Sui “divorziati risposati”. Il potere conferito da Cristo a Pietro di “legare” e di “sciogliere”

SUI “DIVORZIATI RISPOSATI“. IL POTERE CONFERITO DA CRISTO A PIETRO DI «LEGARE» E DI «SCIOGLIERE»

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Esistono casi di sacerdoti che senza cessare di essere tali ricevono la dispensa dall’esercizio attivo del sacro ministero e la dimissione dallo stato clericale, ottenuta la quale possono anche sposarsi e ricevere il Sacramento del matrimonio. In altri tempi ciò non era possibile né previsto dalle discipline ecclesiastiche, anzi era proprio impensabile.

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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«A te [Pietro] darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» [Mt. 16,19]

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Ariel evangeliario

Ariel S. Levi di Gualdo che porta in processione l’Evangeliario durante una solenne celebrazione presieduta da un Vescovo

Nel 2011, in una sperduta cappella di campagna fuori Roma celebrai alle 7 del mattino di un lunedì le nozze di un uomo che in modo improprio potrebbe essere definito “ex prete“, per non parlare del termine popolare dispregiativo di “spretato“. Alla sacra celebrazione non erano presenti né amici né parenti, solo quattro testimoni e la bimba di cinque anni della coppia, nata da questa relazione clandestina due anni prima che il sacerdote — all’epoca parroco — avanzasse richiesta di rinuncia all’esercizio del sacro ministero sacerdotale, spinto in tal senso da me, appena divenuto suo confessore, in modo deciso e anche pressante.

Sorvolo sul modo “indecente nel quale ho visto nel corso degli anni diversi vescovi gestire situazioni più o meno analoghe. Prendo allora un esempio tra i tanti, quello del classico sacerdote mal formato, proveniente da una situazione di disagio e di povertà di un paese in via di sviluppo, ordinato ad appena 24 anni in Italia da uno dei nostri vescovi privo di aspiranti alla vita sacerdotale e per questo particolarmente “affamato di preti”. Tra una scappatella e l’altra il giovane prete finisce con l’instaurare una relazione stabile con una sua parrocchiana, che rimane appresso incinta e dà alla luce una creatura. La preoccupazione dell’allora vescovo diocesano, in seguito del suo successore, fu quella di allontanare il prete mandandolo in giro per il mondo, con risultati tutt’altro che positivi, perché se il prete non è stato “generato” prima, difficilmente può esserlo dopo, specie dinanzi al sopraggiungere di certi guai sempre parecchio difficili da gestire. Intanto, l’amante del sacerdote, si reca dal Vescovo e lo informa che la creatura venuta alla luce è di un suo prete e che lei ha bisogno dei necessari mezzi economici per mantenerla e crescerla. Appurato attraverso esame del DNA che la creatura era veramente del prete, la Diocesi se ne fece discretamente carico; spero non attraverso i fondi dell’Otto per Mille versato dai nostri fedeli per il sostentamento della Chiesa e dei suoi sacerdoti, non per quello delle amanti e della prole di taluni presbìteri. Se infatti qualcuno doveva provvedere di propria tasca a riparare i danni di quel prete, questi era il vescovo che lo aveva ordinato, che in quanto a riempirsi le tasche non c’era andato tra l’altro piano nel far man bassa. Il nuovo vescovo si accorda col vescovo di un’altra diocesi distante centinaia di chilometri e sistema il prete altrove. Perché questo è spesso il “prudente” e “sapiente” agire di molti nostri vescovi: non affrontare il problema alla radice ma “risolverlo” spostando il prete problematico da una parte all’altra. Tutt’altra storia rispetto al modo in cui io, mosso da diversa misericordia e comprensione, ma anche agendo su severi imperativi di coscienza, nella mia veste di confessore imposi al confratello poc’anzi narrato di lasciare quanto prima l’esercizio del sacro ministero sacerdotale e di assumersi tutte le sue responsabilità di genitore. Grazie a Dio io non sono però un vescovo “sapiente” e soprattutto “prudente” che parla dei supremi e intangibili valori politici della famiglia e dei figli in casa degli altri, salvo fare però disastri in casa propria.

