La gioia salvifica di essere solo dei servi inutili – The saving joy of being only unworthy servants – La alegría salvífica de ser solo siervos inútiles

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

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LA GIOIA SALVIFICA DI ESSERE SOLO DEI SERVI INUTILI

L’autentico discepolo del Signore, dopo aver fatto bene il suo servizio, deve comunque riconoscersi inutile perché il suo lavoro non gli garantisce necessariamente la salvezza, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa.

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Il Vangelo di Luca riporta oggi due detti di Gesù. Il primo riguarda la fede, in risposta ad una domanda degli apostoli.

Il secondo che si presenta in forma estesa, quasi una piccola parabola, fa riferimento al servizio che i «servi inutili» danno. Il contesto è ancora quello del gran viaggio di Gesù verso Gerusalemme che ha preso avvio in Lc 9,51 e terminerà in Lc 19,45. Con il Vangelo di oggi si chiude proprio la seconda sezione di questo pellegrinaggio di Gesù che si contraddistingue per l’invito ad entrare nel Regno seguendo alcune condizioni. Questo che segue è il testo evangelico:

«In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola?» Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu?» Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,5-10). 

Dopo aver trattato dell’uso dei beni materiali, delle relazioni con il prossimo e della Chiesa con le istruzioni comunitarie, per la prima volta il Signore nel Vangelo di Luca parla del tema della fede in risposta ad un intervento degli apostoli: «Accresci in noi la fede» (Lc 17,5). La domanda di questi ultimi rimanda ad una situazione simile ricordata dal Vangelo di Marco. Lì, dopo il racconto della trasfigurazione, il padre di un ragazzo posseduto si rivolge a Gesù per chiedere la liberazione del figlio, e gli dice: «Credo; aiuta la mia incredulità» (Mc 9,24). Il Signore gli risponde non a parole, ma con un gesto di potenza, esorcizzando lo spirito impuro. Il vangelo di Matteo racconta lo stesso episodio ma lo amplifica, aggiungendo la reazione dei discepoli non tramandata da San Marco e registrando però le stesse parole di Gesù che ascoltiamo oggi: «Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile» (Mt 17,19-20).

In verità anche Marco conserva lo stesso detto di Gesù in Luca, ma in un diverso contesto, quello del fico infruttuoso: «Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gèttati nel mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà»  (Mc 11,22-23).

Se, come diceva Archimede, per sollevare il mondo occorre un punto di appoggio, questo per Gesù è indubbiamente la fede. Gesù ha appena parlato dell’inevitabilità che si verifichino scandali nella comunità cristiana e ha invitato a correggere chi pecca e a perdonare all’infinito chi si pente e riconosce apertamente il proprio peccato (Lc 17,1-4). In questo contesto si comprende la preghiera dei discepoli di veder accresciuta la loro fede. Come reggere, infatti, il peso degli scandali, degli ostacoli alla vita di comunione, dell’inciampo posto ai più piccoli o semplici nello spazio ecclesiale? Come esercitare una correzione fraterna che non schiacci il fratello ma lo liberi? Come perdonare ancora e sempre chi ogni volta si pente? Solo per mezzo della fede. Che si tratti, a titolo esemplificativo, di spostare un gelso come nell’odierna pagina di Luca o un monte, come nei vangeli di Marco e Matteo, la «leva» di cui sopra per farlo è la fede, grande anche solo come un granello di senapa, infatti ciò che vale è la qualità e non la quantità. Nei miracoli evangelici essa è presupposta nei bisognosi che Gesù incontra, permette di rifuggire dalla spettacolarizzazione o dall’idolatria, Gesù di norma chiede la fede prima del suo intervento, poiché dopo essa non è più garantita, come nel caso dei dieci lebbrosi guariti del Vangelo di domenica prossima: solo uno tornò per ringraziare (cfr. Lc 17,11-19).    

Nella seconda parte del brano viene riportata una similitudine, quasi una parabola, che presenta una situazione che, per fortuna, oggi è molto difficile rintracciare, poiché la schiavitù è stata abolita e chi svolge un servizio lo fa perché competente e gratificato e non semplicemente perché qualificato come servo. Tuttavia nella Bibbia questi termini, al netto delle situazioni sociali differenti dalle nostre, vengono adoperati per definire una condizione religiosa, spesso positiva. Per esempio, nel Vangelo di Luca, Maria stessa si proclama «serva» del Signore (cfr. Lc 1,38). Com’è tipico di Gesù, la parabola ci pone davanti ad una situazione paradossale, in quanto invito a guardare la realtà da un altro punto di vista, che è quello di Dio. In questo caso il paradosso corrisponde al fatto che il servo, avendo compiuto il suo dovere, è stato necessario al suo padrone. Ma l’autentico discepolo del Signore, dopo aver fatto bene il suo servizio, deve comunque riconoscersi inutile perché il suo lavoro non gli garantisce necessariamente la salvezza, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa. Il termine greco, usato da Luca, acreios (achreioi), che ha il significato primigenio di «senza valore», applicato alle persone citate da Gesù sta ad indicare dei servi qualunque, a cui nulla è dovuto. È un senso forte, che potrebbe urtare la sensibilità moderna, eppure nasconde un significato religioso e salvifico che, ad esempio, l’apostolo Paolo coglie parlando della fede nella Lettera ai Romani: «Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rom 3,27-28). E ancora nella Lettera agli Efesini: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9).

Per il discepolo dunque e nella comunità cristiana, la fede è richiesta per il servizio e camminano insieme; questo è il legame che possiamo rintracciare fra la similitudine che Gesù fa e l’esortazione alla fede, pur delle dimensioni di un granello di senapa. Gesù sta istruendo coloro che lo seguono e al discepolo è richiesta una fede grande, che non può altro che essere domandata di continuo a Dio. La fatica e l’impegno che devono avere i cristiani per fare ciò che fanno, spesso a rischio della propria vita in alcune situazioni e parti del mondo, deve anche saper riconoscere che si è salvati non perché si è stati bravi o si sono ottenuti dei risultati, ma perché è Dio che salva. Tutti i meriti, anche quelli legittimamente ottenuti, devono essere ricondotti a Dio misericordioso e salvatore.

Dall’Eremo, 5 ottobre 2025

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THE SAVING JOY OF BEING ONLY UNWORTHY SERVANTS

The disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something.

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The Gospel of Luke today reports two sayings of Jesus. The first concerns faith, in response to a request from the apostles.

The second, presented at greater length as a short parable, refers to the service rendered by the «unprofitable servants». The setting is still that of the great journey of Jesus to Jerusalem which began at Lk 9:51 and will end at Lk 19:45. With today’s Gospel we come to the close of the second section of this pilgrimage of Jesus, which is marked by the invitation to enter the Kingdom by following certain conditions. What follows is the Gospel text:

«And the apostles said to the Lord, “Increase our faith.” The Lord replied, “If you have faith the size of a mustard seed, you would say to [this] mulberry tree, ‘Be uprooted and planted in the sea,’ and it would obey you. “Who among you would say to your servant who has just come in from plowing or tending sheep in the field, ‘Come here immediately and take your place at table’? Would he not rather say to him, ‘Prepare something for me to eat. Put on your apron and wait on me while I eat and drink. You may eat and drink when I am finished’? Is he grateful to that servant because he did what was commanded? So should it be with you. When you have done all you have been commanded, say, ‘We are unprofitable servants; we have done what we were obliged to do.’” (Luke 17:5–10)».

After speaking about the use of material goods, relations with one’s neighbour and the life of the Church with her communal instructions, for the first time in Luke’s Gospel the Lord speaks about the theme of faith in response to a request from the apostles: «Increase our faith» (Lk 17:5). Their plea recalls a similar situation noted by Mark. There, after the account of the Transfiguration, the father of a possessed boy turns to Jesus to ask for his son’s liberation and says to him: «I do believe, help my unbelief!» (Mk 9:24). The Lord answers him not with words but with a deed of power, by casting out the unclean spirit. Matthew recounts the same episode but expands it, adding the disciples’ reaction (which Mark does not record) and preserving the same words of Jesus that we hear today: «Then the disciples approached Jesus in private and said, “Why could we not drive it out?” He said to them, “Because of your little faith. Amen, I say to you, if you have faith the size of a mustard seed, you will say to this mountain, ‘Move from here to there,’ and it will move; nothing will be impossible for you”» (Mt 17:19–20).

Mark also preserves the same saying of Jesus as Luke, but in a different context, that of the barren fig tree: «Jesus said to them in reply, “Have faith in God. Amen, I say to you, whoever says to this mountain, ‘Be lifted up and thrown into the sea,’ and does not doubt in his heart but believes that what he says will happen, it shall be done for him”» (Mk 11:22–23).

If, as Archimedes said, to lift the world one needs a fixed point, for Jesus that point is undoubtedly faith. He has just spoken about the inevitability that scandals occur within the Christian community and has urged that the sinner be corrected and that the one who repents be forgiven without limit (Lk 17:1-4). In this context one understands the disciples’ prayer to have their faith increased. How, indeed, can one bear the weight of scandals, of obstacles to communion, of stumbling blocks placed before the little ones in the Church’s life? How can one exercise fraternal correction that does not crush a brother but frees him? How can one forgive again and again those who repent each time? Only by means of faith. Whether, by way of example, it is a matter of moving a mulberry tree as in Luke, or a mountain as in Mark and Matthew, the “lever” to do so is faith — great even if only like a mustard seed — for what counts is its quality rather than its quantity. In the Gospel miracles faith is presupposed in those in need whom Jesus meets; it allows one to avoid spectacle or idolatry. Jesus normally asks for faith before he intervenes, because afterwards it is no longer guaranteed, as in the case of the ten lepers of next Sunday’s Gospel: only one returned to give thanks (cf. Lk 17:11–19).

In the second part of the passage a comparison is reported, almost a parable, presenting a situation which, thankfully, is very hard to find today, since slavery has been abolished and those who perform a service do so because they are competent and fulfilled, not simply because they are labelled as servants. Nevertheless, in the Bible such terms, quite apart from social situations different from our own, are used to define a religious condition, often a positive one. For example, in Luke’s Gospel Mary herself proclaims herself the «handmaid» of the Lord (cf. Lk 1:38). As is typical of Jesus, the parable sets before us a paradoxical situation that invites us to look at reality from another point of view, that of God. The paradox here is that the servant, having done his duty, has in fact been necessary to his master. But the true disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something. The Greek word used by Luke, acreios (achreioi), whose primary sense is “without claim,” applied to the persons in Jesus’ example indicates ordinary servants to whom nothing is owed. It is a strong expression that can jar modern sensibilities, yet it conceals a religious and saving meaning which, for example, the Apostle Paul brings out when he speaks about faith in the Letter to the Romans: «What occasion is there then for boasting? It is ruled out. On what principle, that of works? No, rather on the principle of faith. For we consider that a person is justified by faith apart from works of the law» (Rom 3:27–28). And again in the Letter to the Ephesians: «For by grace you have been saved through faith, and this is not from you; it is the gift of God; it is not from works, so no one may boast» (Eph 2:8–9).

For the disciple, then, and within the Christian community, faith is required for service and the two walk together. This is the link we can trace between the comparison that Jesus makes and the exhortation to a faith even the size of a mustard seed. Jesus is instructing those who follow him, and the disciple is asked for a great faith which can only be continually begged from God. The hard work and commitment Christians must put into what they do — often at the risk of their very lives in certain situations and parts of the world — must also be joined to the recognition that we are saved not because we have been good or have achieved results, but because it is God who saves. All merits, even those legitimately obtained, must be referred back to the merciful and saving God.

From the Hermitage October 5, 2025

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LA ALEGRÍA SALVÍFICA DE SER SOLO SIERVOS INÚTILES

El auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo.

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El Evangelio de Lucas hoy recoge dos dichos de Jesús. El primero se refiere a la fe, en respuesta a una petición de los apóstoles.

