplice: Gesù guarendo il corpo risana l’anima e perdonando il peccato restituisce vigore al corpo [cf. Mc 2,1-12].

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IL FINE DELLA GUARIGIONE È LA SEQUELA CHRISTI.

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miracolo della guarigione del servo del centurione, narrato nel Vangelo di Luca: 7, 1-10

L’uomo divenuto obbediente alla Parola e che è stato da essa risanato è pronto per essere apostolo del Regno, affinché le opere di Dio vengano proclamate al mondo intero. Prendiamo come esempio questo passo evangelico:

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«In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni [cf. Lc 8, 1-3].

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La guarigione ristabilisce l’uomo perché esso diventi il testimone del Regno e perché l’umanità si accorga che esiste un Dio che mantiene le promesse. Consapevolizzarsi in quest’ottica è fondamentale, perché l’evento cristologico assume tutta la concretezza della vita vissuta. Un conto è seguire una dottrina filosofica bella e accattivante, altro è donarsi per una ideologia che si considera vincente, altro ancora è testimoniare con la propria vita e con le proprie ferite che Cristo ha fatto irruzione nella mia quotidianità è mi ha trasformato toccando le mie fragilità fisiche e spirituali.

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Come abbiamo avuto modo di vedere con l’aiuto dei Padri della Chiesa, assistiamo a una trasformazione dell’essere dell’uomo che non ha eguali. Il seguito di Gesù — includendo anche la comunità apostolica — è sostanzialmente composto da discepoli risanati, da persone ferite a cui è stata fatta grazia e che hanno trovato la forza di annunciare la gioia della guarigione: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» [cf. Mc 5,19ss]. Solo la gratuità della Parola e dell’insegnamento di Cristo può attivare la riconoscenza che si esprime nel dono di sé al Signore.

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L’uomo donato a Dio, così come capirà bene il beato apostolo Pietro, è capace di amare anche con la debolezza, l’imperfezione e l’infermità [cf. Gv 21,15ss], e se apparentemente alcune guarigioni appaiono come parziali, esse rimandano alla grande guarigione escatologica che avverrà alla fine dei tempi, perché solo lì, in Paradiso, sanità e santità coincideranno nel mistero del Cristo crocifisso e risorto.

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Cagliari, 17 dicembre 2018

III Settimana di Avvento

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
ma portare, diffondere e difendere la verità non solo ha dei
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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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