Questi due esempi diversi per far notare come a volte la Chiesa risolva le situazioni di alcuni di coloro che sono stati segnati col carattere indelebile ed eterno del Sacro ordine sacerdotale, presupposto del quale è anche la solenne promessa di mantenersi celibi. Ma, al di là del celibato, resta il fatto che questo sacro ordine imprime un nuovo carattere dal quale ne consegue una trasformazione ontologica. E sia chiaro per inciso che il celibato non è, come certi pseudo-studiosi vanno cianciando da tempo in giro, una «mera legge ecclesiastica codificata solo dal Concilio di Trento» (!?), perché il celibato è una tradizione che affonda le proprie radici sin dalla prima epoca apostolica. Il primo esempio di celibato, o il farsi «eunuchi per il regno dei cieli» [cf. Mt 19, 11-12], ci viene dato da Verbo di Dio Incarnato. È vero che diversi degli apostoli, fatta eccezione per i giovani, erano sposati, ma è anche vero che per seguire il Signore Gesù lasciarono le proprie famiglie, le proprie ricchezze e il proprio passato; non a caso la svolta radicale di diversi di questi Apostoli fu segnata anche dal cambio del loro stesso nome, a partire da Pietro e Paolo, nati rispettivamente Shimon e Shaul. Coloro che come l’Apostolo Giovanni non erano sposati, non si sposarono mai. È vero che in passato, nei primi secoli di vita della Chiesa, c’erano sacerdoti detti impropriamente “sposati”, ma si dimentica che per ricevere il sacro ordine dovevano seguire l’esempio dei Beati Apostoli: «lasciato tutto lo seguirono» [cf. Lc 5, 1-11]. Quindi, questi uomini sposati, per divenire sacerdoti lasciavano le proprie famiglie, purché esse fossero munite dei necessari mezzi di sostentamento. E per ricevere il sacro ordine l’uomo sposato, oltre a lasciare la propria famiglia, doveva avere il consenso dato liberamente dalla moglie; proprio come avviene oggi quando la Chiesa ordina diaconi permanenti degli uomini sposati.

Esistono però casi di sacerdoti che senza cessar d’essere tali ricevono la dispensa dall’esercizio attivo del sacro ministero e la dimissione dallo stato clericale, ottenuta la quale possono anche sposarsi e ricevere il Sacramento del matrimonio. In altri tempi ciò non era possibile né previsto dalle discipline ecclesiastiche, anzi era proprio impensabile, perché solo uno era il modo per dimettere un sacerdote dall’esercizio del sacro ministero: la scomunica irrogata dall’Autorità Ecclesiastica per ragioni connesse a gravissimi motivi di ordine morale e dottrinale; e ai sacerdoti scomunicati e dimessi dallo stato clericale, in passato non era consentito sposarsi, a volte neppure civilmente. L’articolo n. 5 del testo del vecchio Concordato stipulato tra Stato e Chiesa nel 1929 [cf. QUI] prevedeva in accordo con l’Autorità Civile alcune limitazioni che parlano da se stesse e che sono proprio frutto di questo antico retaggio:

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«Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dell’Ordinario diocesano. La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto. In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

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È presto detto quale misera fine era riservata a quei sacerdoti che abbandonavano il ministero senza avere alle loro spalle una famiglia in grado di sostenerli, o se con premeditato calcolo non avevano prima sottratto alle parrocchie a loro affidate il necessario danaro per potersi sostenere, sempre ammesso che fossero stati parroci o rettori di chiese dove circolava danaro. Questo il motivo per il quale in passato le situazioni di concubinato dei chierici erano in parte conosciute e in parte tollerate, perché un presbìtero non più in grado di sostenere gli impegni assunti attraverso la sacra ordinazione, o viveva in uno stato di grave irregolarità, oppure si sarebbe condannato alla morte civile e ad una vita miserabile, anche perché in certe situazioni passate di cosiddetto cesaropapismo, alla dura scomunica che avrebbe colpito il sacerdote fuggitivo avrebbe fatto seguito la durezza politica ancora maggiore del braccio secolare.

Qualcuno potrebbe obbiettare che il Sacramento dell’Ordine e il Sacramento del Matrimonio sono due Sacramenti diversi regolati come tali da due diverse discipline, ed è vero, basti solo pensare che il primo, imprime un carattere indelebile ed eterno che comporta una trasformazione ontologica; il secondo non imprime invece un nuovo carattere e non è eterno perché dura per tutta la durata della vita degli sposi.