El segundo, presentado de forma más extensa como una pequeña parábola, alude al servicio que prestan los «siervos inútiles». El contexto sigue siendo el del gran viaje de Jesús hacia Jerusalén que comenzó en Lc 9,51 y concluirá en Lc 19,45. Con el Evangelio de hoy se cierra precisamente la segunda sección de esta peregrinación de Jesús, que se caracteriza por la invitación a entrar en el Reino siguiendo ciertas condiciones. A continuación, el texto evangélico:

«En aquel tiempo, los apóstoles dijeron al Señor: “¡Auméntanos la fe!”. El Señor respondió: “Si tuvierais fe como un grano de mostaza, diríais a esta morera: ‘Arráncate y plántate en el mar’, y os obedecería. ¿Quién de vosotros, si tiene un siervo arando o pastoreando el rebaño, le dirá, cuando vuelve del campo: ‘Ven enseguida y ponte a la mesa’? ¿No le dirá más bien: ‘Prepárame de comer; cíñete y sírveme mientras yo como y bebo, y después comerás y beberás tú’? ¿Acaso da las gracias al siervo porque hizo lo que se le mandó? Así también vosotros, cuando hayáis hecho todo lo que se os ha ordenado, decid: ‘Somos siervos inútiles. Hemos hecho lo que debíamos hacer’.» (Lc 17,5–10).

Tras haber tratado del uso de los bienes materiales, de las relaciones con el prójimo y de la vida de la Iglesia con sus instrucciones comunitarias, por primera vez en el Evangelio de Lucas el Señor habla del tema de la fe en respuesta a una petición de los apóstoles: «¡Auméntanos la fe!» (Lc 17,5). La súplica remite a una situación semejante recordada por el Evangelio de Marcos. Allí, después del relato de la Transfiguración, el padre de un muchacho poseído se dirige a Jesús para pedir la liberación de su hijo y le dice: «¡Creo; ayuda mi incredulidad!» (Mc 9,24). El Señor le responde no con palabras, sino con un gesto de poder, expulsando al espíritu impuro. Mateo narra el mismo episodio pero lo amplía, añadiendo la reacción de los discípulos (que Marcos no registra) y conservando las mismas palabras de Jesús que escuchamos hoy: «Entonces se acercaron a Jesús los discípulos aparte y le dijeron: “¿Por qué nosotros no pudimos expulsarlo?”. Él les dijo: “Por vuestra poca fe. En verdad os digo: si tenéis fe como un grano de mostaza, diréis a este monte: ‘Muévete de aquí allá’, y se moverá; y nada os será imposible”» (Mt 17,19–20).

En realidad, Marcos también conserva el mismo dicho de Jesús que Lucas, pero en un contexto distinto, el de la higuera estéril: «Jesús les respondió: “Tened fe en Dios. En verdad os digo: el que diga a este monte: ‘Quítate y arrójate al mar’, sin dudar en el corazón, sino creyendo que sucederá lo que dice, le sucederá.”» (Mc 11,22–23).

Si, como decía Arquímedes, para mover el mundo se necesita un punto de apoyo, para Jesús ese punto es sin duda la fe. Acaba de hablar de la inevitabilidad de los escándalos en la comunidad cristiana y ha invitado a corregir al que peca y a perdonar sin límite al que se arrepiente (Lc 17,1–4). En este contexto se entiende la oración de los discípulos para que se aumente su fe. ¿Cómo soportar, en efecto, el peso de los escándalos, de los obstáculos a la comunión, de la piedra de tropiezo colocada a los pequeños en la vida eclesial? ¿Cómo ejercer una corrección fraterna que no aplaste al hermano sino que lo libere? ¿Cómo perdonar una y otra vez a quien cada vez se arrepiente? Solo mediante la fe. Ya se trate, a modo de ejemplo, de mover una morera, como en la página de hoy de Lucas, o una montaña, como en Marcos y Mateo, la «palanca» mencionada anteriormente para hacerlo es la fe, grande incluso si es del tamaño de un grano de mostaza: importa la calidad, no la cantidad. En los milagros evangélicos se presupone la fe en los necesitados que Jesús encuentra; permite huir del espectáculo o de la idolatría. Jesús normalmente pide la fe antes de intervenir, porque después ya no está garantizada, como en el caso de los diez leprosos del Evangelio del próximo domingo: solo uno volvió para dar gracias (cf. Lc 17,11–19).

En la segunda parte del pasaje se recoge una comparación, casi una parábola, que presenta una situación que, por fortuna, hoy es muy difícil de encontrar, pues la esclavitud ha sido abolida y quien presta un servicio lo hace porque es competente y se realiza, no simplemente por estar calificado como siervo. Sin embargo, en la Biblia estos términos —al margen de situaciones sociales distintas de las nuestras— se emplean para definir una condición religiosa, a menudo positiva. Por ejemplo, en el Evangelio de Lucas, María misma se proclama «sierva» del Señor (cf. Lc 1,38). Como es típico en Jesús, la parábola nos coloca ante una situación paradójica que invita a mirar la realidad desde otro punto de vista: el de Dios. El paradoja aquí consiste en que el siervo, habiendo cumplido su deber, ha sido necesario a su señor. Pero el auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo. El término griego usado por Lucas, acreios (achreioi), cuyo sentido primario es «sin derecho», aplicado a las personas del ejemplo de Jesús indica siervos ordinarios a quienes nada se les debe. Es una expresión fuerte, que puede chocar la sensibilidad moderna, pero encierra un significado religioso y salvífico que, por ejemplo, el apóstol Pablo capta al hablar de la fe en la Carta a los Romanos: «¿Dónde está, pues, el motivo de gloriarse? Queda excluido. ¿Por qué ley? ¿Por la de las obras? No, por la ley de la fe. Pues sostenemos que el hombre es justificado por la fe, sin las obras de la ley» (Rom 3,27–28). Y también en la Carta a los Efesios: «Pues por gracia habéis sido salvados mediante la fe; y esto no viene de vosotros, sino que es don de Dios; no viene de las obras, para que nadie se gloríe» (Ef 2,8–9).

Para el discípulo, pues, y dentro de la comunidad cristiana, la fe se requiere para el servicio y ambas caminan juntas; este es el vínculo que podemos rastrear entre la comparación que hace Jesús y la exhortación a una fe, aunque sea del tamaño de un grano de mostaza. Jesús está instruyendo a quienes le siguen, y al discípulo se le pide una fe grande, que solo puede ser pedida a Dios continuamente. El esfuerzo y el compromiso que los cristianos deben poner en lo que hacen —muchas veces a riesgo de la propia vida en determinadas situaciones y lugares del mundo— debe ir unido al reconocimiento de que somos salvados no porque hayamos sido buenos o conseguido resultados, sino porque es Dios quien salva. Todos los méritos, incluso los legítimamente obtenidos, deben referirse a Dios misericordioso y salvador.

Desde la Ermita, 5 de octubre de 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La provocatoria lode di Gesù all’amministratore disonesto

Omiletica dei Padri deL'Isola di Patmos

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PROVOCATORIA LODE DI GESÙ ALL’AMMINISTRATORE DISONESTO

Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 

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Cari fratelli e sorelle,

il Vangelo di questa XXXV Domenica del Tempo Ordinario ci offre la parabola dell’amministratore infedele. Un racconto che, a prima vista, sembra colmo di contraddizioni: un amministratore, che avrebbe dovuto agire con giustizia, viene lodato per il suo comportamento astuto e disonesto.

Come possiamo conciliare questa lode con l’insegnamento cristiano sulla giustizia e l’onestà? Ecco il testo:  

«In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». (Lc 16, 1-13).

Questo amministratore, che avrebbe dovuto agire con giustizia e lealtà verso il suo padrone, finisce per essere lodato proprio per il suo comportamento astuto e disonesto. Come possiamo conciliare questa lode con la virtù cristiana di onestà e giustizia? Se il Vangelo ci invita a «render conto» delle nostre azioni e a vivere nella giustizia (Mt 12,36), come possiamo leggere, ma soprattutto spiegare che il comportamento disonesto dell’amministratore venga, in un certo senso, apprezzato e persino lodato? La risposta si trova nella natura della saggezza che Gesù intende comunicare. La parabola, infatti, non esalta la disonestà in sé, ma la capacità di guardare al futuro e di fare scelte sagge, anche se compiute in un contesto fallace. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 

Gesù ci insegna «dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21), quindi, non è il comportamento illecito che viene lodato, ma la consapevolezza che dobbiamo vivere in modo saggio e responsabile, amministrando non solo i beni terreni, ma soprattutto quelli spirituali, con l’intenzione di costruire un tesoro che non svanisce. Come infatti ci ricorda il Salmista:

«L’uomo malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto è pietoso e generoso» (Sal 37,21).

Qui vediamo che il contrasto tra l’infedele e il giusto è anche un confronto tra due visioni completamente diverse della vita: una egoista e disonesta, l’altra caritatevole e giusta, orientata al bene comune.

Cosa vuole insegnarci Gesù attraverso questa complessa parabola di non facile comprensione, almeno al primo ascolto, nella quale si parla di «disonesta ricchezza» e di saggezza nelle azioni quotidiane? Per comprenderlo è necessario anzitutto chiarire che l’Amministratore Infedele è la plastica immagine di una figura volutamente ambigua sulla quale grava l’accusa di sperperare i beni del suo padrone. Quando il padrone lo licenzia, egli si trova in una situazione disperata: non è in grado di fare lavori manuali e non intende finire a chiedere l’elemosina. Decide quindi di ridurre i debiti dei creditori del proprio padrone per crearsi delle amicizie utili che possano garantirgli il futuro quando sarà senza più lavoro. Un comportamento moralmente discutibile, quello dell’Amministratore, che però Gesù non condanna, perlomeno in modo chiaro e aperto. Lo stesso Padrone, seppur danneggiato dalla sua disonestà, lo loda per l’astuzia e la prontezza con la quale ha dimostrato di saper pensare al futuro.

La reazione ammirata del Padrone, strana di per sé e anche ingiusta, costituisce il punto centrale della parabola: Gesù non approva la disonestà, ma riconosce la saggezza nell’agire con lungimiranza e prontezza di spirito. Non esalta il comportamento illecito dell’amministratore, ma ci invita a riflettere sulla nostra attitudine nei confronti delle risorse che Dio ci ha affidato, sia materiali che spirituali. Per guidarci a una corretta comprensione del brano San Giovanni Crisostomo evidenzia che «questa lode non è per la disonestà, ma per la prontezza con cui l’amministratore ha usato ciò che aveva in vista del futuro» (Commentario su Luca, Homilia 114,5). È quindi la sua capacità di guardare avanti e di agire con saggezza che viene apprezzata, anche se ciò avviene in un contesto moralmente ambiguo, non la sua disonestà.

La parabola ci insegna che, come l’amministratore è stato astuto nel prepararsi per un futuro materiale, così anche noi dobbiamo essere saggi e previdenti riguardo al nostro futuro proiettato verso l’eterno. La saggezza di cui Gesù parla non riguarda l’astuzia materiale, ma quella spirituale: dobbiamo imparare a utilizzare le risorse che Dio ci ha dato, non per fini egoistici o temporanei, ma per costruire la nostra strada verso il suo regno che non avrà fine, come recitiamo nella nostra Professione di Fede. Il complesso tema della ricchezza spirituale è ripreso anche dal Santo vescovo e dottore Agostino nel dove afferma:

 «Quindi, cosa significa accumulare tesori in cielo? Non è altro che l’amore verso il prossimo. Infatti, l’unico tesoro celeste è la carità, che santifica gli uomini» (De sermone Domini in monte, Sermone 19,3).

La ricchezza celeste di cui parla Gesù è quella che si accumula attraverso l’amore disinteressato verso gli altri e la carità che trasforma la vita attraverso la sequela Christi del Verbo di Dio fatto uomo che è via, verità e vita (cfr. Gv 14,6).

