Stimo Nietzsche e Saint Laurent, frequento l’alta borghesia e non visito i campi Rom, quanto basta per non diventare cardinale

STIMO NIETZSCHE E SAINT LAURENT, FREQUENTO L’ALTA BORGHESIA E NON VISITO I CAMPI ROM, QUANTO BASTA PER NON DIVENTARE CARDINALE

Le aree del Cattolicesimo cosiddetto tradizionalista o conservatore, attraverso il loro esercito di anime mistiche e di difensori della vera e autentica fede, hanno mutato la parola Modernismo in sinonimo di male assoluto. Ciò alla stessa maniera in cui i comunisti sovietici avevano trasformato in sinonimo di male assoluto parole come borghesia o capitalismo.

— Storia e attualità —

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Un celebre stilista pronunciò una frase che in sé racchiude una profonda essenza evangelica, anzi, escatologica: «Le mode passano, lo stile è eterno». Sicuramente, il francese Yves Saint Laurent (1936-2008), dichiaratamente ateo, omosessuale a tutto campo con alle spalle una vita avventurosa in tutti i sensi, che dispose la dispersione delle ceneri dopo la cremazione del proprio corpo, non aveva velleità né metafisiche né escatologiche, forse neppure evangeliche. Ciò non toglie però che talvolta, le persone più impensabili, anche quelle più lontane dal vivere cristiano e dai suoi princìpi morali, possano esprimere concetti che si adattano, in modo sorprendente, o persino straordinario, al sentire cristiano e ai contenuti dei Santi Vangeli. Basterebbe semplicemente leggere certe poesie di Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, chiamati non a caso Les poètes maudits, i poeti maledetti.

Tuonò Friedrich Nietzsche già sul finire del XIX secolo: «Dio è morto, resta morto, noi lo abbiamo ucciso» (cfr. La gaia scienza, n. 125). Frase che di per sé potrebbe scandalizzare un esercito di mistiche anime delicate, ma che se letta in chiave cristiana suona invece come un severo monito. Non abbiamo forse sfrattato dal nostro antico Continente Europeo l’idea stessa di Dio, dopo averlo ucciso, sino a rendere impronunciabile un concetto evidente come le innegabili radici storiche cristiane dell’Europa? Dire che l’Europa nasce da radici cristiane non è un attentato al culto idolatra del laicismo integralista, ma un dato di fatto che dovrebbe essere accettato da tutti i non credenti dotati di onestà intellettuale, che preso atto di questo dato palese hanno poi tutto il diritto di rimanere e di professarsi laici e non credenti.

Questo pensatore acuto, geniale e folle aveva anche intuito e profetizzato che l’attacco decisivo al Cristianesimo non poteva essere basato sul tema della verità ma su quello della morale cristiana. Anche in questo, aveva torto quel Nietzsche che intitolò un’opera col nome provocatorio L’Anticristo, dove dipinge il Cristianesimo come un disastro e una perversione di cui liberarsi? Anche in questo è necessaria una particolare capacità di lettura e interpretazione speculativa sul piano filosofico e socio-ecclesiale: nel corso dei secoli gli uomini della Chiesa visibile, oggi forse in modo particolare, non hanno per caso generato disastri e perversioni dalle quali sarebbe bene liberarsi, allo scopo primo e ultimo di tutelare la Chiesa di Cristo, il Corpo Mistico di cui egli è capo è noi membra vive? (cfr. Col 1, 8).

Tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento noi cattolici, rinchiusi sulle perenni difensive, dopo tutti gli accadimenti storici che fecero seguito all’evento traumatico e sanguinario della Rivoluzione Francese e dei vari governi liberali fortemente anticlericali e repressivi nei riguardi della Chiesa Cattolica, non è che per caso ci siamo imposti grossi limiti e inferte delle profonde ferite da noi stessi?   

Aree del Cattolicesimo cosiddetto tradizionalista o conservatore, attraverso il loro esercito di anime mistiche e di difensori della vera e autentica fede, hanno mutato la parola Modernismo in sinonimo di male assoluto. Ciò alla stessa maniera in cui i comunisti sovietici avevano trasformato in sinonimo di male assoluto parole come borghesia o capitalismo.

Al Comitato del nostro Soviet della tradizione cattolica lancio un guanto di sfida: è vero o non è vero, che gli studiosi luterani ― figli di una eresia che tale teologicamente resta e che generò nella Chiesa il secondo scisma dopo quello d’Oriente del 1054 ― speculavano sulle scienze bibliche e sulle esegesi novo testamentarie, mentre noi cattolici, in virtù della eccelsa lungimiranza del Sommo Pontefice Leone XIII o di chi per lui, eravamo intrappolati in quattro formule rancide della neoscolastica decadente? E dico a tal punto rancida e decadente che se tra il finire dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si fossero risvegliati dalle tombe Sant’Anselmo d’Aosta, Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, ci avrebbero presi a calci nei denti senza un attimo di esitazione.