Se secondo le discipline attuali un uomo sposato, con moglie e figli, non può essere ordinato sacerdote poiché privo del requisito dello stato celibatario, viceversa un sacerdote non può ricevere il Sacramento del Matrimonio, perché “non compatibile” — sempre secondo le attuali discipline canoniche — col Sacramento dell’Ordine, salvo dispensa data dalla Sede Apostolica e come tale regolamentata da precise leggi ecclesiastiche, l’ultima in ordine di serie la Costituzione Apostolica Anglicanorum Coetibus del Sommo Pontefice Benedetto XVI [cf. QUI]. Esistono infatti casi rari e molto particolari che come tali richiedono sempre di essere trattati a sé. Proprio quel concetto che oggi spaventa tanto certi rigoristi e legalisti quando viene fatto cenno al fatto che non esiste la casistica monolitica de “i divorziati risposati“, perché spesso, ciascuna di queste situazioni umane, è una situazione tutta quanta a sé, non trattabile come tale secondo gli schemi rigidi e ben definiti del “Codice della strada”. O come di recente ho risposto ad un nostro lettore: «Dinanzi a certi problemi, non si può installare l’autovelox e poi dire: il limite era 130, tu stavi andando a 140, quindi sei in torto, ti prendi la multa, la paghi e chiusa la questione. Nella morale cattolica e nella disciplina dei Sacramenti, le cose non funzionano propriamente così; e se così qualcuno pretende di farle funzionare, in tal caso va applicata la saggia massima che qualsiasi rigorismo applicato con rigore matematico rende disumana e immorale la morale e la legge».

Cos’è accaduto quando qualche sacerdote fuggitivo ha contratto matrimonio religioso cattolico senza avere ricevuto la prevista dispensa e nascondendo il proprio status di chierico? Il matrimonio è stato dichiarato invalido, come invalide sono state dichiarate le sacre ordinazioni sacerdotali ed episcopali di uomini sposati fatte da qualche vescovo uscito dalla Comunione ecclesiale, come nel recente caso di Emmanuel Milingo, già Arcivescovo di Lusaka; e ciò al di là della validità delle sue potestà apostoliche. Merita infatti ricordare che questo anziano vescovo scomunicato per le sue svariate “stravaganze”, rimane comunque un vescovo dotato di tutte le potestà sacramentali proprie dell’episcopato; potestà il cui esercizio gli è stato interdetto prima con la sospensione a divinis e poi con la scomunica, ma la sacramentale pienezza del sacerdozio apostolico ricevuta rimane un sigillo indelebile che nessuno gli può togliere.

La sacramentaria è da sempre uno dei rami più complessi e delicati delle discipline dogmatiche e chiunque desideri essere serio non si lancia in certi temi portando a suffragio delle proprie opinioni peregrine stralci del Catechismo e brandelli male intesi estrapolati dal Magistero della Chiesa, a partire dal pluri citato n. 84 della Familiaris consortio, meno che mai citando come verbum Dei articoli di giornalisti aventi come supremo merito un ferreo spirito “anti-bergogliano“, che li ha fatti ormai sprofondare nel più penoso e pietoso sedevacantismo, a difesa non si sa bene di quale fede e di quale Chiesa [cf. articolo di Giovanni Cavalcoli, QUI].

L’accademico pontificio Giovanni Cavalcoli, con tutta la sua autorevolezza, io con autorevolezza parecchio minore, abbiamo scritto e parlato di queste tematiche di straordinaria delicatezza dottrinale e disciplinare dalle colonne dell’Isola di Patmos, ottenendo due diversi risultati: le persone predisposte all’ascolto, hanno ragionato e trovato spesso risposta ai loro quesiti. Le persone chiuse all’ascolto, quindi alla possibilità di qualsiasi discussione, ci hanno invece bollati come eretici, modernisti e traditori, salvo poi lanciarsi in autentici sproloqui derivanti da una “fede” mutata in ideologia politica, o presumendo di poter praticare agevolmente dei “terreni minati” così delicati da spaventare anche teologi valenti ed esperti, ma non particolarmente addentro a queste specifiche e delicate questioni. E proprio dinanzi a complessi temi dottrinali e giuridici così delicati, lo stesso Pietro ha reputato opportuno convocare un apposito Sinodo sulla Famiglia, per ascoltare il parere di una congrua rappresentanza dell’episcopato mondiale.