Una delle affermazioni più provocatorie di Gesù in questo passo è che «i figli di questo mondo sono più astuti dei figli della luce». Gesù non ci invita a imitare la scaltrezza dei figli di questo mondo, ma a imparare da loro la lungimiranza e la determinazione. Dobbiamo essere altrettanto attenti e previdenti nel nostro cammino spirituale, orientando le nostre azioni verso il bene eterno. Il Santo vescovo e dottore Cirillo di Alessandria spiega:

«Gesù non ci invita a diventare furbi come i figli di questo mondo, ma a essere vigilanti e lungimiranti nella cura della nostra anima, proprio come loro lo sono nel curare i propri affari» (Commentarius in Evangelium Lucae, 10, 33).

La saggezza di cui Gesù parla non riguarda l’astuzia per i guadagni terreni, ma la saggezza spirituale, quella che ci porta a usare il nostro tempo e le nostre risorse non per scopi egoistici, ma per costruire il Regno di Dio, che non ha fine. È una saggezza che guarda oltre il temporaneo, proiettandoci verso l’eternità. Il Santo Vangelo ci ricorda che non siamo proprietari di ciò che possediamo: siamo solo amministratori. «Rendi conto della tua amministrazione», dice il padrone all’amministratore infedele. Questo ci fa pensare: come stiamo amministrando la nostra vita, le nostre risorse? E qui è racchiuso, per inciso, un riferimento implicito alla narrazione racchiusa nella Parabola dei Talenti (cfr. Mt 25, 14-30), come infatti l’amministratore ha il compito di rendere conto dei beni del suo padrone, anche noi siamo chiamati a rendere conto di come amministriamo i doni che Dio ci ha dato: non solo la ricchezza materiale, ma anche la nostra vita, le nostre capacità, il nostro amore. È un’amministrazione che, se vissuta con fedeltà, ci condurrà alla salvezza.

In un contesto di apparente disonestà e scaltrezza, tale da rendere quasi incomprensibile questo brano, la frase dell’Evangelista Luca «Chi è fedele nelle piccole cose, è fedele anche nelle grandi» (Lc 16,10) diventa chiara dopo che è stato colto e chiarito questi due elementi sono usati come paradigma, lo chiarisce il Santo vescovo e dottore Basilio Magno sottolineando come ogni piccolo atto di giustizia è un passo verso la grande fedeltà che siamo chiamati a vivere:

«Se non sei fedele nelle cose piccole, come puoi essere fedele nelle grandi? L’amministrazione di ciò che ci è stato dato da Dio è una prova di fedeltà al suo amore e alla sua volontà» (De Spiritu Sancto, Par. 30).

Quando Gesù parla di “disonesta ricchezza” (in greco: μαμωνᾶς τῆς ἀδικίας), il termine “disonesta” non si riferisce semplicemente alla ricchezza in sé, ma sottolinea la natura ingannevole e corrotta di questa ricchezza, che può facilmente diventare il fine di azioni disoneste o egoistiche. La ricchezza, nella sua forma più comune, è facilmente legata all’accumulo di beni materiali e terreni, che possono distogliere il cuore umano dal vero scopo della vita: la ricerca del bene eterno.

Gesù non sta elogiando la ricchezza in sé, ma ci mette in guardia contro l’uso distorto e idolatrico dei beni materiali, che può facilmente portarci a trascurare la ricerca del bene eterno. La parola «disonesta» (in greco, ἀδικία, adikía) si riferisce a una ricchezza acquisita tramite mezzi ingiusti, ma anche più generalmente a quella ricchezza che, se non ben gestita, tende a separare l’uomo dal vero scopo della sua vita, che è Dio. Infatti, come afferma San Gregorio Magno, la ricchezza è spesso un «falso bene», capace di ingannare l’animo umano e di allontanarlo dalla virtù (cfr. Moralia in Iob).

Quando Gesù dice «Fatevi amici con la disonesta ricchezza», non intende che dobbiamo usare la ricchezza in modo disonesto, né ci invita a fare della ricchezza l’oggetto del nostro amore. Piuttosto ci esorta a usare i beni temporali con saggezza e generosità, in modo da creare rapporti di amicizia, e più ampiamente, di carità. Qui, l’idea centrale, è che dobbiamo gestire i beni materiali in vista del bene eterno, perché la ricchezza che accumuliamo in questa vita non è un fine in sé, ma un mezzo che può essere utilizzato per fare del bene e prepararsi per la vita futura.

San Giovanni Crisostomo nel suo Commentario su Luca, osserva che la lode non è rivolta al comportamento disonesto dell’amministratore, ma alla sua abilità nell’usare ciò che aveva per il proprio bene futuro (cfr. Homilia 114,5). Allo stesso modo, Gesù, ci invita a usare i beni materiali con una visione spirituale, cioè per costruire relazioni di giustizia e carità che ci accompagneranno verso l’eternità; come se Gesù ci invitasse a usare la ricchezza non per accumulare per noi stessi, ma per aiutare gli altri, per fare il bene, per prepararsi al Regno di Dio.

La ricchezza può essere il mezzo per un fine più grande, quello della salvezza, se la usiamo per alleviare le sofferenze degli altri, per aiutare i bisognosi, per costruire un’amicizia che trascenda il tempo. San Cipriano di Cartagine ci insegna che «Colui che dà ciò che ha in questo mondo riceve per sé una ricompensa eterna» (De opere et eleemosynis, 14), sottolineando che l’uso giusto dei beni materiali è un modo per «accumulare tesori» nel cielo, dove «né la ruggine né la falce li possono corrompere» (Mt 6,19-20). Quando Gesù parla di «dimore eterne» (Lc 16,9) ci invita a riflettere su ciò che costruiremo durante la nostra vita. La vera ricchezza non è quella che si accumula su questa terra, ma quella che si fonda sull’amore per Dio e per il prossimo, che trascende il tempo e rimane per l’eternità. La dimora eterna è il nostro cuore preparato ad accogliere Dio, che trova il suo posto nel Regno dei Cieli, dove il tesoro che abbiamo costruito con la carità e la fede sarà il nostro gioioso premio.

Questa riflessione ci porta a comprendere che la ricchezza può diventare uno strumento di salvezza se usata correttamente, sino a divenire un mezzo per accumulare «tesori in cielo» (Mt 6,20), in un investimento spirituale che rimane al di là del tempo e dello spazio.

Il messaggio finale di Gesù nella parabola è che la «disonesta ricchezza» può diventare quindi, paradossalmente, un’opportunità per accumulare beni eterni. Non si tratta di una benedizione della ricchezza fine a se stessa, tanto meno, come spiegato, una benedizione della disonestà, ma dell’invito a usarla con saggezza e generosità:

«Chi usa la ricchezza con giustizia, accumula per sé un tesoro che non sarà mai rubato» (Sant’Agostino, De sermone Domini in monte, 19,4).

L’uso delle risorse terrene, se orientato alla carità e al bene comune, diventa un mezzo per crescere nella grazia di Dio e prepararsi a entrare nel Regno dei Cieli. Questo concetto percorre l’insegnamento di Gesù nelle parabole del Buon Samaritano (Lc 10,25-37) e del giudizio finale (Mt 25,31-46), dove l’amore per il prossimo e l’uso giusto delle risorse costituiscono i criteri per essere accolti nel Regno di Dio:

«la vera ricchezza è quella che non possiamo trattenere sulla terra, ma che ci seguirà nella vita eterna, dove la carità è il tesoro che non perisce mai» (Sant’Agostino, De sermone Domini in monte, 2,4).

Questa complessa parabola dell’amministratore infedele ci invita a riflettere su come amministriamo i nostri beni e le nostre risorse, i talenti che Dio ci ha donato, chiedendoci se siamo disposti a vivere con saggezza, non solo nei confronti delle cose materiali, ma soprattutto nella nostra vita spirituale. Stiamo accumulando tesori in cielo, usando ciò che Dio ci ha dato per aiutare gli altri, per fare il bene, per costruire il nostro futuro eterno? Perché è questa la vera astuzia che Gesù, con questo racconto provocatorio, ci invita a seguire, lanciandoci al tempo stesso un preciso monito:

«Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7, 13-14).

È il prezzo da pagare per la ricchezza vera, quella eterna, che viene dal cielo e che porta in cielo nella beatitudine eterna di Colui che per la nostra salvezza discese dal cielo facendosi uomo, ma che non cade per niente e come niente dal cielo.

Dall’Isola di Patmos, 21 settembre 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL DISCEPOLO È CHIAMATO NON SOLO A INIZIARE, MA ANCHE A PORTARE A COMPIMENTO

Occorre, anche nel discepolo, libertà e leggerezza per condurre a termine il cammino della vita percorso come sequela di Cristo. L’amore è chiamato a divenire responsabilità e la libertà perseveranza: lì si situa la necessaria rinuncia, purificazione, spogliazione.

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L’immagine prevalente che di Gesù ci hanno trasmesso i Vangeli è quella di un carismatico itinerante che impone a chi intende seguirlo la rottura con l’ethos tradizionale esclusivamente in forza della sua parola, tanto le richieste dovettero apparire e tuttora ci appaiono estreme, come nel caso di questa: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio» (Lc 9,60).

Ma l’etica di Gesù è l’etica dell’attesa, incompatibile con l’etica moderna del progresso o con l’etica dei valori. Il brano di Vangelo di questa domenica misura la qualità del rapporto di Gesù con i discepoli, nonché la distanza che ci separa dal suo sentire religioso appena ci si affacci seriamente oltre la spessa cortina dell’elaborazione teologica. Leggiamolo:

«Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: ‘Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro’. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”» (Lc 14,25-33).

L’occasione per i brevi detti di Gesù conservati dall’odierna pagina evangelica è narrata nel versetto d’apertura: «Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse». La gente andava e Gesù si volta: il lettore capisce in questo modo che è ripreso il viaggio. Poiché, precedentemente, il Signore veniva colto a tavola coi suoi discepoli, invitato da un capo dei farisei (Lc 14,1). E ricordiamo anche la situazione del vangelo di domenica scorsa circa la scelta dei posti e degli invitati, mentre ora l’evangelista richiama l’attenzione sul viaggio che Gesù ha intrapreso e che giungerà a compimento in Gerusalemme. Il precedente contesto del banchetto terminava con parole di invito per tutti, affinché la casa fosse riempita: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia» (Lc 14,23); ora invece le parole di Gesù aggiungono qualcosa e chiariscono come poter entrare in quella casa. Si tratta di esigenti condizioni per poter seguire Gesù, alcune regole, infatti, per essere discepoli, sono necessarie. E, ancora una volta, queste parole sono per tutti coloro che vogliono dirsi cristiani. L’invito ad amare Gesù più dei propri genitori, a portare la croce, e a rinunciare agli averi non è qualcosa riservato a pochi eletti, ma vale per ogni discepolo che vuole essere di Cristo.

Le parole sulle relazioni familiari le troviamo anche nel Vangelo di Matteo, quasi identiche, ma nel primo evangelista mancano le due brevi parabole, quella sulla torre e quella sul re che va in guerra, che sono dunque materiale propriamente lucano, attinto da una fonte precipua di questo evangelista. Sono in effetti parole che colpiscono, la sensibilità moderna recepisce come molto duro il contrasto di amare e odiare se riferito ai propri familiari o addirittura alla propria stessa vita: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (v.26). Gesù sta davvero chiedendo un rifiuto dei rapporti umani, una rigidità con gli altri, anche con quelli della propria famiglia? Senza depotenziare la tensione escatologica cha ha animato la predicazione di Gesù possiamo affermare che qui siamo di fronte ad un tipico ebraismo, dove il verbo odiare vuol dire: «porre dopo, mettere in secondo piano». Troviamo questo tipo di ricorrenze nell’Antico Testamento, come pure nei Vangeli, per esempio nel passo di Matteo: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Proprio Matteo ci aiuta a capire meglio le esigenti parole di Gesù, perché le riporta in una forma attenuata, ovvero senza usare il verbo odiare, ma un comparativo: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37). Si tratta, in conclusione, di subordinare ogni amore a quello per il Signore, senza cessare di amare coloro che la legge stessa comanda di amare, come i propri genitori. Vuol dire che essere discepoli è una cosa seria, a maggior ragione nel tempo che si è fatto breve, e queste sono indicazioni valide per tutti i credenti in Cristo, lo abbiamo già detto, e per ogni momento della vita.