A distanza di 116 anni dalla pubblicazione della Enciclica Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X, attraverso la quale fu condannato con tutta la durezza del caso il Modernismo, vogliamo incominciare a chiederci, noi storici del dogma in modo particolare, quanto e se, quella enciclica, fu veramente lungimirante come taluni la magnificano tutt’oggi?  Personalmente la ritengo un testo storicamente necessario in quel preciso contesto storico e geopolitico. Se però la speculazione sia storica che teologica, oggi non fosse ormai morta e sepolta, sarebbe necessario incominciare a porsi dei quesiti che saranno oggetto di un saggio che intendo pubblicare quanto prima: il Modernismo, con tutte le sue indubbie problematicità ed errori, non fu forse anzitutto, a torto o a ragione, un movimento reattivo sviluppatosi in seno a una Chiesa i cui problemi erano quasi tutti di natura politica, specie dopo la caduta dello Stato Pontificio il 20 settembre 1870?

Merce rara l’onestà intellettuale, specie nelle anime mistiche e nei difensori della vera e autentica dottrina e tradizione. Se infatti ne avessero anche un solo briciolo, la domanda di rigore sarebbe la seguente: come mai, dopo essere giunti alla metà del secolo scorso in situazioni teologiche pressoché disastrose, a un certo punto ci siamo accorti che, per fare studi approfonditi sulle scienze bibliche eravamo costretti a rifarci alle pubblicazioni e ai testi scientifici di autori protestanti? Lo facevamo già nei primi decenni del Novecento, ma di nascosto, per non finire sotto processo presso i tribunali ecclesiastici con l’accusa di eresia modernista.

Dovrebbero altresì chiarire, sempre le anime mistiche e i difensori della vera e autentica dottrina e tradizione, come mai, il più grande e insuperabile commento alla Lettera ai Romani del Beato Apostolo Paolo è stato scritto e pubblicato nel 1918 dal teologo protestante Carl Barth? E si tratta di un testo al quale, volendo o no, tutti noi dobbiamo rifarci, appunto perché resta per adesso insuperabile.

Presto detto perché ciò sia avvenuto: noi teologi cattolici eravamo impegnati a grattarci i pidocchi di testa gli uni con gli altri, come una tribù di scimmie cappuccine, bivaccando su quattro formule rancide della neoscolastica decadente, con la spada della grande e lungimirante Pascendi Dominici Gregis che seguitò a pendere sopra le nostre teste, fino a quando il Sommo Pontefice Pio XII non cominciò ad allentare le maglie, ma soprattutto a donare alla Chiesa delle encicliche di alto spessore teologico e spirituale, anziché encicliche dettate da esigenze socio-politiche con tutti i più severi risvolti disciplinari indirizzati al clero e ai teologi.

È noto che gli squilibri generano sempre squilibri, così, prima e subito dopo il Concilio Vaticano II, ma soprattutto con la stagione infausta del post-concilio, portato avanti da teologi e sedicenti tali che i documenti del Concilio non li conoscevano proprio, ciascuno ha finito col crearsi il Concilio proprio, quello da me ribattezzato in una mia opera del 2011 «il concilio egomenico degli interpreti del post-concilio».

Se il Modernismo è stata la reazione a una chiusura ermetica, la lotta a questa corrente di pensiero, finita poi sconfitta, ha generato una reazione molto peggiore: la decadenza incontrollata della speculazione teologica cattolica. E oggi siamo costretti a udire non solo teologi, ma vescovi in cattedra che pronunciano con disinvoltura delle eresie imbarazzanti. O per meglio intendersi: il gesuita Antonio Spadaro, il cui spessore teologico è pari pressoché a quello di una sogliola, non solo incarna la decadenza della Compagnia delle Indie che a suo tempo fu la grande Compagnia di Gesù, perché è divenuto persino direttore della storica rivista La Civiltà Cattolica e può permettersi, senza richiamo alcuno, di pubblicare su Il Fatto Quotidiano un commento al Vangelo che avrebbe fatto impallidire l’eresiarca Ario [vedere testo QUI].

La situazione di decadente degrado che viviamo oggi nella Chiesa ha delle radici molto antiche da ricercare tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando è stato innescato un effetto a catena. Sino a giungere ai nostri giorni, nei quali siamo sofferenti e impotenti spettatori di un pontificato agonizzante che ci ha regalato proclami politicamente corretti, incertezze e ambiguità. Il tutto all’insegna di una vera e propria ossessione psicopatologica: poveri e migranti, migranti e poveri …

È noto che oggi i vescovi, ma soprattutto coloro che ambiscono a diventare tali, devono provenire da non meglio precisate «periferie esistenziali» e parlare di «Chiesa in uscita». La Chiesa non è in uscita ma ormai in amministrazione controllata, con il fallimento alle porte e gli ufficiali giudiziari pronti a entrare dentro per apporre i sigilli di sequestro. Se la Chiesa si salverà ― e si salverà comunque per nostra certa fede ― sarà perché non è opera umana ma divina; perché Pietro, scelto da Cristo come pietra (cfr. Mt 16, 18-19), è poggiato sulla roccia di Cristo. E di Cristo — bene ricordarlo — Pietro è il vicario sulla terra, non è il successore, semmai un successore persino più buono e misericordioso di Cristo stesso.