In un’assemblea conciliare o sinodale, come da settimane vanno ripetendo i Padri dell’Isola di Patmos su queste colonne, devono essere vagliate ed esaminate tutte le possibilità, persino le più assurde; persino quelle rasenti l’eresia, perché discutere non vuol dire affatto “sancire”,”stabilire”, “modificare”, “negare” o “cancellare” in alcun modo delle discipline, meno che mai intaccare il dogma o la sostanza dei Sacramenti.

Noto invece con profondo e autentico dolore che un esercito di laici in vena di puri scontri politici portati avanti dietro falsi pretesti dottrinali, si muovono con incredibile sicumera come elefanti dentro una vetrina di cristalli, lanciando moniti, lezioni e richiami ai Vescovi, ma soprattutto al Romano Pontefice. Perché quando in uno scritto vergato da due stolte auto-elettesi supremi difensori della vera fede, si legge «Il Papa deve imparare che …» quindi «se non ha imparato è bene che impari», purtroppo il discorso è tristemente chiuso nel microcosmo di tutte le loro stoltezze pseudo-teologiche e psuedo-dottrinali. Non chiuso da me o da chicchessia, ma chiuso dalla volontà di persone che in nome di una non meglio precisata “fede” si rifiutano di ragionare, non cogliendo così il basilare elemento filosofico e metafisico di fides et ratio, ed appresso vantandosi pure di non voler usare alcuna ratio e anteponendo la frase: «Su questo non si discute!». E detta in termini sia teologici sia pastorali, il tutto costituisce una pericolosa chiusura alle azioni della grazia di Dio.

Cari cattolici e cattoliche in vena di scontri politici su pretesti dottrinali, vi rendete conto che se molti dei Padri riuniti a Nicea e appresso negli altri grandi concilî dogmatici della Chiesa, avessero detto: «Su questo non si discute!», agendo pertanto di conseguenza, oggi noi non avremmo, non dico l’evoluzione della disciplina dei Sacramenti avuta nel corso dei secoli, non avremmo manco avuta la corretta percezione dell’Incarnazione del Verbo, della natura umana e divina di Cristo Dio [ipostasi]? Ma c’è di più: non saremmo nemmeno cristiani, bensì solo una “sètta eretica” di ebreo-gesuani sviluppatasi nell’antica Giudea e poi diffusasi in giro per il mondo.

Di recente ho scritto un lungo articolo nel quale indico quelli che a mio parere sono certi difetti umani dell’uomo Jorge Mario Bergoglio [cf. QUI],  ma ribadendo che certi suoi difetti umani non intaccano in alcun modo quelle che per mistero di grazia sono le sue potestà di Romano Pontefice, di roccia sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa, dando ad esso una gravosa funzione vicaria legata a uno degli elementi fondanti del depositum fidei. A Pietro, il Verbo di Dio ha dato potere di «legare» e di «sciogliere» [cf. Mt 16, 13-20], pertanto il problema non dovrebbe essere la ipotesi stolta, oltre che impossibile, del Sommo Pontefice che cade in eresia o in apostasia dalla fede; il problema dovrebbe essere invece la docilità delle pecore verso il Pastore, assieme alla certezza di fede che per quanto difettoso il Pastore possa essere, in certi suoi atti di magistero e di governo gode di una speciale assistenza dello Spirito Santo. Il problema dovrebbe esser quindi il rifuggire l’eresia da parte di certe pecore pompate da certi teologi rigoristi che non distinguono il dogma dalle leggi umane e dalle loro stesse opinioni, la sostanza inalterabile dei Sacramenti dalla disciplina dei Sacramenti ripetutamente modificata nel corso dei secoli. Sono quindi certi teologi e certe pecorelle smarrite che rischiano seriamente di scivolare in un’eresia generata peraltro dal primo dei peccati capitali, perché pensare superbamente di poter sindacare ciò che eventualmente Pietro potrà decidere di «legare» o di «sciogliere», oppure cosa lasciare legato e cosa non sciogliere mai, è in sé e di per sé empietà, ed a volte anche eresia, perché neppure l’opinione di un concilio ecumenico è superiore alla volontà e alle decisioni di Pietro, alla cui volontà e decisione l’assemblea conciliare o sinodale deve sempre sottostare, ed oggi, il nostro Pietro, è il Santo Padre Francesco.