Seguono, poi, le parole di Gesù sul portare la croce, già incontrate in Lc 9,23, e infine due brevi parabole. Come detto all’inizio di questo commento è da lì che si deve partire per comprendere cosa comporti essere discepoli. Queste parabole hanno in comune il denominatore della lotta e della perseveranza. Seguire Gesù equivale a costruire una torre, occorre impegno e costanza, come il costruire una casa sulla roccia (cfr. Mt 7,24); equivale ad andare in guerra, sapendo ben misurare le proprie forze.

La sequela è esigente anche perché il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento (vv. 28.29.30), e indispensabile per la sequela è la disponibilità a perdere tutto, anche «la propria vita» (v.26). Il bene da possedere è la rinuncia ai beni, imparare l’arte della perdita, del diminuire, del non cadere nelle maglie del possesso o della logica dell’avere. Gesù, afferma Paolo, «svuotò sé stesso» (Fil 2,7) e «da ricco che era, si fece povero» (2Cor 8,9). Occorre, anche nel discepolo, libertà e leggerezza per condurre a termine il cammino della vita percorso come sequela di Cristo. L’amore è chiamato a divenire responsabilità e la libertà perseveranza: lì si situa la necessaria rinuncia, purificazione, spogliazione. Le esigenze della sequela hanno dunque a che fare con il tutto della persona — il suo cuore — e con il tutto del suo tempo, per la durata della sua vita. E ci mettono in guardia dal rischio di lasciare a metà l’opera intrapresa.

Clemente Alessandrino (Protrettico X,39) parlava della fede come di «un bel rischio» (kalòs kíndynos). Per i primi cristiani spesso aderire a Cristo, in un contesto a maggioranza pagano, comportava persecuzioni e perfino il martirio. Oggi, nei nostri paesi di vecchia e stanca cristianità, il prezzo della conversione non è sentito e ancor meno pagato. Cerchiamo l’assicurazione che elimina l’insicurezza ed i rischi, anche per ciò che riguarda la fede e la sua testimonianza, quando, invece, Gesù, invita a perdere tutto per seguire Lui. Non nascondiamo di provare difficoltà di fronte alle parole dure ed esigenti di Gesù dimenticando che la radicalità del vangelo ha anzitutto una valenza di rivelazione, svela, cioè, prospettive che altrimenti ci resterebbero inaccessibili. Lo ha ricordato anche Papa Leone XIV in un recente Angelus:

«Fratelli e sorelle, è bella la provocazione che ci giunge dal Vangelo di oggi: mentre a volte ci capita di giudicare chi è lontano dalla fede, Gesù mette in crisi “la sicurezza dei credenti”. Egli, infatti, ci dice che non basta professare la fede con le parole, mangiare e bere con Lui celebrando l’Eucaristia o conoscere bene gli insegnamenti cristiani. La nostra fede è autentica quando abbraccia tutta la nostra vita, quando diventa un criterio per le nostre scelte, quando ci rende donne e uomini che si impegnano nel bene e rischiano nell’amore proprio come ha fatto Gesù; Egli non ha scelto la via facile del successo o del potere ma, pur di salvarci, ci ha amati fino ad attraversare la “porta stretta” della Croce. Lui è la misura della nostra fede, Lui è la porta che dobbiamo attraversare per essere salvati (Cfr Gv 10,9), vivendo il suo stesso amore e diventando, con la nostra vita, operatori di giustizia e di pace» (QUI).

Dall’Eremo, 7 settembre 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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«Magnificat», il grande “hard rock” della Beata Vergine Maria nella solennità dell’Assunta

Omiletica dei Padri deL'Isola di Patmos

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«MAGNIFICAT», IL GRANDE HARD ROCK DELLA BEATA VERGINE MARIA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNTA

Persino l’eresiarca Martin Lutero, che alla Beata Vergine fu sempre molto devoto — cosa che gran parte dei fedeli cattolici, ma pure molti studiosi ignorano —, nel 1521 compose un intenso libretto intitolato Il Magnificat tradotto in tedesco e commentato.

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Nel giorno di Natale del 1886 il giovane scrittore e poeta, all’epoca agnostico, Paul Claudel, attraversa il portale di Notre Dame de Paris e gli arriva all’orecchio il canto del Magnificat, testo evangelico della liturgia dei Vespri.

A seguire confesserà di essere uscito da quell’esperienza trasformato, destinato a diventare ormai il cantore della fede cristiana a tutti noto; molti conoscono il suo dramma: Annonce fait à Marie. Anni dopo, nel 1913, narrerà:

«In quel giorno credetti con una tale forza di adesione, con una tale elevazione di tutto il mio essere, con una convinzione così forte, con una tale certezza, con una tale assenza di dubbi che in seguito né i libri, né i ragionamenti, né le sorti di una vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede».

Il 15 agosto di ogni anno, il calendario ricorda la solennità dell’assunzione al cielo della Beata Vergina Maria, la madre del Signore, nonostante la diffusa denominazione secolarizzata di «Ferragosto». Ebbene, che si acceda in una cattedrale solenne come Notre Dame o in una piccola cappella sperduta fra i monti, ognuno, in questo giorno, sentirà proclamare quel canto del Magnificat che contraddistingue la Santa Messa di questa Solennità. Ecco il brano riportato dall’evangelista Luca.

«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Allora Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre”. Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua» (Lc 1,39-56).

Maria, incinta di Gesù, mentre è in visita alla parente Elisabetta, incinta a sua volta di Giovanni Battista, intona questo inno straordinariamente lungo che Luca riferisce. È l’unica volta che le parole della Madre di Cristo si dilatano fino a comprendere ben 102 parole nel greco, compresi articoli, pronomi e particelle. Le altre volte, in tutto solo cinque, le frasi di Maria che i Vangeli riportano sono brevi e quasi stentate, come a Cana durante le nozze a cui partecipa anche suo Figlio: «Non hanno più vino» e «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2, 3.5). Seguiamo, allora, il flusso poetico di questa salmodia mariana intessuta su un palinsesto di allusioni bibliche.

Idealmente il canto è per solista e coro. Il primo movimento è intonato dall’«io» di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1,46-49). Si chiede Origene (III° sec.):

«Che cosa aveva, la madre del Signore, di umile e di basso, ella che portava nel seno il Figlio di Dio? Dicendo: “Ha guardato l’umiltà della sua ancella”, è come se dicesse: ha guardato la giustizia della sua ancella, ha guardato la sua temperanza, ha guardato la sua fortezza e la sua sapienza» (Origene, Omelie su Luca).

Nel secondo movimento dell’inno entra la voce di un coro nella quale si innesta quella di Maria, proprio come una soprano che fa emergere il suo canto. È il coro dei cristiani, eredi di quei «poveri» dell’Antico Testamento, gli ענבים (‘anawîm), coloro che sono curvi, non solo sotto l’oppressione del potente, ma anche nell’umiltà dell’adorazione nei confronti di Dio, vincendo così la superbia dell’orgoglioso. Costoro, poveri socialmente, ma soprattutto fedeli e giusti, celebrano, unendosi idealmente alla voce di Maria, le particolari scelte divine che si differenziano dalle logiche mondane, privilegiando non il forte o il potente, ma l’ultimo e l’emarginato; ribaltando cosi le gerarchie storiche. L’Evangelista Luca, utilizzando il tempo greco aoristo chiamato «gnomico», perché fa riferimento a esperienze acquisite al di là del loro carattere temporale, descrive attraverso dei verbi in numero di sette, un numero che sta ad indicare la pienezza, le singolari scelte divine:

«Ha spiegato la potenza del suo braccio, / ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili, / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote, / ha soccorso Israele suo servo» (Lc 1,51-54).

È una logica costante di Dio che ritroviamo anche sulle labbra di Gesù: «Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20,16) e «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11).

Il fascino delle parole di Maria, nel Magnificat, si è impresso da allora nella spiritualità cristiana, informando la vita di molti santi e ha fatto scaturire una miriade di commenti di ogni genere e tantissime opere d’arte sia pittorica, che musicale. Persino l’eresiarca Martin Lutero, che alla Beata Vergine fu sempre molto devoto — cosa che gran parte dei fedeli cattolici, ma pure molti studiosi ignorano —, nel 1521 compose un intenso libretto intitolato Il Magnificat tradotto in tedesco e commentato.

Questo bellissimo canto del Magnificat è dalla Liturgia collocato come castone della Solennità della Assunzione di Maria che ovunque si celebra, in Oriente, come nell’Occidente cristiano. Poiché la Dormizione-Assunzione di Maria è un segno delle realtà ultime, di ciò che deve accadere in un futuro non tanto cronologico quanto di senso, un segno della pienezza cui i nostri limiti anelano: in lei intuiamo la glorificazione che attende il cosmo intero alla fine dei tempi, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28) e in tutto. Lei, la Vergine Maria, è la porzione di umanità già redenta, figura di quella terra promessa cui siamo chiamati, lembo di terra trapiantato in cielo. Un inno della Chiesa ortodossa serba canta Maria come «terra del cielo», terra ormai in Dio per sempre, anticipazione del nostro comune destino.

Vorrei concludere con le parole di una famosa preghiera con le quali San Francesco saluta Maria oggi ricordata Assunta in cielo:

«Ave Signora, santa regina, santa genitrice di Dio, Maria, che sei vergine fatta Chiesa / ed eletta dal santissimo Padre celeste, che ti ha consacrata insieme con il santissimo suo Figlio diletto e con lo Spirito Santo Paraclito; / tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene. / Ave, suo palazzo, ave, suo tabernacolo, ave, sua casa. / Ave, suo vestimento, ave, sua ancella, ave, sua Madre. / E saluto voi tutte, sante virtù, che per grazia e illuminazione dello Spirito Santo venite infuse nei cuori dei fedeli, perché da infedeli / fedeli a Dio li rendiate» (FF 259-260).

 

Dall’Isola di Patmos, 15 agosto 2025

Solennità dell’Assunta

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Essere simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

ESSERE SIMILI A QUELLI CHE ASPETTANO IL LORO PADRONE QUANDO TORNA DALLE NOZZE 

I discepoli di Gesù vivono sulla terra, ma come pellegrini, mentre la loro residenza è nei cieli. Siamo, perciò, chiamati a un’attesa che tante volte ci supera.

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«La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio».

Sono le parole iniziali della prima lettura di questa Domenica, tratte dal Libro della Sapienza, e ben preparano l’ascolto del brano evangelico qui sotto riportato:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”. Allora Pietro disse: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Il Signore rispose: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”» (Lc 12,32-48).

I primi tre versetti dell’odierno Vangelo (12,32-34) fanno testo a sé, perché chiudono un’intera pericope consacrata all’insegnamento di Gesù sul possesso dei beni materiali. Essi sono il Suo invito finale, che si può cogliere solo se si ha in mente quanto è stato scritto appena prima nel Vangelo, ma non riportato nell’odierna liturgia, ovvero i versetti dal 22 al 31 del capitolo 12 di Luca. Quelli che invece seguono, facenti parte del brano odierno (vv. 35-48), sono da considerarsi come un’esortazione alla vigilanza. Sono un insieme di sentenze, di immagini e piccole parabole — l’esegeta Maggioni le chiama: «parabole accennate» — che hanno un comune denominatore: il ritorno del «Figlio dell’uomo», che, come si diceva, richiede vigilante attesa.