Mentre altrove c’era una passerella di vescovi new generation con i clergyman scollacciati, con in mano i pastorali di legno fabbricati nella bottega di Mastro Geppetto, con le croci pettorali ricavate dal pezzetto di una barca di poveri migranti affondata al largo di Lampedusa, questa domenica mattina ho celebrato la Santa Messa nella cappella di una clinica a cinque stelle, luogo nel quale solitamente sono ricoverate persone che possono pagare cifre molto elevate. Poi ho visitato tutti i malati terminali ricoverati nel reparto di oncologia. E dopo avere già amministrato nei giorni precedenti il Sacramento dell’Unzione degli Infermi e le confessioni, ho proseguito ad amministrare nuovamente confessioni a diversi pazienti, portando poi loro la Santa Comunione.

Mentre ero genuflesso dinanzi al Tabernacolo, il mio animo teologico è stato assalito da questo atroce dubbio: nella Chiesa di oggi, questi alto-borghesi, questi ricchi, hanno veramente un’anima? Sono anche loro figli di Dio? La Chiesa, che si è sempre occupata di tutti, ma che oggi parla solo di poveri e migranti, di migranti e poveri, deve occuparsi anche di loro o no? Il Santo Padre dice in continuazione a tutti «Non dimenticatevi mai dei poveri». Però, in dieci anni di pontificato non ha mai invitato una sola volta a non dimenticarsi anche delle anime dei ricchi. Che poi sono quei ricchi che spesso ci hanno donato le strutture caritative più importanti, o i fondi per costruirle e mantenerle, o il danaro necessario per poter portare avanti le nostre opere di apostolato. Non mi risulta che la Chiesa abbia mai costruito alcuna struttura caritativa con i soldi dei borseggiatori Rom, quelli che a Roma, per intendersi, hanno visitato tutte le case religiose, non ce n’è una sola che si sia salvata dai loro furti. E quando il Santo Padre li ricevette in udienza più volte, non mi risulta che in segno di riconoscenza abbiano restituito alcuna refurtiva in cambio della apostolica benedizione. Perché a rubare nelle case religiose romane, sono proprio i Rom — lo dicono i verbali della Polizia — non sono i banchieri svizzeri in trasferta a Roma, quelli trafficano in altro modo e a ben più alti livelli.

Dissipati i miei dubbi sono uscito dalla lussuosa clinica e non mi sono recato in visita a un campo rom come faceva Augusto Paolo Lojudice, oggi arcivescovo metropolita di Siena e cardinale, sono andato ospite a colazione con un insigne clinico e sua moglie presso l’esclusivo Circolo dei Canottieri Aniene, frequentato da persone che sicuramente non hanno, per la Chiesa di oggi, la dignità riconosciuta invece ai Rom.

Un prete dignitoso è bene anzitutto che si presenti con una bella veste talare addosso e che guardi all’uomo in quanto tale, a prescindere dal suo ceto e dalla sua condizione sociale, povero o ricco che sia, perché non esistono agli occhi di Dio categorie privilegiate perché appartenenti alla categoria dei poveri ideologici. Il clericalismo peggiore, il più becero e indignitoso, lo lascio di buon grado a quel povero confratello che ha intervistato più volte il Sommo Pontefice in jeans e scarpe da ginnastica, mentre la berretta rossa la lascio di buon grado al Cardinale Augusto Paolo Lojudice, insignito di questa dignità non per particolare scienza, intelligenza e doti di governo pastorale che lo hanno portato a distinguersi tra i membri del Collegio Episcopale, ma perché portava i seminaristi del Pontificio Seminario Maggiore Romano a visitare i campi Rom.

Tutti questi sono solo i risultati finali di un grande e complesso effetto a catena partito ormai da lontano, che sarebbe bene studiare, perché solo a questo modo sarà possibile trovare una adeguata cura, non certo con una nuova Pascendi Dominici Gregis né con una seconda Laudato sì, che volendo potrebbe essere anche intitolata Laudato no, visto lo stile consolidato del … potrebbe essere sì o forse anche no, ma forse chissà, un po’ sì e un po’ no, ma eventualmente sapete che cosa vi dico? Mettetevi d’accordo e fate voi, purché non vi dimentichiate mai dei poveri …

Più che consolazione abbiamo una certezza di fede: le mode passano, come diceva Yves Saint Laurent, ma lo stile, quello di Cristo che si è rivelato e donato, quello rimane in eterno e non passa mai.

dall’Isola di Patmos, 4 settembre 2023

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