È pertanto cosa penosa e stolta che certi rigoristi scrivano trionfanti: «Quella “frase ambigua” è passata al Sionodo per un solo voto!». E si noti bene, ad attaccarsi a “voti” e “maggioranze” sono proprio i rigoristi, quelli che in pectore risognano le glorie del vecchio Stato Pontificio, la tiara, la sedia gestatoria ed i flaubelli, il connubio trono e altare, ma pur malgrado ignorantemente dimentichi che Pietro ascolta chi vuole e se vuole, decidendo a prescindere dai voti e dalle maggioranze, perché lui ha una speciale grazia di stato derivante da un potere vicario che ad esso perviene da Cristo Dio in persona, non dai voti di maggioranza o di minoranza delle assemblee. Il Santo Padre potrebbe alzarsi domani mattina, prendere un tale che passa per la strada e consacrarlo vescovo e conferire poi la dignità cardinalizia a Sor Romoletto che vende cicoria in Campo dei Fiori. Potrebbe canonizzare seduta stante la defunta Sora Lella, ex venditrice di arachidi in Trastevere, senza seguire alcuna delle procedure fissate dal Codice di Diritto Canonico e senza chiedere conto alcuno alla Congregazione per le cause dei santi. E nessuno potrebbe invalidare il suo operato, perché il tutto rientra in quelle sue potestà non soggette come tali a sindacato alcuno. Ma tutto questo, i rigoristi, sembrano esserselo dimenticato.

Tutt’oggi taluni mi rimproverano di essere stato «irriverente» nei riguardi del Cardinale Raymond Leonard Burke. Sinceramente, più che irriverente sono stato severo, perché un porporato che si presta a essere strumentalizzato da certi circoli di “alabardieri tradizionalisti” che lanciano critiche inaccettabili all’operato del Sommo Pontefice, verso il quale mettono in scena persino illogici processi alle sue intenzioni, non è né prudente né sapiente; e come tale e in quanto tale non merita d’esser preso sul serio, ma solo d’esser preso allegramente, assieme a tutti i suoi sostenitori ed i suoi ricchi benefattori dell’ultra destra americana che urlano «all’eresia, all’eresia!», «allo scisma, allo scisma!». Non giriamo quindi le carte sul tavolo mutando gli offensori di professione in vergini vilipese, perché sono loro, scritto dietro scritto e conferenza dietro conferenza a mancare gravemente di rispetto alla Somma Autorità del Principe degli Apostoli, non sono certo io a mancare di rispetto a un Cardinale che lasciandosi invitare, intervistare ed elevare a vessillo dell’opposizione verso un Sommo Pontefice che starebbe niente meno «guidando la Chiesa verso la deriva dottrinale» — ed il tutto senza mai una sua chiara smentita in proposito riguardo certa gente che a tal fine lo usa in opposizione al Santo Padre —, si palesa di fatto per quello che è: un imprudente irresponsabile.

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Ubi Petrus, ibi Ecclesia.

Amen!

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Sui “divorziati risposati”. Nuova nota dei Padri dell’Isola di Patmos

SUI DIVORZIATI RISPOSATI. NUOVA NOTA DEI PADRI DELL’ISOLA DI PATMOS

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Il timore di alcuni, che se il Santo Padre dovesse concedere la Comunione ai divorziati risposati compirebbe un attentato all’indissolubilità del matrimonio, non ha alcun fondamento dogmatico; ed in questo modo viene confusa la legge civile con la legge ecclesiastica.

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Giovanni Cavalcoli, OP

Ariel S. Levi di Gualdo

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Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli [Mosè] scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» [Mc. 10, 5-9]

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giovanni scrivania

Giovanni Cavalcoli, OP

Un punto che bisogna mettere in luce e sul quale forse non abbiamo insistito abbastanza nelle risposte e nei contradditori, è che l’espressione “divorziati risposati”, ormai entrata nell’uso, è un’espressione sbagliata dal punto di vista della morale cattolica, presa com’è dal linguaggio della legge civile, che ammette il divorzio, mentre sappiamo bene come il Vangelo lo proibisce.