Per specificare questa attesa Gesù si paragona di volta in volta ad un Signore (ὁ κύριος, v. 36.37.43) che torna da un banchetto, arriva alla porta e bussa, quindi premia i servi rimasti svegli servendoli a tavola. Oppure a un ladro (ὁ κλέπτης, v. 39) che arriva ad un’ora che il padrone di casa (ὁ οἰκοδεσπότης) disconosce. O ancora a quel Signore che promuove di responsabilità un amministratore degno di fiducia e prudente (ὁ πιστὸς οἰκονόμος, ὁ φρόνιμος, v. 42). Tutte queste immagini infine, ci rivela Gesù, calzano alla figura di quel «Figlio dell’uomo [che] verrà nell’ora che non pensate» (v. 40).

Essere attenti e vigilanti a costo di perdere il sonno è decisivo, ma chi sono coloro che attendono? Nel brano Gesù parla di servi ed amministratori, ma ovunque nel testo le persone chiamate a vigilare sono indicate con la seconda persona plurale, come ad includere sia i discepoli che udirono allora il Signore, sia gli ascoltatori o lettori contemporanei del Vangelo, quindi anche noi: «voi siate pronti» (v. 35); «voi dovete essere simili a…» (v. 36); «voi tenetevi pronti» (v. 40). Infine emerge la risposta data a Pietro che aveva chiesto: «Questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore, rivelando una graduatoria di responsabilità nell’attesa, gli dice: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più». In questo modo si precisa che se i destinatari dell’insegnamento, nel complesso, sono tutti i credenti, risalta tuttavia la responsabilità dei capi della comunità cristiana a cui Gesù dedica una specifica parabola.

Che il discorso sia rivolto alla Chiesa ed ai suoi responsabili risulta chiaro dai termini usati, i quali fanno riferimento a un contesto spazio temporale preciso, si tratti esso della casa, della notte o del tempo dilatato dell’attesa. Gesù parla di «fianchi cinti» (v.34), mentre la parola «casa» è citata esplicitamente e poi c’è la notte per via delle «lucerne accese» (v.35) e della «seconda e terza veglia» (v.38 in greco). Abbiamo qui un rimando al tema dell’Esodo — i «lombi cinti» sono un’esplicita citazione di Es 12,11 — dove la celebrazione pasquale avvenne di sera, in casa e in famiglia (Es 12,3). Viene evocata la frettolosa partenza dall’Egitto dei figli di Israele avvenuta di notte e sollevare i lembi del lungo abito orientale e legarlo ai fianchi con una cintura rendeva più agevole il cammino. Sembra che Gesù voglia esortare la Chiesa a mettersi in cammino, a fare un esodo, ma in realtà si tratta di un procedere in profondità più che in estensione, un viaggio che rende pronti a ricevere Colui che sta per giungere: il vero cammino lo fa il Signore che viene! Il centro dell’annuncio delle tre parabole è dunque la venuta del Signore e il nome del cammino a cui sono chiamati i discepoli è vigilanza. Infatti Gesù ha già dato indicazioni affinché essa non sia ostacolata da inutili ingombri quali la cupidigia (Lc 12,15), le preoccupazioni (Lc 12,22.26) e le paure (Lc 12,32) che occupano il cuore e tolgono libertà.

La parabola dei servi vigilanti (vv. 36-38) sembra essere la versione narrativa di una beatitudine ― «beati quei servi» (v. 37); «beati loro» (v.38) ― che potrebbe suonare così: «beati i servi vigilanti, perché il Signore stesso si farà loro servo». Il capovolgimento di valori presente nelle beatitudini è qui espresso nella paradossale figura del padrone che rientra a casa, anche a notte fonda, e, trovando svegli i suoi servi per aprirgli la porta e accoglierlo per salutarlo, lui stesso si mette a servirli. Ma questa è la logica di Gesù che capovolge le logiche mondane e che dovrebbe vigere nella comunità cristiana: «Chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).

Domina su tutta la narrazione un senso di imminenza per qualcosa che deve ancora accadere eppure implica tutt’altro che la staticità o lo stare fermi. Da tutto quanto abbiamo visto sopra sembra emergere una indeterminatezza, che però rende bene il senso dell’esperienza cristiana. I discepoli di Gesù vivono sulla terra, ma come pellegrini, mentre la loro residenza è nei cieli (Lettera a Diogneto). Siamo, perciò, chiamati ad un’attesa che tante volte ci supera. Il problema della vigilanza in queste brevi parabole, detto in altro modo, è quello del tempo, soprattutto del tempo quotidiano, feriale. Ogni giorno, qualsiasi giorno feriale, se colmo di attesa, è «giorno del Signore». Come nella parabola di Luca ogni giorno è buono per rimanere svegli, tenere le lampade accese e accogliere il Figlio dell’uomo che tornerà. Così ci invitava ad attendere la preghiera di Colletta di questa Domenica: «Non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della tua ora siamo introdotti da te nella patria eterna».

Dall’Eremo, 10 agosto 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Marta, Maria e la lezione di Gesù sulla dimensione dell’eterno

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

MARTA, MARIA E LA LEZIONE DI GESÙ SULLA DIMENSIONE DELL’ETERNO 

«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta»

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Il brano evangelico di questa Domenica appartiene a una tradizione che solo Luca conosce, poiché non è riportato dagli altri sinottici.

Il Quarto Vangelo però conosce Marta e Maria, le due donne protagoniste, e riferisce che sono residenti in Betania, con il fratello Lazzaro. La pericope nel tempo ha accresciuto il suo forte influsso sulla spiritualità cristiana, tanto da divenire il paradigma della contrapposizione fra la vita attiva a quella contemplativa. Ad esempio, San Francesco d’Assisi scrisse una «Regola» per i romitori immaginando che i frati dovessero ispirarsi a queste due sorelle:

«Coloro che vogliono condurre vita religiosa negli eremi, siano tre frati o al più quattro. Due di essi facciano da madri […] e seguano la vita di Marta, e i due che fanno da figli quella di Maria».

Leggiamo il testo evangelico.

«In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,38-42).

Questo racconto è collocato da Luca dopo l’inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Più precisamente dopo che si è fermato per rispondere alla domanda di un dottore della Legge su chi è il «prossimo» e aver raccontato la parabola del buon Samaritano. A seguire, continuando il suo viaggio verso la città santa, prima di risalire per il monte degli Ulivi e poi arrivare in città, Gesù entra in un villaggio dove avviene l’incontro con le due sorelle Marta e Maria. Poco sappiamo delle due donne e del fratello Lazzaro che da Luca non è menzionato. Alcuni hanno ipotizzato che fossero celibi, perché nei vangeli non si parla né di mariti per Marta e Maria, né di una moglie per Lazzaro, e, secondo qualche commentatore, potrebbero appartenere al gruppo dei pii israeliti chiamati esseni. Forse Gesù conquistò dei seguaci anche tra pii esseni che desideravano ardentemente la salvezza escatologica e che nel primo secolo d.C. intensificarono, a quanto pare, l’attesa del Messia davidico? Lazzaro e le sue sorelle Maria e Marta, persone chiaramente non sposate che vivevano a Betania nei pressi del Monte degli Ulivi, potrebbero essere esempi di simpatizzanti di questo genere.

Molto più interessante per noi è il fatto che Luca ha collocato questo incontro subito dopo la parabola del buon Samaritano, facendo percepire ai lettori del Vangelo che le due scene siano collegate. La parabola serviva a spiegare cosa significhi farsi prossimo; questa pagina invece parla dell’amore per il Signore. In tal modo Luca, controbilanciando un ideale filantropico forse troppo elevato, porta l’esempio di Marta e di Maria. Alcuni esegeti sottolineano la scelta accurata dell’evangelista nel presentare di seguito le due scene: l’insegnamento contenuto nel brano di Marta e Maria si può leggere in relazione con la parabola precedente del Samaritano che si fa prossimo, completandolo, poiché offre il fondamento del comportamento misericordioso. È importante, cioè, ascoltare la parola di Gesù, perché autentica espressione del volere divino espresso nel comandamento dell’amore del prossimo. L’ascolto della parola di Cristo è dunque il fondamento del comportamento cristiano e diventa la condizione essenziale per ereditare la vita eterna, che era la richiesta del dottore della Legge. Le parole di Gesù a Marta, così, ristabiliscono una priorità e invitano a non perdere di vista l’essenziale, ciò di cui si ha veramente bisogno, ovvero, stare ai piedi di Gesù.

Dal Vangelo di Giovanni sappiamo che gli ospiti di Gesù sono amici del Signore, in particolare viene detto di Lazzaro, ma qui, in Luca, come sopra riportato, egli non viene ricordato, né vi è un cedimento alla curiosità a riguardo delle emozioni o dei sentimenti di Gesù verso le ospiti. Abbiamo due sorelle, due donne, una delle quali è seduta addirittura ai piedi di Gesù, assumendo, perciò, la postura della discepola. Ora, mai un maestro ebreo dell’epoca avrebbe accettato che una donna assumesse nei suoi confronti l’atteggiamento di un discepolo. Il comportamento di Maria è straniante e contravviene le regole imposte dalla cultura del tempo. Salvo rarissime eccezioni sono ben noti i detti rabbinici secondo i quali le donne non avrebbero dovuto essere discepole di nessun maestro e neppure studiare la Torah. Ecco perché questo testo ha avuto ampia risonanza fra coloro che cercano nel Vangelo una voce favorevole sull’identità e sulla condizione della donna nella comunità cristiana. Se guardiamo, infatti, Marta e Maria, scopriamo che il modo in cui queste vengono rappresentate tocca un tema molto attuale. Maria è raffigurata come una discepola ai piedi di un rabbi, mentre per Marta, Luca, parlando dei suoi «molti servizi», utilizza il verbo diakonéo. L’ascolto della parola (v.39) non ricorda forse il ministero della Parola e il verbo «servire» (v.40) non rimanda al ministero della tavola, ai compiti diaconali? Il Vangelo sembra riportare un banale gesto di accoglienza di una persona nella propria casa, ma come spesso accade quando c’è di mezzo Gesù, un semplice avvenimento ha dalle conseguenze imprevedibili. Vediamolo da vicino. Scrive Luca che ad accogliere Gesù è Marta e non Maria:

«Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò» (v.38).

Non sappiamo perché solo Marta venga menzionata: forse perché è poi lei ad occuparsi concretamente dell’ospitalità? E come mai non c’è nessun uomo ad accogliere, come era di prassi, un altro uomo che entra in casa, come, ad esempio, fece Abramo che accolse gli ospiti a Mamre sotto la sua tenda? Del resto, non è l’unico caso di cui ci parla Luca: pensiamo a Lidia, che nel libro degli Atti degli Apostoli l’autore presenta come una piccola imprenditrice che addirittura obbliga Paolo a fermarsi nella sua casa (At 16,15).

Marta accoglie, dunque, Gesù, ma in modo diremmo oggi «iperattivo». Luca scrive che era: «distolta per i molti servizi» (v. 40, secondo la CEI), tanto da esserne totalmente assorbita. È eccessivamente preoccupata e si lascia prendere dall’ansia. Ma su questo punto dobbiamo essere precisi. Dove sta l’errore di Marta? Ella, evidentemente, svolge troppo il suo «servizio» (diakonía) che, mentre dovrebbe essere positivo, ne risulta in verità pregiudicato. Non sono né l’accoglienza di Marta, né la sua intenzione di servire a cadere sotto i colpi della critica, ma l’eccesso delle sue azioni e le preoccupazioni che ne sono all’origine. Il testo non contrappone la diaconía della tavola o quel che era all’amorevole ascolto della Parola.

Marta avanza la sua protesta al Maestro Gesù, senza entrare in dialogo con la sorella Maria, la quale, nel testo, non prende mai la parola; taciturna diviene il personaggio centrale, alla fine lodato dal Signore. Marta invece parla e si muove, il che rimanda all’episodio conservato in Giovanni, dove sempre lei va da Gesù, parla e gli contesta che se fosse stato lì suo fratello Lazzaro non sarebbe morto. Maria anche nel Vangelo di Giovanni rimane seduta, è Gesù a chiamarla e solo allora si muove verso di lui. In una situazione analoga a chissà quante, successe in ogni famiglia, ciò che emerge qui è la parola di Gesù. Questo racconto è stato conservato proprio per ricordare ciò che Gesù dice e non per la banalità dell’incontro. E Gesù, rivolgendosi a Marta, con quel doppio vocativo – «Marta, Marta» – tipicamente biblico, rimproverandola velatamente, ma mostrando, però, anche simpatia ed affetto per lei, desidera condurre la donna all’essenziale, a quella parte unica e prioritaria che Maria ha scelto spontaneamente.

Gesù dice a Marta quello di cui ha veramente bisogno, che è necessario, e ora, attraverso il racconto che ne fa Luca, anche i lettori ne sono consapevoli. Si tratta della parte buona, come dice il testo greco. La versione CEI, come abbiamo letto, sente di tradurre con: «parte migliore». I commentatori qui si dividono, alcuni preferiscono l’aggettivo qualificativo «migliore», altri insistono sul fatto che il testo, invece, eviterebbe la comparazione: migliore, infatti, presuppone qualcosa di meno buono. Anche San Girolamo traduce, nella Vulgata, adoperando un superlativo:  Maria optimam partem elegit.

Luca usa l’aggettivo greco hagathèn (da hagathós, «buono»), che nel Nuovo Testamento designa innanzitutto l’incomparabile bontà che contraddistingue Dio nella sua essenza. Ma allora qual è il senso della parola di Gesù che sottolinea la scelta di Maria rispetto a quella di Marta, sua sorella? La parola di Cristo è chiarissima: nessun disprezzo per la vita attiva, né tanto meno per la generosa ospitalità; ma un richiamo netto al fatto che l’unica cosa veramente necessaria è un’altra: ascoltare la Parola del Signore; e il Signore in quel momento è lì, presente nella Persona di Gesù! Tutto il resto passerà e ci sarà tolto, ma la Parola di Dio è eterna e dà senso al nostro agire quotidiano.

Dall’Eremo, 20 luglio 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IO VI MANDO COME PECORE IN MEZZO AI LUPI 

«Questa è la prima immagine di Gesù evangelizzatore che viene presentata: sconfitto, cacciato, non ascoltato, non gradito, ed è davvero una scena misteriosa se pensiamo che Gesù è l’evangelizzatore. Questa non è una scena solitaria, e se Luca l’ha messa qui, è perché sa di toccare qualche cosa che appartiene a una costante del Regno di Dio»

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Dopo l’inizio del pellegrinaggio di Gesù verso Gerusalemme San Luca narra l’invio dei dodici (Lc 9,1-6). Ora vengono mandati da Gesù «altri discepoli» avanti a lui.

Si tratta di un numero che la tradizione dei manoscritti antichi trasmette in modo difforme. Per alcuni di essi sono settantadue e allora rappresenterebbero tutti i popoli della terra, secondo l’elenco di Genesi 10, almeno seguendo la traduzione greca (LXX); perché nel testo ebraico (masoretico) i popoli risultano essere settanta. In altri manoscritti greci è riportato proprio il numero settanta, ovvero quanti gli anziani scelti da Mosè secondo il racconto di Numeri (cap. 11). Nell’uno o nell’altro caso, Luca dice che Gesù manda non solo i Dodici, ma anche altri discepoli, e li invia a tutti. Leggiamo il testo evangelico di questa XIV Domenica del tempo ordinario.

«In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città”. I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse loro: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”» (Lc 10,1-12.17-20).

Rimanendo in argomento-numero è chiaro che dodici evochi la missione ad Israele, tale, infatti, era il numero delle sue tribù; quello di settanta o settantadue non può che richiamare, invece, la missione universale della Chiesa. Questa però non è iniziata, storicamente, al tempo di Gesù, ma solo dopo la sua morte e risurrezione; la presente narrazione appare dunque come un’interpretazione, un modo di dire che la missione verso i gentili fosse già presente nella volontà del Signore Gesù. Perché un invio ai pagani abbia luogo, infatti, devono verificarsi quelle condizioni narrate negli Atti degli Apostoli, che non si erano ancora realizzate al tempo in cui Gesù compie il suo viaggio a Gerusalemme. In particolare, la persecuzione della Chiesa dopo la morte di Stefano e la dispersione dei discepoli di Gesù; l’incontro di Paolo con Cristo; Pietro che entra nella casa del centurione Cornelio e rimane a tavola con i pagani. Infine, la prima assemblea di Gerusalemme, che dirime questioni che mai si erano prefigurate antecedentemente, riguardanti la circoncisione o meno dei convertiti.

L’odierna pagina evangelica è facilmente divisibile in due parti: nella prima vengono date le istruzioni sulla missione, nella seconda si descrive il ritorno degli inviati. I discepoli devono andare a due a due, un probabile rimando al valore della testimonianza che richiede sia confermata da diversi: «Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera» (Gv 8, 17; cfr. Dt 19,15). Gesù li avverte che saranno «come agnelli in mezzo a lupi»: dovranno, cioè, essere pacifici nonostante tutto e recare in ogni situazione un messaggio di pace; non porteranno con sé né vestiti né denaro o altre cose inutili, per vivere di ciò che la Provvidenza offrirà loro; si prenderanno cura dei malati, come segno della misericordia di Dio; dove saranno rifiutati, se ne andranno, limitandosi a mettere in guardia circa la responsabilità di respingere il Regno di Dio. L’annuncio della venuta di Gesù e del Regno, poi, prevede un’urgenza che fa sì che i discepoli non dovranno nemmeno fermarsi per salutare le persone. A seguire San Luca mette in risalto l’entusiasmo dei discepoli per i buoni frutti della missione e registra questa bella espressione di Gesù: «Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20). Tutto questo brano del Vangelo è un invito a risvegliare nei battezzati la consapevolezza di essere missionari di Cristo, chiamati a preparargli la strada con le parole e con la testimonianza della vita.

Mi soffermo sulla frase di Gesù qui sopra riportata in risposta ai discepoli che si rallegrano per l’esito della missione, perché potrebbe apparire spiazzante, giocata sul paradosso, come spesso fa Gesù, che usa un linguaggio apocalittico per via della menzione dei demoni che si sottomettono, di Satana che precipita da quel cielo dove i nomi dei discepoli missionari invece vengono ascritti. Il detto evangelico vuole sottolineare che ogni missione cristiana pur richiedendo la disponibilità umana non dipende totalmente dagli inviati, ma dalla forza della Parola e da Dio. Per questo essa prevede anche il rifiuto; nel brano evangelico, infatti, emerge per tre volte l’idea che l’evangelizzazione possa fallire. Nell’espressione del v. 6: «altrimenti (la pace, n.d.r) ritornerà su di voi»; in quella del v. 10: «quando entrerete in una città e non vi accoglieranno»; ed anche nell’allusione del v. 3: essere «agnelli in mezzo ai lupi». Si potrebbe menzionare anche l’ammonizione del v. 16 non riportata oggi dal Lezionario, nei riguardi di Corazin, Betsàida e Cafarnao, dove si parla di Gesù disprezzato e dei discepoli che subiscono la stessa sorte: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato». Si comprende che il destino del discepolo è come quello del Maestro, possono esserci dei successi, ma anche incontrare muri che sbarrano la strada all’evangelizzazione. Gesù, fin dall’inizio del suo viaggio verso Gerusalemme, è presentato subito come un non accolto, poiché appressandosi a un villaggio di samaritani: «essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (Lc 9,53). Così quell’antica diatriba fra giudei e samaritani, nella quale si mischiano ragioni sociali, culturali e religiose, sembra una premonizione di ciò che oggi vediamo accadere ancora nella terra che fu anche di Gesù. Come avviene in tante simili situazioni, quando le ferite della memoria non guarite rendono più forte il rancore della riconciliazione. Così anche Gesù ricade nello stesso identico, quanto noioso, schema del nemico. Non importa chi sia, cosa dica o porti: Egli è un galileo da rifiutare. Anzi possiamo dire che Gesù fin da subito, nel Vangelo di Luca, appare come un rifiutato, quando gli stessi concittadini di Nazareth non vogliono credere al suo primo annuncio, anzi tentarono di metterlo a morte (Lc 4).

«Questa è la prima immagine di Gesù evangelizzatore che viene presentata: sconfitto, cacciato, non ascoltato, non gradito, ed è davvero una scena misteriosa se pensiamo che Gesù è l’evangelizzatore. Questa non è una scena solitaria, e se Luca l’ha messa qui, è perché sa di toccare qualche cosa che appartiene a una costante del Regno di Dio» (C. M. Martini, L’evangelizzatore in San Luca, Milano, 2000).

La storia si ripete, anche per i discepoli, ed è previsto il rifiuto colpevole all’annuncio. Ma questi devono in ogni caso dire a chi li rifiuta che: se la polvere «la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino» (Lc 10,11).

Dopo la Risurrezione di Gesù la Chiesa primitiva acquisterà piena consapevolezza di questa dinamica e saranno proprio le persecuzioni scatenate a Gerusalemme contro i cristiani di cultura greca a far si che il Vangelo arrivi, insieme al Battesimo e al dono dello Spirito, anche a quei samaritani che una volta non vollero accogliere Gesù, come racconta Luca negli Atti degli Apostoli (cap. 8). Gli ostacoli della divisione vengono così rimossi, perché il segno della Pentecoste, della nuova comunità che ormai parla in tutte le lingue e unisce i popoli in un unico popolo, in una famiglia di Dio, è divenuto realtà. Grazie ad Essa gli stranieri sono diventati amici e, al di là dei confini, si riconoscono fratelli.

Dall’Eremo, 06 luglio 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Nell’illuminazione dello Spirito, noi vedremo la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

NELL’ILLUMINAZIONE DELLO SPIRITO, NOI VEDREMO LA VERA LUCE CHE ILLUMINA OGNI UOMO CHE VIENE NEL MONDO

Esistono due modi egualmente mortali di separare il Cristo dal suo Spirito: quello di sognare un Regno dello Spirito che porterebbe al di là del Cristo, e quello d’immaginare un Cristo che riporterebbe costantemente al di qua dello Spirito.

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Il profeta Isaia implorava: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19). Nella Pentecoste quell’antico desiderio è stato esaudito.

El Greco, “Pentecoste”, 1597-1600 (particolare) – Madrid, Museo del Prado

 

«Nella tua luce vedremo la luce», pregava il salmista (Sal 36,10) e San Basilio chiosava: «Nell’illuminazione dello Spirito, noi vedremo la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo». La Pentecoste è il compimento del mistero pasquale e rivelazione della vocazione cristiana. Lo Spirito, infatti, come un maestro al discepolo, insegna e fa ricordare, affinché Cristo dimori nel discepolo, ne divenga presenza interiore e intima. Non quindi esteriore, estrinseca o funzionale: il compimento della vocazione cristiana si avvera quando la vita di Cristo vive in noi. E la vocazione, o, se si vuole, l’essenziale della vita cristiana sotto la guida dello Spirito è la vita interiore, come capacità di far abitare in noi la parola del Signore, per meditarla, comprenderla, interpretarla e poi viverla. Leggiamo il Vangelo di questa Solennità:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”» (Gv 14,15-16.23-26).

Il compimento della Pasqua del Signore implica l’inclusione del credente in questo fondamentale mistero e ciò avviene per mezzo del dono dello Spirito Santo. Egli favorisce il passaggio da Cristo al cristiano, dalla missione di Gesù a quella dei discepoli, come pure dalla predicazione e dall’azione di Gesù alla predicazione e all’azione dei credenti nella storia. Completa, cioè, il passaggio da Cristo alla Chiesa. Come afferma Gesù nel Vangelo, grazie allo Spirito, il credente comprende e ricorda la parola di Gesù e con la Sua forza la annuncia, vi risponde con la preghiera e vi obbedisce con la testimonianza. In questo modo l’evento pentecostale ci rivela chi è il credente, poiché accende la luce sulla vita secondo lo Spirito. Prendiamo ad esempio la preghiera. Grazie allo Spirito essa sorge in risposta alla Parola del Signore ascoltata e permette di invocare Dio col nome di Padre, Abbà, poiché i rinati dallo Spirito sono figli suoi, come ricorda l’Apostolo Paolo nell’odierna seconda lettura con parole rimaste famose:

«Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 14-15).