Senza voler respingere questa espressione, cosa ormai impossibile, per illuminare tuttavia veramente alla luce della morale cattolica la questione, noi cattolici dovremmo dire, secondo il linguaggio tradizionale della Chiesa, che si tratta di adùlteri concubini. Se quindi essi hanno sciolto il precedente matrimonio dal punto di vista civile, e se questo matrimonio fu un Sacramento, è chiaro che tale matrimonio, se è valido, resta valido.

Il timore di alcuni, che se il Santo Padre dovesse concedere la Comunione ai divorziati risposati compirebbe quindi un attentato all’indissolubilità del matrimonio, non ha alcun fondamento dogmatico; ed in questo modo viene confusa la legge civile con la legge ecclesiastica.

L’eventuale concessione della Comunione, non supporrebbe affatto da parte della Chiesa che il precedente matrimonio religioso sia da considerarsi sciolto, anche se c’è stato il divorzio civile, mentre resta sempre validissimo per l’eternità, se è stato un autentico sacramento.

Ariel conferenza

Ariel S. Levi di Gualdo

È dunque questo il vero quadro nel quale, secondo la morale cattolica, va collocata in modo conveniente e fruttuoso questa grave questione dei divorziati risposati. Chi pertanto sostiene l’opportunità che sia loro concessa la Comunione, deve dimostrare che tale concessione non solo non comporta né suppone nessun vulnus, sacrilegio o pregiudizio nei confronti della validità del precedente matrimonio, ma che può armonizzarsi, nonostante tutto, con un conveniente rispetto di questo legame precedente, sì da trarre proprio da questo passato impegno, ormai non più praticabile, per quanto ciò possa apparire paradossale, forza per vivere in grazia la nuova convivenza.

Ciò che infatti può connettere e creare continuità tra l’unione di prima e quella attuale, per quanto oggettivamente in contrasto fra loro, è la coscienza, come si suppone, di essere vissuti in grazia nella precedente unione e di vivere in grazia in quella nuova, nonostante il passato peccato di adulterio, che però adesso si suppone perdonato da Dio.

La Chiesa potrebbe imporre ai conviventi l’obbligo di mantenere, se è possibile, buoni rapporti col coniuge precedente, di sostenerlo economicamente, se ha bisogno e, se è possibile, di prendersi cura di eventuali figli avuti nel precedente matrimonio.

Nel nuovo legame i risposati dovranno mantenere un ricordo oggettivo, sereno e amichevole del coniuge precedente, pronti a perdonare i torti ricevuti, anche se il coniuge conserva sentimenti ostili e non perdona.

Dunque nessuna damnatio memoriae; al contrario, anche se ciò può costare al loro orgoglio o al loro comprensibile risentimento, i due dovranno sempre ricordare a Dio il precedente coniuge e ringraziare Dio per tutto il bene e i doni da Dio ricevuti nel precedente matrimonio. Dovranno anche ricordare con gratitudine a Dio tutto il bene che si sono voluti, magari per lunghi anni, tutti gli eventi felici e tutte le esperienze positive.

Infatti, anche se gli uomini hanno tentato di dividere con vane e posticce “leggi civili” ciò che Dio aveva unito, il sacro vincolo liberamente contratto dalla coppia davanti a Dio al momento della celebrazione del sacramento, è assolutamente indissolubile, perchè nessuno può separare ciò che Dio ha voluto unire per l’eternità, tanto che i coniugi che si sono separati, per esser degni del premio celeste, devono sperare di riconciliarsi e ricongiungersi in cielo per sempre, rinnovando i sacri impegni calpestati in questo mondo.

Stoltissima, scandalosa, vergognosa, sapiens haeresim e indegna del nome cristiano è stata pertanto la proposta, in occasione del Sinodo, del teologo Giovanni Cereti, il quale ha osato fondare l’ammissione della coppia ai sacramenti su una da lui supposta facoltà della coppia di «annullare il segno sacramentale del matrimonio», una volta da lei constatata l’impossibilità di mantenere l’unione. Al contrario, è proprio in nome del rispetto della dignità dei sacramenti come mezzi ordinari di salvezza, che la Chiesa maternamente e provvidamente opera sempre tutto il possibile per assicurare la possibilità di salvezza anche nelle situazioni umane più degradate e disordinate, consapevole del fatto che Dio estende la sua misericordia ben al di là della limitata benchè preziosa prassi sacramentale della Chiesa.

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Dall’Isola di Patmos, 2 novembre 2015

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