Subito prima l’Apostolo aveva richiamato un altro aspetto intrinseco alla vita secondo lo spirito, quello della lotta interiore, che si contraddistingue per la rottura con la «carne» e l’egoismo:

«Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete».

Mentre invece il valore dell’annuncio e della testimonianza sono gli Atti degli Apostoli, la prima lettura di oggi, a sottolinearli, quando i discepoli iniziano a parlare la lingua dello Spirito, rendendo eloquente per tutti il messaggio delle grandi opere di Dio:

«Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (At 2,8). 

Tornando al Vangelo, possiamo brevemente riassumere come Gesù prepara i suoi a ricevere l’«altro» Paraclito. Nell’ultima Cena il cuore dei discepoli è turbato dall’annuncio imprevisto della partenza di Gesù (Gv 14,1). Finora egli era restato con loro (Gv 16,4; 14,25); ma adesso annuncia che rimarrà soltanto per poco tempo (Gv 13, 33): ben presto essi non lo vedranno più (Gv 16,11) perché va al Padre (Gv16,10). Tuttavia Gesù tornerà subito presso i suoi (Gv 14,18) non solo al momento delle apparizioni pasquali, ma per mezzo di una presenza tutta spirituale ed interiore: allora soltanto i discepoli saranno capaci di vederlo, in una contemplazione di fede (Gv14,19). E questa sarà opera dello Spirito Santo, il quale viene chiamato «un altro Paraclito» (Gv 14,16), perché continuerà presso i discepoli l’opera che il primo Paraclito, Gesù, ha iniziato. Nel grande conflitto che oppone Gesù e il mondo, lo Spirito avrà il compito di difendere la causa di Gesù presso i discepoli e di confermarli nella loro fede. In questo modo diventa interesse dei discepoli che il Cristo Gesù se ne vada, poiché senza questa dipartita il Paraclito non verrà presso di loro (Gv 16,7). Solo così il Padre donerà loro il Paraclito dietro richiesta di Gesù e nel nome di Gesù (Gv 14,16.26); anzi, il Cristo stesso da presso il Padre invierà loro il Paraclito (Gv 15,26). Questo Spirito che proviene dal Padre resterà coi discepoli per sempre (Gv 14,16), cioè fino alla fine dei tempi: durante tutta la sua permanenza qui in terra, la vita della Chiesa sarà caratterizzata dall’assistenza dello Spirito di verità.

San Giovanni ricorda che il Padre invierà lo Spirito Santo «nel nome di Gesù», come prima aveva detto che Gesù stesso stava sulla terra «nel nome di suo Padre» (Gv 5,43), in stretta comunione col Padre; egli infatti stava tra gli uomini per far conoscere il nome del Padre, per rivelare il Padre (cfr. Gv 17,6). Di qui si comprende meglio quel che intende dire Gesù quando annuncia che il Paraclito sarà inviato «nel suo nome». Non significa semplicemente che il Padre invierà lo Spirito dietro richiesta del Figlio, oppure in luogo o come rappresentante del Figlio, o ancora per continuare l’opera del Figlio. Il «nome» esprime qui quel che di più profondo esiste nella persona del Cristo Gesù, la sua qualità di Figlio, ed in quanto tale avrà una parte attiva nell’invio dello Spirito. Per questo motivo nei discorsi d’addio si trovano le due formule complementari: il Padre invierà lo Spirito nel nome di Gesù (Gv 14,26); il Figlio stesso invierà lo Spirito da presso il Padre. La formula «nel mio nome» indica dunque chiaramente la comunione perfetta tra il Padre e il Figlio quando Essi inviano lo Spirito. Senza dubbio l’origine di questa «missione» è il Padre ed è per questo che il Figlio invierà lo Spirito «da presso il Padre». Tuttavia anche il Figlio è principio di questo invio: e perciò il Padre invierà lo Spirito «nel nome del Figlio». Così il Padre e il Figlio sono entrambi principio di questa missione del Paraclito. Pertanto, se lo Spirito è inviato nel nome del Cristo Gesù, la sua missione sarà di rivelare il Cristo Gesù, di far conoscere il suo vero nome, quel nome di Figlio di Dio che esprime il mistero della sua persona: Il Paraclito dovrà suscitare la fede in Gesù Figlio di Dio.

Ma il Vangelo va oltre. La seconda metà del versetto (Gv 14,26) descrive il Paraclito «nell’ufficio di maestro di dottrina» (Reginald Garrigue Lagrange). Tale azione viene designata da due differenti verbi: «Egli vi insegnerà ogni cosa e vi farà ricordare tutto quel che io vi ho detto». Questa è una proposizione importante, perché ha dato adito a una tentazione ricorrente nella Chiesa, quella di introdurre nuove rivelazioni dovute allo Spirito. Una tentazione per nulla illusoria se ci ricordiamo il montanismo agli inizi della Chiesa e la corrente spiritualista di Gioacchino da Fiore nel Medioevo. Padre Henry de Lubac benissimo ha scritto:

«Esistono due modi egualmente mortali di separare il Cristo dal suo Spirito: quello di sognare un Regno dello Spirito che porterebbe al di là del Cristo, e quello d’immaginare un Cristo che riporterebbe costantemente al di qua dello Spirito».

Ma il Paraclito ai discepoli non porterà un Vangelo nuovo, nella vita e nell’insegnamento di Gesù, infatti, è contenuto tutto quel che dobbiamo conoscere in vista della costituzione del Regno di Dio e per attuare la nostra Salvezza. La funzione dello Spirito resta essenzialmente subordinata alla Rivelazione già portata da Gesù. «Insegnare» secondo Giovanni è quasi un verbo di rivelazione. Il Padre ha insegnato al Figlio quel che questi ha rivelato al mondo (Gv 8,28). Ma più spesso Gesù medesimo viene presentato come colui che insegna (Gv 6,59; 8,20). Tuttavia, questa dottrina del Cristo Gesù non deve rimanere estrinseca al credente, per questo Giovanni ha insistito fortemente sulla necessità di renderla interiore con l’accoglierla mediante una fede sempre più viva. Tale è il significato delle espressioni tipicamente giovannee «rimanere nella dottrina del Cristo» (2Gv 9), «rimanere nella sua parola» (Gv 8,31). Precisamente qui si pone l’azione dello Spirito: anch’egli «insegna». Egli insegna esattamente quello che è già stato insegnato da Gesù, ma per farlo penetrare nei cuori. Dunque, la Rivelazione ha una perfetta continuità: proveniente dal Padre, essa ci viene comunicata dal Figlio e tuttavia non raggiunge il suo termine che quando è penetrata nel più intimo di noi stessi e questo avviene per opera dello Spirito.

La natura esatta di questo insegnamento del Paraclito viene precisata da un altro verbo: egli «farà ricordare» tutto quel che Gesù ha detto. Questo tema del «richiamo» o del «ricordo» viene fortemente sottolineato dal quarto Vangelo. Giovanni osserva più d’una volta che dopo la partenza di Gesù i discepoli «si ricordarono» di questa o quell’altra parola o azione di Gesù, cioè essi ne colsero il vero significato e tutta la portata soltanto dopo la Resurrezione (Gv 2,17.22; 12,16). Proprio qui si colloca la funzione dello Spirito Santo: nel «ricordare» tutto quel che Gesù aveva detto, ma Egli non si limiterà soltanto a riportare alla loro memoria un insegnamento che altrimenti avrebbero rischiato di dimenticare. Il suo vero compito sarà di far comprendere nella loro interiorità le parole di Gesù, di farle afferrare alla luce della fede, di farne percepire tutte le virtualità, e le ricchezze per la vita della Chiesa. Dunque attraverso l’opera segreta del Paraclito il messaggio di Gesù non rimane più per noi esteriore ed alieno o semplicemente consegnato al passato; lo Spirito Santo l’interiorizza in noi e ci aiuta a penetrarlo spiritualmente perché noi vi scopriamo una parola di vita. Questa parola di Gesù, assimilata nella fede sotto l’azione dello Spirito, è quel che nella sua prima Lettera Giovanni chiama «l’olio d’unzione» che rimane in noi (1Gv 2,27). Lo Spirito agisce nell’intimo del credente affinché l’insegnamento di Gesù acquisti  un senso sempre più pieno (vv. 20 e ssg.) e lo istruisce su tutte le realtà; il cristiano è ormai «nato dallo Spirito» (Gv 3,8). Giunto a questo grado di maturità spirituale egli non ha più necessità d’essere istruito (1Gv 2,27): ormai importa unicamente ch’egli resti in Gesù e che si lasci istruire da Dio (cfr. Gv 6,45).

Dall’Eremo, 07 giugno 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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L’ascensione segna un modo nuovo per i discepoli di essere per Cristo, con Cristo e in Cristo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’ASCENSIONE SEGNA PER I DISCEPOLI UN MODO NUOVO DI ESSERE PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO

L’Ascensione del Signore inaugura una relazione totalmente nuova fra lui e i discepoli, che se anche è segnata da una separazione fisica, tuttavia non genera tristezza, né rimpianti, perché i discepoli: «tornarono a Gerusalemme con grande gioia». Inizia dunque un legame che avrà una forte incidenza sulla vita spirituale del cristiano, anche perché d’ora in poi viene costituito come testimone.

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L’Ascensione del Signore forma parte costitutiva dell’unico ed indivisibile evento pasquale. Il testo evangelico della festa la colloca al termine del racconto delle apparizioni del Risorto, in quel primo giorno dopo il sabato che per Gesù diventa l’occasione per rincuorare gli ancóra scossi discepoli.

Salvador Dalì, Ascensione di Cristo

In questo modo Egli rafforza la loro fede nella risurrezione: «Così sta scritto: «Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (v. 46); preannuncia loro la futura missione: «nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e la remissione dei peccati» (v. 47); e il dono dello Spirito Santo: «io mando su di voi ciò che il Padre mio ha promesso» (v. 49). Leggiamo il brano evangelico:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse  fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,46-53).

L’Ascensione è raccontata, in alcuni passi del Nuovo Testamento, con termini che parlano di allontanamento, di partenza, di assunzione (analempsis At 1,11), di cammino (poreoumai At 1,10-11), di salita (anabasis: Gv 20,17), di separazione: «si staccò da loro» (Lc 24,51). Come già abbiamo visto nel vangelo giovanneo di domenica scorsa questo sottrarsi del Signore alla vista fisica non viene letto, però, come un distacco, una mancanza o un’assenza. Poiché esso apre ad un nuovo legame fra Gesù e i suoi, stavolta interiore e spirituale, guidato dallo Spirito e teso a rendere i discepoli testimoni del Risorto. Mentre Giovanni sottolinea l’aspetto dell’inabitazione trinitaria, Luca coglie invece quello della missione e testimonianza: «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48) ; «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme … e fino ai confini della terra» (At 1,8). Per ambedue gli autori testamentari se l’Ascensione nasconde definitivamente il corpo fisico di Gesù alla vista dei suoi discepoli, ciononostante essi possono di nuovo incontrarlo sia interiormente, grazie alla presenza dello Spirito, sia nell’amore scambievole fra i discepoli e verso il prossimo: lasciandosi guidare dallo Spirito, essi possono fare ciò che Gesù stesso faceva.

Prima di lasciare i suoi, Gesù fa un breve «riassunto» della sua vita e della sua missione. In precedenza, a Emmaus, aveva spiegato come in tutte le Scritture – «cominciando da Mosè e da tutti i profeti» – vi era un riferimento a lui e, soprattutto, che il Messia d’Israele avrebbe «sopportato tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Ora questi discorsi sono rivolti agli apostoli, come dice l’introduzione al vangelo di oggi:

«Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (v.44).

Gesù sta spiegando, come aveva già fatto nei suoi tre annunci della passione, che il Messia, il Cristo, sarebbe morto e risorto dopo tre giorni. Cogliamo qui l’inizio dell’ermeneutica cristiana delle scritture ed è Gesù stesso ad inaugurarla, poiché, ad esempio, difficilmente troveremmo nell’Antico Testamento un’esplicitazione così chiara, in senso messianico, delle profezie sul servo sofferente di Isaia. Gesù risorto lo segnala ai discepoli. Come avrebbero, infatti,  potuto costoro dare un senso così «pieno» a parole che mai nessuno prima aveva interpretato in quel modo? Da allora in poi i cristiani leggeranno la Bibbia a partire dalla morte e risurrezione di Gesù:

«La morte del Messia, re dei Giudei, e la sua risurrezione diedero ai testi dell’Antico Testamento una pienezza di significato prima inconcepibile. Alla luce degli eventi della Pasqua gli autori del Nuovo Testamento rilessero l’Antico. Lo Spirito Santo inviato dal Cristo glorificato ne fece scoprire loro il senso spirituale» (Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana).

L’Ascensione del Signore inaugura, come si è detto, una relazione totalmente nuova fra lui e i discepoli, che se anche è segnata da una separazione fisica, tuttavia non genera tristezza, né rimpianti, perché i discepoli: «tornarono a Gerusalemme con grande gioia». Inizia dunque un legame che avrà una forte incidenza sulla vita spirituale del cristiano, anche perché d’ora in poi viene costituito come testimone: «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48). E questa relazione sarà posta sotto il sigillo dello Spirito Santo, ovvero, l’amore di Dio e la libera volontà di Lui di comunicare ed entrare in comunione con gli uomini. In questo modo, quello che ha vissuto e fatto Gesù con tutti, toccando le membra povere o peccatrici della nostra umanità, ora lo possono compiere anche i discepoli. Lasciandosi guidare dallo Spirito, essi possono fare ciò che Gesù stesso faceva. Nel racconto dell’Ascensione che si legge negli Atti degli Apostoli, ugualmente lucano come il vangelo, notiamo una continuità tra la venuta del Signore nella gloria ed il suo cammino storico,  il verbo usato per descrivere l’andata di Gesù verso il cielo in At 1,10-11 è lo stesso usato per indicare il cammino che egli ha compiuto fisicamente. L’Asceso al cielo è anche il Veniente ed è colui che passò tra gli uomini facendo il bene e guarendo:

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Venuta escatologica e cammino quotidiano di Gesù sono in stretta continuità; così anche per i discepoli: per conoscere, confessare e testimoniare il Veniente non occorre guardare in cielo, ma ricordare i passi compiuti da Gesù sulla terra. L’umanità di Gesù attestata dai vangeli diventa, così, il magistero che indica ai cristiani la via da percorrere per testimoniare colui che, asceso al cielo, non è più fisicamente presente tra i suoi e verrà nella gloria.

E ancora. Secondo il Vangelo di Luca l’Ascensione di Gesù è accompagnata da una benedizione: «Mentre Gesù benediceva i discepoli, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (v. 51); e secondo gli Atti degli Apostoli da una promessa: «Gesù verrà un giorno…» (At 1,11). Promessa e benedizione sono l’assicurazione che il Signore non abbandona i suoi, ma verrà di nuovo ad incontrarli. Ma sono altresì aspetti che impegnano la Chiesa nella predicazione e nella testimonianza, mentre questa attende gioiosa da Sua venuta gloriosa. Il Vangelo pone in evidenza due caratteristiche decisive della testimonianza cristiana, e cioè la conversione e la remissione dei peccati (Lc 24,47) che furono già al centro della predicazione e del messaggio di Gesù, come gli stessi discepoli hanno sperimentato. Essi hanno condiviso la strada con quel Gesù che è venuto «non a chiamare i giusti, ma i peccatori a conversione» (Lc 5,32), e hanno sperimentato il perdono dei peccati, hanno conosciuto la salvezza nella remissione dei peccati (Lc 1,77). In fondo si è testimoni di ciò che si è conosciuto e sperimentato.

Infine, occorre ricordare che ci sono molti punti, all’interno dei Vangeli, in cui Gesù prefigura quanto avverrà nell’Ascensione, ad esempio durante l’Ultima Cena, in cui annuncia: «vado dal Padre». E il posto alla destra del Padre è, appunto, il posto d’onore, quello del Figlio prediletto che per amore si è fatto carne, è morto e risorto e così ha salvato l’umanità. Quel posto è suo da sempre, perché Gesù prima di essere uomo è Figlio del Padre e presso di Lui ha stabile dimora e gloria. Gesù, tuttavia, ascende al cielo per dare inizio al «regno che non ha fine», ma anche per preparare il nostro posto in cielo. Se Gesù non tornasse al Padre nei cieli, per l’uomo non sarebbe completa sia la redenzione che la salvezza: solo così, infatti, Egli le porta a compimento, inviando nel mondo il Consolatore.

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La pace vera è di Cristo, non quella dei pacifisti e dei pacifondisti

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PACE VERA È DI CRISTO, NON QUELLA DEI PACIFISTI O DEI PACIFONDISTI

Lo Spirito è «l’attualità di Cristo» stesso, non però come un semplice ricordo della vita terrestre del Signore. La sua attualizzazione è quella che ci fa «contemporanei di Cristo» (Søren Kierkegaaard), assicurandone la sua permanente presenza nella Chiesa, come anche San Paolo afferma di Gesù, che rimane presente nella nostra esistenza come «spirito vivificante».

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San Girolamo, nel commento alla Lettera ai Galati, narra una vicenda forse leggendaria, di sicuro antica:

«Il beato Giovanni evangelista, mentre, fino alla vecchiaia avanzata, dimorava a Efeso e con difficoltà veniva trasportato in chiesa sulle mani dei discepoli ne era più in grado di dire molte parole, nient’altro soleva proferire in ciascuna riunione se non questo: “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” (cfr. 1Gv 3,11)».

Negli scritti giovannei è l’amore la cifra attorno alla quale l’evangelista condensa il mistero cristiano, come nelle parole che si leggono nel Vangelo di questa domenica. In esse ci viene rivelato qualcosa di grande e nello stesso tempo profondo, poiché dicono che grazie all’amore la Trinità abita in noi. Il Signore Risorto che non ci ha lasciati, in forma nuova, spirituale, continua a vivere in noi portandovi l’amore del Dio trinitario. Leggiamo.

«In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate”» (Gv 14,23-29).

Nel contesto dell’ultimo incontro tra Gesù e i suoi, diversi discepoli gli rivolgono delle domande: Pietro in primis (Gv 13,36-37), poi Tommaso (Gv 14,5), quindi Giuda Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?» (Gv 14,22). È una domanda che evidenzia, forse, la sofferenza nei discepoli, poiché, dopo l’avventura vissuta insieme a Gesù per anni, egli se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo. Una piccola e sparuta comunità ha compreso qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma gli altri non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce dunque la venuta del Figlio unigenito nella carne? Gesù allora risponde: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Il Signore Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che permane ostile senza riuscire ad amarlo: per avere, invece, la manifestazione di Gesù occorre l’amore. Quelle parole di Gesù sono sorprendenti perché spalancano l’orizzonte sull’inaspettata nuova abitazione del Signore in noi. Come sarà questa nuova presenza di Gesù nella comunità dei credenti? Essa sarà caratterizzata da due tratti fondamentali.

Innanzitutto, sarà una presenza interiore, spirituale: per mezzo di essa il Signore si manifesterà ai suoi discepoli. Fino ad allora Gesù è stato semplicemente «presso» di loro (v. 25). Partirà, però, senza lasciarli orfani, poiché Egli tornerà dai suoi (v. 18), e «in quel giorno», dice Gesù, faranno un’esperienza nuova: «voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (v. 20). Riconosceranno contemporaneamente che Gesù è nel Padre suo e che perciò non sarà da solo a venire verso il discepolo che ama: verranno Gesù e il Padre suo e dimoreranno (v. 23). Gesù si manifesterà nel mistero della sua inabitazione nel Padre suo. Tuttavia, afferma Gesù, quasi come un ritornello, questa condizione si verifica se il discepolo ama il Signore, secondo l’insegnamento che ha ricevuto da Lui (vv. 15.21.23.24). In questa osservanza esistenziale del precetto dell’amore, il discepolo finalmente riconoscerà che Gesù e il Padre dimorano in lui.

L’altro tratto fondamentale rivelato dalle parole di Gesù è che tutto questo non sarà possibile senza l’azione dello Spirito Santo. Come sopra rammentato Gesù era «presso» i discepoli (v.25), così pure lo Spirito era «presso» di loro (v.17), perché era in Gesù. Più avanti sarà «in» loro — ancora il v. 17: «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» — perché il suo compito sarà quello di ricordare ai discepoli tutto quello che aveva detto loro Gesù e di insegnarlo dal di dentro: «vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26).

L’insegnamento del Paraclito coinciderà dunque con l’insegnamento interiore di Gesù: le sue parole diventeranno, nell’intimo dei discepoli, fiumi di acqua viva che susciteranno per loro e per la comunità cristiana una vita nuova: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7, 37-39). Attraverso l’interiorizzazione della parola di Gesù e per mezzo della presenza dello Spirito nei discepoli, Gesù stesso e con Lui il Padre, sarà nuovamente presente in loro. Però soltanto nello Spirito Paraclito sarà possibile «vedere» Gesù (Gv 16,22-23); così, attraverso uno sguardo nuovo, si scoprirà il suo mistero, come afferma anche Sant’Ambrogio: «Non con gli occhi del corpo, ma con quelli dello spirito si vede Gesù» (Expos. ev.sec. Lucam I,5).

Di tale maniera, in un modo assolutamente imprevedibile, si compirà la promessa della inabitazione escatologica di Dio tra gli uomini (cfr. Zac 2,14: «Rallègrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te»). Così si esprime Sant’Agostino riguardo a questa nuova presenza divina che è trinitaria: «Ecco, dunque, che anche lo Spirito Santo, insieme al Padre e al Figlio, fissa la sua dimora nei fedeli, dentro di loro, come Dio nel suo tempio. Dio Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo vengono a noi quando noi andiamo da loro» (Tract. in Jo., PL 35, 1832).

Sappiamo che i tre principali autori del Nuovo Testamento che hanno scritto sullo Spirito Santo sono Luca, Paolo e Giovanni. Ma solo quest’ultimo dice che il Gesù storico dava lo Spirito. Secondo il quarto Vangelo l’attività dello Spirito consiste nel suscitare, approfondire o difendere, nel cuore dei discepoli, la fede in Gesù e di dare loro la conoscenza del Signore. Come giustamente è stato affermato: è in un quadro di rivelazione che si inserisce in San Giovanni la dottrina sullo Spirito Santo; e il quarto vangelo di continuo ci fa assistere alla rivelazione progressiva del rapporto sempre più intimo tra Gesù e lo Spirito. Se all’inizio Gesù si presenta come colui sul quale lo Spirito  «rimane» — di lui, infatti, il Battista dice: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (Gv 1, 32) —  in seguito Egli lo dona, anzi, al momento della «sua ora» ne diviene la fonte. Dopo la risurrezione Gesù chiederà al Padre di mandare lo spirito di verità (Gv 14, 16-17) che sarà un altro Paraclito. Dallo Spirito è ormai assicurata alla Chiesa la permanenza e l’efficacia della rivelazione di Gesù. Anzi, per Giovanni, lo Spirito è «l’attualità di Cristo» stesso, non però come un semplice ricordo della vita terrestre del Signore. La sua attualizzazione è quella che ci fa «contemporanei di Cristo» (Søren Kierkegaaard), assicurandone la sua permanente presenza nella Chiesa, come anche San Paolo afferma di Gesù, che rimane presente nella nostra esistenza come «spirito vivificante» (1Cor 15,45).

Dall’Eremo, 24 maggio 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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